LOTTA COME AMORE: LcA luglio 1996

epigrafe

L'incontro con gli altri
nella corporeità
è entrare nella vita

Memorie per una prospettiva

Carissimi amici lettori, leggerete queste righe già nel pieno dell'estate. Noi le scriviamo alla fine di maggio. Passerà poi un mese (qualcosa di più, forse, che qualcosa di meno) per la stampa e la spedizione. Già la spedizione! Sembra che per avere le "agevolazioni" dell'abbonamento postale dobbiamo "metterci in regola". Oh, intendiamoci, sono anni che ci mettiamo in regola con la circolare di turno, con le tariffe che cambiano continuamente, con le modalità con cui predisporre le singole copie, i singoli mazzetti per "cap" (codice di avviamento postale), il tipo di spago da usare, i nodi con cui fermare il suddetto spago, ecc. ecc.
Ma questa volta la regola consiste nel fatto che dobbiamo esibire il certificato della locale Camera di Commercio, Industria e Artigianato che sancisce la nostra iscrizione all'albo (udite, udite!) delle "imprese" che svolgono attività editoriale nel campo della stampa periodica.
Se state leggendo, vuol dire che il certificato è stato fatto e quindi l'iscrizione è avvenuta.
E allora, abbiate rispetto perché siamo ufficialmente editori!
Quante cose...!
Ringraziamo, comunque, tutti gli amici che trovano il tempo di farci sapere loro notizie, di sostenerci nello sforzo "editoriale", di scambiare con noi parole, scritti, memorie, sogni e idealità.
La "rete" di Lotta come Amore è leggera, leggera, ma tiene.
Tiene anche la vita della Chiesetta del Porto, nascosta più che mai nel periodo estivo dal fogliame folto dei platani che l'abbracciano. Resiste - grazie a Dio - un sottile filo di vita che la ricollega ad una memoria ricca di eventi, di coraggio umano, di fede.
Ma questa memoria alimenta prospettive? L'interrogativo non è superfluo.
Essere giudicati "buoni e bravi" è cosa che fa sempre piacere. E, certamente, per le persone che si riparano all'ombra delle nostre attenzioni, è importante che le nostre energie rimangano salde anche con l'avanzare dell'età. L'interrogativo però si propone di riflettere su una "continuità" che non è esattamente quella che si intende sottolineare quando - a chi ce lo chiede - si dice che "le cose vanno avanti". Perché nel rotolare di giorni, uno dopo l'altro, può essere che si inneschino derive anche di forte intensità che, sulla superficie dello stesso mare, portano insensibilmente su rotte assai diverse da quelle di partenza. Una continuità apparente che può trarre in inganno coloro che non sanno che la "continuità" tra memoria e prospettive si alimenta negli strati profondi della vita, là dove non conta tanto che "le cose" vadano avanti, quanto che vivano le ricerche, le lotte, i sogni.
Questa "continuità" può essere anche molto... discontinua! Può avvenire, a volte, solo proprio grazie al fatto che "le cose" non vanno più avanti e ne sopravvengono altre che non sostituiscono semplicemente le prime, ma ne esprimono lo spirito vivo, e spiegano, in contesti diversi e in sempre nuovi linguaggi, la medesima storia.
Non sono andati avanti "la terra da coltivare, il fuoco delle forge nell'officina e quello del grande camino in cucina" che Maria Grazia ricorda della vita della comunità a Bicchio. Certamente la nostra è una vita semplice, ma non so quanto, paragonandola a quella di allora - e siamo alla fine degli anni '60 -, possa essere ancora definita "vita povera, scelta di classe... ". Se non altro con quella chiarezza di percezione e di incarnazione di quegli anni.
E' vero, comunque, che in linea con 1'esperienza di altri preti operai , "ci siamo legati alla normalità della vita, ad una vita tutta vista dal basso".
E' andata avanti - possiamo allora chiederci - quella ricerca che Arturo Paoli delinea quale "percorso della ragione che torna ad abitare nel corpo prima, nella natura poi, e infine nell'umanità"?
"Di idee e di sassi si fa presto a caricassi" soleva dire spesso Sirio citando un vecchio adagio popolare e, per lui, che idee ne aveva davvero tante, era vitale trovare delle forme concrete in cui sperimentare, verificare, incarnare e quindi dare corpo a ciò che maturava nel cuore e nell' anima. Ora - diciamolo francamente - siamo assai più poveri di idee, ma anche se ne conservassimo appena un mazzolino, nulla ci esime dal cercare di dare concretezza di storia - sia pure esilissima e nascosta - a quello che si muove dentro di noi. Con quella dolce fiducia e testarda speranza che da sempre abbiamo letto animare il cuore del seminatore evangelico.
Il lavoro di questi anni con il disagio, quasi del tutto vissuto sul versante dell' assistenza, ci ha permesso di verificare quanto sia importante una puntuale attenzione alla persona. Che tale si scopre nella possibilità concreta di stare insieme agli altri con percorsi di autonomia anche minimali purché effettivi. Non è solo un processo da applicare a persone gravate da forti handicap, ma, in generale, a tutti. A cominciare da chi scrive.
Giovani, donne, anziani, e cioè gruppi sociali che conoscono maggiormente gli ostacoli verso una vera integrazione sociale, sanno bene quante e quali difficoltà sorgono nel momento in cui - dalla comprensione puramente teorica di questo percorso - si passa a dei tentativi pratici. Eppure sono proprio questi tentativi, anche nella loro frammentazione e parzialità, a permettere la ricomposizione di aspetti diversi della vita e quindi delle persone. Sono autentici, concreti, non ideologici percorsi di pace.
La memoria corre indietro nel tempo "ai grandi camini delle forge e della cucina", al lavoro nei cantieri, sulle barche da pesca, in ospedale... alla vita che fluisce nelle relazioni, nelle solidarietà quotidiane, nelle lotte intrise di forti idealità.
Alla maturazione non solo di esperienze, ma di vera e propria umanità.
Quale prospettiva se non quella di riprendere il cammino con forte consapevolezza? Di uscire fuori da una logica di "conservazione dell'esistente" che tale non è perché ogni giorno i venti della vita (fortunatamente!) erodono la base di ogni realtà che si pietrifica nella memoria da conservare?
Quale prospettiva se non quella di stringere di nuovo i fili di cammini solidali perché le persone possano incontrare se stesse sulle sottili trame di concreti tessuti sociali?
Perché la chiesetta non sia solo la casa dove abitano due scapoli, gli handicappati un "comodo" mantello di assistenza per difendersi dalla realtà, gli impegni quotidiani i segni devozionali a un dover essere che ha "sbiagiulito" nell'intenzionalità le sue ragioni...

Luigi

La posta di fratel Arturo

Cari Amici,
Vi sembrerà strano che Arturo che vive da quarant'anni fra la povera gente, dichiari di essere molto interessato alla fine della filosofia, avvenimento che è stato definito da un filosofo, "il senso stesso della nostra epoca" che è quanto dire l'avvenimento più importante del nostro tempo. Anche se posso dedicare una parte del tempo piccola piccola allo studio, e che la maggior parte della mia giornata la passi ascoltando le vicende poco liete dei miei vicini, il tema della fine della filosofia mi interessa come una buona notizia, fra le tante cattive che giungono ai poveri.
Sono solo un dilettante di filosofia, e come ogni dilettante un guastamestiere, e non dovrei azzardarmi a toccare il tema. Ma questa fine della filosofia non è un avvenimento che coinvolga solamente la casta degl'intellettuali e le loro diatribe, è un avvenimento che ha una ripercussione sui poveri, su quelli della mia comunità, a cui la semplice parola filosofia deve ricordare quella noiosa signora che vuol costringerli a sposare in chiesa. Non so quando le benefiche conseguenze della fine della filosofia si faranno sentire nelle "favelas", ma sono sicuro che si faranno sentire. Se è vero che questo avvenimento così lontano dal rumore mondano, è il senso della nostra epoca, e io lo credo, l'epoca tocca anche i poveri, e oserei dire soprattutto i poveri. Come il sole illumina ricchi e poveri almeno finché i berlusconiani non abbiano scoperto la tecnica di monopolizzarlo per i giardini delle loro ville.
Per me la fine della filosofia significa la fine della distanza. Il pensiero "puro" staccato dalla sensibilità si era assicurato uno spazio sempre più lontano da cui dominava tutta la realtà umana e subumana. Il famoso assioma filosofico che "nulla è nell'intelletto che prima non sia nei sensi" ha sempre avuto un senso univoco, direi che era un prendere senza restituire: i sensi facevano il lavoro degli schiavi che non devono ricevere stipendio, o salario. I veri poveri non avevano accesso a quello spazio e, perché non venisse loro la voglia, la loro intelligenza, parte dello spirito o dell' anima che anche loro hanno (anche se in certe epoche alcuni teologi lo mettevano in dubbio) veniva impedita di muovere i primi passi con la guida dell' abbecedario. Riassumendo, per me la fine della filosofia rappresenta la fine della dominazione, anche se questo non significherà l'avvento immediato della fraternità e dell'uguaglianza. Ma intanto già ora significa una uguaglianza topografica: la ragione sfrattata dal mondo delle idee, deve tornare ad abitare nel corpo prima, nella natura poi, e finalmente nell'umanità.
Basti pensare al progresso che ha fatto la scienza da quando gli scienziati si sono sentiti coinvolti nel divenire e nell' apparire dei fenomeni, rinunziando a guardarli dal di fuori e dall'alto. Questo segna irreversibilmente la fine di un metodo applicato nel mondo religioso nelle sue articolazioni spirituali, dottrinali e pastorali. Per parlare chiaro oggi è assolutamente fuori tempo parlare di scelta dei poveri, quando questa scelta è proclamata "fuori" e "lontano". Lo prova il fatto stesso - diventato oggi umoristico - che il progetto "scelta dei poveri" sia come una palla che continua a stare in campo e ad essere rimandata da uno all'altro perché continua ad essere giuoco e non realtà. La Chiesa arriverà a capire che l'inefficacia dei suoi documenti non è imputabile del tutto alla cattiva volontà dei discepoli, ma soprattutto a un fenomeno epocale. Proprio a quella fine della filosofia, che piuttosto che fine si può definire come risurrezione della filosofia.
E' stato negato definitivamente il principio che definisce l'identità dell'uomo come pensiero, perché giudicato dai frutti, ultimo dei quali l'assolutismo tecnologico che introduce la sclerosi progressiva della ragione.
Non è il caso di suonare la campana a morte per la filosofia, piuttosto è il momento di suonare una distesa a gloria per la risurrezione della filosofia che richiede come soggetto pensante l'uomo globale, il vero uomo. L'uomo ente relazionale, in relazione vitale con gli altri, con le cose: solo questi è capace di verità. Il momento in cui Einstein abbandona il metodo tradizionale, che parte dai sommi principi e assume un metodo che è più vicino alla poesia e alla intuizione artistica, - uomo che pensa nel corpo e col corpo - nessuno può pensare alla morte della scienza, perché è l'inizio di un viaggio che va molto lontano.
Non penso assolutamente che un teologo o un vescovo debbano andare a vivere fra i baraccati per raggiungere quella vicinanza essenziale alla loro attività di pensiero e di spirito, ma penso inevitabile che gettino le fondamenta delle loro costruzioni di pensiero, o dei loro progetti pastorali fra i poveri e con loro. E' certamente una grande scoperta quella del filosofo Lévinas, che il filosofare parta dall'apparizione del volto del fratello che ci mette davanti all'alternativa: o assassini, o liberatori. Ma questa scoperta resterebbe completamente senza seguito se non fosse accaduta nell'epoca della morte della filosofia e non rappresentasse la direzione di una rinascita: il primo passo del pensare è etico e non teoretico. Il pensiero dell'uomo è creativo, costruttivo e soprattutto vero, quando parte dalla coscienza della responsabilità che lega ciascuno agli altri, e alle cose. Una responsabilità che assumo non perché ho un buon cuore, perché lo voglio, ma perché costitutivo del mio essere uomo.
Sono riuscito a spiegare perché il fatto epocale della morte della filosofia m'interessi moltissimo? Un metodo che ci porterà più vicini ai poveri, che ci impedirà di parlare di loro se non "con" loro. Non sarà più possibile parlare dal difuori e dall'alto, anche se con amore sincero. Se crediamo che Dio si è fatto carne, carne del povero, potremmo evitare di stare carnalmente accanto Lui e di toccarlo di tanto in tanto perché ci liberi dalla lebbra dell'egoismo e dell'orgoglio?

fratel Arturo

Il cucùlo di Salsomaggiore

Non so se è sempre lo stesso, oppure se è il figlio di quello dell'anno precedente; fatto sta che ogni anno, puntualmente, tra il 25 aprile e il l" maggio, sulla collina dei frati conventuali di Salsomaggiore il cuculo accoglie con il suo richiamo tutto speciale il piccolo numero dei preti operai italiani che vi si ritrovano a "convegno". Anche quest' anno, fedele come un orologio (appunto!), l'amico cuculo ha salutato con grande simpatia e senso di partecipazione i preti operai che si sono dati appuntamento sulla collina per un incontro sul tema: "Memoria per una Prospettiva". Al cuculo di Salsomaggiore non importa gran che la specificità dei temi di riflessione che ogni anno - o quasi - vengono scelti: lui non è una creatura molto riflessiva. E' piuttosto un grande giocherellone e per la verità anche un grande sfaticato, dal momento che si rifiuta addirittura di compiere quello sforzo vitale che dovrebbe essergli connaturato, come "covare" in prima persona almeno le proprie uova! Forse anche per questo canta, con una specie di "animale meraviglia", quando, puntuali come le prime foglioline e le prime spighe di grano, vede giungere sulla collina i preti operai che sono riusciti per qualche giorno a lasciare i propri impegni per riflettere insieme e soprattutto per ritrovare insieme il coraggio e l'energia necessari per "guardare avanti". Almeno per qualche momento anche loro hanno lasciato ad altri le loro uova! E' difficile interpretare in maniera esatta i pensieri di un volatile così "anomalo": ma forse proprio questa potrebbe essere la chiave di lettura della gioia partecipativa che l'amico e compagno cuculo esprime con il suo canto ritmato ed insistente. Il fatto della "diversità", dell' anomalia piuttosto rimarcata di questi uomini che caparbiamente insistono nella loro ricerca di fedeltà a Dio e alla vita della gente che lavora; il fatto del loro persistere nel ritmo di un desiderio e di una volontà che li convince a rimanere "dentro" il tessuto di una vita che molti di loro hanno scelto ormai da trent'anni e che li ha resi parte viva di un'esperienza umana, sociale, religiosa che sicuramente li rende assai "particolari". Forse il cuculo di Salsomaggiore, fatto esperto da una discreta serie di convegni sulla collina, fiuta nell' aria e nel vento di primavera questa diversità e canta felice. Potrebbe darsi che tutto questo succeda anche a causa di queste due "date storiche" cariche di significati particolari: 25 aprile e l" maggio. Si sa, per i cuculi emiliani anche il calendario ha una certa importanza!
C'è un fatto, sicuramente, che l'amico cucù lo non può rilevare, dato che lui vede le cose da una certa altezza: questi uomini che salgono la collina e se ne stanno per molte ore chiusi nella grande casa a riflettere, a spremere il cuore e la mente, ascoltarsi e parlarsi, non sono proprio dei giovanotti! Visti dall'alto dei cedri del giardino possono sembrare tutti uguali ; ma osservati "a piano terra", uno per uno, anche il cuculo si accorgerebbe della situazione anagrafica in cui stanno realmente. Non che siano vecchi, però! Anzi, proprio quelli che hanno più anni, comunicano di solito energia e vitalità, passione per la vita, per la gente, per il cielo e per la terra, per l'oggi e per il domani, per il vangelo e per la storia umana... C'è un'aria fresca, nonostante la fatica e il realismo del peso delle cose, che circola tutt'intorno. Si riflette sulla "memoria", ma per spingere lo sguardo in avanti, scrutando l'orizzonte, come "gente di confine" che cerca di intravedere fin dove l'occhio può giungere i segni di una vita più piena, le ragioni di una scelta che si possano in qualche modo comunicare ed offrire, anche all'interno di una Chiesa che non è davvero molto attenta alla vita di questi suoi uomini che potrebbero portare dentro il "sacro recinto" della comunità cristiana la voce della gente comune, del "mondo" inteso come realtà di attesa, di ansia di ricerca, di bisogno di un Dio che sia amico e compagno sul sentiero della vita. Questi uomini un po' strani hanno vissuto l'esperienza di un dono molto particolare (l'amico pennuto di Salsomaggiore non sa di certo che si usa chiamarlo "carisma"!): il dono di essere stati "evangelizzati", mentre magari credevano di poter essere degli "evangelizzatori". Invece di portare qualcosa agli altri, essi hanno avuto la fortuna di poter "ricevere", di poter accogliere il messaggio di uomini e di donne che, molte volte inconsapevolmente, potevano indicare alla Chiesa un cammino di liberazione verso orizzonti più evangelici, quindi più fedeli a quel Gesù di Nazareth di cui la Chiesa non può fare a meno di essere l'annunciatrice non solo nelle parole, ma soprattutto nei "fatti". Soprattutto, questi uomini già avanti negli anni, attraverso la condivisione di vita con il mondo dei "piccoli", degli operai, degli uomini e delle donne che si guadagnano il pane con la fatica delle braccia (certo, il cuculo non può sapere niente di quell'Uomo di Nazareth dalle mani callose) hanno imparato cose che se fossero accolte, ascoltate, amate a pieno cuore dentro il sacro recinto della Chiesa, potrebbero essere motivo di grande gioia per tutto il popolo (ed anche di sofferenza, come nel parto, per chi sta un po' più in alto). Quest'ultima cosa, forse, il cuculo di Salsomaggiore l'ha proprio intuita: perché - ed anche i frati conventuali lo facevano notare - nei giorni del convegno il suo canto si è fatto molto più insistente del solito, carico di una particolare allegria e preciso come un orologio! Al primo albeggiare, nonostante la foschia poco invitante, si udiva già il suo verso ritmico (cu-cù / cu-cù) come uno che ha tanta voglia di vivere e desidera farlo sapere a tutti. Poi, via via, durante il giorno c'era come un crescendo in questa specie di tam-tam dell'aria: forse il cuculo, fatto esperto ormai da tanti convegni dei preti operai, si sentiva particolarmente carico e desideroso di far giungere a tutti qualcosa che potesse rallegrare la mente e scaldare il cuore. Forse, nonostante la chiara percezione di come stanno le cose, il suo canto appassionato (ecco, era proprio questa la particolare caratteristica del suo cantare) aveva ancora la possibilità di arrivare a qualche orecchio capace di ascoltarlo e di rallegrarsene.

don Beppe

Pretioperai: appunti dal convegno

...Non abbiamo cambiato niente nella Chiesa, nel sindacato, nel mondo... E' vero: può essere questa la nostra resa di fronte alla storia nella quale ci siamo immersi con tanta foga, con spirito giovane, senza riserve. La storia della classe operaia, sul finire degli anni '60.
Ma ci siamo legati alla normalità della vita, ad una vita tutta vista dal basso. Abbiamo fatto del quotidiano il nostro chiostro.
La scoperta che ci ha sorpreso e ancora ci sorprende, è che questo non ha spento le tensioni. Non è stato un rientrare nei ranghi per aver sofferto quell'essere a parte che caratterizza la crisi attuale del prete. Non ci ha fatto mollare.
Per anni abbiamo arato il campo, ma oggi possiamo dire che una pianta è nata. Tra i rovi, forse, ma questo dà ragione della serenità di fondo che oggi esprimiamo, mantenendo aperta la speranza.
Alla radice, il rifiuto di Dio come oggetto.
Quel Dio mai raggiunto e sempre ricercato. Quel Dio che è Grazia e quindi Amore per tutta l'umanità e Libertà di poter essere questo amore.
E come frutto, la consapevolezza che questa libertà di Dio possa incontrare la libertà dell'uomo e della donna. Nella Parola di Cristo, unico mediatore.
Gesù Cristo, libertà non esercitata per se stessa come nell'esperienza umana dopo la caduta, ma, in novità di vita, per far essere l'altro/altra.
Il sentiero che si è aperto è quello di un servizio reso alla diminuzione del potere delle mediazioni che offuscano l'unica mediazione. A cominciare dalla mediazione del prete e, più in generale, di quella del potere ecclesiastico.
Diminuire fin dove? Fino a che punto?
Qui si apre tra noi una forbice. Essa parte da lontano e si alimenta in teologie assai diverse tra di loro. Da una parte c'è chi, attraverso questa diminuzione, spera in una Chiesa finalmente serva e povera. Dall'altra chi la sente come misura di resistenza verso una Chiesa in cui sembra predominare un istinto di conservazione di se. Dall'altra ancora chi la vede come l'azzeramento necessario di ogni vecchio otre, perché il vino nuovo dell'adorare Dio in spirito e verità è possibile solo in nuovi contenitori: quando e quali?
La forbice si allarga - se possibile - ancora di più quando si passa ad esaminare quella realtà ormai a dimensioni mondiali che coinvolge la vita economica e culturale. Eppure ci si potrebbe aspettare una posizione convergente in un unico realistico atteggiamento: quello di rinuncia perché non c'è nulla da fare. Ma dal micro di ciascuno cresce una voglia di analisi per capire e aiutare gli altri a capire.
La presenza tra noi di posizioni tanto diverse per situazioni di vita e di lavoro, per scelte politiche e sindacali, per idealità di segno opposto, ha condizionato, fino ad oggi, un certo silenzio. Come un passarci sopra per troppa sofferenza. Tutti i presenti nel gruppo sono intervenuti, ed è stato come un primo confronto che ha aperto spazi per un prossimo incontro dove scambiare analisi, prospettive per poter resistere.
Dagli interventi:
- Occorre dirci i nostri angoli di visuale.
- Chi non si oppone e non organizza il dissenso è orientato quanto meno alla collaborazione passiva.
- Guardando avanti, qualcuno dovrebbe dirmi che non sono solo uno che ha scelto di lavorare, ma uno che vuole vivere. Perché il livello di vita è così asfittico...
- Il dissenso va contestualizzato: rispetto ai contratti di lavoro, rispetto alla difesa della salute, rispetto alla dignità della persona.
- Il peso del primo mondo cresce sempre più: con le mie lotte cosa scarico nel terzo mondo?
- Riascoltiamo quella voce di profeti che all'inizio ci ha permesso di capire. Di chi sarà il Regno?
- Un modo caratteristico di essere insieme poneva problemi agli altri. Ci riusciamo oggi?

- A noi del nordest dicono che siamo ricchi, ma la nostra ricchezza è frutto del pensiero unico, del mercato.
- Si è avviato un processo economico il cui punto d'arrivo neppure i grandi proprietari riescono a scorgere.
- Stiamo vivendo un periodo di transizione in cui possono prevalere gli elementi negativi. Ma anche elementi di speranza.
- Dobbiamo darci luoghi di pensiero su scala mondiale: tocca a chi si accorge di non poter più fare il piccolo cabotaggio...
Se si vuole andare avanti insieme occorre confrontarci sulle tematiche che queste considerazioni sottintendono. Anche per capire se vogliamo veramente sottrarci al confinamento nella zona grigia che permette una via d'uscita in una opposizione puramente intellettiva. Se siamo in grado di esprimere un' opzione e quindi una volontà di azione.

Vogliamo credere

Non crederemo mai al diritto del più forte
al linguaggio delle armi,
alla potenza dei potenti.

Noi vogliamo credere ai diritti dell'uomo e della donna,
alla mano aperta,
alla potenza dei nonviolenti.

Non crederemo mai che non dobbiamo occuparci
di quanto succede lontano da noi.

Vogliamo credere che il mondo intero è casa nostra,
un campo in cui seminiamo
e in cui tutti mietono quello che tutti hanno seminato.
Non crederemo mai di poter combattere l'oppressione altrove,
se tolleriamo l'ingiustizia vicino a noi.

Vogliamo credere che il diritto è unico, qui come là,
e che non saremo mai liberi
fintanto che un solo uomo è in schiavitù.

Non crederemo mai che la guerra e la fame sono inevitabili
e la pace inaccessibile.

Vogliamo credere alle piccole azioni, all'amore delle mani nude,
alla pace sulla terra.

Non crederemo mai che ogni pace è vana.
Non crederemo mai che il fallimento e la morte
saranno l'ultima parola.

Osiamo credere sempre e malgrado tutto nell'uomo nuovo.
Osiamo credere al sogno di Dio stesso:
nuovi cieli e nuova terra,
in cui abiteranno la giustizia e l'amore.
Per questo Dio si è sacrificato,
lui stesso, per amore verso tutti gli uomini .


Il senso della giovinezza

Domenica 8 maggio si è svolta a Lucca la premiazione dei vincitori del Concorso letterario intitolato al giovane anarchico Pierluca Pontrandolfo, morto prematuramente. Ogni anno l'associazione che porta il suo nome indice un bando sul bel tema "Storie di vita all'opposizione": quest'anno Isabella Pera vi ha concorso con un lavoro che è risultato primo ex -aequo insieme a quello di Marcella Filippa "Avrei capovolto le montagne. Giorgina Levi in Bolivia" ed. Giunti, Firenze.
Il soggetto scelto da Isabella interessa molto da vicino le nostre vite e i temi trattati su questo giornalino, poiché ricostruisce l'esperienza comunitaria che prese vita intorno a Don Sirio negli anni che vanno dal '65 al '71. Si intitola "La comunità di S. Maria a Bicchio di Viareggio" ed è un viaggio alla riscoperta di quanto accadde.
Come sottolinea l'autrice, vi è scarsa documentazione scritta sul periodo in questione, salvo due fogli ciclostilati dal titolo "Terra buona" e "Popolo di Dio" che fungevano da voce viva di raccordo con la parrocchia (erano gli anni in cui il ciclostile aveva una gloriosa funzione nel divulgare le esperienze contro, fervide e spontanee che nascevano un po' ovunque); il giornalino <La voce dei poveri> che riprese le a pubblicazione nel '71; un paio di documenti parrocchiali e diocesani impegnati sul piano del pensiero e la mia tesi da assistente sociale che scrissi fra il '68 e il '69 mentre vivevo in comunità. La tesi si presenta come un'esperienza sociologica sul campo: la raccolta di notizie sulle nostre radici, sui personaggi che con-vivevano, la vita vissuta con foga e la riflessione che vi fa da contrappunto e ricava tracce di percorsi ed ipotesi di lettura. Mi ricordo che allora costituì un punto fermo, importante per tutti noi, una pausa di riflessione che si racconta mentre vive.
L'ho messa a disposizione dell'autrice del saggio per il suo lavoro di ricerca e lei ne ha tratto numerose citazioni, essendo in pratica l'unico filo conduttore scritto a cui riferirsi.
Oltre alle fonti scritte, la ricostruzione storica di Isabella Pera è affidata all'onda dei ricordi di alcuni protagonisti intervistati: sarebbe stato interessante ascoltare l'intrecciarsi di un coro a molte voci, anche solamente locali: dai parrocchiani ai viareggini che andavano e venivano, ai personaggi versiliesi dell'epoca, a chi, giovane allora, è poi diventato personaggio.
Ma pur nella stringatezza documentaria leggere le pagine di questo lavoro ha dato il via all'emergere di frotte di ricordi e sensazioni e mi ha spinto a interrogarmi sul senso della giovinezza. Vorrei rileggere con voi quella storia dall'orlo della mia vita, da dove sono arrivata: 53 anni. Gli anni contano tanto? Sì, certo, quelli passati e quelli presenti formano la storia e danno sapore all'esistenza.
Il privilegio di chi avanza negli anni è l'esperienza, è il poter guardare indietro e non solo ricordare, ma leggere e rileggere gli avvenimenti come in un caleidoscopio, scoprendone sempre nuove angolazioni.

LA NOVITÀ ERA UNA SORTA DI LEITMOTIV
Probabilmente molti di voi ricordano la storia della comunità del Bicchio, ma per chi allora non ci conosceva la sintetizzo:
Don Sirio, smessa non per sua volontà l'esperienza operaia, chiese al Vescovo di poter dare inizio ad una esperienza comunitaria con un amico prete della diocesi, Don Rolando, esperienza che era fin dall'inizio aperta anche a donne, laiche, e a chi avesse voluto aggregarsi.
Il tutto nello stile della povertà vissuta attraverso un lavoro manuale e la semplicità di vita. Il vescovo assegnò loro una parrocchia a sud di Viareggio, in zona agricola e la comunità iniziò a vivere crescendo gradualmente in numero e genere: dai due iniziali agli undici finali, uomini e donne insieme.
Entro questi brevi dati biografici si è svolta un'incredibile esperienza: un incrociarsi di mentalità, generazioni, culture di appartenenza distanti fra loro; un porgersi vicendevole una mano per capire e mente, occhi e cuore nuovi, coi quali guardare alla vita; una creativa con-fusione di ruoli fra uomini e donne, preti e laici dai quali emerse col tempo un nuovo modo di rapportarsi.
Fino al punto che da quel vivo crogiolo prese forma un modello di vita speciale, originale in senso di originario: la vita evangelica? Il regno di Dio vissuto in campagna? Un pezzetto di paradiso perduto? Sempre più di frequente nel nostro linguaggio ricorreva un termine: essere uomini nuovi e donne nuove.
La novità era una sorta di leitmotiv, forse più ancora della povertà e della verginità che avevamo consapevolmente scelto.
Ricordiamoci che si era a fine '65, in anteprima, se così si può dire, rispetto ai sommovimenti che si stavano preparando in campo di costume, di pensiero, di arte, di linguaggio. E la novità che leggevamo con occhi puri nella parola di Dio e praticavamo giorno per giorno, veniva rinvigorita da quei fremiti, quelle intuizioni, ribellioni di fronte all'ingiustizia, voglia di cambiare, speranza nel presente che gia si potevano captare nell'aria. Molti di noi erano giovani, allora, intorno ai 25 anni: ci affacciavamo alla vita e lo facevamo con l'entusiasmo, la baldanza, la foga tipica dei giovani, pur nella diversità dei caratteri.
Mi piacerebbe un giorno indagare su come era vissuta al nostro interno la differenza generazionale. Ma ora taglio con l'accetta perché vorrei seguire l'onda di una riflessione che si affaccia e dico semplicemente che i due "adulti" della situazione, Don Sirio e don Rolando, avevano ambedue, il primo in maniera speciale, la giovinezza di chi precorre i tempi.

...PER NOI CHE CI AFFACCIAVAMO ALLA VITA
Ma noi... era come bere la vita d'un fiato, o almeno così lo sento adesso. Pensate a sei giovani persone, nate più o meno nel periodo della guerra che sono stati bambini e poi adolescenti negli anni '50: due ragazze e quattro giovani preti, io e Mirella, Luigi, Mario e i "due Beppi", come li chiamavamo scherzosamente. Venivamo da ambienti sociologicamente diversi, ma guardando col senno di poi molte diversità si appiattiscono sullo sfondo di una identità comune: eravamo figli del nostro tempo. Di quegli anni Cinquanta inquadrati, regolati, dove per i giovani ogni cosa doveva essere al proprio posto, ogni domanda aveva una risposta prestabilita e non era pensabile uscire dai modelli imposti. Rispetto ai nostri coetanei avevamo un ostacolo in più che ci separava dal vivere la vita con la pienezza che oggi diamo a questo termine. Per me e Mirella c'era lo status di donne, eh sì, uscire dai ruoli era ben difficile per una ragazza di allora.
E quanto ai quattro giovani uomini il loro sesso non era un vantaggio, perché l'abito talare li tagliava fuori dalla possibilità di inventare la vita.
Eppure, se un'etichetta può essere data al periodo trascorso in quel di Bicchio, credo possa sintetizzarsi in: "pienezza di vita" In queste due parole sono racchiuse ed intrecciate convergenti, tutte legate alla vocazione cristiana e all'incarnazione che costituivano per noi, come dire, la chiave di volta dell'intero sistema. Il desiderio del cuore e della mente era proprio quello di essere dentro con quanto di duro, difficile, fedele, insieme innovativo e vecchio di duemila anni, ma anche fascinoso e simbolico è insito nell'incarnazione. Noi la intendevamo come fedeltà ai più poveri, ma quanto erano strettamente mescolate la vita cristiana e la giovinezza che danzava nei nostri cuori nell'aprirci a un vivere al di fuori degli schemi conosciuti, a un vivere che aveva il gusto ricco dell' avventura in territori sconosciuti!
I territori erano nuovi sicuramente per me e per chi come me veniva da una famiglia borghese (e di quegli anni!... ), si trattava di levare filtri, protezioni, anni di studiate maniere che distinguono e abbandonarsi a una verità interiore che ci permetteva di svelarci.
A cosa ci abbandonavamo così prepotentemente? Alla voce di Dio che avevamo scoperta, ognuno sulla propria via di Damasco e che ci proponeva di seguirlo senza mezzi termini.
Sapere che esisteva era per noi sufficiente ad avviarci senza voltarci indietro, l'inoltrarci in una dimensione dove era possibile incontrarlo divenne la ragione della nostra vita. Cosa chiedere d'altro con questa sicurezza nel cuore? Potevamo lasciarci alle spalle padre e madre, campi e partire.
Nel viaggio intrapreso vi era un altro richiamo forte all'abbandono: l'incontro con gli altri, che fatto di slanci, ma anche di difficoltà di relazioni, ci risucchiava verso quel centro gravitazionale che è l'incarnazione. Il mescolarsi, l'acquisire gusti, sapori, odori diversi. L'essere impastati lentamente insieme.
Dio e il mondo erano un unico polo di attrazione a cui mi sembra si intrecciasse l'abbandono della giovinezza che si affaccia alla vita e vive i propri ideali.
La particolarità della nostra esperienza, per lo meno della mia, è consistita nel dono di vivere, intorno ai vent'anni, un'utopia da toccare con mano, nella quali calarsi assaporandone appieno il gusto.
La vita povera, la scelta di classe, il mondo che sta in basso, la terra da coltivare, il fuoco delle forge nell'officina e quello del grande camino in cucina, tutto conduceva alla corporeità, appunto, all'incarnarsi, l'uscire dalle stelle ed entrare nella vita.

Maria Grazia Galimberti

Nuove alleanze per la dignità del lavoro

Alla fine dello scorso anno, si è tenuta a Pisa, promossa dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, una Conferenza Internazionale che ha visto intervenire 150 delegati di organizzazioni del lavoro e della solidarietà provenienti da 30 paesi del mondo. L'incontro è stato guidato da un'intuizione: le multinazionali, apparentemente indipendenti da ogni regola di mercato, insofferenti a ogni rivendicazione dei lavoratori per migliori condizioni di lavoro, di salari e di vita, insensibili a ogni vero bisogno dei consumatori e a norme di commercio più eque, possono essere condizionate nelle loro scelte, se consumatori del Nord e lavoratori del Sud sviluppano comuni strategie di solidarietà e di pressione.
A Pisa è stato posto un seme. Niente potrà essere più indifferente, neppure la sponsorizzazione della Nazionale di Calcio che oggi è garantita dalla Nike, di cui è stato mostrato l'incredibile e cinico sfruttamento dei lavoratori asiatici.

Noi, delegati del Sud e del Nord, in rappresentanza di organizzazioni sindacali, di associazioni per i diritti umani, di organizzazioni per la cooperazione internazionale, di associazioni del commercio equo e solidale, di associazioni di consumatori, di Chiese, di associazioni, per i diritti dei minori, di associazioni per i diritti delle donne, di associazioni ambientaliste, a conclusione dell'Incontro che abbiamo tenuto a Pisa l' 1-2- 3 ottobre 1995 sul tema "Nuove alleanze per la dignità del lavoro", dichiariamo:
1. Nel momento in cui l'economia mondiale si sta integrando sotto il dominio di grandi multinazionali che sfuggono a qualsiasi controllo e a qualsiasi regolamentazione sociale, riconosciamo l'urgenza di rinsaldare i legami fra forze sindacali e sociali del Sud, del Nord e dell'Est del mondo per riuscire a programmare azioni comuni in difesa dei fondamentali diritti umani, sociali, economici e ambientali che in tutto il mondo sono sempre più calpestati.
2. Riconosciamo che l'informazione e la possibilità di comunicare rapidamente sono due condizioni di fondo per poter costruire valide alleanze internazionali e per poter organizzare prontamente delle iniziative a difesa della dignità umana nell'ambito del lavoro. Per questo ci impegneremo per rafforzare i collegamenti fra le organizzazioni del Sud e del Nord e dell'Est, utilizzando tutti i mezzi possibili compresi quelli più moderni della telematica.
3. Mentre confermiamo l'insostituibilità della contrattazione collettiva e dello sciopero, ribadiamo la necessità di utilizzare anche altre forme di pressione sulle imprese come le campagne di lettere, le campagne di stampa, le azioni attraverso il consumo e il risparmio.
Riconosciamo che le campagne di consumo sono particolarmente efficaci perché provocano un danno economico alle imprese. Per questo ci impegneremo per fare aumentare la sensibilità sociale dei consumatori e dei lavoratori, per rafforzare le reti del commercio equo e solidale, per introdurre i marchi di garanzia sociale. Ma ci impegneremo anche ad approfondire altre forme più potenti di condizionamento delle imprese, come il boicottaggio, per capire come si possono utilizzare senza provocare effetti indesiderati sui lavoratori.
4. Pretendiamo che le multinazionali adottino codici di condotta completi e controllati democraticamente. Ribadiamo che i codici di condotta possono avere un impatto positivo solo se sono concordati con le forze sindacali e se le multinazionali si sottopongono al controllo di commissioni indipendenti formate da sindacati e altre organizzazioni non governative.
5. Riconosciamo che è fondamentale indurre i governi di tutto il mondo a garantire gli standard minimi di lavoro e ci impegneremo per trovare degli strumenti internazionali di natura istituzionale capaci di esercitare pressione sui governi inadempienti evitando tuttavia il rischio di sottoporre i paesi del Sud a forme di ricatti o di strumentalizzazioni da parte dei paesi del Nord.
6. Riconosciamo, infine che, mentre dobbiamo impegnarci nel quotidiano per difendere e ripristinare i fondamentali diritti lesi, nello stesso tempo dobbiamo impegnarci in un progetto più ampio per la costruzione di un nuovo modello economico che non veda più il commercio come un fine in se stesso, ma come un mezzo per garantire a tutti gli abitanti della terra una vita più dignitosa.



Missionari si interrogano

Ho letto con vero interesse e gioia l'intervento di P. Nello Ruffaldi: "Inculturazione: il nuovo volto della missione" su Inforpime (109 p. 3). Sono rimasto piacevolmente sorpreso che uno del Brasile abbia affrontato questo argomento che sembrerebbe un problema solo dell' Asia e dell' Africa, ma è invece, come P. Nello fa vedere, il cuore della missione. Accetto la sua proposta che "dobbiamo prendere posizione comunitariamente" sul problema della inculturazione. E' estremamente necessario che queste idee circolino all'interno dell'Istituto, perché vengano trasmesse a coloro che sono nella formazione: formatori e formandi.
Purtroppo se penso ai miei anni di seminario, anni '50, non ricordo di aver mai affrontato il problema dell'inculturazione (la parola allora non esisteva ancora), e non ricordo nessun professore che facesse distinzione tra evangelizzazione e proselitismo.

PROSELITISMO CONTRO EVANGELIZZAZIONE
Per noi missionari questa distinzione è un problema di vita o di morte, perché il proselitismo è condannato dal vangelo.
Che esiste questa distinzione io l'ho scoperto solo dopo essere venuto in India, leggendo Gandhi; ma ancora non son capace di dare una definizione che distingua le caratteristiche dell'uno e dell'altra. La distinzione in pratica se quello che fa o che ha fatto un missionario in particolare sia proselitismo od evangelizzazione, è ancora più difficile. Se vogliamo iniziare una ricerca su questa distinzione possiamo, almeno come tentativo, dire che evangelizzazione è presentare Gesù Cristo ed il suo messaggio in modo che persone e nazioni diventino seguaci di Cristo.
Proselitismo invece è fare seguaci per me stesso, per le mie idee (ideologia), per il mio partito (chiesa) o per il mio modo di fare (cultura).
La distinzione dipende quindi soprattutto dall'intenzione più che non dal metodo o dal risultato. Ma metodo e risultati possono rivelare l'intenzione. Bisogna anche dire che per me (e per chiunque) è impossibile presentare Gesù ed il suo Vangelo se non come l'ho capito io e come son capace di viverlo (cioè nella mia cultura). Qui sta il dilemma espresso da San Paolo con quella frase: "Siate miei imitatori tanto quanto io lo sono di Cristo". Il pericolo di fare proselitismo mentre si cerca di fare evangelizzazione è sempre presente, perché abbiamo sempre con noi il nostro egocentrismo. P. Nello ha riconosciuto che stava facendo proselitismo quando voleva imporre un certo tipo di religiosità ai suoi indios: li voleva far diventare come se stesso; "questo peccato tra i più gravi che ho commesso": cambiare il loro modo di fare, la loro cultura.

ACCULTURAZIONE
Bisogna però ammettere che quando due uomini s'incontrano, anche senza la presenza del Vangelo o l'intenzione di evangelizzare, avvengono degli aggiustamenti culturali.
Per esempio: dobbiamo stringerci la mano, abbracciarci o far solo l'inchino? Sono tutte espressioni culturali differenti. Chi si adatta all'altro fa una concessione culturale che gli Autori chiamano acculturazione. Secondo gli Autori (vedi Achiel Peelman, L'Inculturazione, Queriniana, 1993) "inculturazione" è un concetto ed un termine prettamente teologico; è solo il Verbo di Dio che si incarna e si incultura.
Il missionario e la Chiesa possono acculturarsi.
Questo non è solo un gioco di parole, ma porta alla conclusione che per inculturare bisogna "lasciar fare". Questo non significa che non dobbiamo far niente, ma che ci troviamo di fronte ad un "mistero" che sta avvenendo, che già è avvenuto, che possiamo anche aiutare, ma dobbiamo soprattutto scoprire e rispettare. Il nostro punto di partenza era la convinzione che noi cristiani, missionari, portiamo qualcosa agli altri, al mondo.
Questo qualcosa è il Cristo, il Vangelo, la salvezza. Per ora lasciamo da parte il termine "salvezza" (per recuperarlo dopo) perché dopo il Concilio Vaticano II sappiamo che la salvezza è data a tutti e che tutti possono salvarsi. Il problema è di definire che cosa intendiamo per salvezza.

FEDE E CIVILTÀ
L'idea che noi portiamo qualcosa ha giustificato per secoli l'esigenza che gli altri, coloro che ricevono, cambino, si adattino al nostro modo di capire il Cristo (teologia), di venerarlo (religione), di celebrare la sua morte e resurrezione (liturgia).
Fortunatamente al giorno d'oggi (dopo la fine del colonialismo politico) riconosciamo che gli altri non devono adattarsi al nostro modo di mangiare (carne e vino), alla nostra musica (anche quella religiosa o liturgica), alla nostra filosofia (tomista).
Purtroppo però le comunità cristiane nate negli ultimi secoli rappresentano tutt'oggi, in tutte le nazioni non cristiane, il gruppo più europeizzato per modo di vivere e di pensare. La presunzione era che tocca a loro adattarsi, acculturarsi a noi, perché inconsciamente la nostra cultura, (i nostri modi di fare) era considerata superiore. Fino al 1960 il missionario andava a portare "fede e civiltà" (come ben sintetizzava il titolo di una famosa rivista missionaria).
Poi ci siamo accorti che tocca a noi, ai cristiani acculturarsi. Ci siamo messi su questa strada di adattare noi e la nostra religione alle loro culture, ma senza sapere quanto adattarsi, fin dove adattarsi.

FINO A DOVE?
Ogni missionario può fare un elenco di tentativi di acculturazione.
Limitandoci ai tentativi nel campo liturgico in India, possiamo elencare: l'uso della lingua locale, celebrare seduti per terra, togliersi le scarpe per entrare in chiesa, uso di strumenti musicali e melodie locali, uso di vesti liturgiche differenti dalla pianeta e casula (si usa uno scialle arancione), uso dei bastoncini d'incenso, ecc. ecc... Non è mia intenzione di fare una lista completa, ma solo di mostrare che nel tentativo di fare una messa indiana a tavolino si è finito per privilegiare la tradizione braminica indu, dimenticando quella musulmana, quella dei dalit e quella dei tribali.
Queste culture minoritarie non sono solo differenti ma in contraddizione a quella indu braminica. Il colore arancione è attualmente identificato con l'induismo militante dei fondamentalisti. In una società divisa identificarsi con una parte significa inimicarsi l'altra.
Il processo d'inculturazione è pieno di problemi e di pericoli. Soprattutto se è fatto a tavolino nelle Commissioni liturgiche nazionali e non lasciato libero al singolo missionario sul campo. Allora si finirà per avere una dozzina di messe indiane e non una sola. Allora si finirà per perdere la "identità cristiana". Questo sta già succedendo in architettura: a prima vista non si capisce se un edificio è una chiesa cristiana o un tempio indu. Si dirà che l'architettura non è essenziale.
D'accordo, ma allora il problema è di definire l'essenziale.
Certamente stiamo entrando in un periodo in cui ci sembrerà di perdere l'identità e l'unità.
Il processo è iniziato con la rinuncia al latino come lingua liturgica, che dava veramente un'impressione d'unità. Un cattolico negli anni 50 si "sentiva a casa" in una qualsiasi chiesa cattolica, in qualsiasi paese del mondo. Dove andremo a finire con tutti questi tentativi d'inculturazione? Qual è lo scopo ultimo dell'inculturazione?
Di facilitare la conversione di tutto il mondo al cristianesimo occidentale? Per me il modo migliore per non spaventarsi è di percorrere la strada fino in fondo e di affrontare il problema da un altro punto di vista.


LE DIVERSE RELIGIONI RIMARRANNO SEMPRE
L'altro punto di vista è di capovolgere la situazione e di supporre che le religioni e i loro riti e le liturgie rimarranno sempre.
Per chi vive in Asia non è realistico pensare che Islam, Induismo, Buddismo e Confucianesimo abbiano a scomparire come avrebbe potuto desiderare qualche missionario d'inizio secolo.
Il problema potrebbe essere posto così: se un indu, un buddista ecc. incontra Cristo e crede in Lui, non potrebbe vivere la sua fede in Cristo all'interno della sua religione? Bisogna naturalmente fare distinzione tra Cristo e cristianesimo definito come religione dell'occidente. Convertirsi a Gesù non deve richiedere un cambiamento di religione. Gesù stesso non ha mai chiesto a nessuno di cambiare religione. Dopo aver guarito i dieci lebbrosi li mandò al tempio a compiere le loro pratiche religiose.
Naturalmente questo punto di partenza finirebbe per creare un numero imprecisato di cristiani anonimi e finirebbe per ignorare l'invito di Gesù ai suoi discepoli di riunirsi in una comunità di testimoni (la chiesa).
Dobbiamo certamente essere coscienti di questo pericolo; ma, io penso, che è un rischio necessario per rinnovare la Chiesa.
La Chiesa ha bisogno di fare un salto di qualità come al primo concilio di Gerusalemme con una decisione pratica, non dogmatica, di uscire dalla cerchia di Israele/Cristianesimo occidentale per identificarsi con le genti.
Per dialogare la Chiesa deve uscire da Roma come ha fatto il Papa che è andato ad Assisi.
I missionari del futuro dovranno identificarsi completamente con la religione del popolo a cui sono mandati, senza perdere la fede in Cristo e l'impegno a testimoniarlo. Dobbiamo uscire completamente dalla mentalità coloniale in cui le missioni sono vissute per cinquecento anni.
Il più grande ostacolo per l'inculturazione è il centralismo della Chiesa Cattolica Romana. Per permettere che l'inculturazione avvenga bisogna "lasciar fare" alle chiese locali così che possano esperimentare ed identificarsi con la cultura locale, assumere le espressioni religiose delle loro tradizioni e, per coloro che hanno tradizioni scritte, fare completamente uso delle loro Scritture.

"LASCIAR FARE"
Ora noi possiamo dire "Oh felix culpa" del colonialismo politico, economico e religioso che ha fondato la Chiesa in tutti i paesi; ma dobbiamo riconoscere che è stata una colpa e non possiamo più continuare a tenere le Chiese locali occidentalizzate, straniere nel loro paese, dobbiamo lasciarle libere di acculturarsi. Noi missionari potremmo fare come il seminatore evangelico che, dopo aver buttato il seme, andò a dormire ed il seme attecchì, germogliò e si sviluppò da solo. Oh meraviglia!!
Perlomeno dobbiamo essere coscienti che è il seme, il Vangelo, che deve inculturarsi, non la Chiesa occidentale che ha già una sua cultura.
E dobbiamo essere coscienti che i "semina Verbi" sono sempre stati presenti; quindi le diverse religioni, così come esistono, sono già al primo stadio d'inculturazione dei "semina Verbi" che non dobbiamo distruggere, che ora a contatto col Cristo storico devono ancora evolversi.
Dobbiamo fare come San Paolo che, ripensando la storia del popolo Ebreo (noi quello Indiano), ci scopre Cristo già presente: "Quella pietra era Cristo" esclama della roccia da cui bevevano durante l'Esodo (I Coro 10:4) e ci scopre anche il battesimo quando dice "tutti furono battezzati".
Così i cristiani indiani o cinesi, ecc. devono rileggere la loro storia o mitologia religiosa, i loro libri sacri, con simpatia ed amore per scoprirvi i semi di Cristo.
Questo lavoro non può essere fatto a Roma per tutti; Roma deve solo "lasciar fare" alle Chiese locali. Veramente! La missione appartiene ora alle Chiese locali.
Taloja, 11/4/95

Carlo Torriani

Semi di Resistenza

MEMORIA E OPPOSIZIONE
La collana di libri "Memoria e Opposizione" è il frutto di una collaborazione tra le BFS Edizioni - nate a Pisa in seno all'esperienza dell'omonima Biblioteca Franco Serantini fondata nel 1979 con lo scopo di ricordare la figura del giovane anarchico Serantini, assassinato dalla polizia nel maggio 1972 mentre si opponeva a un comizio fascista - l'Associazione Culturale P.Pontrandolfo e l'Istituto Storico della Resistenza di Lucca.
La collana è nata con l'intento di focalizzare l'attenzione di studiosi, ricercatori e militanti sulle storie di "vita vissuta", sul quotidiano visto dai subalterni, attraverso il recupero della memoria orale o delle fonti documentarie "povere" (diari, testimonianze, biografie di militanti di base, ecc.) in lotta perenne con una società che ha relegato proprio quella memoria al ruolo di inutile zavorra.
Associazione Culturale "Pierluca Pontrandolfo" - Piazza Napoleone, 32 - 55100 Lucca-
te1.0583/55540

LETTERE...
"Trovare il vostro giornalino è stato, per me, il Dono di Natale più bello mai avuto.
Forse sarebbe meglio dire che siete voi che vi siete "lasciati trovare", o almeno oso pensarlo.
E' come avere trovato una casa, un posto pieno zeppo di amici; tutto ciò è importante.
Trovo insieme finalmente le Purezze che amo: gli Spiriti Liberi, le Grandi Anime, i grandi provocatori che segano il basamento dei poteri occulti, sporchi, sanguinanti, che sono le grandi Triadi nemiche dell'Amore.
Personalmente credo di essere un "balordo", un "clochard", un insofferente ad ogni giogo, ma credo (o forse spero) di amare Dio attraverso l'Uomo.
Mi ritengo fortunato di vivere questa vita come una ''mina vagante", pronta a mordere il tallone di questa società che da schifosa può trovare spunti di aggregazione così vitali.
Grazie, X
dicembre 1955"

UNA GUERRA CHE DURA DA 20 ANNI
Il latte materno è nato con l'umanità e ne ha permesso lo sviluppo. Ma da quando è stato introdotto il latte in polvere, la propaganda delle compagnie produttrici ha indotto sempre più ad abbandonare l'allattamento al seno, con conseguenze spesso mortali nei paesi poveri. E' il motivo del BOICOTTAGGIO organizzato in tutto il mondo CONTRO LA NESTLE'.
L'Italia arriva tardi al boicottaggio. E' solo nell'ottobre del 1994 che un convegno a Milano pone le basi per una organizzazione nazionale. Il Movimento Nonviolento, il MIR, Mani Tese, lo SCI, Pax Christi, il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, la CTM ed altre associazioni discutono su come coordinare le iniziative che si stanno realizzando partendo dalla spontaneità di molte istanze locali.
N asce così la Rete Italiana Boicottaggio Nestlé (RIBN), associata alla rete internazionale.
Segreteria nazionale della RIBN - c/o MIRMovimento Nonviolento - via Macchi, 12 - 21100 Varese - te1.0332/310092
fax 0332/238281



"Noi siamo Chiesa"

In Austria, Belgio, Francia e Germania donne e uomini cattolici hanno già espresso il loro disagio e la loro sofferenza perché le speranze aperte nella chiesa dal Vaticano Il sono andate in gran parte deluse a causa del tentativo di imprigionarne lo spirito rinnovatore. Proprio per attuare il Concilio, per essere più fedeli al Vangelo nella Chiesa e nella società e per favorire la riconciliazione ecumenica con le altre Chiese, anche noi, sulla scia aperta dalle nostre sorelle e dai nostri fratelli, lanciamo questo appello chiedendo di appoggiarlo con una firma che diventi segno dell'impegno personale per il rinnovamento ecclesiale, in obbedienza al messaggio liberante di Gesù:
1. "Ciò che riguarda tutti, da tutti deve essere approvato".
Questo antico principio ecclesiale è disatteso. Perciò noi chiediamo:
_ l'istituzione di strutture di comunicazione e di dialogo permanenti, a livello diocesano, nazionale ed internazionale, dove le varie componenti del popolo di Dio, senza preclusioni, possano discutere, in libertà e in ascolto della Parola del Signore, tutti i problemi che riguardano la Chiesa;
_ il reale coinvolgimento di ogni Chiesa locale (diocesi) nella scelta del proprio vescovo.
2. "Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. (Mt. 23, 8).
Alla luce di questo annuncio chiediamo:
_ il superamento della separazione strutturale tra "chierici" e "laici" per una corresponsabilità
nella Chiesa;
_ un aperto confronto sulla Sacra Scrittura per raggiungere la piena partecipazione delle donne ai ministeri ecclesiali.
3. "Voi siete il Popolo di Dio" (I Pt 2,10).
In questa prospettiva:
_ si riconosca alle comunità il diritto a celebrare l'eucaristia e ad animare la propria fede in una pluralità non delimitata da regole e canoni storicamente condizionati;
_ si valorizzi il celibato per il Regno di Dio, lasciando ai preti la libertà di scelta, dato che il vincolo tra ministero sacerdotale e celibato imposto dall'attuale legge ecclesiastica non ha fondamento né biblico né dogmatico.
4. "Siate misericordiosi come lo è il Padre vostro". (Le 6,36).
In coerenza con questo invito, che privilegia accoglienza e rispetto piuttosto che emarginazione e giudizio, ci sembra giusto:
_ rivedere la prassi e le norme che escludono i divorziati risposati dall'eucaristia;
_ restituire al servizio della comunità i preti sposati che lo desiderano.
5. "Maschio e femmina Dio li creò. E vide che era cosa buona". (Gen 1,27- 31).
Questo giudizio sulla creazione fonda una valutazione positiva della sessualità come dono di Dio a ogni persona e il primato dell'amore sulla "legge naturale". Da ciò ci pare legittimo derivare, tra l'altro:
_ la rivendicazione della libertà di coscienza nel campo della regolazione delle nascite;
_ il superamento di ogni discriminazione nei confronti delle persone omosessuali.
6. "Avevo fame e mi avete dato da mangiare" (Mt 25, 35).
La fedeltà al Vangelo richiede un coerente impegno della Chiesa cattolica, ad ogni livello, per lavorare - in fraternità ecumenica con tutte le Chiese - per la pace, la, giustizia e la salvaguardia del creato, dando in questi campi un contributo concreto come Chiesa umile, povera e pellegrina, a fianco degli emarginati, degli oppressi e di chi lotta per un mondo umano e solidale.
6 gennaio 1996, Epifania del Signore.

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