LOTTA COME AMORE: LcA ottobre 1996

Lasciamoci toccare dalla vita

Cari amici lettori, vi scriviamo in questo incerto inizio di settembre di un'estate avara di sole. Speriamo che, in ottobre, quando vi giungerà questa nostra lettera, il cielo prenda fuoco avvampando di colori le montagne e preparandoci con fiducia ad attraversare i rigori invernali.
Contrariamente a quanto temevamo, nel numero scorso, non siamo stati costretti a inventare un'impresa editoriale per poter arrivare a voi senza una troppo onerosa tassa di spedizione. Siamo sotto l'ombrello dell' A.R.C.A., l'associazione presieduta da don Beppe. Abbiamo corretto e aggiornato alcuni dati al Tribunale, e la Posta ha accettato il nostro inserimento nella fascia delle pubblicazioni a regime agevolato. Comunichiamo queste notizie relative all'inevitabile burocratico in quanto l'esistenza di piccole testate, come la nostra, è legata ad una navigazione a vista tra gli scogli dei decreti, delle circolari, della interpretazione spesso discorde di giudici, direttori delle Poste, ecce ecc. Per cui la circolazione di notizie, informazioni, avvertimenti, può interessare chi si trova nelle stesse nostre difficoltà.
Vorremmo infatti solidarizzare con gli amici de "Il foglio" di Torino che lamentano itinerari simili ai nostri con la penalizzazione di una parolina da aggiungere alloro statuto (cosa che costa sempre cara) perché risultasse "chiara" (dopo 25 anni di stampa e pubblica diffusione de "Il foglio"!) la loro intenzione di pubblicare un periodico. Notizia che essi comunicano nel loro ultimo numero pubblicando a fondo pagina un commento dal titolo eloquente: "Burocrati cocciuti e un milione in fumo". Per fortuna si sta lavorando in tutti i campi per semplificare le procedure!
La navigazione a vista è sempre faticosa, anche al di fuori del campo dei piccoli periodici. E' fatica quotidiana di quanti non salgono sui grandi bastimenti delle ideologie e dei sistemi di pensiero che attraversano la vita senza scomporsi di fronte alle tempeste e alle ondate che la possono rendere difficile e agitata. Chi infatti decide di guardare le cose dall'alto dei ponti dalle arcate agilmente disegnate dalle idee e dalle teorie, sia per paura che per prudenza o anche semplicemente per non volersi mescolare con la gente qualsiasi e avanzare la pretesa di distinguersi ad ogni costo, non rischia davvero di bagnarsi neppure i piedi! Ma chi - per necessità o anche per volontà e decisione personale - accetta il confronto con la realtà di ogni giorno non può non "sporcarsi le mani" e cioè interagire con ciò che è altro in una continua modificazione e scoperta di sé.
"La morte non chiude la storia" non è solo un motto che contiene la speranza che la realtà di cammini umani degni di memoria non sia cancellata dall'oscurità della morte, ma anche e soprattutto un invito a coltivare la vita sempre nuova e mai, anche nei suoi percorsi apparentemente più ovvii, simile a se stessa.
Il cambiamento non è un'ipotesi da temere e comunque da riservare solo per le situazioni che vanno modificate in quanto di per sé cattive o dannose.
La vita stessa si esprime in un cambiamento continuo.
Eppure siamo più inclini a privilegiare i valori che sottintendono la continuità, il permanere, la crescita sì, ma dell'esistente già conosciuto e accettato.
L'esistere ognuno nella propria dimensione in una attenta avarizia di contatti e commistioni che non siano - pretestuosi o meno, questo ha poca importanza - arricchimenti di sé.
Attenti a fuggire ogni contatto e confronto che possa portare dentro di noi una autentica crisi e cioè ogni ferita che, se anche ci strappa lacrime amare, ossigena il nostro sangue e la nostra vita. Siamo malati di intangibilità, perché ciò che si tocca vorremmo si trasformasse in oro valutabile in termini di ricchezza e di possesso e non riusciamo ad accettare che divenga umanità. E cioè relazione, scambio, invito dell' altro - di tutto ciò che è diverso da sé - a scoprire e ad essere continuamente sorpresi da noi, a noi stessi sconosciuti.
Lasciamoci toccare dalla vita, anche se la sua mano a volte ci stringe fino a farci urlare dal dolore, dalla paura, dalla solitudine. La stretta di mano della vita ha sempre comunque un calore comunicativo che invano cerchiamo nell'astrazione, nella dilatazione di sé, nel sogno.

Luigi

La posta di fratel Arturo

Cari amici,
Un monsignore romano, esperto nel far virare la sua barchetta fra i bastimenti di grande tonnellaggio ancorati nel porto vaticano, preoccupato di formarmi alla virtù della prudenza, ricorreva spesso all'immagine di un compasso che traccia al centro una piccolissima curvatura che diventa molto ampia alla periferia. Non so dire se il monsignore sia riuscito nel suo intento di formare il discepolo, ma le esperienze fatte nella lontana periferia mi hanno persuaso che l'esempio era abbastanza verosimile. L'ho scoperto, meditando sull'effetto negativo degli aggettivi, e voglio alludere a due sostantivi danneggiati fortemente dalla compagnia di aggettivi.
Il primo sostantivo è "scelta dei poveri" che è sorto da una presa di coscienza ecclesiale nel Concilio Vaticano II. Nel contesto in cui era nata la decisione - quella di scegliere i poveri -, pare volesse orientare i progetti pastorali a partire dai bisogni reali dei poveri. E, di fatto, la scelta finché rimase nella sua nascente novità, ha convertito al popolo non pochi pastori. Era evidente che scelta dei poveri non voleva dire chiudere le porte delle chiese ai ben vestiti e ai bene alimentati. Voleva dire al ricco Zaccheo che non poteva ricevere la salvezza se non avesse fatto una revisione della sua attività professionale e del suo sporco guadagno. La revisione lo avrebbe portato alla coraggiosa decisione di fare amici quelli che aveva danneggiato con tanta disinvoltura. Solo così l'ospite Gesù si sarebbe sentito comodo a casa sua da dichiarare: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa di ricco". La scelta della prospettiva dei poveri voleva dire al riccaccio, sbozzato nel capitolo 12 di Luca, che sta camminando verso la sua irreparabile e irreversibile rovina se continua "ad accumulare tesori per sé e non arricchisce davanti a Dio".
Frase che esegeticamente non vuol dire al ricco che può continuare ad accumulare, facendosi firmare il visto di entrata in paradiso dal parroco a cui ha regalato il campanile, ma vuol dire che la ricchezza serve prima di tutto a soddisfare bisogni essenziali di ogni membro della comunità.
Gli aggettivi che accompagnano la "scelta dei poveri", e cioé "preferenziale" e "non esclusiva", tracciano una curva così ampia in periferia, da nascondere il sostantivo che accompagnano permettendo ai ricchi di occupare i primi posti nelle "sinagoghe" (= templi cattolici) e di scaricare il presidente di quelle assemblee della responsabilità di fare accenno al fatto che in quelle comunità esistono gli impoveriti dalle attività colpose se non colpevoli di coloro che sono lì, presenti per accogliere il corpo di Cristo. Queste attività, se sono colpose nei protagonisti, per mancanza di informazione e di illuminazione, diventano colpevoli nel presidente dell'assemblea.
Forse al <centro> gli aggettivi aggiunti a "scelta dei poveri" sono più innocenti: volevano scoraggiare esclusivismi demagogici. Ma alla <periferia> la curva si è ingrandita enormemente, tanto da giustificare rappresaglie contro chi cerca di fare reale e vera la scelta solennemente indicata dal Concilio nel quale, secondo gli insegnamenti che abbiamo ricevuto, si è espresso lo Spirito Santo.
L'altro aggettivo malizioso è "selvaggio", che viene dopo il sostantivo capitalismo. Nessun aggettivo calzerebbe così bene col suo sostantivo come l'epiteto di "selvaggio" applicato al capitalismo. Ma, nei diversi contesti in cui viene usato diventa limitativo e offre la possibilità di distinguere un tipo di capitalismo accettabile da uno da rifiutare. Ora, la visione capitalistica dell'economia è errata fin dalle sue radici: è contro la verità. E' come dire che la grossa Bibbia che ho qui sul mio tavolo, serve a sbatterla sulla testa di chi entra nella mia camera, per ucciderlo. Perché è quasi da pedante ricordare che 1'economia è la legge della distribuzione di beni per soddisfare quelli che Giovanni XXIII chiama i diritti naturali della persona. Mentre nella concezione capitalistica avviene il rovesciamento totale: l'economia è vista a senso unico - quello della produzione e dell' offerta. La domanda, che racchiude i veri bisogni della persona e che diventa nella situazione attuale il simbolo di infinite ingiustizie e di innumerevoli e vari casi di morte, non entra assolutamente come voce nei programmi economici. Evidentemente i produttori devono studiare le possibilità di accettazione dei mercati e vedere come creare i desideri per aumentare le possibilità di assorbimento dei prodotti, trascurando i bisogni sempre più drammatici delle comunità in cui si aprono i mercati. Questi ostentano la loro abbondanza sotto gli occhi di milioni che possono solo attendere la morte come la fine di una esistenza insopportabile.
Insegnare ai giovani come camuffare il capitalismo con l'aggettivo di selvaggio, perché accettino questa società e, soprattutto, ammirino i modelli che ne traggono vantaggio, è farsi responsabili della corruzione.
Ci mettiamo le mani nei capelli alle notizie di aggressioni esercitate su bambini, ma lo scandalo di cui parla il Vangelo con parole così severe, non è solo scandalo sessuale. E' soprattutto quello che deforma la capacità critica di giudicare quello che è male e solo male, tagliando alle sue radici la facoltà caratteristica dei giovani: quella d'impegnare la loro vita a costruire qualcosa di nuovo, di altro.
Ci si lamenta che la gioventù non abbia ideali, ma gli ideali non nascono nel vuoto: nascono dalla critica e dal ripudio del vecchio. Basta leggere il passaggio del Vangelo sulle toppe di stoffa nuova su abiti vecchi e sdruciti (Le. 5, 36-39) per concordare con questa origine degli ideali.
So perfettamente che una società nuova non nasce improvvisamente; che è necessaria una lunga attesa. Ma un elemento essenziale della formazione cristiana deve essere la capacità di essere inattuali fino ad essere derisi per la inattualità; e la pazienza di attendere.
Quando, nel tempo della nostra gioventù, ci parlavano di democrazia e di una struttura politica altra da quella fascista, sapevamo bene che questo ci collocava fuori del tempo e delle opportunità che offriva il presente, ma gli insegnamenti che ci impartivano gli educatori erano accompagnati dalla convinzione che l'ideale ha sempre come contenuto le cose che non sono.
E che saranno, se sappiamo lottare con fermezza, e volere - fortemente volere - che queste avvengano.
vostro

fratel Arturo

Impressioni estive

In questo tempo d'estate che, quando il giornalino arriverà a destinazione, avrà ormai passato la mano all'autunno (almeno ufficialmente), ci sono state molte cose che mi hanno "impressionato": cose, cioè, che mi sono penetrate nell'anima con intensità e forza, lasciandovi un segno nuovo o rinnovandone di antichi.
Impressioni non superficiali, appunto, come la stessa parola porta nel suo significato letterale: una specie di timbro, di marcatura, di traccia che incide la superficie ed entra in profondità. Penso che accada normalmente a tutti: nel piccolo spazio della propria vita ciascuno raccoglie, più o meno consapevolmente, immagini, notizie, racconti individuali o collettivi, avvenimenti che poi diventano una specie di bagaglio interiore che accompagna il proprio viaggio. Queste riflessioni scritte rappresentano un modo semplice, ma sincero, di tenere aperto un "colloquio" con gli amici che con molta bontà continuano a leggere questa specie di "lettera circolare" che, più o meno regolarmente, entra in casa propria.
Il primo fatto che sicuramente ha posto a tante persone degli interrogativi è la sentenza di assoluzione per il capitano delle SS Erich Priebke, accusato per la strage delle Fosse Ardeatine, a Roma. L'impressione molto forte che la sentenza ha suscitato dentro di me è stata causata dal fatto che quest'uomo sia stato giudicato da un tribunale militare, in base ai codici militari, secondo una logica tipicamente militare, qual'è quella della "esecuzione di ordini". Può darsi che questa sia una mia particolare "devianza", ma la cosa mi ha realmente stupito profondamente. Di fronte ad una strage di così grandi proporzioni, voluta come una crudele rappresaglia su civili indifesi ed estranei ai fatti in questione, com' è possibile appellarsi al "diritto militare" e di conseguenza al principio dell'obbedienza agli ordini? "Ti assolviamo perché hai eseguito fedelmente un compito che ti è stato imposto dai tuoi superiori"! Principio di un' etica terribile, eredità di una visione morale fondata sulla forza e sulla abolizione della responsabilità personale. Questa sentenza, così assurda ed estranea a quel principio "non scritto" i cui segni chiarissimi si ritrovano nel lungo cammino umano a vari livelli, potrebbe segnare un punto non indifferente nel percorso di necessaria liberazione da una visione "sperzonalizzata" della responsabilità di fronte al bene come al male: un punto di grande regresso, di ritorno all'indietro. Da questa sconfitta del diritto e del senso autentico della giustizia, dovrebbe venire una grossa provocazione a lavorare perché si radichi sempre più nella coscienza di tutti la necessità di non coprire col mantello dell'obbedienza agli ordini qualunque comportamento sociale, politico, religioso. Penso alle mie "impressioni" più fresche, immagini dolorose e angoscianti di una umanità spinta alla distruzione e alla morte (data e ricevuta), come i giovani soldati russi mandati in Cecenia; i poliziotti sud-coreani che hanno massacrato (obbedendo agli ordini) i giovani studenti loro concittadini; i soldati giordani che hanno represso - per ordine del "re" - la loro stessa popolazione in rivolta per il prezzo del pane; i poliziotti della repubblica democratica francese, patria della "moderna" concezione dello stato, che hanno fatto sloggiare con la forza e la brutalità (resa molto evidente dalle stesse immagini della TV) il gruppo di nord-africani rifugiati all'interno della chiesa di S. Bernardo, a Parigi, perché "senza documenti". Sono segni di una realtà umana i cui rapporti sono fondati sulla cultura dell'obbedienza ai superiori (re, generali, presidenti. prefetti, questori ... ); cultura la cui radice, nella sua più tremenda espressione, ha potuto trovare una specie di giustificazione etica nella sentenza sui fatti delle Fosse Ardeatine: una sentenza, in fondo, "coerente" se collocata dentro questa visione delle cose e fondata su questo principio della morale militare (ma, non solo ... ). Forse sarebbe il caso di suggerire ai giudici del tribunale che ha assolto Priebke e dichiarato "prescritto" quell' atroce delitto, di leggersi con calma "L'obbedienza non è più una virtù" di don Lorenzo Milani, per vedere se sono ancora in grado di scoprire dove occorra cercare la vera radice del "diritto".
Il secondo motivo delle mie impressioni d'estate è sicuramente un po' particolare, forse anche assai inusuale per me (ma solo in apparenza): mi è capitato, in un momento di pausa, di leggere una interessante presentazione dei famosi frammenti di papiro ritrovati in Israele, nelle grotte di Qurnran (nel 1955): brandelli di fogli di papiro che risalgono certamente al periodo antecedente l'anno 68 dopo Cristo, anno nel quale fu chiusa la grotta vicina al Mar Morto. Collegati a questi preziosi resti degli scritti evangelici, ci sono poi dei minuscoli "francobolli" di papiro databili (secondo studiosi molto esperti) intorno all'anno 70 dopo Cristo: sarebbero frammenti del Vangelo di Matteo (cap.3, 5, 26). Questi reperti archeologici cristiani hanno fatto sobbalzare di gioia tutti gli studiosi e nello stesso tempo hanno aperto tutta una serie di approfondite ricerche e discussioni. Fa veramente piacere anche a me pensare che esistono prove documentali, se pure in particelle così minuscole, della vita del Signore Gesù e della testimonianza apostolica riguardo a Lui a al suo insegnamento. Documenti storici di un evento di salvezza e di amore che abbraccia l'universo, frammenti di un mistero rivelatosi dentro le pieghe delle vicende umane e perciò degni della massima premura e del più attento studio. Ora, più o meno nello stesso tempo, ho avuto la fortuna di leggere una riflessione molto seria di un prete che vive in Brasile, in mezzo alle persone più martoriate dalla violenza e dall'ingiustizia sociale, p. Julio Lancelotti. Mi è venuto quasi spontaneo accostare queste due realtà, perché anche lui parla della scoperta di un "documento" fondamentale nel quale bisogna saper "leggere" molto attentamente per costruire una storia di salvezza, di dignità, di vera umanità. Un "documento" che non è né di papiro né di altro materiale, ma che è fatto dal "Corpo magro, sfinito, assassinato, violentato, prostituito, nero, il corpo della donna, il corpo dei bambini che chiedono elemosine". Julio lo chiama, con un linguaggio davvero significativo, "il documento storico degli esclusi". Dice: "Il corpo degli esclusi è il loro documento storico e dobbiamo imparare a leggere la storia degli esclusi a partire dal loro corpo, perché è l'unico documento storico che gli esclusi possiedono. Dobbiamo imparare a costruire la storia a partire da questo documento storico che noi consideriamo un documento sacro perché è il documento dove sta scritta tutta la storia dell'esclusione, della miseria, della tortura. Il documento storico degli esclusi è il loro corpo". Questi frammenti di pensiero mi hanno fatto riflettere molto, penetrandomi nell' anima, risvegliando antiche sensazioni ed emozioni. Mi sono tornate alla mente certe mani screpolate dal vento, dalla terra, dal lavoro quotidiano; certi volti solcati in profondità e segnati per sempre dalla fatica, dall' acqua, dal sole; certi corpi di uomini, di donne, di bambini che sono davvero un "libro aperto", tra le cui pagine non è difficile scoprire il segreto di una vita. Chissà perché mi è venuto spontaneo collegare immediatamente i frammenti straordinari dei papiri dei primissimi tempi cristiani e i frammenti di una storia umana che scorre sotto i nostri occhi quotidianamente. Basta fermarsi un momento e, senza neppure il bisogno di una lente d'ingrandimento né la conoscenza di lingue antiche, a tutti è data la possibilità di decifrare il percorso di un'intera esistenza e da lì partire per costruire cammini di speranza. Perché ciò che è sorprendente, come dice molto bene Julio Lancelotti, dalla lettura attenta e appassionata di questo "documento storico" può nascere la speranza, come energia e forza liberatrice. Così egli scrive: "A San Paolo noi chiamiamo la nostra speranza, speranza testarda, speranza che sussiste senza ragione apparente... è una speranza che marcia anche se ci tagliano i piedi... una speranza che vive anche se è colpita al cuore!".

don Beppe

Una voce nel deserto

Pubblichiamo questo progetto inviato 1'8/5/96 da sorella Teresa, anacoreta. Il progetto fa seguito alla Profezia intitolata "Una voce nel deserto" e pubblicata in Lotta come Amore nei quattro numeri del 1994 e nel primo del 1995. Rimandiamo alla lettura di questa Profezia dal respiro ampio e coinvolgente per leggere questo progetto alla luce dell'invito contenuto nella premessa della Profezia: "Lo scritto non è un' esposizione accademica a carattere teologico. E' profezia, è annuncio che richiede studio e applicazione pratica".

PROGETTO
ALLA "COMUNITA' IN CAMMINO"
ALLA "CHIESA FAMIGLIA" (G. Paolo II - 22.10.95)

"Una voce nel deserto"
comunica una divina sollecitazione intesa a vivificare la struttura della Chiesa mediante l'approfondimento teologico della umanizzata divinità di Cristo che UNO-COLLETIIVO nel suo essere, nel contesto umano opera come INDIVISA-CONDIVISIONE.

Premessa
Una Comunità in cammino guarda avanti e promuove il divenire della Verità che si annuncia oggi nella ricomposizione ecclesiale della realtà umana bipolare fratturata dal peccato; anima l'armonia delle differenze inter ecclesiali; assume l'antico come ceppo carico di Vita che produce polloni quali promesse di piante secolari.
Una Chiesa Famiglia non lascia la donna alla porta.
La donna sente il dovere di entrare a pieno titolo nella Famiglia.
Ci conceda il Signore che la porta venga aperta, non abbattuta.
La verità del passato che blocca il divenire è abbandonata dalla Vita.
QUESTO MI E' STATO MOSTRATO:
una struttura ecclesiale distinta in
l) Ministri del Sacrificio
2) Ministri della Parola

1) MINISTERO DEL SACRIFICIO esteso a uomini e donne; limitato a celibi e nubili.
a) A rappresentare Cristo nel Mistero sacrificale che è di Cristo e dell'Umanità siano coloro che scelgono di farsi segno e anticipazione della realtà futura del Regno mediante la loro piena appartenenza a Cristo e all'Umanità.

b) I Ministri del Sacrificio, celibi e nubili, vivano in rispettive comunità regolari: diocesi, monasteri, conventi.

c) Funzione costitutiva e primaria: concelebrazione eucaristica settimanale (giovedì sera, sabato sera?) con impegno di presenza dei Ministri della Parola che ne riportino il Cibo eucaristico per la sacra mensa domenicale dei fedeli.
L'adozione della concelebrazione, la sua scansione settimanale diano visibilità alla gravità e sacralità del rito che veicola il Mistero e si rendano apertura comunionale con i fratelli ortodossi.

d) Nel sacrificio eucaristico
la Vittima è Cristo, l'Uno-Collettivo: è il Figlio dell'Uomo
ed è l'intera umanità sofferente;
il Sacerdote è la Collettività nell'Uno: è l'Umanità rinata in Cristo.
Colui che è Uno-Collettivo nell' Offerta, è Indivisa-Condivisione nell' Offerente.
La Condivisione dell' Indiviso, nella Liturgia eucaristica, non può venire opportunamente rappresentata se non dalla bipolarità della realtà umana restaurata e riconciliata; da persone,
uomini e donne, elette da Dio e inviate dalla Chiesa.

e) Docenza: formazione spirituale degli educatori parrocchiali.

f) Sacramento della penitenza dei privati dietro specifico e individuale mandato della Chiesa.

Elementi costitutivi dei Ministri del Culto:
Vocazione celibataria sacerdotale
Vita comunitaria regolare
Solida pietà
La cultura è qualificante, ma non costitutiva.
La scelta umana del blocco nello specifico sessuale maschile è scelta della frattura, della contrapposizione.
Il male voluto da Dio è un bene propedeutico; lo stesso male voluto dagli uomini si fa peccato. Non ci rimproveri il Signore un abuso di potere anche se sostenuto da fedeltà al passato.

2) MINISTERO DELLA PAROLA E DELLA SACRA MENSA parroci coniugati: uomini e donne
a) I parroci siano già coniugati e inviati dalla Chiesa in qualità di diretti responsabili della cura delle parrocchie.

b) Funzione costitutiva e primaria: liturgia della Parola e sacra Mensa per le assemblee domenicali.
c) Riscoperta e approfondimento della liturgia penitenziale comunitaria.

Elementi costitutivi dei Ministri della Parola:
1) Preparazione teologica in seminario con impegno alla castità
2) Matrimonio
3) Pastorato
4) La soda cultura è costitutiva

L'assunzione dei laici coniugati in qualità di parroci sia apertura comunionale con i fratelli della Riforma e possibilità di ripiego per il celibe o la nubile in difficoltà.

QUESTO MI E' STATO DETTO
a) Domanda: - Perché, Signore, la Chiesa introduce oggi quello che vietava in passato?
Risposta: - Perché l'insegnamento della Chiesa avanza con la capacità recettiva della massa.

b) Mentre mi veniva mostrata una concelebrazione di suore mi è stato detto:
"E lo mi rivelerò presente in mezzo a voi come avvenne in passato". (Rif.miracoli eucaristici)

c) "Se ad operare il rinnovamento della Chiesa non metteranno mano i figli della luce, manderò avanti i figli delle tenebre".

d) "La verità del passato che blocca quella del divenire si fa errore".

Conclusione:
Questa comunicazione non si è presentata come un comando, ma come sollecitazione a operare nel senso sopra indicato. Però se si sceglie di fare diversamente "La Verità scavalca coloro che ne impediscono il cammino" ..
Firmato: "Una voce nel deserto"



Il quattro Ottobre

Il 4 ottobre di ogni anno, il capannone di via Virgilio 222 nel Porto di Viareggio è aperto a tutti dalle 16 in poi, per una festa semplice e sempre assai affollata. Dal 1979 questa data - ben più conosciuta come festa di S. Francesco d'Assisi! - segna il "compleanno" di questa struttura, aperta "a più mani" e intrisa di tanti sogni e idealità.
"Utilizziamo queste righe" - scrivevo in Lotta come Amore dell'ottobre del 1979 - "per informare i nostri amici dei primi passi di questa nuova creatura che occuperà una buona fetta del nostro quotidiano. Intanto avvertiamo che i traslochi sono stati fatti ed il 4 ottobre, con un incontro fraterno intorno a una damigiana di vino tra quanti hanno dato una mano, è stato ufficialmente inaugurato il nostro nuovo ambiente di lavoro... A Sirio, Rolando e a me si è aggiunto Beppino, non più determinato in modo totale dai suoi ragazzi e quindi abbastanza disponibile per riconvertirsi dal ruolo di casalingo tuttofare ad un lavoro e a interessi diversi. Siamo in quattro ad occupare uno spazio grandissimo voluto per un impegno allargato nella realtà del lavoro, quella artigiana in particolare".
Un paio d'anni prima cominciammo a parlare del "progetto".
Don Sirio, a quel tempo, continuava ad andare a lavorare a Bicchio, nella vecchia officina, in uno sforzo di fedeltà all'amicizia con don Rolando. lo mi arrabattavo sotto le lamiere della baracchetta di lamiera sull'angolo vicino alla Chiesetta. Sentivamo di lavorare per lavorare: per delle briciole di dignità economica e umana, ma in una realtà che era solo la "maschera" impallidita di una condivisione della condizione di rischio e di impegno della gente lavoratrice.
Cercavamo un luogo abbastanza ampio per allargare progressivamente il nostro lavoro del ferro a una "comunità" di piccole imprese artigiane di lavorazione del legno, ceramica, cuoio, ecc., sotto un unico tetto. In Darsena, in quanto volevamo che questa attività artigianale vivesse il respiro serio del lavoro, le tensioni del mondo operaio, la ricchezza umana di una realtà ambientale come quella del porto di Viareggio.
Nel numero di luglio del 1979, sempre su Lotta come Amore, potevo scrivere con orgoglio: mese di maggio è nata una nuova" "ditta" nel porto di Viareggio: la nostra! (C.A.V. Centro Artigiano Viareggio)... Ritorniamo a insieme: e questo dovrebbe essere un primo motivo di gioia anche i nostri amici... Abbiamo trovato un capannone di circa 500 mq. e, dopo varie avventure nel mondo della burocrazia, l'abbiamo acquistato... con la fiducia di amici che ci hanno dato forti prestiti... che intendiamo restituire fino all'ultima lira".
Cosa intendevamo fare in questo capannone?
La prima cosa che ci interessava fare era sviluppare il lavoro artigianale in senso stretto. Un lavoro manuale, creativo, responsabilizzato a tutti i livelli, dal reperimento della materia prima alla sua collocazione sul mercato a prodotto finito, rispettoso dei valori d'uso e comunque non facile preda del consumismo.
Inoltre ci interessava lavorare partecipando i problemi, le lotte della classe operaia concretamente presente a Viareggio e, naturalmente, la vita. Infine, ci proponevamo di realizzare un ambiente aperto all'interesse dei giovani in modo da offrire uno spazio concreto a quanti, imparando un mestiere, potevano ritenere di qualificare le proprie mani e affrontare il problema del lavoro con uno spirito di indipendenza e di fantasia. "Sappiamo" - ancora sullo stesso numero del luglio 1979 - "che noi stessi abbiamo ancora tanto bisogno di chiarirci le idee. Comunque il treno è ormai partito e, mentre ora sono iniziati i primi lavori di assestamento del capannone, Sirio, Rolando e io ci siamo saltati sopra forse, ancora una volta, più con il cuore che con la ragione. A questo nostro vecchio peccato sappiamo ormai che i nostri amici sono abituati".
Il primo "muro" da affrontare in questo nostro rinnovato incontro con la realtà è dato dalla necessità di lavorare molto, molto di più che non nelle precedenti condizioni di un lavoro sufficiente a se stesso. Le rate dell'impegno economico assunto per rilevare il capannone (proprietario per legge sarebbe diventato dopo un anno il Demanio Marittimo e noi semplici affittuari) erano pesanti e l'aiuto consistente di amici serviva a posticipare gli impegni, non ad annullarli. Prendevamo una "paga" ridotta all'osso, per la pura sopravvivenza. Credo, a questo proposito, che dovremmo riflettere sul rapporto con il "denaro" che avevamo, prima al Bicchio e poi nel periodo del Capannone. Una povertà concreta, ma mai idealizzata nella realtà quotidiana, quella di Sirio. Eppure, questo suo "stile" è stato solo imitato (ognuno in questi anni ha trovato il suo, e questo è sicuramente positivo) e meriterebbe ancora confrontarcisi anche per capire meglio tutto un "percorso" di quegli anni.
Il secondo "muro" erano le condizioni ambientali in cui lavoravamo. "Se vuoi patir le pene dell'inferno: fabbro d'estate e murator d'inverno!" recita un vecchio detto. Sotto il tetto di eternit, in assenza di vie d'aria sufficienti, il Capannone diventava un forno d'estate: inferno due volte per noi fabbri. E una ghiacciaia d'inverno!
Da Lotta come Amore, gennaio 1980: "Un gelo, quello di tante mattine, stemperato appena dal calore del ferro passato nella forgia e portato qua e là come uno scaldino, tanto perché non si inchiodino le mani. Per i piedi invece la soluzione è affidata al legno. Dopo avermi preso in giro perché li usavo, Sirio si è appena convertito agli zoccoli valdostani ... Rolando ha un paio di "scroi" locali con robusta suola in legno. Beppino invece è affezionato ad un paio di scarponi ormai leggendari per le loro dimensioni tanto che, da lontano, prima vedi gli scarponi, poi lui che c'è dentro". Eravamo così giovani, a cominciare dai più vecchi! E lo scherzo, la battuta, il riso punteggiava le nostre giornate. Ma che freddo!!!
Il terzo "muro" lo avevamo avvertito da subito: "Sentiamo tutta la pressione sociale che vorrebbe fare di questa nostra iniziativa un fatto assistenziale nel campo dell'handicap e della droga" (LcA, luglio 1979).
Già all'inizio del 1980 scrivevo su LcA: "Sta prendendo consistenza (ma è anche una consistenza di ... carta nel senso che per ora siamo ai manifesti) la possibilità che prenda avvio un corso di formazione professionale per ceramisti con un gruppo di una quindicina di persone con la presenza di tre handicappati...
Pur essendo una iniziativa pubblica non intacca minimamente la nostra natura di iniziativa privata, cioè a dire di iniziativa di lavoro uguale in tutto e per tutto a qualsiasi altra ditta artigiana".
Non potevamo sapere, tenaci artigiani del C.A.V., che questa non era un'acqua da cui ci saremmo potuti riparare con un qualsiasi ombrello. Sarebbe diventata un... "diluvio" e, per sopravvivere, ci sarebbe voluta un'ARCA.
E cioé l'associazione Ricerca Cultura Artigiana.

(continua)
Luigi

Vamos a caminar

" ...quisiera yo tocar todas las puertas, y suplicar a no sé quién, perdon;
y hacerles pedacitos de pan fresco aqui, en el homo de mi corazon..."
(C.Vallejo, "El pan nuestro", en LHN)
Lampa (Perù), marzo 1996

Amici, amiche, fratelli e familiari, tutti carissimi, anche da qui, lontano da Voi, invio un saluto e un abbraccio affettuoso che non lasci fuori nessuno.
La gratitudine supera distanze e tempi. Gratitudine accumulata nel tempo, negli anni, al di là e al di qua dell'Oceano, fin quassù sulle altezze andine: riempie il cuore!
Siamo fatti anche di terra dentro, portiamo in noi le radici della nostra terra, profumiamo della forza vitale di chi ci ama e di chi ci ha amato. Parlano anche i nostri cari, dalla profondità delle viscere della terra e dalla pienezza della felicità: penso alla mamma Rosa, penso al babbo Duilio! La loro ombra protettrice nel cammino è come quella di una quercia frondosa, di una quercia robusta. Con loro vedo persone e persone, familiari, volti, nomi, amici, persone anonime, poveri cristi della storia. E li ringrazio. Li ringrazieremo sempre!
I bambini, spesso incuriositi, si chiedono da dove vengo, dove sono nato, dove vive la mia famiglia, dove sono i miei figli, come si chiama mia moglie... La risposta è la stessa per tutti, bambini e adulti. Quando mi è possibile li invito a guardare verso la cordigliera andina e indico la punta più alta, il monte Cooachico: ...lassù la cicogna mi ha lasciato! La mamma se n'è andata con gli altri fratellini ed io, come una zucca... sono rotolato giù, da oltre 5000 metri, fin qui, a Lampa!...
Ancora una volta, a tutti il mio saluto!
Di cuore e con gratitudine!
Come eco della grande montagna, viviamo ancora nel tempo e nel cuore i riflessi della festa della gratitudine per i miei 25 anni di sacerdozio, lo scorso anno. Qua, in Perù e là, in Italia. Siamo stati in festa! Insieme: voi con me e io con voi! Una festa che sembrava non finisse più!
Il sacerdozio di Gesù è il nostro sacerdozio! La gente di Lampa colse alla radice quella liturgia di ringraziamento comunitario, in una esplosione di festa, di gioia e di vita durante una intera giornata. Il pago alla Pachamama dopo il tramonto del sole, la liturgia eucaristica, le danze in offertorio, le litanie dei santi con tutti i santi... in processione, il pranzo comunitario e per tutti, i balli, i colori, il sole, l'azzurro del cielo, la gente venuta da tutte le Comunità Campesine...
Grazie alla Vita che mi ha dato tanto!
Il titolo e il nome di "sacerdote" Gesù se l'è guadagnato, se l'è sudato (Ebr. 2,16-18). Un sacerdote differente per una religione differente. Gesù è l'unico, non c'è altro sacerdote: il ponte con Lui è già fatto! Al sacerdote Gesù gli costò essere sacerdote, perché prese sul serio l'essere uomo, l'esistenza umana; si identificò con noi, con gli esclusi, con i crocifissi della storia (cfr: Ebr.5,5). La ragione d'essere del sacerdote è per il servizio, per gli altri, non per Dio!
Il cammino della vita continua: continuiamo ad esserci vicini, cordialmente e con gratitudine!

"Date loro da mangiare"! (Mt. 14.16)
La fame: luogo comune? Forse!
Se riflettessimo in profondità sul significato di questo termine e sui significati derivati, probabilmente cambierebbero molte cose.
Riportare il punto di osservazione su questo "nodo", la fame, può disturbare la nostra sensibilità, le nostre suscettibilità.
Per chi ha tutto garantito è uno dei soliti motivi di disturbo! Per chi vive in un regime d'austerità permanente è una realtà!
La differenza è totale, profonda, abissale...
E' ancora vivissimo in me l'incontro, in Villa El Salvador, della gente della fame con il papa Giovanni Paolo II. "Abbiamo fame!...", disse la gente. Il15 febbraio 1985 nell'immenso campo sabbioso, all'estrema periferia sud della grande città di Lima. A circa un milione di poveri assiepati dalle prime ore del mattino sotto un sole cocente, il papa disse: "Fame di Dio, sì! Mi rallegro che questo popolo abbia fame di Dio, ma scompaia dalla faccia della terra e da questo popolo la fame di pane; ritorni a fiorire la fame di giustizia!".
La scelta preferenziale per i poveri non è una delle scelte, ma "la scelta": per uscire dalla crisi occorre ripartire dagli ultimi! Da qualunque crisi: da quella economica, da quella socio-politica, da quella morale.
Un dato fornito dalla Banca d'Italia rileva che in sei mesi, in Italia, sono aumentati 27mila conti bancari miliardari... Ogni Regione italiana ha i suoi miliardari, pochi o molti che siano! La politica economica deve puntare all'arricchimento di pochi o al riequilibrio della ricchezza secondo giustizia?
Sulle rive del lago di Galilea, a Betsaida, è stato possibile dar da mangiare a folle di affamati, con pochi pani e pochi pesci disponibili. Mediante il miracolo della condivisione!
Oggi, alla vigilia dell'anno 2000, di fronte a circa mille milioni di affamati sparsi in tutto il mondo, ci viene chiesto di ripetere il miracolo di... una economia di uguaglianza, di una politica di giustizia.

La alpaca. custode dell'umanità!
Alla fine del secolo XVI il cronista indio Felipe Guamàn Poma de Ayala, scrisse un documento, illustrato con circa 500 disegni, sulla vita incaica e coloniale. Tra questi un disegno nel quale raffigura una llama, con il suo collo lungo, che si affaccia dalla finestra dell' arca di Noè. Per il cronista questa era la spiegazione corretta della presenza di alpaca e llama nelle zone andine del Perù.
Invece, i pastori andini sostengono che le alpàcas e le llamas vennero dall'Ukhu Pacha (il mondo sotto terra), laddove pascolano i grandi greggi proprietà degli Apus (principali divinità del Sur-Andino).
Nel Kay Pacha (il mondo nel quale noi viviamo) le alpàcas erano poche e davano un servizio esiguo all'umanità.
I pastori, per questo, erano poveri.
L'Apu (la divinità), rendendosi conto di questa situazione, ebbe compassione dell'umanità e decise di aiutarla. Dette in sposa una delle sue figlie ad un giovane del Kay Pacha (questo mondo) regalandogli tantissime alpécas, Il giovane, che doveva avere molta cura delle alpacas, in realtà non compì ciò che gli era stato raccomandato dall'Apu.
La figlia stessa dell'Apu decise di tornare all'Ukhu Pacha e le alpàcas con lei, desiderose di tornare al loro mondo.
Il giovane fu preso dalla disperazione. Cercò di impedire che tutte le alpàcas se ne andassero. Riuscì a trattenerne alcune. Ancora oggi le alpàcas cercano di ritornare al mondo dal quale sono venute (l'Ukhu Pacha) e... il giorno in cui l'ultima alpaca abbandonerà questo mondo (il Kay Pacha), significherà che è iniziato il giudizio finale.
"L'utopia è la risposta all'appello di un mondo in agonia: annuncia un altro mondo, possibile casa per tutti, spazio aperto di incontro dei popoli liberi, uguali nei diritti, diversi nei volti, diversi per le voci. Più che utopia bisognerebbe chiamarla speranza, perché generata insieme dalla esperienza e dalla immaginazione.
...La storia può e deve essere fatta dal di dentro e dal basso, e non dall'esterno e dall'alto.
...Anch'io credo in tanta allegria: credo che Lelio, Ruth, Marianella vivranno finché nel mondo vivranno la volontà di giustizia e la volontà di bellezza; finché la dignità umana, assassinata migliaia di volte, continuerà ad essere miracolosamente capace di alzarsi e di camminare". (Eduardo Galeano)
Un saluto grande a tutti. E con affetto.
A voi, amici e amiche, fratelli e familiari, Vi voglio bene!

Giovanni Gnaldi Apartado 321
Juliaca (Puno) - PERU



Elogio dell'imperfezione

Un grande dipinto ad olio, dai colori brillanti, è appeso ora a Tepeyac, la casa per gli ospiti del CAC e continua ad intrigarci con la sua bellezza e a riconciliarci attraverso le sue immagini. Le foglie delloquar che si aprono dal centro sembrano richiamare una comune esperienza: la fertilità e la fruttificazione piena che viene dalla riconciliazione con l'io timoroso - e dal timore dell'altro. Ho perso così tanto tempo per correr via dall' alterità anche se, come dice Emmanuel Levinas, è sempre l'alterità che ci converte.
Non sono sicuro se ho paura delle ferite che l'altro sempre porta o se ho paura che l'altro ferirà me, ma so che voglio evitare e negare questo senso della vita assolutamente tragico. Poiché sono stato attratto dalla croce con il passare degli anni e sto imparando ad essere immensamente grato alla dottrina della croce. Essa mi prepara, mi colloca e mi consola nello svolgersi di questo dramma che è la vita umana. Essa mi dice, allo stesso modo di una iniziazione classica, che la vita è difficile e che la mia piccola vita è qualcosa che vale assai più di me.
Forse i nostri antenati sapevano che non avremmo voluto credervi, così trovarono altre modalità per dirlo. Uccidendo i più deboli di noi, come è avvenuto, o calandoci il messaggio a poco a poco in modo che potessimo assorbirne l'impatto. Le forme primitive includono la credenza nel peccato originale, la pratica pro-attiva della mortificazione e la pratica re-attiva del digiuno. Tutte erano viste come esercizio necessario per il combattimento spirituale che stava incombendo. Stranamente, esse non sono attualmente più viste come necessarie o anche solo importanti.
La ricerca della integrità è oggi così intensa e disperata che noi insistiamo nell'enfatizzare la nostra benedizione originale invece del peccato originale. Entrambi sono veri, naturalmente. All'inizio siamo stati creati come imago Dei-immagine di Dio (Genesi 1,27). Non si può essere benedetti più di così! Ma questa "immagine di Dio" prova paura "perché io sono nudo" (Genesi 3,10). Questa esperienza di paura e nudità è un'eccellente descrizione di ciò che più tardi chiameremo peccato originale. Piuttosto che una fondazione negativa, tuttavia, la dottrina del peccato originale è una veritiera e perciò misericordiosa descrizione di ciò che siamo. Non è necessario spendere un mucchio di tempo dimostrando sorpresa, comparando, giudicando, o anche perfino odiando la difficile situazione umana. Ci è stato detto al principio: "Tu sei contenuto in una comunità di non integrità e di imperfezione". Il nostro peccato è condiviso da tutti, è passato attraverso le nostre famiglie di origine, indietro fino agli inizi, ad Adamo ed Eva. Questo è realmente un consolante messaggio di interdipendenza, anche se rappresenta contemporaneamente un onere e una delusione. Peraltro dobbiamo ammettere che il Cristianesimo dà ai suoi membri il necessario senso del tragico. Sia la dottrina del peccato originale che quella della croce sono un invito e una iniziazione alla nostra comune natura incrinata. Siamo insieme in questo; condividiamo un certo handicap, e non ci è davvero utile stare su un qualsiasi piedistallo di superiorità o cercare di scorgere da qualche parte I'incontaminato nobile selvaggio. Quell'essere non esiste se non nella mente dei romantici. La vera fede non è mai romanticismo.
Il peccato originale è anche il peccato universale e perciò il grande equilibratore che ci tiene tutti in ricerca, opportunamente umiliati e nel bisogno l'uno dell'altro. Se siamo onesti, ammetteremo che siamo parte di una comunità di sofferenza. Sofferenza che abbiamo ricevuto l'uno dall'altro e che inevitabilmente ci passiamo l'un l'altro. Come dice il profeta Zaccaria: "Essi ti chiederanno: Cosa sono queste ferite sul tuo corpo? E quando lo faranno tu dovrai rispondere:
"Queste sono le ferite che ho ricevuto in casa dei miei amici" (13,16). Sì, sembra proprio che le nostre ferite più profonde vengano quasi sempre da un compagno, un caro amico, uno (tu) con cui hai camminato nella casa di Dio (Ps 55,14).
Molte delle nostre ferite hanno a che fare con il modo con cui gli altri ci vedono e ci giudicano e, perciò, come noi giudichiamo noi stessi. Siamo essenzialmente animali sociali. Noi siamo irritati e imbarazzati nello stesso tempo dalla nostra intelligenza limitata, dai nostri doni limitati, dal nostro limitatissimo potere e dalla nostra limitata capacità di amare - ognuno e ogni cosa ci ricorda questo in ogni momento.
Dio sa che queste voci negative saranno rivolte a noi prima della voce della verità. Così l'intera rivelazione biblica sta cercando di volgere l'attenzione al giudizio di Dio piuttosto che a quello dell'umanità - non come una minaccia, ma come una consolazione - come una madre che avvicina al suo il volto del bambino - e lontano da ogni distrazione. Ascoltami, essa dice, questa è l'unica verità che devi .conoscere, Nello stesso momento che fa notare l'errore al bambino tenendo lo sguardo fisso su di lui, essa gli dà, attraverso l'umiliazione, una via per uscire dalla vergogna. Gli occhi dicono con insistenza, "Ti amo e mi interessa molto ciò che stai facendo della tua vita. Sono con te nella tua fragilità". Alterità non è solo giudizio ma anche conforto e vicinanza. Molta della nostra fragilità oggi deriva dal fatto che siamo esposti a così tanti differenti giudizi invece di uno che si interessi, definisca e dichiari.
Un Signore è molto meglio di tante voci che spadroneggiano su di noi. Uno specchio è molto più utile che vivere in questa rivoltante sala degli specchi che è la disintegrazione del moderno io. Per questo essere l'Assoluto (e l'Unico!) per ricordare a noi i nostri limiti e nello stesso tempo invitarci all'unione amorevole è il compito essenziale del Dio della Bibbia. (E' anche il compito di ogni buon psicologo...).
Giobbe finalmente realizza che l'unico di cui ha paura come il suo giudice più critico è il suo più grande vendicatore. I suoi cosiddetti amici, i quattro consiglieri, gli offrono solo ideologia fondata, ortodossia religiosa, saggezza convenzionale ed eroico idealismo. Sembrano buoni consiglieri, ma in realtà essi respingono e abbandonano il povero Giobbe. Dio, al contrario, non dà a Giobbe nessuna risposta corretta: Dio dà, in verità, se stesso.
Se non udiamo Dio dirci cosa è il peccato, e che cosa sono le ferite, lo udremo da migliaia di altre voci. Se non ascoltiamo Dio dirci che siamo imperfetti e bisognosi, lo impareremo nelle nostre relazioni. Se non ascoltiamo Dio dirci che siamo responsabili, saremo un bersaglio mobile sotto il tiro incrociato di chiunque ci richiami a qualsiasi genere di responsabilità. Avere un solo Signore ci salva dalle onnipresenti voci di accusa - da noi stessi e da ogni nuova corrente di pensiero. Proprio quando abbiamo liberato noi stessi dalle colpe avvelenate della religione, troviamo quelle rimpiazzate dai giudizi e dalle accuse dei giornali popolari, degli avvocati, degli ecologisti, dei puristi, dei commedianti, dei patrioti, degli ospiti dei talk show e di chiunque ha un'opinione da vendere o una dichiarazione da fare. A chi dovremmo credere? Forse un poco di tutto? O nulla e nessuno? Così è il moderno io - insicuro, dispersivo e ribelle contro questo sistema, per sopravvivere. Nessuna meraviglia se i santi desiderano che Dio solo sia il loro giudice!
Robert Bly, nel suo nuovo libro, The Sibling Society, argomenta che nel nostro giusto tentativo di correggere i patriarchi, li abbiamo rimpiazzati con la tirannia dei molti. Ora diffidiamo di ogni sguardo diretto verso l'alto ("prospettiva verticale") e semplicemente ci guardiamo dietro e davanti per cogliere le approvazioni e le condanne che ci riguardano... Io non credo che Bly voglia ritornare al malsano controllo dei più da parte di uno solo, ma egli vuole che noi riconosciamo che molti gruppi e individui nel nostro paese, oggi, stanno realizzando che l'uno è ora paralizzato dalla tirannia delle molte voci competitive tra loro - tutte tese a urlare qualche principio morale assoluto. E' sorprendente ciò che non è fattibile e ciò che non può essere fatto nei gruppi a causa della assenza della vera idea di leadership. Ho trovato questo come una sfida in molte comunità non istituzionali e in molti gruppi liberali, militanti, femministi.
Come credente, uno si chiede come queste persone faranno mai il loro percorso formativo. Cosa faremo quando Dio e la Realtà diranno "NO"? Da dove verrà l'obbedienza di cui abbiamo bisogno? Credo che tutto ciò dipende da dove collochiamo la nostra meta finale. Per me, è chiaro. La mia meta è l'unione. Unione con Dio. Qualunque cosa mi insegna e mi allena alla scuola dell'unione è ciò che io voglio e ciò di cui ho bisogno. Dio è uno che ferisce; così pare. Se lasciamo che Dio ci ferisca, le altre ferite non saranno poi così importanti. Se non permettiamo a Dio di ferirci, ogni altro essere lo farà. E noi non sappiamo quali ferite meritano o a chi darne la colpa.
Le nostre ferite ci insegnano ad interrogarci. I nostri peccati sono lo spazio che ci prepara alla salvezza e che crea il desiderio di ciò. E' una danza con la morte quella che ci guida all'unione con Dio. E' sempre una danza di una persona che non si regge bene in piedi; è l'andatura zoppicante di Giacobbe che annunzia la sua benedizione e lo fa forte contro Dio (Genesi 32, 26-29). Forse non c'è altra strada per diventare Israele. Lo schema sembra essere quello della persona prima azzoppata e quindi benedetta e rinnovata nel proprio nome. Come dice S. Giuliana di Norwich: "Prima la caduta, e poi la redenzione dalla caduta, ma entrambe sono misericordia di Dio". La santità è sempre peccato trasformato e ferita trasfigurata. Avverrà sempre come una sorpresa. E' toccato alla Rivelazione Divina dircelo ma, in effetti, molta della chiesa ufficiale ancora lo nega.
Nel loro libro dallo stile pastorale e narrativo "La spiritualità dell'imperfezione", Emest Kurtz e Katherine Ketcham dicono che c'è sempre stata una tradizione "impefetta" della spiritualità che affiora attraverso la spiritualità assolutamente dominante della scalata, della ascesa e crescita e pienezza e dei più alti gradini della consapevolezza. L'umanità ha sempre operato il tentativo di uscire fuori da questa imperfezione ad una qualche specie di perfezione. Il risultato è usualmente una spiritualità elitaria, una lettura minimalista dei Vangeli (enfatizzando una piccola area dove possiamo immaginare di ottenere una qual sorte di perfezione - come obbedire sempre all'autorità o non perdere mai una Messa), varie teorie ideali nella testa (Gnosticismo), o giusto un vivere in una facile negazione e l'annullamento del proprio lato oscuro. Molta gente nasconde la propria vita nelle loro aree di forza così da non rivelare mai le loro debolezze - neppure a se stessi. Ciò sembra possibile, ma si finisce per essere come pesciolini in una pozzanghera piena di pesci che la pensano allo stesso modo. Non proprio ancora chiesa; ancora meno il grande Regno di Dio.
n desiderio di una completa sicurezza e fantasie di controllo su tutto ciò che ci riguarda, catalizzano nel cercare di superare questa dolorosa imperfezione trovando qualche pietra filosofale, qualcosa di obiettivo, sicuro, assoluto che ci sollevi per sempre dalla polvere fino ad un livello di alta morale. La rivelazione biblica ci dice chiaramente che non c'è assoluto che ci tiri fuori dalla nostra fragilità che un incontro con l'Altro.
Siamo esseri essenzialmente sociali, imitativi, sempre alla ricerca della nostra identità, il nostro abito, il nostro nome. Non c'è altro modo. E' l'alterità che mi confronta, mi limita, corregge, si schiera dalla mia parte e mi salva. E' sempre la faccia dell'Altro che non si sottrae alla vista del mio insuccesso. E' la faccia dell'Altro che mi vede fin nell'interiorità, nudo e povero come veramente sono. Troveremo noi stessi attraverso l'altro e perderemo noi stessi attraverso l'altro. Tutto dipende da quale altro stiamo rimirando.
"E Dio fece loro delle vesti e ricoprì la loro nudità"(Genesi 3,21).

Richard Rohr

Semi di Resistenza

INDIVIDUO E LIBERO PENSIERO
"Il conformismo è il peggiore nemico di ogni forma di pensiero produttivo. Non esiste una possibilità di pensiero reale senza che si sia formata una individualità, ovvero un punto di vista da cui avere un'ottica specifica del mondo che ci circonda.
Possedere dei criteri da cui valutare autonomamente le cose, gli avvenimenti, permettere anche di avere una libertà di scelta, riuscendo a portare avanti la vita seguendo il proprio orientamento, senza inutili dipendenze e sudditanze. La forma maggiore di libertà, consiste nel sapere quello che si sta facendo realmente...".
Sono alcune righe del pensiero di Veronica Vaccaro che insieme a Giovanni Trapani porta avanti la Collana di opuscoli autoprodotti di Pensiero e Azione.
Scrive Giovanni Trapani:
"Vent'anni fa (21 marzo 1976) nasceva ufficialmente il "Gruppo HEM DAY", animato, fondato e organizzato da me. Lo feci senza neppure accorgermene... Il Gruppo come gruppo non esiste più. Dal 1978, si trasformò in Centro Studi, ed è tuttora uno studio senza centro. Nella mia piccolissima e umilissima abitazione non posso fare un centro. Inoltre gli interessati sono sempre meno. Ed io stesso avrei bisogno di reale comprensione e collaborazione". Per informazioni!
comunicazioni: Veronica Vaccaro - Giovanni Trapani,
C.P.6130 00195 ROMA PRATI, tel. 06/58230440

VOTARE PENSANDO AGLI ULTIMI
La Conferenza Episcopale Indiana ha emanato un documento in vista delle elezioni che hanno avuto luogo nel giugno scorso.
Il cittadino cattolico ha piena libertà di votare per qualsiasi individuo o partito con riguardo al programma che, a parere del singolo elettore, si avvicina di più a questi obiettivi:
1. Rispettare la vita umana in tutte le sue fasi, promuovere la dignità e il valore della persona umana, assicurare la protezione ecologica dell'ambiente.
2. Avere un'attenzione preferenziale per i poveri, specialmente i "dalit" (fuori casta), i tribali, i ritardati, le donne, i bambini, gli anziani e i disabili.
3. Trattare i cristiani dalit nello stesso modo in cui sono trattati i dalit appartenenti ad altre religioni, in modo da evitare ogni discriminazione.
4. Sposare la causa dello sviluppo delle aree rurali e delle masse rurali, anziché servire le élite urbane e i ricchi potenti.
5. Contemplare, almeno in qualche misura, la trasformazione strutturale della società nella quale tutti gli indiani possano vivere in una comunione basata sull'uguaglianza, la giustizia e la libertà. Dovremmo rigettare qualsiasi partito che ignori queste istanze o che apertamente voglia
mantenere lo status quo, offrendo soltanto prospettive di piccoli miglioramenti.
6. Mirare al futuro, evitando ogni tendenza revisionista volta a riportare il paese verso un passato oscurantista.
7. Impegnarsi a riconoscere e a preservare il pluralismo religioso-culturale dell'India come un fattore positivo di crescita per la nazione. Dovrebbe, in modo particolare, rispettare le minoranze.
8. Lottare contro la corruzione nella vita pubblica e politica, così da poter rendere conto al popolo in modo trasparente, e così da poter intervenire in modo adeguato nel prevenire lo spreco di fondi pubblici.
9. Sostenere l'unità e l'integrità della nazione.
10. Impedire ai paesi potenti di trasferire altrove la ricchezza dell'India attraverso metodi neocoloniali.
(da Americalatina Africa Asia Oceania,n.5/96,
periodico edito da CEIAL, via Bacilieri, 1 - 37139 Verona)




Io non sono nessuno...

Io non sono nessuno!
E tu chi sei?
Nessuno pure tu?
Allora siamo in due,
ma non lo dire!
Potrebbero bandirci
e tu lo sai!
Che grande noia,
essere qualcuno!
Quanto volgare -
dire il nome tuo
per tutto giugno -
come fa la rana -
A un pantano che ti ammira!

Emily Dickinson
da F. Gentiloni, "Che grande noia essere qualcuno", in "Ore undici", n.8/96, mensile di scienze umane e ricerca religiosa, viale Vaticano 67, 00165 Roma

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