LOTTA COME AMORE: LcA marzo 1996

La vita sempre nascente

Avremmo voluto essere più solleciti nel preparare e spedire questo primo numero del 1996, ma spesso i giorni rotolano l'uno dopo l'altro in rapida successione... e noi rotoliam con essi!
Non stiamo cercando scuse per la semplice ragione che non crediamo di dovere delle scuse a nessuno. E' solo constatazione di quanto la vita si impossessa di noi, fino a trascinarci letteralmente via, oltre ogni impegno di calendario.
Succede; se non a tutti, almeno a tanti. E' umano, è comprensibile..., ma non dovevamo evitare di scusarci?
Vogliamo allora lamentarci per le tante, troppe cose da fare?
No, non è giusto.
Sarebbe come dire che sappiamo bene quali sono le cose importanti da fare: solo, un nugolo di altre meno importanti, ce lo impedirebbe!
Non funziona, vero?
Tante volte non sappiamo davvero quali siano le cose veramente più (!) importanti.
Più importanti per chi? e per che?
E così ci lasciamo inghiottire dal tempo che passa.
La vita ci viene incontro e ci porta con sé. Non è né buona né cattiva la vita: è energia, é messaggio potente che cerca di sollevarci dalle nicchie della nostra supposta onnipotenza. Per consegnarci - se lo consentiamo - alle strade che portano verso quello che siamo realmente. Siamo noi ad essere buoni o cattivi viaggiatori, e non per le intenzioni che portiamo nel cuore e nell'anima, ma per l'attenzione e la cura che poniamo nel seguire i sottili fili di arianna che svolgono e compiono i cammini del nostro vivere. Fili diversi che si intrecciano e si dipartono continuamente in un andirivieni che può essere giudicato il sintomo di una solitudine esistenziale insuperabile. Ma può essere anche il punto di partenza della ricerca di cammini comuni, o meglio comunicabili nella loro direzione. Un senso della vita umana che non è il prodotto della nostra decisionalità, ma il frutto dello spirito di accoglienza.
La ricerca di questo senso ci riporta agli inizi della vita umana, al mito biblico dell'albero del bene e del male. Alla resistenza che dobbiamo opporre a ciò che determina l'eterna tentazione: mangiare i frutti proibiti per essere come dio. E cioè conoscere il bene e il male per poter giocare l'onnipotenza di ogni possibile cammino di vita, nel bene appunto, come nel male, senza affondare nell'incertezza, nel dubbio e quindi nella ricerca, nella fiducia, nella confidenza, nella necessità di essere almeno sfiorati dalla mano di qualcuno come noi, quando si nasce come quando si muore. Senza, cioè, essere umani.
La ricerca di senso ci riporta ai miti delle origini anche per quanto riguarda il nodo delle umane differenze. Entrati da sempre nell'imbuto della contrapposizione, che utilizza la differenza come discarica di eterni sensi di colpa, non sappiamo come uscirne salvo che nelle rigide gerarchie dettate da lotte di potere e nella susseguente determinazione dei ruoli dei più "forti" e dei destini subalterni dei più "deboli". Uomini e donne, bianchi e neri, ricchi e poveri, cavalli di razza e umili asinelli da soma... Condotti per mano dalla dura esperienza del limite e dal bisogno sempre risorgente di completezza, possiamo scoprire un itinerario diverso che non ci spinge come gente impazzita a calpestarci vicendevolmente per raggiungere una improbabile uscita. Una direzione opposta che non costringe, ma dilata l'unicità di ciascuno e, nello stesso tempo, la diluisce e la ricrea nell'incontro e nella interazione.
Un viaggio che non si svolge attraverso le autostrade di facili sentimentalismi di amori universali e intenzionali pacificazioni indolori, i cui pedaggi sono pagati in "sudore e sangue" sempre dai soliti ignoti.
Vogliamo provare ad uscire dai binari della supposta normalità che ci immobilizza al centro dell' attenzione di tutti coloro che non sono come noi, per guardarci un po' intorno? O forse sarebbe più giusto dire: per guardarci dentro? No, così siamo ricacciati negli spazi interessanti, ma ugualmente circoscritti dell'introspezione. Vogliamo affrontare l'avventura? Allora, piuttosto, guardiamo dentro, immergiamoci nella sbriciolatura del quotidiano...
Non si vede niente! Niente di più o di meno di quello che già sappiamo o per averlo sentito dire o per averlo sperimentato: la vita è una mescolanza di gioie e di dolori, un mare a volte sonnacchioso a volte in preda a burrasche terribili. E' già miracolo se riusciamo a tenere la barca pari e galleggiante, a mantenere vivo il desiderio della quiete di un porto.
La rotta non è nelle nostre mani: è affidata al mistero che sottostà all'infuriare minaccioso dei venti e alloro improvviso calmarsi.
Nel frattempo ci industriamo a cercare un minimo di riparo nella tempesta; a rimettere in sesto la barca e a renderla più vivibile nei momenti di bonaccia. A volte riusciamo anche a far festa...!
Poi ci guardiamo indietro e lo scorgere la breve scia della nostra barca che subito scompare ci mette dentro una gran voglia di piangere il nostro destino. Le lacrime gonfiano gli occhi e chiudono la gola.
Nebbia fittissima. E allora un desiderio impazzito d'evasione; oppure il rinchiudersi in stanze ben riscaldate, illuminate e sbarrate dal di dentro perché la nebbia non le contamini. Quante volte il bisogno religioso nasce dalla volontà di difendersi dalla vita e non è tanto l'amico che ci introduce e ci accompagna, quanto il catenaccio che usiamo per difenderci dalle nostre angosce e paure?
Guardiamo dentro la vita con gli occhi del cuore! Sono come i fari fendinebbia: devono essere più vicino possibile al suolo; più appiattiti possibile alla realtà quotidiana, così com' è. Amata e raccolta per quella che. è. Non cercano come i fari normali di abbagliare la nebbia di prepotenza, ma la scalzano dal basso e le tolgono il potere di nascondere la strada, la traccia su camminare. Cercano con umile, ma decisa pazienza di rintracciare il senso, la direzione, su questa terra e verso il cielo. E in questo frugare nella nebbia consentono alla strada di rivelarsi, di apparire. Non vogliono "vedere". Vogliono che la strada si mostri: seguirla. Non vogliono determinare il senso della vita, ma che la vita scopra noi e a noi si doni nella pienezza del suo significato.
Gli occhi del cuore sono quelli che spingono a raccontare di noi agli altri e a noi gli altri in un intreccio di serene e limpide complicità, laddove si scopre che sotto la nebbia della superficie delle cose si svolge una trama di fili e di colori che nella loro diversità forme di impensabile armonia.
Gli occhi del cuore consentono alla vita di svelarsi tale e non come l'inizio inevitabile della morte. Il della nostra esistenza viene dipanato dalla mano della vita-sempre-nascente la cui forza è nell'affidarsi in tutta la sua fragilità all'incontro e all'accoglienza.
Anche solo quella di un pugnello di persone che non si abbandona alle parole, ma lascia che immagini e sogni si incontrino e cerchino la traccia di un cammino vitale sotto la nebbiosa e impenetrabile coltre che ci consegna all'indicibile non senso del morire.

La Redazione

La posta di fratel Arturo

E' morto Emmanuel Levinas, il grande filosofo, il mio filosofo.
Vi confesso che nei primi anni dell' America Latina (1959-1962/63) nel trapasso dall'Italia all'Argentina e al chaco argentino (la macchia) ho provato nella mia carne, quello che i francesi chiamano "le déracinement", lo sradicamento, strappare una pianta dalle sue radici. Non risentivo nostalgia delle nostre chiese o dei nostri musei, ma sentivo la sofferenza di perdere a poco a poco quegli strati di conoscenza che avevo accumulato negli anni con la mia tenace fedeltà allo studio. Immaginate uno che ha fra le braccia un mucchio di fogli che ha scritto di sua mano in lunghi mesi e anni, e un vento furioso glieli porta via uno a uno e il povero scrittore li rincorre inutilmente ... se ne vanno. E in quegli anni mi aiutò a rimanere in piedi la preghiera e Emmanuel Levinas che incontravo con la mediazione del mio amico Enrique Dussel, in seguito attraverso la lettura diretta dei suoi testi.
Forse non lo avrei capito così a fondo se non lo avessi letto di ritorno da una visita alla favela e dopo aver accolto tutta l'amarezza di un giovane disoccupato o di una donna che avrebbe bisogno solo di un po' di latte per i suoi bambini. Quante volte vengono alla mia casa donne che rassomigliano a quella del racconto di Elia: "Ti assicuro che non ho più pane! Ho soltanto un pugno di farina e un po' d'olio... mangeremo e poi non ci resta che morire" (I Re, 17,12).
Il Vangelo mi aveva insegnato che se volevo incontrare il Cristo che avevo promesso di seguire, non c'era altro scampo che andarlo a trovare nei poveri, ma restava in me come una mutilazione che in fondo cerava una disarmonia, una incoerenza, e Levinas mi aiutava a ricompormi in unità: l'unità della persona che ero stato e quella che volevo essere ora fra i poveri.
Se dovessi definire Emmanuel Levinas in poche parole, direi che è il filosofo che ha portato alla dignità della ragione umana, del più alto esercizio della ragione umana, la responsabilità verso il fratello oppresso.
Spiegarmi di più mi porterebbe molto lontano. Ci sono delle frasi di Lévinas che ho trascritto nel mio "breviario dell'anima" (cioè lo scritto che non si fa vedere): "Il Bene mi ama prima che io lo ami; gli obbedisco prima di ricevere il suo ordine"; "Il volto dell'altro è ciò che rompe (o distrugge) la violenza intesa, non come pulsione a uccidere, ma come indifferenza... come noncuranza, come egoismo". Non si uccide solo con le armi, ma con questo rifiuto della responsabilità che per Lévinas è parte essenziale dell'essere umano.
"Se la filosofia vuol comprendere l'umanità - l'umanesimo dell'uomo - deve senza vergogna e senza enfasi, mettersi al servizio di questo mistero, l'Altro, di questo miracolo, l'amore, e attendersi solo la generosità dello Stesso verso l'Altro e l'ingratitudine dell' Altro verso lo Stesso" ha scritto. E ancora: "La santità non consiste nelle privazioni, ma nella certezza che bisogna lasciare all'altro in tutto il primo posto a cominciare dal dare il passo quando si deve passare da una porta, fino a, se possibile - la santità ce lo richiede - di morire per l'altro". Sottolineo le parole "senza vergogna" perché trovo in Repubblica del 24/12/95 un discorso di Scalfari fortemente "etico"; parla di un "prorompere in tutti i campi di un egoismo dimentico dell' altro, narcisistico, monologante... Le cause di questa crisi dell'umanità vanno ricercate nell'invidia per la condizione altrui, nell'avarizia che non vuole mettere in comune nulla del proprio, nell'esibizione della forza come mezzo risolutivo dei problemi suscitati dalla convivenza" .
Scalfari si scusa di dover fare questo sermone.
E anche Lévinas si scusa spesso; non vuole essere preso per cristiano.
Li capisco perfettamente, perché nell'ambiente cattolico è sempre esistito sotto forma di zelo (e non lo è!) la mania di ricuperare e assimilare le persone: Ma tu sei già cattolico, ti manca solo l'andare a messa. E non è vero; è bene che certe scoperte restino nel campo laico, che non siano fatte nostre perché il nostro passato non offre nessuna garanzia: il discorso della montagna è stato interpretato come uno stato che raggiungono solo coloro che hanno il privilegio di dedicarsi alla contemplazione.
Il discorso escatologico del cap.25 del Vangelo di Matteo è interpretato come un invito all'elemosina; a nessun filosofo cattolico è venuto in mente il vigoroso discorso dell' Altro, e di dargli una dignità filosofica come ha fatto Lévinas. E la filosofia cattolica si è trastullata per secoli contemplando un ente astratto "ingrave" come dice il poeta Machado, cioè esente dalla legge di gravità, senza mai assumere tutta la malizia della storia e farsene responsabile. Pare che siamo entrati nell'epoca in cui i filosofi non si vergogneranno di parlare di etica, anche se le parole appariranno "religiose".
E Lévinas ha aperto il cammino.
Ecco perché sono diventato capace di ammirazione di certi segni che vedo apparire nella persona, più che nella cappella Sistina o in una suonata di Beethoven.
Mi accorgo che delle apparizioni grandiose del genio, posso fare a meno. Ma di altre che appaiono nascoste nella quotidianità non posso fare a meno, perché fanno parte del mio ritmo spirituale. Come quando vado nella selva degli indios e li vedo chini sui banchi fatti di stecchi uniti insieme a disegnare, a scrivere, a leggere, mentre i "grandi" tramano di scacciarli di lì come avvenne nei tempi raccontati nel film Mission. Come quando Joao si scoraggia e decide di abbandonare una terra bruciata dal sole che non dà nulla, e la sua donna Lorenì, superando le sue abitudini domestiche, lascia la casa, si mette al suo fianco e "lavoriamo insieme!". Da quel giorno la terra ha promesso che fiorirà.
Vi assicuro che non c'è spettacolo più affascinante di queste apparizioni della vera essenza dell'uomo, quasi sempre soffocata da immagini che la società consumista e violenta impone all'uomo.
Rivedo i vostri volti e sorrido, desiderando che i vostri occhi siano capaci di vedere oltre la realtà che vi circonda.

vostro fratello Arturo


Gli sciabigotti

Non so se gli amici-lettori del nostro giornalino si sono mai soffermati a guardare con particolare attenzione le figure di quegli uomini tesi nello sforzo di trattenere una robusta corda che il primo della fila raccoglie accuratamente ai propri piedi: sono i silenziosi compagni che da tanto tempo costituiscono il simbolo di queste nostre umili pagine nelle quali cerchiamo di riversare qualcosa di ciò che attraversa l'anima, la mente, il cuore. Da tanto tempo volevo soffermarmi un momento a fare qualche considerazione partendo da quelle figure che sono state ritagliate nel legno con mano davvero capace ed intuizione creativa da un artigiano-artista vissuto proprio qui in Darsena. Il piccolo spazio dell'intaglio raccoglie in modo molto efficace ed espressivo lo sforzo dei pescatori più poveri che un tempo cercavano di guadagnarsi da vivere lanciando a poche decine metri dalla spiaggia la "sciabica", che poi essere riportata a riva dalla forza delle braccia di chi ogni volta sperava di trovare nella rete un po' di buon pesce da vendere al mercato. Pescatori poveri, che possedevano una barchetta, una rete, tanta forza di braccia e di gambe, tanta speranza che il grande campo del mare avesse sempre qualcosa di buono anche loro. Pescatori di "sciabica", chiamati popolarmente "sciabigotti", termine che poi nell'uso comune ha finito per essere sinonimo "poveracci", sciagurati, gente di poco conto, ultimi del carro... Sono particolarmente affezionato, da sempre, a questi uomini ritratti momento del massimo sforzo per recuperare lo strumento del proprio sostentamento e che non sanno ancora che cosa ci sarà nella rete: l'importante è tirare con decisione, con ritmo, insieme, senza lasciarsi prendere né da sgomento né da incertezze. I loro corpi protesi nell'intensità dello sforzo fisico lasciano trasparire anche ciò che attraversa le loro anime di creature sottoposte alla dura necessità della quotidiana ricerca necessario per vivere. Sono figure che richiamano alla memoria intere generazioni di uomini e donne, di bambini e bambine che si sono consumati nella fatica e nell'incessante logoramento del lavoro manuale in ogni angolo della terra. Sono figure di un tempo passato, ma anche di un drammatico presente fatto di milioni di persone che a tutte le latitudini ogni giorno si tendono nello sforzo richiesto dalla dura necessità della vita e si consumano in un "sacrificio" degno del più grande rispetto e della più totale accoglienza. Gli "sciabigotti" mi sono altrettanto cari per quella realtà "simbolica" che, almeno per me, sento particolarmente vicina al mio vivere d'ogni giorno, ai sentimenti che accompagnano il cammino, alle sensazioni profonde che avverto e che mi fanno sentire molto vicino a loro. Mi sono molto cari anche perché, quasi inevitabilmente, essi richiamano alla mia memoria altri "sciabigotti'' delle pagine evangeliche, che dopo aver tentato per tutta una notte di catturare un po' di pesce ritornano stanchi e delusi verso terra, senza "aver preso niente". Il racconto evangelico di questo episodio è carico di un forte sentimento di partecipazione da parte di Gesù che sembra essere quasi commosso da questa fatica andata a vuoto ed invita gli amici a ritentare ancora una volta. Anch'io mi sento molto dentro questo modo di vivere ritmato dal quotidiano e mi ritrovo ben "interpretato" dall'immagine scarna degli amici sciabigotti della scultura riportata sul giornalino perché in essi mi sembra di vedere molto bene espressa un'immagine della vita molto aderente alla realtà ed alla verità delle cose. Quei corpi protesi nello sforzo, le mani decisamente attaccate alla corda che porta con sé la speranza del pane quotidiano, i piedi saldamente puntati dentro la sabbia, mi parlano di una condizione di vita legata alla normale necessità di un'esistenza che cerca l'essenziale, quasi uno stile "francescano" con cui affrontare ed accogliere il peso d'ogni giorno, una semplicità di vivere dentro la grande, inevitabile complessità dei rapporti e delle vicende. Nello stesso tempo, nella loro spoglia dignità di creature umane legate tra di loro da un comune destino, gli "sciabigotti" sono per me segno di una speranza incessante, di una fiducia che non demorde, di una resistenza che non si lascia fiaccare dalle delusioni di una rete vuota, dopo tanta fatica e tanto sudore: tutto questo non per un rifiuto di guardare in faccia la verità, ma per una segreta, istintiva necessità di tenere lo sguardo fisso oltre la linea dell'orizzonte... L'importante - questo mi pare che essi mi sussurrino - è lanciare la piccola rete che ciascuno porta sulla barchetta della propria umana esistenza; lanciarla con fiducia, con accorta saggezza, con tenace impegno nel vasto mare della vita, anche se ci è dato di sondarne soltanto una piccolissima parte, come chi è costretto a rimanere ancorato alla riva, con la corda della rete fra le mani segnate dal vento e dalla salsedine. Essere insieme in questo sforzo che si ripete ad ogni sorgere del sole, mani che si stringono in uno sforzo comune, nella serena consapevolezza che ogni goccia di sudore, ogni moto autentico del cuore, ogni ricerca di comunione sincera, per quanto piccola possa essere, lascia un'impronta sulla sabbia dell'esistenza e può segnare una crescita di tutte quelle cose che rendono buona la vita. Essi, gli "sciabigotti", rimangono sempre una piccolissima realtà di fronte all'immensità del mare: ma "rimangono" e le loro mani ripetono il gesto della necessaria speranza e della fiducia umile e tenace di cui, forse, soltanto loro conoscono il profondo segreto. Nel brano del vangelo di Giovanni a cui facevo riferimento poche righe sopra e che è posto quasi al termine del suo scritto, c'è un elemento pieno di infinita poesia e di intensa comunione, un "segno" tenue e nello stesso tempo immensamente carico di speranza: quando gli "sciabigotti" che non hanno preso niente toccano terra con uno straordinario carico di pesci trovano un fuoco acceso e del buon pesce alla brace e del pane. Nessuno chiede niente e tutti "sanno" come stanno realmente le cose: non c'è da fare altro che sedersi tranquillamente e fare insieme una buona colazione.
don Beppe

Pretioperai: cosa fare?

L'8 dicembre scorso, sono stato invitato a portare il saluto dei preti operai alle Comunità di Base riunite a Tirrenia per il loro Convegno nazionale che aveva come tema "In principio era la coscienza. Libertà e responsabilità di fronte alle sfide etiche del nostro tempo":
Un saluto non formale da parte dei pretioperai italiani. E da parte della piccolissima Comunità del Porto di Viareggio.
Un'assemblea, questa, che vuole essere prima di tutto un intreccio di vissuti e, come viene asserito nel programma, un momento forte della socializzazione intercomunitaria e della visibilità. La nostra visibilità di pretioperai, a livello ecclesiale e sociale, è scomparsa ormai da anni. Un gruppo che si ritrova e arriva appena a superare le 50 persone. Di età, ormai!
Nei coordinamenti europei che si succedono di anno in anno, vediamo inevitabilmente diminuire il nostro numero. Fenomeno parallelo alla diminuzione dei ministri ordinati, al loro invecchiamento, in consonanza al fenomeno globale dell' invecchiamento della popolazione in Europa. Non abbiamo difficoltà a dire che la nostra consapevolezza oscilla tra una sensazione di lutto, di disconferma della nostra scelta e la fondamentale serenità di chi accoglie il proprio limite.
Come gruppo di pretioperai italiani ci troviamo ad un bivio e lo vivremo nel prossimo convegno nazionale del 25/27 aprile 1996 - sempre a Salsomaggiore -, dove, partendo dalla comunicazione dei percorsi personali, cercheremo di far emergere o che la dimensione collettiva nazionale è una risorsa importante per i singoli pretioperai e per i gruppi "regionali", oppure che rappresenta un atto storico superato.
Siamo quindi impegnati in questi mesi nel fare un bilancio della nostra esperienza. E nel cercare di capire se da questo bilancio si possono trovare insieme temi, nodi, energie, strategie per rilanciare una significatività interna ed esterna. Oppure no.
Siamo d'altro canto consapevoli che, come dice Bonhoeffer, se anche il Regno di Dio venisse domani, fino a domani occorre operare; non fermarsi prima: "può darsi che domani spunti l'alba dell'ultimo giorno: allora, non prima, interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore".
La scommessa che stiamo vivendo e per la cerchiamo di attivare le migliori complicità tra di noi è essenzialmente quella di far diventare scelta libera quello che è, allo stato dei fatti, declinio. Ma cosa, più esattamente, vogliamo fare?
La nostra vicenda personale e di gruppo è decollata in un momento storico nel quale agivano due componenti credibili e seducenti: spinta del concilio al rinnovamento della Chiesa e del cattolicesimo in Italia e nel mondo; la forza organizzata del movimento operaio, italiano e internazionale, quale soggetto antagonista al potere capitalistico.
La maggior parte di noi ha giocato la sua vita aderendo profondamente a queste due spinte, sul fronte politico e su quello di una fede pratica. Oggi, sul fronte della lotta al capitalismo ci troviamo in una situazione di resa incondizionata. Mancano la forza, l'organizzazione e il quadro teorico per una lotta efficace. Sul fronte del rinnovamento della chiesa, da un lato c'è stato un raffreddamento della corrente innovatrice e una riproposizione della chiesa come forza sociale e politica; dall'altro constatiamo sia l'emergere di forme di vita cristiana, ad esempio nei paesi terzo mondo, sia la persistenza del processo di secolarizzazione, in occidente, nonostante la visibilità dei media nel "religioso".
La memoria non può continuare ad essere semplice rievocazione di come eravamo. O c'è una cesura con la spinta iniziale, oppure la memoria deve divenire attiva, capace di alimentare presente e futuro.
Spingendoci a reagire e non a subire passivamente gli eventi. Ricercando modalità di vita significativa e resistendo alla tentazione di vivere sotto un destino anonimo nei confronti del quale è possibile solo pensare la fuoriuscita personale.
Aiutandoci a dotarci di un quadro mentale d'interpretazione di questa realtà che apra prospettive di cambiamento.
Vogliamo quindi cercare di calare queste tre direttrici di ricerca nella fluidità quotidiana della memoria viva:
l. L'unità fede-vita, emersa come indicazione decisiva del concilio, è una sfida ancora attuale oppure ci adeguiamo al ritorno agli "spazi religiosi", perché riteniamo che solo lì il cristianesimo possa trovare forma?
2. I diseredati, gli sconfitti, gli impoveriti rappresentano ancora per noi un punto di riferimento necessario, nonostante la sconfitta del movimento, per una elaborazione di una prassi politica nella quotidianità?
3. Rispetto alle grandi speranze storiche, che valore ha il tenerle vive e praticarle nella nostra zolla di terra?
Su queste domande vogliamo organizzare ancora a Salsomaggiore nella grande casa dei Francescani il convegno del 25-27 aprile '96 sul tema:
"MEMORIA PER UNA PROSPETTIVA"
"Non cercare grandi cose per te. Io ti darò come bottino la tua vita" (Ger.45)

Luigi

Sul filo dei giorni

Il 7 dicembre sono arrivato a Milano per partecipare all'incontro in memoria di Mario Cuminetti, morto un mese prima consumato, ma mai vinto, da una lunga malattia.
Scrittore, teologo, animatore culturale, al centro di tutto quel gruppo che nel corso dei decenni del Concilio - prima, durante e dopo - ha cercato di collegare insieme il rinnovamento della chiesa con quello della società. Davanti alla "sua" libreria di via Tadino, dove l'ho incontrato negli ultimi tempi, i suoi amici della Nuova Corsia si sono raccolti in una memoria viva di lui e dell'interrogativo ultimo e forte che Mario si poneva: come riabitare la città in un tempo in cui il disadattamento sociale ci lascia soli e impauriti di fronte a processi di cambiamento che richiederebbero invece il massimo di socialità e di solidarietà?
Un richiamo al coraggio e alla speranza di poter abitare la terra e vivere l'umanità percorrendo i sentieri della convivenza quotidiana, ancora insieme a lui.

Pochi giorni prima ci siamo trovati nella sala di rappresentanza del Comune di Viareggio per la premiazione del l° Premio Nazionale intitolato a don Sirio ricordato in modo vivo da Massimo Bandini, presidente del Circolo Ricreativo Operaio delle Darsene che ha indetto il Premio, e dalla parola amica di mons. Bettazzi quale presidente della Giuria. Una sessantina le opere pervenute sulla tematica della lotta come amore e il premio è andato ad una tesi di laurea sul tema della pace negli scritti di Padre Balducci.
Una targa artistica è stata consegnata a Franca Fabris per il Villaggio Neve Shalom - Wahat as Salam in lotta non violenta da anni per mostrare la strada di una possibile convivenza tra arabi ed ebrei in Israele.

"Siamo solamente gente che cerca la verità in un dialogo paziente, chiaro, libero, con quanti sono disposti a entrare senza orgogli e settarismi in tale esperienza; un piccolo gruppo di amici che cerca il volto di Dio e il volto dell'uomo, sul crinale difficile e scivolo so del rapporto tra fede e storia, nella speranza che il Vangelo ispiri la vita".
Con queste parole gli amici de Il Gallo, la rivista di Genova (Galleria Mazzini 7/9, tel.0l0/592819) iniziata alla fine della guerra da Nando Fabro e sostenuta dalla vita di Kety Canevaro, ha invitato gli amici a brindare insieme in occasione del 500 Anniversario della Rivista.


Sinodi e utopia nella Chiesa

Nel documento per la riflessione in preparazione del Sinodo della diocesi di Lucca, alla pag.61/62 del punto 3.3 dedicato a "l Presbiteri", viene ricordato anche don Sirio. Ce lo aveva anticipato il Vescovo venuto per la Cresima alla parrocchia del Porto. Riportiamo il testo dell' intero paragrafo:
"Il cammino alla santità presbiterale rimane esemplato nella Chiesa di Lucca, dalle figure di S. Giovanni Leonardi e, in tempi a noi prossimo, di S. Antonio Maria Pucci, il Curatino di Viareggio, ma anche da figure emblematiche per il loro tempo come Stefano Antoni, il Padre Giuseppe Marchetti, don Aldo Mei, Mons.Guglielmo Giannotti, sapiente Direttore Spirituale di intere generazioni di Preti. Vogliamo altresì ricordare due sacerdoti vissuti fino a questi ultimi anni: don Franco Baroni e don Sirio Politi. Don Franco, condivise il ministero di parroco, in piccole parrocchie, con la passione apostolica che lo spinse a girare le piazze d'Italia al seguito dei giostrai e dei Luna Park. Fu un girovago del Vangelo come lo definì Mons. Agresti nell' omelia della messa esequiale. Provato, negli ultimi tempi, dal male che lo consumò, visse il tempo della malattia in continuità con la sua passione apostolica.
Don Sirio Politi, negli anni '50, con il consenso dell' arcivescovo Mons.Antonio Torrini, abbandonò la parrocchia di Bargecchia per andare a vivere in una 'casupola' del porto di Viareggio che divenne poi la Chiesetta del Porto. Fu il primo dei preti operai italiani. Lo stile della sua vita, ispirata a quella dei Piccoli Fratelli di Carlo de Foucauld, non fu compresa dai più e visse i primi dieci anni di questa sua scelta apostolica e missionaria, nella solitudine, condividendo la vita degli operai, in quel tempo soggiogati dall'ideologia marxista e per lo più militanti nelle file del partito comunista, del tutto estranei e ostili alla Chiesa. Don Sirio, al quale non mancarono punte polemiche e scelte in quel tempo ritenute dirompenti, fu un prete innamorato di Gesù e del Vangelo, fu un uomo di preghiera. Questo lo sorresse anche nel tempo della malattia che fu il compimento di una vita interamente donata al Signore e alla Chiesa.
Tutti costoro, in forme e tempi diversi, costituiscono un dono ed una chiamata del Signore al nostro Presbiterio ed alla nostra Chiesa di Lucca".
A questo ricordo di Sirio, osiamo aggiungere una paginetta scritta da lui, già duramente colpito dalla malattia. Si parla di preti e di laici, di un Sinodo, di una ricerca di vita e di un racconto. Perché sia possibile ancora oggi un confronto e, attraverso il confronto, una sinodalità. E cioè un'armonia di diversità e non la monotonia della riduzione ad un unico modo di leggere la vita...

"Per noi, ma non sto qui a chiarire chi siamo questi noi, pensare, riflettere, lavorare d'intelligenza, fare cultura; ricerca teologica, coinvolgersi politicamente, lottare socialmente ecc. ecc. in fondo è sempre unicamente raccontare.
E' vivere cioè la grande avventura prima di tutto nel proprio mondo interiore, in quella spaziosità dell'immaginario assai più vasto della volta del cielo dove perfino le galassie ridimensionano la loro immensità, e ugualmente nella profondità del mistero umano e della storia che inizia prima dell'inizio e continua ad esaltare e sgomentare, fino alle misure che sembrerebbero estreme, di questo nostro tempo.
Non è come sembrerebbe, eccezionalità questo vivere nella propria interiorità; l'universo: è semplicemente saper guardare la realtà, qualunque essa sia e l'immaginario, pazzo quanto si vuole, dentro di se, come in uno specchio. Portiamo tutti la capacità e insieme, quando non viene annebbiata, la trasparenza, perché la realtà dell' esistenza si rifletta in noi donandoci la possibilità di raccontare.

IMPORTANZA DEL RACCONTO
E' questo raccontare, la vera e propria narrazione, che svela e manifesta i pensieri le idee, i progetti; quest'animazione invisibile eppure determinante delle scelte, delle vicende, dello svolgersi, del dipanarsi del vivere la vita.
Il racconto della propria storia, insignificante o interessante che sia, significa che niente è avvenuto per caso ma per una preordinazione maturatasi dentro di noi, fino ad imporsi, a diventare inevitabile perché identificatasi con noi stessi.

IL SINODO
Pensavo e rigiravo dentro di me queste riflessioni che del resto mi sono molto familiari direi quasi come il mio respirare, nei giorni passati, durante il Sinodo dei Vescovi, a Roma, sul ruolo dei laici nella Chiesa.
Non ho nessuna intenzione di entrare in questo assurdo problema che fondamentalmente non dovrebbe essere nemmeno posto se la incontenibile e incessante sopraffazione del clero non l'avesse reso, con questa precisa programmazione, una impossibilità di soluzione.
Tanto meno avrei voglia di tentare chiarimenti teologici, più ancora evangelici, motivazioni intelligenti - un po' più intelligenti - pastorali, dati anche i tempi ecc.
Ho letto più che è stato possibile alla mia disponibilità, le prolusioni, gli interventi, i documenti ecc.
Ho seguito lo "spettacolo" delle cerimonie, così miseramente intenzionate, liturgiche e assembleari ecc. Discorsi, qualche piccolo fraterno scontro, accenni di perplessità e insoddisfazione; su tutto e su tutti la dolce nebbiolina ad ovattare ogni novità, ad arrotondare qualche angolo, a ristabilire con fermezza carismatica, come si conviene, la permanenza immutabile della Dottrina della Tradizione, da parte del Papa.
Molto bene, cioè non ne discutiamo, non solo perché è inutile data l'impossibilità, almeno attualmente, di una qualsiasi novità, ma anche perché è dolorosamente chiaro, nonostante il Concilio Vaticano II, che i tempi, "i segni dei tempi". non hanno alcun potere nei confronti del clero, un mondo arroccato con ponti levatoi ovviamente manovrati dall'interno, come il sinodo recente ha ampiamente dimostrato.
Quindi niente ricerca culturale, assolutamente nemmeno l'ombra di una polemica, tanto meno l'ardire o la sciocchezza di avanzare idee, proposte ecc.

ALLORA IL RACCONTO
Però non può non essermi concesso il racconto, il raccontare.
Cioè quel ritornare indietro seguendo un filo conduttore, raggomitolandolo, a poco a poco, fino ad arrivare all'inizio, al punto di partenza. Può essere che ritornando a quel punto sia possibile capire tutto il racconto, per quanto strano possa apparire.
Ciò di cui vorrei raccontare è come è successo che io prete (era il 2 maggio 1943) a poco a poco, ma progressivamente, mi sono ritrovato ad essere sempre meno prete. Non so se questa patina ecclesiastica mi si è incrostata addosso. Forse nei primissimi tempi del fervore novello, ma i tedeschi del '44 fecero un buon lavoro di riduttività di ogni privilegio clericale. Poi subito dopo la parrocchia, e la parrocchialità è sempre micidiale per rendere clero anche i sacrestani. La responsabilità delle anime, la disponibilità del Cielo e della Terra e quindi l'autorità.
Ho una memoria angosciosa dell'autorità per il semplice motivo che mi dovevo sforzare per sentirmi un'autorità e gestirla quest'autorità comportandomi come uno che conta, sa le cose, può e deve dare consigli, programmare e vigilare. Questa storia del vigilare mi era praticamente impossibile, diventava tutto un artificio che metteva in gioco la mia sincerità. Non sto a raccontare la devozione per me della gente. Quella considerazione profonda, l'ascoltarmi con assoluta fiducia, l'affidarsi, quasi consegnarsi a me, perché io avevo in me, nelle mie mani, il potere, il potere sacro, sacramentale, il potere della parola, il potere della cultura, il potere politico... Ero uomo da piedistallo e poggiavo i piedi sull'umano e sul divino. Prete, sacerdote, ecclesiastico, chiesa... Così tanto che sono tutte queste bardature civili, ecclesiastiche, spirituali, liturgiche ecc. spesso non avvertivo l'uomo semplice, libero, immediato, fatto di carne e di sangue, come tutti. Avevo profonda la sensazione di essere uomo di Dio e non quella, o almeno anche quella di essere uomo, concreto, pratico, fatto di quotidianità e di progetto.

PRETE SI EPPURE PRETE NO
Dunque mi trovavo profondamente a disagio, come fuori dalla mia strada, a fare il prete perfettamente in linea (o quasi) con il mondo ecclesiastico, dentro quelli schemi obbligati, quelle vie segnate e inconfondibili del Diritto Canonico, della Pastorale stabilita. Prete o per essere più chiaro, sacerdote, sì, e a gran cuore, dal più profondo dell'anima, sicuro, sempre, che questa realtà di vita, era la mia unica vera ragion d'essere, il mio caro, adorabile destino. A un certo punto (la mia maturazione si è andata poco per volta, assolutizzando) è stato inevitabile, si è imposta la necessità, prima, e poi logicamente nella realtà pratica, di smontare pezzo per pezzo, la mia costruzione ecclesiastica. Il prete si è andato dissolvendo, il prete ecclesiastico, e nel frattempo è andato costruendosi il prete-uomo o se si vuole, l'uomo-prete. E' il tempo della decisione, chiara e netta, senza eroismo e bisogni di eccezionalità, di fare il prete-operaio.
E' chiaro che a 36 anni, uscire dalla canonica, dalla parrocchia, dalla sicurezza a tutti i livelli del mondo ecclesiastico, dal circolo chiuso e ben difeso dei privilegi ecc. e andare a fare il manovale specializzato in un cantiere navale, la rottura fu totale. Il prete scomparve e così tanto che non era facile ritrovarne i segni caratteristici se non leggendo in fondo all' anima e scoprirne le profondità dove è sempre facile e possibile incontrare il Mistero di Dio.
E' così la continuità della storia: un raccontare che investe e coinvolge Dio, Gesù Cristo, la Chiesa, il Regno di Dio, e quindi la libertà, la giustizia, l'uguaglianza: cioè il vivere insieme, dove la distinzione, la separazione, la differenza non esiste e è sacrilegio, tradimento che esista.
Il mio raccontare in fondo è raccontare camminando per la stessa strada di tutti vivendo l'identica avventura, pagando gli stessi prezzi, lottando per le stesse liberazioni.
Ciò che accomuna appassionatamente è la Fede in Gesù Cristo e l'Amore per l'umanità. Il prete che è soltanto prete non può essere cristiano, sarà sempre e soltanto un prete.
Il gran problema che opprime e soffoca la Chiesa, Popolo di Dio, è soltanto questo: che i preti (leggi anche Vescovi, Cardinali, Papa) non sanno, non possono, non vogliono essere che preti, vescovi, papi.
E perché questa possibilità-volontà non incontri complicazioni o possibili difficoltà, i laici, cioè gli uomini e le donne, non devono (ragioni divine o no) avere poteri, privilegi o tanto meno l'immagine del prete, l'uomo consacrato ad essere diverso, inimitabile, al di sopra, chiuso e ravvolto di mistero...

CLERO E LAICI
In questa realtà tipicamente propria di una religione (il cristianesimo non doveva essere una religione) la distinzione fra laici e clero è indispensabile.
Così la separazione, la differenza. Anzi tutta la forza, la potenza dell' istituzione è direttamente proporzionale alla solidità di questi piani e alla loro scrupolosa organizzazione. E' così anche l'esercito, per l'organizzazione dello stato, in una azienda, per esempio una multinazionale, ben organizzata ecc. ecc.
Gesù forse pensava e immaginava (sognava con adorabile utopia) che la sua Chiesa sarebbe stata fondata sul servizio non sull' autorità, sui piccoli non sui potenti, sugli ultimi e non sui primi ecc. Lo so che sono aspirazioni come sospiri di nostalgia, sogni antichi, anche se sempre nuovi, utopie pazze, ideali assurdi..
Va bene, ma io ho il mio racconto pratico, la mia follia concreta, scelte, fatti, vicende, avventure, realizzazioni, vita vissuta, duramente pagata... e questo racconto è tutto un progetto: un progetto assurdo, d'accordo, come tentativo di concludere una storia e iniziarne un' altra, rovesciare posizioni e sistemi ormai assolutizzati, credere che l'impossibile diventi possibile.

L'UTOPIA
Perché è qui il mio racconto: io ho creduto, umilmente e ingenuamente, che il gran problema del rapporto fra il clero e il laicato potesse essere affrontato e in parte risolto, attraverso un cambiamento radicale del clero. Abbreviarne le distanze, cancellare le differenze, spazzar via i privilegi, camminare sulla stessa strada, essere uguali o meglio ancora sotto i piedi di tutti, essere gli ultimi, senza diritti e solo con infiniti doveri... non essere più preti, clero, mondo ecclesiastico, ma semplicemente degli accattoni della bontà altrui, dei coinvolti e possibilmente dei travolti dalle lotte per la libertà, la giustizia, la testimonianza di una alternativa che si chiama Regno di Dio al regno degli uomini...
Il mio racconto, insignificante ma chiarissimo di Fede e di Amore alla Chiesa. L'essere operaio ha voluto dir questo, prima di qualsiasi altra cosa: togliere via una qualificazione, quella di essere prete, eppur rimanere serenamente prete, uomo di Dio, fratello universale. Come lasciar cadere una maschera, un paludamento, una "divisa" e ritrovarmi, come solo, io, allo scoperto, con tutta la mia Fede e quella misteriosa carica di Amore fraterno, appassionata e inesauribile.
Il racconto può essere, è lungo quanto tutta la mia vita sacerdotale e il raccontarlo richiederebbe lunghe serate intorno al caminetto come nelle novelle del nonno.
Lo so che non è stato accettato durante l'avventura e tanto meno può essere gradito il racconto "quando ormai si fa sera" e non solo individualmente, ma anche nella Chiesa.
Allora i Sinodi per dibattere la spinosa quistione del clero e del laicato: ma è perché tutto rimanga e si solidifichi così: il clero, clero e i laici, laici.
E cioè come dire. amici e nemici. Potere e servizio. Autorità e popolo. Il monumento e il piedistallo. Il carro e chi sta sul carro e guida l'asino che rassegnatamente da millenni tira il carro e tutti coloro (sono tanti) che vi stanno comodamente adagiati." (Lotta come Amore n.4/1987).

Sotto i governi dei militari

Vi racconteremo della nostra storia, dei nostri ricordi, vi parleremo della nostra vita, dal giorno in cui è nato il nostro odio verso 1'esercito. Nessuno di noi della comunità ha dei buoni ricordi dell' esercito.
Io e Dona Estebana, per esempio, odiamo i militari perché sono i responsabili della scomparsa di due nostri figli dei quali non abbiamo più saputo niente dal giorno in cui sono stati catturati. Vorremmo tanto sapere se sono ancora vivi, oppure conoscere che cosa ne hanno fatto, se li hanno assassinati o che altro. Ma ci sono anche molti altri motivi e adesso con calma ne parliamo. Tutte le domeniche, molti di noi contadini, ascoltavamo alla radio il messaggio del Monsignor Romero ed anche per merito delle sue parole li abbiamo tanto odiati ed ancor di più dopo che lo hanno ucciso. Bisogna dire che non a tutti piaceva il Monsignore ed infine c'erano anche quelli che spegnevano la radio appena lui incominciava a parlare. I militari invece spensero il Monsignore.
Quando poi ci furono i funerali di Romero arrivarono gli squadroni della morte che misero una croce rossa su un loro quaderno accanto al nome di molti che vi stavano partecipando, tra i quali quello della nostra nipote. La croce voleva dire che era contraria al governo dei militari, era come una sentenza di morte: prima o poi la avrebbero uccisa ed infatti la uccisero.
II giorno in cui mi catturarono mi dissero: "qui c'è la sua croce rossa". Mi fecero vedere il mio nome con a fianco una croce rossa su un libretto; "e qui c'è quella di sua nipote Dominga", così si chiamava la poverina.
Tempo dopo la incontrai mentre fuggivamo da una rappresaglia; era notte e correvamo su per i monti con le signore ed i piccoli: la vidi c le dissi di stare molto attenta. Lei mi rispose "sì hai ragione nonno, però noi dobbiamo andare a guadagnarci la libertà".
Il giorno seguente entrarono nelle nostre abitazioni: "Ahi Dominga, vengono le guardie" pensai.
Si indirizzarono da lei e le dissero "Adesso la ammazziamo" .
Ancora mi ricordo la scena, lì davanti c'era un bambino che stava raccogliendo dell' acqua, presero questa poveretta e la uccisero. Già la nostra sofferenza era grande, ma in quei momenti fu terribile, anche perché venne uccisa solamente per essere andata ai funerali del Monsignor Romero. Questi signori si accanirono contro di noi solo perché ci piaceva la parola del Monsignore e questo a loro bastava a loro per odiarci.
Conoscevamo Romero dal giorno in cui venne a celebrare una messa ed a pregare per nostro figlio che era stato assassinato. Da quel momento in poi i militari si accanirono sempre più ferocemente contro di noi nel villaggio.
L'altro nostro figlio lo catturarono nel 1982 mentre tornava da pescare con Lola, la sua fidanzata, ed un amico. Io conoscevo i militari del nostro dipartimento perché erano gente come noi e quando li catturarono andai dal comandante Feliz Guardado e mostrandogli una foto dissi:
"Guarda, Feliz, lo conosci questo ragazzo?". "No" mi rispose "non lo conosco". "Guarda Feliz che questo è mio figlio, con lui avevi fatto la naia a Milopango!". "Non è così, era con un altro dipartimento" .
Mi fermai lì ad aspettare, finché vidi i tre ragazzi portati via in camion dai militari. Dopo poco il camion si fermò ed io capii che stavano per ucciderli. Corsi verso il tenente ed aggrappandomi stretto a lui lo supplicai affinché non li facesse uccidere ma spararono lo stesso, colpendo per ultima la Lola. Le spararono in testa e nel petto ma per un miracolo non la uccisero perché i colpi uscirono da parte a parte e lei si riuscì a buttare giù per un dirupo.
Gli altri due non potemmo neanche seppellirli per paura che uccidessero anche noi.
E' così che ormai il nostro odio si era formato. Venne il giorno che catturarono anche me. Stavo arando il terreno per far crescere il mais, i bambini raccoglievano le pannocchie quando venne la mia unica figlia, Olga che era piccolina e mi disse: "Guarda papà che stanno venendo i militari". Tornammo a casa di corsa.
La notte seguente bussarono alla porta, "Ahi sono arrivati" pensai, aprimmo la porta e trovammo quelli della Guardia Nacional.
"Entrate pure" gli dissi.
Subito accusarono mio figlio di essere un attivista e di fare propaganda anti governativa e mi chiesero dove era nascosto. Gli dissi che non ne sapevo niente. Incominciarono a cercare per tutta la casa ma non trovarono niente. Provai a parlare con il capo della guardia e visto che loro cercavano i miei figli gli dissi: "Certo che sono i miei figli però non so dove sono, uno è in fabbrica e l'altro lavora in un bottega di un calzolaio. Qui non troverete nessuna prova di nessun delitto perché non ne abbiamo commessi". "Voi nascondete armi!".
"Non abbiamo nessuna arma, ehi solo abbiamo le pure mani!".
Rimasero lì fino alle quattro della mattina, fino a che uno mi puntò un coltello sul collo e mi disse "Questa è l'ultima volta, parla". "Fate quello che volete, sono vostro, però non mi faccio carico di quello che non ho, meglio morire che dire quello che non so! Ed inoltre andrete incontro ad un castigo del Nostro Signore perché state per uccidere un uomo ingiustamente".
E loro arrabbiati urlarono con tono di disprezzo: "Hombre, questo vecchio. Alzati sovversivo!". Mi portarono via e mi tennero diversi giorni imprigionato verso Chalatenango. Arrivati al comando dissero: "Abbiamo portato questo sovversivo" e uno dei soldati rivolto verso di me: "Lì a casa tua non avevi nessuna colpa, ma qui sì". Mi legarono ad una corda ed incominciarono a tirarmi in aria ed a farmi cadere a peso morto cosicché io finivo sempre per terra. Una volta mentre stavo cadendo un soldato mi colpì sul ginocchio con il calcio del fucile e mi fece proprio male, mi usciva sangue da molte parti e ancora oggi ne porto i segni. Mi stavano ritirando di nuovo in alto quando arrivò un comandante e chiese che cosa stavano facendo con me e questi risposero: "lo leghiamo per fargli uscire la verità". "Per fargli uscire la verità? Ma è tutta la notte che sta soffrendo e non ha detto niente".
Era forse un po' più coscienzioso degli altri, mi portò via e mi diede una tortillita ed un pezzetto di formaggio e mi disse di mangiarlo. Chissà forse gli dispiaceva vedermi m quello stato. "Vuoi un po' di caffè?" mi disse. Io tremavo e volevo bere dell'acqua, ma avevo paura che gli avessero messo dentro qualcosa per cui dissi solo "No, grazie". Mi portarono una bottiglia con puro guaro, il soldato lo mischiò con il caffè e mi disse: "Prendi questo".
"No grazie, se lei ne beve un po' allora anch'io altrimenti mi rifiuto" risposi.
Fu così che versò un po' di caffè e molto di guaro, lo sorseggiò per primo ed allora anch'io ne bevvi un bicchiere.
Dopo un po' di tempo consegnò una nota alle guardie affinché mi portassero fuori e mi rilasciassero. Così mi portarono via in camion e mi lasciarono a San Isidro. Appena fui liberato vidi un mio amico Rafael Mcnjivar che mi abbracciò tutto contento per avermi visto ancora vivo. Mi disse che era stato un miracolo che fossi riuscito a salvar la pelle. "Vamos Santillo, torniamo a casa". Tornando incontrai anche la mia signora che mi stava cercando e che non sapeva dove ero. Così è stata la nostra storia.



Don Santos Y Dona Estebana

Ricordando don Giampaolo Dussin

suicida per delusione

Trovandoci tra amici, preti e laici, Domenica 15/10/1995, ci è venuto spontaneo riflettere sulla tragica conclusione della vita di don Giampaolo Dussin suicida a 33 anni (Monastier 20/06/62, Arche di Trento 29/09/95), prete da pochi anni (Ordinato 19/5/90) e trasferito di recente dalla Parrocchia San Vito e Modesto di Spinea (VE) a quella di Santa Maria del Sile (TV).
La solitudine immensa, la sua sofferenza fisica e psichica acuita dalla prospettiva di un distacco dall'ambiente e dalle persone, dove aveva acquisito una certa sicurezza, la difficoltà dei rapporti con gli altri preti, che gli aveva fatto chiedere di essere trasferito solo un anno fa, la enorme fragilità personale di fronte alle conseguenze del dover ripartire in un ambiente molto diverso e... tante altre cose, hanno fatto scattare questa decisione lucida e impazzita di togliersi la vita con il gas. In macchina, lontano da tutti, nella totale solitudine ha raggiunto un livello di decisionalità, che forse non ha avuto in altri momenti e in altre circostanze. Ha lasciato scritto (notizia di Gazzettino del 01110/95): "Non ne posso più, tutti mi hanno abbandonato in questo momento di disperazione, anche la Chiesa. NEPPURE GLI AMICI PRETI MI SONO STATI VICINI.
Ci sono interrogativi gravi da porci come "amici preti", che vanno al di là della vicenda personale tragica e senza ritorno. Non basta concludere "preghiamo", senza dare alla preghiera uno spessore di responsabilizzazione, di analisi serena, ma approfondita, di ricerca dei mali, che portano a conclusioni così inaspettate e sconvolgenti. Non si arriva a tanto senza delle premesse, che mettono sotto verifica i rapporti, i metodi, i criteri di formazione, i modi di vivere la fede, la comunitari età, la solidarietà tra generazioni, l'essere preti nella società di oggi, l'essere uomini adulti, capaci di far da riferimento per altri, nel cammino della fede.
Leggendo le dichiarazioni di intenti dei neo-ordinandi preti, tra cui quella di Giampaolo, si ha la sensazione, che vengano tranquillamente usati termini e concetti assoluti, senza far i conti con la vita vissuta, con la realtà dura del vivere quotidiano, dove non ci sono spazi per doni di sé e doni della vita, detti a piena bocca e non valutati per i prezzi che costano e le esigenze di maturità e coerenza, di competenza e storia condivisa, che metta in grado di svolgere servizi esigenti e pieni di scadenze. Non si dà a tutti una vita, che non si possiede in proprio, che non si conosce e non si carica di storia e di contesti concreti. La presentazione spirituali sta del vivere, del lavoro, della conduzione di una famiglia, delle responsabilità di guidare una comunità o un gruppo, di far da riferimento per grandi e piccoli. Tutto ciò non è uno scherzo, come non è uno scherzo vivere le esigenze del Vangelo e dell' essere "popolo di Dio" insieme. Può essere gravemente responsabile una educazione, che alimenta ideali impossibili o una visione angelicata della vita, tutta amore facile e gioie incommensurabili per gli eletti e i chiamati. La delusione del vivere può rivelarsi tragicamente frustrante... fino al suicidio.
Inoltre già negli anni sessanta nascevano le proteste per certi metodi di cambiamento, che avevano le caratteristiche di una letterina, che arrivava per posta e con un bollo da 500 L., dove ti ritrovavi con la dicitura: "Sarai in servizio dal giorno tale presso la parrocchia, dove è urgente e attesa la tua presenza. Con tanti auguri di buon lavoro. Affettuosissimo nel Signore... " e nel giro di una settimana o due dovevi spostarti da un angolo all'altro della diocesi, da Castelfranco a San Donà, da Montebelluna a Mirano... Sono contesti storici e sociali diversissimi dove ricominciare una vita e un inserimento, facendo finta, visto che era dato per scontato, di saper tutto e poter rispondere a tutti, leccandoti da solo le ferite delle amicizie interrotte, dei distacchi, delle cose imparate per nulla e fatte pagare alle varie comunità. Ora sembra che le cose non siano molto diverse: soprattutto se non si trovano tempi e persone che ascoltino, valutino, aiutino, accompagnino chi è più debole e più fragile. Non basta essere alla fine ai funerali, serve esserci preventivamente, nelle malattie e nelle solitudini, nelle canoniche e nei disagi dei rapporti tra generazioni.
Ma qui arrischiamo di volere l'impossibile, se pensiamo che i cambiamenti di mentalità e di rapporti abbiano provenienza istituzionale o gerarchica, naturalmente attenta alla sua salvezza e alla sua conservazione, alle tradizioni e alla continuità. Serve far forza su se stessi e la propria liberazione, sulle leggi umanissime del rapporto padri e figli, giovani e anziani, dove la contestazione è elemento vitale e fa parte del crescere e dello sviluppo personale e comunitario. Non si deve lasciarsi schiacciare dalle esigenze della azienda, che per funzionare bene (anche l'azienda Chiesa) e per esigenze di mercato, non può e non deve tener conto delle situazioni e richieste personali dei dipendenti e della loro realtà di vita vissuta.
Qualcuno ha ventilato la necessità di una più forte sindacalizzazione dei preti, ma forse basterebbe una maggiore considerazione data al primato della coscienza e della libertà interiore. allo spirito che sovrintende alle scelte e alla responsabilità.
Anche l'efficienza autentica ha bisogno dello spirito. Sappiamo bene che è fondamentale organizzarsi e muoversi insieme, poter far conto su amici e su veri compagni di strada, su gruppi e su altri, che condividono la vita e le scelte, anche evangeliche. La solitudine è tragica e porta alla follia, soprattutto nei rapporti con le istituzioni di ogni tipo, che hanno esigenze diverse da quelle delle persone. Don Giampaolo ha pagato con la vita, l'ignoranza di queste leggi fondamentali. C'è spesso tra noi una attitudine di rassegnazione, di accettazione silenziosa e succube, di falsa obbedienza e di mugugno, che non va oltre i confini del sagrato, che alimenta un malessere e delle situazioni insopportabili, che pesano soprattutto sui più sprovveduti e sui più fragili. Il Seminario e la formazione vanno chiamati in causa, perché parte da là una mentalità inculcata, che confonde la volontà di Dio, con voleri e pesi imposti da uomini ad altri uomini, che non hanno nulla di "spirituale" (cfr Matteo 21).
Si creano persone con la mentalità individuale da protagonisti e da responsabili unici di troppe cose, che sono insieme politiche, sociali, economiche, educative, consolatorie, burocratiche... Quando si sa bene che ciò provoca inutile senso di superiorità sui laici, fiducia solo in se stessi e sulle proprie forze, incapacità di scelte di competenze, di ruoli. Urge andare per scelta verso un reale senso dei limiti e una capacità di collaborazione con tutti gli altri, specie i laici, per vincere una falsa onnipotenza, che crea persone stressate e perennemente agitate ed esasperate dai tanti impegni e dal senso della indispensabilità "da telefonino", lontana dal "... dite: 'Siamo servi inutili!' .
Forse abbiamo bisogno, visto il calo numerico e quello di incidenza sul cammino delle comunità parrocchiali, che sia lo Spirito a condurci alla reale inutilità e alla sparizione di un prete di questo tipo manageriale e di potere, perché nascano comunità responsabili e si chiariscano i ruoli, e le presenze.
Siamo stati chiamati a tacere e a pregare ed è giusto, ma questo va fatto nella consapevolezza e nella assunzione di responsabilità, per non rendere vana questa immensa sofferenza di lui, che paga anche tante nostre inadempienze, che nessuna preghiera può coprire.

Ruffato Giancarlo - segreteria dei Preti di Base di Treviso - via Passarella, lO - S.DONA' DI PIAVE (VE)

Semi di Resistenza

TRA UNA CAPRA E UNA TV SCELGO LA CAPRA
Storie e racconti della comunità di Teosinte, El Salvador.
Queste storie sono state raccontate, nell'inverno del 1993, dagli abitanti di Teosinte, un villaggio sperduto tra le splendide montagne del Salvador. Vi hanno partecipato spontaneamente donne, uomini, anziani e bambini per far conoscere le proprie esperienze "hasta allì", al di là delle montagne.
Da questi racconti emergono due sensazioni distinte. La prima è legata alla presenza incombente della violenza, che si respira in ogni pagina allo stesso modo in cui girando per il Salvador, si sente la presenza minacciosa dei militari che ancora presidiano ogni strada e ogni angolo del paese. Ma è soprattutto ripensando alle persone che in questi lunghissimi anni la violenza l'hanno subita, guardando nei loro occhi e leggendo i loro racconti che si materializzano le violenze subite. E' una violenza che ha scavato i volti degli uomini, spezzato e distrutto famiglie, sottomesso generazioni e generazioni di persone al punto che anche un bambino di quattro anni prima di fare qualunque cosa risponde "no puedo". La seconda sensazione è invece legata alla capacità di reazione e di resistenza, alla determinazione ed all'orgoglio con cui queste persone sono riuscite a ricostruire le loro vite ed a riunire le famiglie mescolando un po' i superstiti, le nonne, i nonni, gli zii, le sorelle, i fratelli ed i nipoti.
"Siempre un paso adelante" sono le parole con cui spiegano come hanno fatto a superare le difficoltà, a far nascere la loro comunità dalle macerie dei villaggi, a lottare ogni giorno per una vita migliore.
Sempre un passo avanti... si sarà detta Erminia, una giovane donna di 16 anni che ha deciso di spendere i soldi guadagnati con un buon raccolto familiare, per comprarsi una capra invece della televisione che alcuni gli consigliavano, "perché una capra ti dà il latte per mangiare, mentre dalla TV non esce niente". (dall'introduzione di Paolo Bortolussi)
Il libretto è in vendita a £15.000 e il ricavato sarà interamente utilizzato per il finanziamento della nuova falegnameria della comunità di Teosinte.

LETTERE & TESTIMONIANZE
Agenzia della Comunità di via gaggio - via C.Cattaneo, 62 - Lecco - teI.0341/286106
L&T non è un archivio per futura memoria e nemmeno una palestra per esercitazioni. Affonda le radici nella comunicazione e nella rivelazione di sé, della propria posizione e del proprio desiderio. Questa agenzia osserva, raccoglie e mette in comunicazione "tracce e frammenti" di vita e di processi di vita permettendo di cogliere le attese, la pratica del vivere, le risorse del vivere e la vivibilità delle parole e delle proposte.
Con una attenzione al "dato minore", che ha poca visibilità ma che spesso raccoglie in modo più ricco e vicino la realtà.
La comunità di via gaggio, mette a disposizione nello spazio di via Cattaneo una serie di strumenti che aiutino a collocarsi nel contesto in cui viviamo nel segno di una presenza attenta e responsabile. Le riviste raccolte in quella sede riguardano soprattutto alcuni temi e l'invito a venire a consultare i testi, leggerli, studiarli, guardarli, usarli per ricerche e lavoro, vale soprattutto per far crescere un pensiero e una pratica nel territorio.
Mariacarla Castagna ha curato l'impianto e la realizzazione di una piccola guida ragionata sulle riviste in dotazione.

Bando e regolamento anno 1996

Per iniziativa del CRO - CIRCOLO RICREATIVO OPERAIO DARSENE di Viareggio e con il patrocinio del Comune di Viareggio è indetto il II PREMIO NAZIONALE "DON SIRIO POLITI" riservato ad opere inedite, saggistiche o letterarie, che presentino un'esperienza, una riflessione teorica, un personaggio, una realtà associativa, una Comunità, un Circolo, che abbiano dato un contributo di rilievo sul tema: Significato e valore delle differenze, sia nelle relazioni interpersonali, che nei rapporti tra popoli.
Il premio si articola in due sezioni:
Saggistica (studi, ricerche, inchieste, tesi di laurea, ecc.);
Letteraria (racconti, poesie, ecc.)
I premi saranno assegnati a giudizio insindacabile della Giuria. Essi soni i seguenti:
Per la sezione saggistica, premio di L. 4.000.000 all'opera prima classificata.
per la sezione letteraria, premio di L. 2.000.000 all'opera prima classificata.
Le opere dovranno pervenire alla Segreteria del Premio (Chiesetta del Porto, Lungo Canale Est, n.37 - 55049 VIAREGGIO), in almeno 7 copie, entro e non oltre le ore 12 del giorno 30 settembre 1996.
I lavori di cui all'art. 4 dovranno essere contrassegnati con uno pseudonimo ed accompagnati da una busta chiusa, con sovrascritto lo pseudonimo prescelto, contenente nome, cognome, indirizzo e recapito telefonico dell'autore.
I dattiloscritti non verranno restituiti e rimarranno di proprietà del Premio, che è autorizzato ad una loro eventuale pubblicazione ed a fame l'uso più opportuno per i fini che il Premio stesso si prefigge.
Un premio speciale, consistente in una TARGA ARTISTICA, sarà attribuito ad un opera edita o ad una personalità che abbiano dato un contributo particolartnente significativo in ordine alle finalità del Premio.
La consegna dei premi avverrà entro il 31.12.1996, nel corso di una cerimonia pubblica, secondo il programma stabilito dalla Segreteria, che sarà reso noto in tempo utile.
Viareggio, gennaio 1996
Il Presidente Cro- Darsene di Viareggio
Massimo Bandini
Per informazioni:
Segreteria del Premio Letterario "Don Sirio Politi" Lungo Canale Est n.37 - 55049 Viareggio
tel. 0584/49844 (ore 10-12) - fax: 0584/46455

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