La vita ci è
stata donata per essere
creata da ciascuno di noi
Ci attende un futuro incerto, enigmatico. E non solo per la pesante crisi economica e occupazionale, la pressione fiscale di una amministrazione statale famelica anche dello spicciolo, le manovre destabilizzanti di chi spera di pescare nel torbido. L'incertezza del futuro risiede tutta nella mancanza di alternative.
Ci stavamo adattando alla ricostruzione di un mondo messo in ginocchio dalla concorrenza bipolare. Ci stavamo attrezzando a prendere confidenza con nuove regole del gioco sociale, politico, economico. A lasciare al mercato (non solo delle cose, ma anche delle idee e dei rapporti) il ruolo guida di questa fase storica. E il linguaggio recepiva i nuovi slogan sulla necessità di ridare ossigeno alla politica rinnovando le istituzioni e spingendo verso nuove aggregazioni, affrontando con realismo i sacrifici imposti dal limite severo delle risorse, ecc. ecc.
Già, il linguaggio. Tangentopoli, come una magica lanterna, ha iniziato a filtrare raggi che illuminano tessere di una realtà diversa, impossibile da descrivere utilizzando l'universo simbolico conosciuto.
Le regole del mercato appaiono manovrate da buchi neri. La democrazia un giocattolo per scegliere il colore dell'erba di un prato. Il lavoro una condanna alla inutilità e alla nullità. La città un enorme letto di Procuste perché ogni differenza sia digerita e livellata. E l'amore di un uomo e di una donna inconcepibile se non è distillato nelle provette dei laboratori.
Lo svelarsi di sipari in caleidoscopiche sequenze ci lascia ogni volta più soli, prigionieri di una incomunicabilità che deriva non solo dalla mancanza di punti fermi, ma anche dalla percezione di aver vissuto fin qui una realtà dimezzata. Una realtà tronca in uno sfondo ben più complesso del nostro universo di valori, delle nostre regole, della stessa identità che ci riconoscevamo. Dove altri si muovevano e si muovono a cerchi indefinitamente più ampi. E l'incomunicabilità nasce non dalla impossibilità di gridare, ma di dare anche ad un solo grido un significato compiuto, traducibile per l'altro. Ci guardiamo in viso, in silenzio, le labbra strette dalla paura di esplodere anche solo in una civilissima protesta che ci lascerebbe comunque, se possibile - più soli di prima: protesta da parte di chi, insieme a chi? Per chi e per che cosa?
La diffidenza, il timore che la persona che abbiamo accanto per la strada si riveli un ectoplasma, un alieno, un essere clonato e non abbia nelle vene sangue caldo, né cuore a battere nel petto, né pelle sensibile che risponde alle carezze... questa paura non può non venire di fronte al rivelarsi di uomini come De Lorenzo. E delle migliaia di sosia e replicanti che il sistema - e se no che sistema sarebbe?! - ha disseminato negli uffici, nelle scuole, nelle sedi decisionali, nelle commissioni di ogni ordine e grado vere e proprie metastasi che irretiscono ogni aspetto della vita collettiva. E non parlo di loro in quanto artefici, complici, conniventi negli imbrogli, ladrocini e abusi per cui sono (saranno?) indagati, ma della loro nullità e assurdità umana che non sprigiona nessuna passione, nessun autentico calore umano: squallide maschere in via di imbalsamazione aurea da cui - ed è la maledizione del Re Mida - fugge ogni alito di vita. Fino a provocare un rigurgito di simpatia per quel vecchio pirata di Gardini!
Per questo forse gli scritti di questo numero contengono richiami alla pazzia. Per tentare di rompere l'isolamento che ci imprigiona e ci toglie ogni energia, ogni vitalità. Perché solo con una irrazionale, istintiva ostinazione, chiudendo occhi ed orecchi di fronte alle lusinghe delle sirene di turno, potremo avere la forza di incrinare la crosta dorata di passività che impedisce ai nostri sensi di vigilare e ci consegna, mani e piedi legati, alla separatezza e, per conseguenza, alla solitudine. E' necessario impegnare le forze in un ascolto sincero e nudo di sé, nella ricerca instancabile di rompere i muri della incomunicabilità ricostruendo con pazienza brandelli di linguaggio comune con le voci di oggi. Senza paura di ferirsi contro gli ostacoli di cui è disseminata ogni strada o di farsi del male negli incontri/scontri provocati dal procedere a tentoni.
Occorre liberarsi da una voglia di pace che sono sempre gli altri a dover fare perché da spettatori la si possa acclamare. E cercare pace in una inquietudine instancabile; nel mettersi in viaggio con il bagaglio leggero di chi non conosce dimora stabile, nel denudare le proprie e altrui ferite perché il sangue abbia ancora a mescolarsi tra gli umani.
Pazzia che rischia il contagio anche con tutto ciò che ci hanno insegnato ad evitare pur di poter mettere insieme olio sufficiente nelle lucerne per illuminare la via e attendere l'incontro che libera.
Pazzia che permette di fissare una rotta anche quando mare e cielo sembrano diventare una cosa sola per ingoiare tutto. Pazzia di uno sguardo che teneramente raccoglie anche le briciole per evitare che il nulla prevalga.
Parole, e sono poco più di un bisbiglio. Eppure evocano altre parole dette e scritte, prima che sulle pagine bianche di un libro, sulla carne e sul sangue di un uomo. Parole che non passeranno, al contrario della terra e del cielo. Ma anche queste parole devono trovare labbra e cuori capaci di ripeterle come se fosse la prima volta. Non è possibile sottrarre creatura a questa legge che unisce in un unico avvenimento e in un'unica ora tutti i tempi e i luoghi del mondo. Anche il Cristianesimo deve umiliarsi sotto le forche caudine di questo nostro tempo che ne misurano l'eternità - come altri momenti epocali in passato - attraverso la capacità di liberare e di liberarsi da una esperienza storica in cui sembra aver trovato la sua espressione massima. Per non rimanere prigioniero di se stesso e imbalsamato in una realtà non più reale. Ed è sfida alla quale la Chiesa di oggi appare particolarmente impreparata. Chiusa in una unità sempre più uniforme. Forte della sua indiscussa capacità di parlare ai diseredati della terra, ma lontana - ahi, quanto lontana! - dal parlare la loro lingua. Impegnata nel salvaguardare l'universalità di un pensiero ormai chiaramente delimitato nell'ambito di una delle provincie del mondo. Anche e soprattutto la Fede in Gesù Cristo deve liberarsi da contenitori che la imprigionano e la soffocano, isolandola dai contesti attualmente vitali, ponendola al centro di ogni tentativo di recupero e di restaurazione, rendendola omogenea alle grandi amnesie storiche battezzate spesso come perdono.
Una sottile vena di follia dovrebbe serpeggiare nello spirito di chi non si rassegna a considerare chiusa ogni possibilità di profezia. E cioè la forza di credere che la coscienza, nel cuore dell'uomo, è scintilla della Sua luce. E la dolce fiducia che a noi sia chiesto solo di abbandonarvisi.
La Redazione
"Hay una sola cosa en la vida
mas importante que Dios:
que nadie escupa sangre
para que otro viva mejor...".
(Atahualpa Yupanqui)
Amici sempre cari,
il saluto giunge cordiale e con affetto, da vicino e da lontano. La vita offre sempre motivi di incontro, di gratitudine, di ringraziamento. Questa volta predomina il ringraziamento personale e corale. Il tempo, gli anni, la vita sono regalo, possibilità, speranza, utopia, realtà.
Un anno da poco iniziato ci fa brillare gli occhi, ci fa sprizzare allegria da tutti i pori della pelle. Il tempo regalato (e non... comprato!) ci dà la possibilità di giocare la vita sui binari dell' amore e della giustizia.
Qualcuno mi dice che non gli piace più questo mondo. Ne abbiamo fatto luogo dove la vita non vale più niente, nessuno rispetta più né valori, né persone. Ai soldi, al potere vanno le preferenze. Le famiglie sono per lo più deboli, non dicono mai "no" e i ragazzi crescono senza credere più in niente.
Ci vuole una brutta scoppola, come la morte di un figlio, di un fratello, di un amico perché si torni a pensare, a cercare il silenzio, a guardarsi intorno, a capire che è giusto, oltre che bello, spendere la propria vita, i propri soldi per chi non potrà restituirti niente.
In altri contesti umani e sociali ci si rallegra anche del poco. A volte del niente. Una carezza, la presenza di un amico, una caramella, un telefono per comunicarsi, un pane per riempire lo stomaco, la luce di notte, un giornale tra le mani...
Celebrare il tempo, ringraziare e benedire la vita, accarezzare le rughe della nonna, abbracciare l'altro invece che sparargli in faccia, sorridere al nuovo giorno, coltivare "fiori", raccogliere con il palmo della mano le lacrime di una gioia incontenibile... perché finalmente abbiamo imparato ad amare! Impariamo dal campesino: si inginocchia davanti al sole, toglie il cappello davanti all'acqua, accarezza suo figlio nel Cristo Crocifisso, balla sul corpo della terra - la Madre Terra! - perché mai si dimentica di dare il pane quotidiano a tutti i suoi figli... Grazie per questo nuovo anno, 1993.
La vedova di Gerusalemme e il nostro tempo. Leggiamo nel Vangelo (cfr. Mc.l2,41-44) che un giorno Gesù, mentre stava con i suoi amici, non da solo, si mise a sedere davanti al tempio di Gerusalemme, proprio davanti alla porta del tesoro del tempio, ed osservava curioso quello che succedeva, la gente che andava e veniva.
Rimase impressionato dal fatto che alcune persone depositavano molti soldi e altre pochissimi. Dice Gesù che una donna, una vedova (la vedova, nel linguaggio biblico, è una figura concreta per esprimere chi è il povero) che ha deposto appena due monetine, ha dato molto di più di quelli che hanno versato una gran quantità di denaro nel tesoro del tempio.
Dice il vangelo che Gesù si mise seduto, ad osservare! Un richiamo valido anche per noi, oggi. Osservare quello che succede, per poter esercitare il diritto a pensare, a riflettere, a cambiare. Riflettere e pensare a partire da chi soffre, dalle speranze e progetti dei più poveri. Sederci per osservare, per ascoltare, senza la pretesa di ridurre gli altri al silenzio. E' importante parlare, sempre e quando però, sappiamo stare zitti prima di parlare.
Non basta metterei seduti, unicamente per osservare. Bisogna sapere dove ci sediamo! Se uno si siede in un luogo non adatto per osservare, non vede niente. Bisogna sapere dove ci mettiamo per leggere la realtà (Gesù scelse un luogo preciso: la porta del tesoro del tempio). Giustamente perché Gesù seppe scegliere il luogo adatto per l'osservazione. Da lì poté distinguere e notare quanto dava colui che possedeva molto e quanto dava la povera vedova. Come pensare senza osservare dal punto giusto di osservazione? A volte, non sarà che ci sediamo davanti a uno specchio e siamo capaci di vedere unicamente noi stessi? Il diritto a pensare va insieme con il diritto a vivere, con il diritto a sperare! Situarci nel mondo di oggi, nel Perù di oggi, nell'Italia di oggi, non solo per riflettere, ma anche per avere la forza di lottare, di impegnarci, di cambiare, di sperare.
Il vecchio tonto
Una antica novella cinese racconta che molto tempo fa, viveva nel nord della Cina un anziano conosciuto come il vecchio tonto delle montagne del nord. La sua casa era rivolta verso sud e, davanti alla casa, interrompendo il cammino, si elevavano due grandi montagne: il Taijang e il Wangwu. Il vecchio tonto decise di andare con i suoi figli, a smuovere le due montagne a colpi di pala. Un altro anziano, conosciuto come il vecchio saggio, li vide e, ridendo, disse loro: "Che pazzia state facendo? E' assolutamente impossibile che voi, così pochi, possiate rimuovere montagne così grandi!". Il vecchio tonto rispose: "Dopo la mia morte continueranno i miei figli; quando loro moriranno, rimarranno i miei nipoti, poi i figli, i figli dei loro figli... e così via. Sebbene siano molto alte, queste montagne non crescono e ogni parte che stiamo scavando le fa diventare più piccole. Perché pensi che non posiamo spostarle?". Dopo aver respinto la falsa idea del vecchio saggio, continuò a scavare giorno dopo giorno senza venir meno alla sua decisione. Dio, commosso di fronte a questo fatto, mandò sulla terra due angeli che, a spalla, si portarono via le due montagne.
Testimonianza del vangelo con mezzi poveri
Avvenimenti, situazioni che si verificano, modi di essere, esperienze di chiesa, scelte personali, opzioni politiche, ecc. anche in questa lontana terra fanno riflettere. Ripetutamente emergono pagine evangeliche, incontri e insegnamenti di Gesù di Nazaret. Ai suoi amici - pescatori, gabellieri, agricoltori, pastori - raccomanda di essere lievito nella massa. Un lievito capace di fermentare lentamente, in silenzio, tutta la massa, ogni giorno. Raccomanda loro di essere sale che si scioglie nel cibo, dandogli il giusto sapore. Raccomanda loro di essere luce: non una luce protagonista, ma una luce che illumina il cammino degli uomini, che illumina le notti oscure... Queste sono le "sicurezze", i punti di forza, gli "appoggi" necessari per il cammino!
La debolezza dei mezzi umani è motivo di forza, secondo la logica evangelica. La presenza di vita e di azione, in contesto sociale di disagio e di povertà, porta continuamente a rivedere forze, metodi, modelli di intervento. La convinzione che sempre più si va consolidando è che solo il povero salverà il povero! Conseguentemente siamo chiamati a scegliere l'essenziale più che l'accidentale, a scegliere la qualità più che la quantità, a scegliere la profondità dell' efficacia più che l'efficienza e la spettacolarità. I mezzi portatori di vita passano attraverso la vicinanza della presenza, il lavoro nascosto, l'impegno prioritario per la giustizia, la dimensione personale, le tappe silenziose, i tempi oscuri...
Purtroppo siamo educati - a tutti i livelli - ad occupare i primi posti, alla produttività, all'attivismo, alla competitività, al successo individuale, all'arrivismo, a creare dipendenza...
Riusciremo ancora ad aver il tempo per assaporare il pane quotidiano, per assumere il presente come il nostro fine e il gran canale di comunicazione con il tutto e con tutti, per accettare l'ultimo posto come "nostro" e come luogo fecondo per poter lavare i piedi agli altri?
Carissimi tutti, anche questi pensieri, sentimenti, scambi di vita contribuiscono a ridurre sempre più le distanze, le separazioni dell"'al di qua e al di là" dell'oceano; a rendere attenta e sensibile la comunicazione; a vivere questa nostra storia in una forma solidaristica e aperta sempre alla speranza.
Nelle altezze andine siamo proiettati nel clima allegro del carnevale che coinvolge tutti, specialmente il mondo campesino, in una festa comune e familiare alla Madre Terra. Purtroppo anche nella nostra zona le gelate precoci hanno già pregiudicato, in parte, il prossimo raccolto dei frutti della terra (specialmente patate). Ma la festa continua...
Il suono dolce e triste della "quena" accompagna il campesino... E' festa per la Terra, ed è festa per tutti!
Fraternamente.
Giovanni Gnaldi
Apartado 321
Juliaca (Puno)
Perù
Giovanni Gnaldi
Sono stato invitato da una carissima amica del MIR (movimento internazionale della riconciliazione) a partecipare ad un campo di lavoro nella città di Valona, in Albania. Lo scopo del campo era la riparazione di una casa-convitto per studenti situata in una zona periferica della città, sopra una collina che guarda il mare. Nell'arco di questa settimana il gruppo dei partecipanti era invitato ad una riflessione comune sul tema della nonviolenza come stile di vita e di comportamento nella realtà conflittuale dell'esistenza. Mi sono sentito spinto a raccogliere l'invito, anche se intuivo che la fatica non sarebbe stata poca: d'altra parte questa era un' occasione non cercata per allargare il cuore e la mente in un breve spazio di condivisione e partecipazione alla condizione drammatica di un popolo che si trova ad affrontare problemi veramente complessi legati alle difficoltà economiche e sociali provocati dal crollo della dittatura comunista.
Mi hanno spinto ad accettare il premuroso e fraterno invito ragioni personali legate alla memoria di un amico contadino che nei lontani anni '60 mi parlò della sua drammatica esperienza albanese nella 2.a guerra mondiale. Per me la parola "Albania" era legata al suo racconto più che alla cronaca politica dei nostri giorni. Un altro motivo, direi naturale, era il desiderio di mettermi a disposizione di un gruppo di circa 60 giovani che erano stati invitati ad unire l'impegno lavorativo a quello di una ricerca sul valore, il significato, l'urgenza della scelta nonviolenta. C'era inoltre la volontà precisa di mettere a disposizione del popolo albanese una goccia del mio sudore come segno di fraternità, amicizia, solidarietà priva totalmente di "secondi fini" , condivisione del suo faticoso e difficile cammino. Questo anche in segno di fraterna riconciliazione per l'invasione armata dell'esercito italiano negli anni bui della 2.a guerra mondiale.
Sono contento di essere andato a Valona, lasciandomi convincere dal sereno invito della mia amica del Sud: d'altra parte Valona è il Sud dell' Albania ed è simile per tante cose al nostro meridione. Con la differenza che la storia del popolo albanese è stata segnata dalla follia di un sistema personalista e repressivo che in nome di una presunta "dittatura proletaria" ha creato una struttura sociale dominata dalla paura e dal terrore. Quando il "coperchio" è saltato via, i rapporti economici, sociali, politici hanno subìto una paurosa sfasatura.
Valona ha una baia molto bella, un mare splendido, dei monti ricoperti di ulivi e di pini: la casa-convitto dove abbiamo lavorato è situata su una di quelle colline proprio di fronte allo splendore del mare. Sulla collina dove abbiamo vissuto, in un ambiente semplicissimo e molto povero, abbiamo trovato un piccolo villaggio che è tutt'ora in formazione. Ci vivono alcune famiglie "storiche" alle quali si sono aggiunte altre che hanno lasciato zone più interne ed hanno costruito delle modeste casette, ancora prive di acqua. Abbiamo toccato con mano l'importanza di un servizio minimo di acqua potabile per la vita di una comunità. Fra l'altro, quasi per uno strano scherzo del destino, il piccolo villaggio si chiama "Acqua Fredda", perché la zona è ricca di acque profonde che attendono di essere sapientemente incanalate. L'incontro con la gente del villaggio è stato molto buono: per me ha significato l'allargarsi di un sentimento di fraternità universale, la scoperta sempre nuova e bellissima che la "razza umana" ha nelle sue profondità una linfa vitale che può far fiorire le diversità verso la pienezza dell'incontro e dell'amore. Il clima in cui abbiamo vissuto per otto giorni è stato caratterizzato dalla necessità dell' arrangiarsi quotidiano che è la regola per la popolazione albanese in questo momento in cui tutto ciò che è servizio pubblico fa un'enorme fatica ad organizzarsi. Tutto è lasciato alla buona volontà dei singoli e degli aiuti dell'esterno.
Faccio alcune considerazioni molto immediate su questo tempo brevissimo ma ad alta "intensità interiore": in poche ore (si fa per dire: l0 di treno + 4 di nave) ho trovato una condizione umana gravata di problemi molto seri, soprattutto quello del lavoro inteso come un bene capace di sostenere ed alimentare la sussistenza fisica, culturale e morale della gente. Mi ha ricordato il periodo immediatamente successivo alla guerra, negli anni '50, che io ho visto con gli occhi di un bambino. Sono stati soprattutto i bambini e le bambine di "Acqua Fredda" che mi hanno dato i momenti più intensi di una comunicazione che è stata soprattutto fatta di mani, di sorrisi, di gesti, di saluti e di "occhiate veloci" per cercare di impedire la sparizione superrapida di qualunque attrezzo lasciato per un attimo incustodito, o del sapone, dell'asciugamano, delle scarpe... Una delle cose più impressionanti è che dopo la caduta del regime comunista in molti edifici di uso comune, specialmente nelle scuole, sono scomparsi gli interruttori elettrici, i vetri, legname e qualunque materiale riciclabile per uso privato. Per le drammatiche condizioni sociali sono state tagliate molte piante di olivo per farne legna da riscaldamento durante l'inverno.
Abbiamo parlato molto con alcune persone del luogo; ci sono stati scambi con alcuni insegnanti e con un medico assessore alla sanità di Valona e tutti mi hanno dato l'impressione di una situazione umana in lentissima evoluzione verso una presa di coscienza che non sarà né facile né scontata. Perché la spinta ad imitare il modello occidentale ed in particolare quello italiano è molto forte e certamente il potere del capitale può avere un fascino molto pericoloso per chi si trova ad un livello economico così basso.
Abbiamo ricevuto molti segni di amicizia, di accoglienza, di una fraternità che è filtrata attraverso una nutrita squadra di "scugnizzi" scalzi, abbronzati e pieni di istintiva energia vitale che ci hanno saltellato intorno, partecipando ai vari lavori di pulizia dell'ambiente esterno alla casa. Il tempo del "cambiamento albanese" ha certamente il ritmo della loro generazione, con la speranza che la loro crescita ed evoluzione non venga turbata dalla violenza armata della guerra che potrebbe scendere dalla confinante regione del Kossovo che è ritenuto parte della patria albanese.
Vorrei concludere questo semplice "taccuino d'estate" con un ricordo speciale per i galli di Acqua Fredda: il loro canto ritmato, tenace, dalle svariate tonalità, ha accompagnato fedelmente le mie notti pressoché insonni, mentre cercavo di lasciarmi andare ad una specie di riposo disteso su di un ripiano di legno assai compatto e duro. Cominciavano verso le due della notte e senza arrendersi, senza deflettere dal loro compito, i galli albanesi (come del resto tutti i galli del mondo) lanciavano il loro richiamo fino alle prime luci dell'alba. Poi, come per incanto, all'avvicinarsi del nuovo giorno, tacevano: il loro compito era terminato. La certezza che la luce avrebbe vinto ancora una volta il buio della notte li rendeva tranquilli e li appagava.
Spero ci sia data la stessa tenacia di questi caparbi galletti che mi hanno circondato per una settimana e che con insistenza e determinazione chiamavano l'aurora del giorno nuovo. Il popolo albanese (come tanti altri popoli) ha urgente bisogno di questo giorno pieno di luce e di vita serena. C'è sicuramente la possibilità di dargli una mano perché questo sogno notturno trovi pienezza di compimento e venga alla luce. La sua storia è segnata da sofferenze grandissime, frutto di invasioni, di violenza, di repressione della libertà. Questo tempo molto incerto che sta vivendo può essere fecondo di cose buone e positive, a meno che i falchi del grande capitale non rendano ancora una volta più difficile il percorso di questo cammino di liberazione. L'aquila albanese può essere il segno di un desiderio e di un sogno non fondato sulla forza, ma sulla libertà e sull'apertura del cuore nei grandi spazi della solidarietà disinteressata, dell'amicizia e della fraternità.
don Beppe
Sta calando l'estate, ma il morso del caldo è ancora ferreo. La preparazione di questo secondo numero della nuova serie di Lotta come Amore procede ingrossandosi pigramente di scritti dopo tentativi e spunti che fanno capolino e scompaiono senza produrre nulla, come gli improbabili annunci di acquazzoni ristoratori.
Una di queste suggestioni è poco più di una confidenza che non riesco ad inquadrare bene, ma insiste nel voler prendere forma. Affiorano due ricordi che continuano ad intrecciarsi tra loro pur nella più completa diversità. L'incontro, breve ma molto intenso, con una giovane donna davvero bella, alla ricerca dello "scatto" che avrebbe illuminato la sua vita. Un brindisi faticoso e ridotto all'essenziale con un amico gravemente ammalato, che morirà il giorno dopo. Il legame tra questi due episodi è costituito, molto probabilmente, dal fatto di esserne stato protagonista, ma il tempo che li separa (trascurabile in termini di anni...), me li propone come riferimento di un cambiamento profondo. Il passaggio dall'innamoramento di persone e situazioni di vita capaci di focalizzare la loro ricerca e il loro desiderio su obiettivi decisivi resistendo alle mille distrazioni del quotidiano, all'amore del quotidiano stesso tutt'altro che banalizzato, ma reso profondamente vero dalla presenza di sé agli altri e degli altri a sé nella concentrazione del momento che passa. Ciò che mi rende adesso consapevole di questo traghettamento non è tanto il rarefarsi o meno dell'innamoramento e la presenza o meno di un amore concreto per l'umanità, ma piuttosto il fatto che mi sento vivo nel tempo presente.
Nonostante le preoccupazioni per il futuro, le riflessioni a tutto tondo sui sommovimenti di un mondo che rivela sempre più la tragica violenza di cui è impastato, le sorti di una economia e di una politica mai così a fondo delegittimate, una gioventù sonoramente bocciata da coloro che l'hanno prodotta... Nonostante che anch'io assuma un tono grave, scuota la testa e sentenzi sciagure, non riesco a non sentirmi vivo qui e ora. Piccole sicurezze e consolazioni della sfera personale? Può essere. Eppure questa sensazione supera quello che mi può accadere oggi, anche se nell'oggi è totalmente presente, racchiusa e spesa. Una vitalità, una voglia di vivere che sorprende, per primo, me stesso. Perché so quanto di non espresso, di incompiuto c'è in me e come il treno della mia corsa si blocchi molto spesso come irrigidito dalla paura di prendere troppa velocità, di assumere una precisa (e non un'altra...) direzione, di incontrare via via campagne aperte, deserti, città. Ma le sorprese non sono sempre spiacevoli: anche se costringono a misurare il vissuto con il sentimento alla ricerca di una coerenza che è - prima di tutto - pace interiore alimentata e accolta.
Io non credo che si debba necessariamente sentirsi stritolati tra la tentazione di attendere che siano disponibili nuove visioni d'insieme e l'appiattimento sul quotidiano. Mi sembra di intuire che anche oggi è necessario forzare la storia con quel pizzico (o quel lievito?) di follia che impedisca alla ragionevolezza di prendere il sopravvento limando tutto. Una follia che si nutre di inquietudini sottratte all'avvitarsi su se stessi e le proprie vicende. Che si nutre di lotta pazientemente e tenacemente salvata dall'essere solo parabola votata alla sconfitta. Che si nutre di utopia permeata di accadimenti storici. Una follia che misura la vita per tutto il mistero che può offrire prima che per tutto ciò che di bello e importante vi si può ricavare.
Luigi
Pubblichiamo un articolo scritto da Sirio alla fine del '79 e comparso sul primo numero del 1980 di Lotta come Amore.
Tempi diversi, eppure... le constatazioni e la raccomandazione sembrano calzare anche ai nostri giorni. Ed anche l'invito a scrivere, a comunicare anche solo lo stordimento di fronte a questo momento storico in cui siamo immersi, se non addirittura sommersi. Per aiutarci a reggere questo tempo che spazza via sicurezze, programmazioni, criteri e punti di riferimento. E a navigare verso nuove terre...
Cari amici,
queste paginette vi arrivano nell'anno 80 ma vorrebbero essere le ultime dell'anno scorso. La puntualità spesso non è possibile e per diversi motivi. A volte manca letteralmente il tempo e anche le forze, dopo una giornata di lavoro in officina, si ritrovano alquanto ridotte e dal martello alla penna, non sempre il passaggio è agevole e possibile. E i sabati e le domeniche troppo spesso ormai rimangono giorni risucchiati da incontri, manifestazioni, impegni di partecipazione e di lotta, nella realtà del momento di storia che attraversiamo. Sappiamo bene che tutto può essere inutilità, tempo e forze buttate al vento, ma pensiamo che non sia onesto rifugiarci nell'indifferenza, ripiegarci elegantemente nel personale, indurendo il cuore e l'anima nella difesa e nell'affermazione del privato. Un volta si diceva ed era affermazione coraggiosa, avanzatissima, che tutto era politica, compreso il soffiarsi il naso. Attualmente forse è più giusto dire che tutto ormai è pazzia. Il problema non sta più fu pazzia e saggezza, ma soltanto quale pazzia, quale tipo o realtà di pazzia, scegliere per affrontare il vivere, la realtà del quotidiano e tanto più un progetto nel quale giocare la propria vita e il rapporto d'esistenza con il mondo nel quale stiamo vivendo.
Perché ad una logica di cultura, di civiltà, di religione, di morale, di politica ecc. così come normalmente s'intendeva ai bei tempi dei sillogismi e cioè dei filosofi, teologi, pensatori e così via, è semplicemente ridicolo il rifarsi e riferirsi. Tutto si è andato logorando come vestito vecchio e improvvisamente ci siamo trovati fra mano degli stracci. I tentativi di ricucitura e di rammendo non sono serviti ad altro che a dimostrare l'assoluta inservibilità. In fondo la logica economica del consumismo è venuta applicandosi anche alla cultura, ai valori di rapporto, alla mentalità e alla realtà di vita individuale e collettiva. Prendere e gettare via non è più nemmeno una novità. La novità semmai sta tutta nello scoprire una spaventosa realtà di vuoto, di senso dell'inutile, del non sapere a che santo rifarsi per trovare un motivo . d'interesse, una ragione di vita. Perché è assai faticoso vivere senza sapere perché. Ma non il perché filosofico e teologico, roba ormai da raffinati fuori tempo. Il perché pratico che comporti il coraggio di tirare avanti il quotidiano, la normalità della vita e quindi la sua sterminata monotonia senza una precisa convinzione e cioè senza entusiasmo, dato che il senso del dovere nei confronti della vita è un non senso.
Il vuoto del motivo interiore, del convincimento personale, è irrimediabile. E' decisamente senza sostituzione. L'universo non basta a riempire il vuoto di cuore. E il sole in mano non serve a far vedere un cieco. Già Gesù, e la sua Parola è tanto più per il nostro tempo, diceva che non valeva nulla per l'uomo guadagnare e possedere il mondo intero se nel frattempo perdeva l'anima sua. E anima è anche l'intima ragione, motivazione del proprio vivere, è il se stesso più profondo, essenzializzato, l'insostituibile nascosto nel midollo dell' esistenza. Avvicinare persone, parlare e spesso è più che sufficiente l'intuizione, quell'impressione a seguito della quale ci accorgiamo di comunicare sull' orlo dell' abisso, non è più comunicare, offrire e accogliere, è guardare nel vuoto, stringere la mano a fantasmi, è precipitare. Tant'è vero che spesso viene istintivamente da cercare di aggrapparsi a qualcosa, da precisare immediatamente un qualche motivo capace di reggere, nonostante tutto.
Una volta, ma sono due, cinque anni, situazioni difficili, momenti di difficoltà, si chiamavano col dolcissimo nome di crisi, una musica di speranza e di poesia come un uccello che canta solitario sul ramo dell'albero o sui tegoli del tetto. Ora è il niente, il vuoto, l'irrimediabile, la fine. Chiuso per lutto.
Pessimismo? Sarebbe sempre una gran cosa. E' molto peggio, perché è assenza di volontà di lotta. E' passività, resa senza condizioni. A volte viene l'impressione che non rimanga altro da fare che assistere allo spettacolo. Soffrendo l'angoscia di non poter muovere nemmeno un dito: perché fare qualcosa è rischiare il ridicolo, esattamente come tentare di fare qualcosa davanti a uno spettacolo. Queste riflessioni puoi, caro amico, giudicarle racconto eccessivo, ma tu sai che ogni affermazione potrebbe essere comprovata da citazioni di cronaca quotidiana. Con pezzi di giornale, ma forse sarebbe meglio dire con giornali, riviste e libri interi, dalla prima all'ultima pagina. E con nomi e nomi, come sull'elenco telefonico. Oppure basterebbe mettere un po' più di attenzione alle conversazioni, parlare con più Amore con coloro con i quali si parla e cercare di ascoltare un po' di più a cuore aperto, chi ha voglia di parlare e anche chi non ne ha voglia perché non crede più alla parola e tanto meno all'amicizia. Verrebbe da pensare che alla base di tanta violenza ci sia questa conflittualità cioè impossibilità di rapporti e quindi ricerca di soluzione nel non parlare più, nemmeno con se stesso, se non attraverso l'evasione, lo sfuggirsi e il distruggersi o comunicare con gli altri, con l'esistenza, non parlando, ma sparando. Non si vede come sia possibile sorprendersi che le parole, in questo nostro tempo, siano diventate droga o proiettili. Quando l'uso comune della parola, sia pure metaforicamente, ma fino ad un certo punto, è per drogare e sopraffare il prossimo, è per la menzogna e lo sfruttamento e l'oppressione.
D'altra parte la conflittualità spicciola e la violenza quotidiana, non è possibile giudicarla se non come normalità di rapporti, quando è realtà storica mondiale.
La pace e la sopravvivenza del mondo riposa nell' armamento nucleare e sull' equilibrio degli interessi dei due imperialismi. Questa realtà di conflitto sbriciola, psicologicamente e concretamente, la spaventosa ostilità fino alla rivoltella nelle tasche della gente e nella diffidenza tra persona e persona. E in maniera irrimediabile, perché mai, come forse nel nostro tempo è successo - ma succederà sempre più che l'universale determini, costruisca il particolare, che quello che succede dentro le pareti di casa o ciò che avviene fra due persone sia segno, immagine e realtà di quello che avviene a livelli mondiali. Perché il privato, il personale non può esistere più: anche quando ci sembra di no e cerchiamo che non succeda, siamo immagine e somiglianza di questo mondo.
Forse perché e non può non venirmi in mente, ci siamo cancellati un po' troppo di sulla fronte e dall'anima, l'immagine e somiglianza di Dio.
Rimane la pazzia di tentare una liberazione e cioè una diversificazione che non vuol dire, evidentemente, estraniarsi, disincarnarsi, astoricizzarsi. Anzi, tutt'altro.
Non siamo diversi quando non si battono le mani quando tutti applaudono, né quando non si fischia quando tutti fischiano. Siamo diversi quando non si va a teatro, si rifiuta di guardare il mondo come uno spettacolo, ma si diventa in un modo o in un altro, spettacolo noi stessi per il tentativo onesto di rappresentare qualcosa. Qualunque cosa, purché sia senza trucchi, travestimenti, canovacci imparati a memoria. Qualunque cosa pur di non fare teatro, cinema, giocare con le ombre e con le controfigure.
So bene che cercare la propria identità è fare opera di autentica stranezza, come tentare di volare agitando le braccia. Pensare di averla trovata e crederci e costruirvi sopra la propria casa, è roba da pazzi. Ma ormai il bivio, il crocevia della storia, non permette altre soluzioni. O la pazzia della creatività, ricercata dal profondo della propria immaginazione e rafforzata da un coraggio inesauribile (va bene anche il coraggio che non si ha) o la strada asfaltata, l'autostrada della razionalità, dell' allineamento, dell' andare avanti a corpo morto portato verso il gran mare del fiume del nostro tempo. Penso che la passività sia il più grosso peccato contro se stessi, è la non accettazione del rischio, della fatica e della meravigliosità dell'essere vivi. E' impoverimento di vita e quindi pesante responsabilità verso gli altri, verso la storia.
La creatività è il riconoscersi creature di Dio e accettare e dare respiro a quella presenza di volontà creativa che Dio ha nascosto in ciascun essere vivente. In noi esseri umani la particolarità è la coscienza di questa potenza creativa e l'invito al suo completamento (perfezionamento): la vita ci è stata donata per essere creata da ciascuno di noi.
La Fede cristiana ne dà di questo Mistero un' indicazione adorabile e un racconto storico in Gesù Cristo: Lui che crediamo vero Dio e vero Uomo in unica Persona.
Cari amici, pensieri di fine d'anno, ma non sono di stanchezza e tanto meno di paura: forse esprimono uno stato d'animo di trepidazione per le sorti del mondo, per la possibilità ormai nelle mani di uomini della cancellazione del futuro, per un cambiamento di rotta storica che costi prezzi spaventosi, per un intristimento, ancora più banalizzato, disumanizzato, del vivere quotidiano.
So bene che la nostra, la mia proposta è goccia d'acqua nel deserto di sabbia o è tentare di prosciugare l'oceano col cavo della mano: ma che sia proposta di chi vive ormai da molti anni può essere riprova e argomento, che è valore capace di reggere anche sulla distanza ...
Con gli auguri di ogni bene. Sirio
P.S. Scrivere lettere può anche voler dire tentare di provocare risposta e dichiarare tutta una disponibilità ad accogliere a cuore aperto chi ha voglia di intavolare un dialogo, aprirsi ad una comunicabilità fra amici desidero di aprire il proprio guscio, se non altro per un gesto di saluto e possibilmente per una parola d'incoraggiamento e di fiducia. O anche per gridare aiuto nel tentativo di non affogare...
don Sirio
Io sono l'impiegato, il tecnico, il meccanico, l'autista.
Loro mi dissero: fai questo e quest'altro, non guardare né a destra né a sinistra, non leggere ciò che c'è scritto.
Non pensare la macchina nel suo insieme.
Tu sei responsabile solo di quest'unico bullone. Tieni d'occhio quest'unico timbro di gomma. Questa dev'essere la tua unica preoccupazione!
Non annoiarci con ciò che è al di là di questo. Non cercare di pensare per noi. Avanti, guarda diritto. Avviati. Vai, vai. Così pensano loro, i grandi, i furbi, i futurologi: niente da temere, niente di cui preoccuparsi.
Tutto sta filando proprio bene.
Il nostro giovane impiegato è un onesto lavoratore. E' un semplice meccanico. Un uomo qualsiasi.
Quelli qualsiasi non hanno orecchi per intendere né occhi per vedere. Noi sì che abbiamo testa, mica loro!
Rispondigli - disse tra sé l'uomo qualsiasi, un uomo che aveva ancora una testa per pensare -: chi è il responsabile?
Chi sa dove sta andando il treno? Dov'è la loro testa? Anch'io ne ho una,- perché io vedo il precipizio - e non c'è un guidatore su questo treno?
L'impiegato autista tecnico meccanico alzò lo sguardo. Fece un passo indietro e vide - e che mostro! Incredibile.
Si stropicciò gli occhi e - sì, tutto a posto.
Sto bene. Vedo il mostro. Sono parte del sistema. Ho individuato la forma. Solo ora sto realizzando cosa rappresenta! Questo bullone è parte di una bomba. Questo bullone sono io.
Come è successo che non me ne sono accorto e com'è che altri continuano a fare bulloni? Chi altro sa? Chi ha visto? Chi ha udito?
Veramente l'imperatore è nudo.
Lo vedo. Perché proprio io? Non è per me. E' troppo per me.
Alzati e grida. Alzati e dillo a tutti. Tu puoi. lo, il bullone, il tecnico, il meccanico? Sì, tu. Tu sei l'agente segreto del popolo. Tu sei gli occhi della nazione.
Agente dello spionaggio, dicci quello che hai visto. Dicci ciò che gli addetti ai lavori - i soli responsabili - ci hanno nascosto. Senza di te c'è solo il precipizio. Solo la catastrofe. Non ho scelta, sono un uomo da poco, un cittadino qualsiasi, uno fra tanti, ma farò ciò che deve essere fatto.
Ho udito la voce della mia coscienza e non c'è luogo dove possa nascondermi.
Il mondo è piccolo, piccolo per il Grande Fratello. lo sono in missione per voi. Sto facendo il mio dovere. Prendetene parte. Venite e vedete. Alleggerite il mio fardello. Fermate il treno.
Allontanatevi dal treno. La prossima fermata - un disastro nucleare. Il prossimo libro, la prossima macchina...
No. Non può essere così!
Mordechai Vanunu
Ha lavorato come tecnico nucleare in una base missilistica a Dimona in Israele da11976 a11985. Nel 1986 egli fotografò la base e rivelò l'esistenza di un programma di riarmo nucleare israeliano. Fu rapito a Roma da agenti di Israele nel settembre dello stesso anno, riportato in Israele e tenuto in isolamento per sei anni. Nel 1988 ha ricevuto il Premio della Fondazione Danese per la Pace ed è stato anche designato per il premio Nobel perla Pace.
Il suo indirizzo è presso la prigione di Askelon, ma la posta può essere censurata e inoltre lui non è sempre in grado di rispondere.
Per ulteriori informazioni sulla campagna in corso per la sua liberazione, scrivere a "The Campaign to Free Mordechai Vanunu, 6 Endsleigh St., London, England, WCIHODX".
La parola "embargo" viene ripetuta più volte come un efficace alternativa alle misure distruttive della guerra guerreggiata. Non scorre sangue per l'azione militare diretta, ma gli effetti sulla popolazione sono comunque devastanti. Specie quando tali misure sono mantenute per anni e anni fino ad incidere sulle generazioni.
Le risorse dei paesi sottoposti a tali misure sono sempre più finalizzate ad un ristretto gruppo dominante che finisce paradossalmente per avere più forza nel controllo di una popolazione stremata e ridotta alla pura sopravvivenza.
E' misura che congela e finisce per ibernare il problema che si voleva risolvere, se non viene praticata con incisiva tempestività e in ambiti di tempo delimitati.
Proponiamo una corrispondenza di una suora americana che ha visitato l'Iraq appena dopo la guerra del Golfo e un breve estratto da uno studio sulla conformità o meno al diritto internazionale dell'embargo americano nei confronti di Cuba.
La scorsa estate sono andata in Iraq per due settimane. Dalla mia prima venuta come membro del Gulf Peace Team nel gennaio 1991 ciò che m interessa è mantenere rapporti di amicizia con molti iracheni. Nell'estate 1991 passai tre settimane in Giordania aspettando il visto per rientrare in Iraq. Con quel visto ho viaggiato liberamente, usando autobus pubblici affollati da iracheni che si spostavano a nord o a sud di Baghdad. Giovani militari di ritorno alle loro guarnigioni, uomini e donne di ogni età ansiosi d rivedere le loro famiglie. Viaggiando a nord verso Mosul, a occidente verso Babilonia o a sud verso Kerbala, ebbi la solita paura dei posti di blocco. Anne Montgomery e io non appartenevamo a una qualunque organizzazione. Avevamo deciso di partire perché eravamo sgomente pensando a ciò che stava succedendo al popolo iracheno a causa dell'embargo imposto dagli alleati. Ma come avrebbe reagito l'ufficiale del posto di blocco abituato a prendere in considerazione solo moduli e permessi timbrati? Non ho mai dovuto dare alcuna spiegazione e solo raramente ho dovuto tirar fuori il passaporto dalla borsa.
Nel 1992 il visto mi fu concesso più facilmente. Mi ero presa la responsabilità nell'estate del '91, di ascoltare e rendere pubbliche le voci del popolo iracheno. Chirurghi rimasti senza anestetici per le loro operazioni, madri e padri che avevano perso figli nei bombardamenti delle città, suore e frati di rito Latino e Caldeo, amministratori che prima erano orgogliosi del livello dei loro ospedali... Poiché non trovai neppure un editore americano, fotocopiai i rendiconti, li rilegai e scelsi come titolo le tre parole che mi furono rivolte da un giovane soldato iracheno prima di essere spazzato via dalla Tempesta del Deserto, seppellito vivo dai tanks americani.
Ho incontrato Mahmoud all'inizio del gennaio '91 sulla strada per il campo dei pacifisti al confine tra Iraq e Arabia Saudita. Mi presentai come Americana e la sua risposta immediata fu:
"American-Salaam-Iraqi". Ogni cosa che faccio ora per far conoscere il vero volto del popolo lo faccio in nome di Mahomud. Mentre sto tenendo un corso sulla Sacra Scrittura alla St. John's University, lo vedo seduto davanti a me. Quando vedo giocare a pallone in Washington Square Park, vedo Mahmoud colpire il pallone con la testa o con i piedi. Naturalmente la testa e i piedi sono stati dapprima torturati dalla fame perché abbiamo tagliato i rifornimenti alla sua unità; e il suo corpo è divenuto sabbia, tutta la sabbia che gli abbiamo rovesciato sopra. Ma lo spirito di Mahmoud vive e le sue parole prevarranno: "American-Salaam-Iraqi" .
Alla fine del 1991, ho presentato una serie di diapositive che mostravano i reali effetti delle sanzioni e della distruzione delle infrastrutture irachene. Una sera dedicata tanto alla cultura Mesopotamica che alla realtà attuale dell'Iraq, ci furono parecchi interventi sia da parte di quel 9% di americani che si sono opposti alla guerra che da parte di artisti, poeti, rappresentanti politici iracheni. Un amico riprese la serata ed io ne inviai una copia al Dr. Al Anbari alle Nazioni Unite. Forse egli vide, oltre tutte le parole, il nostro sincero dolore e la nostra vergogna. In ogni modo non fu difficile ottenere un visto per l'estate del 1992. Non avemmo bisogno di programmi riservati. Eravamo semplicemente due donne che rispondevano all'augurio ingenuo e profondamente sentito - nello stesso tempo - di Mahmoud: "American-Salaam-Iraqi".
L'estate fu ancora torrida, ma dovunque andavamo gli iracheni ci offrirono acqua, tè o caffè turco.
Essi hanno sempre distinto tra il popolo americano e il governo americano. Chiesero solo perché fossimo venute nel pericolo; divisero con noi il cibo che avevano, ci mostrarono orgogliosi ciò che erano riusciti a ricostruire in pochi mesi e che avrebbe preso cinque anni a cose normali. Gli iracheni sono divenuti contadini, ma anche ingegneri elettronici. Sono un popolo con un forte senso di dignità. Sono consapevoli di essere nati nella culla delle civiltà. Un giorno chiameremo le nostre minacce di bombardarli tutti con il vero nome: terrorismo psicologico. Ma per il momento non possiamo accettare il fatto, o solo la possibilità, che siamo noi i terroristi.
Di sicuro non sono un politico. Non ho documenti segreti per le mani. Non conosco i diabolici piani di Saddam Hussein per il controllo delle risorse petrolifere mondiali, piani che sia John Major che Bush dicono di conoscere bene. Sono solo una sorella. Ed ho camminato tra la gente: Sciti, Sunniti, Kurdi,...". Per tutti loro io dico: "Basta!". Togliete le sanzioni. Lasciate che gli iracheni utilizzino le loro risorse per ricostruire una nazione federale. Non imponete loro la carità quando hanno bisogno di libertà per essere quel popolo pieno di risorse che sono stati per sei millenni. So di parlare a nome dei medici iracheni, degli insegnanti, dei preti, dei genitori e dei piccoli. Verrò con la mia documentazione ovunque sarò invitata. La mia visione è resa chiarissima da ciò che ho visto ed è radicata nella visione di pace evangelica. Non è prodotta da rivalse della politica inglese, da vendette irachene, dall'amore americano per il petrolio a basso costo.
Tutti abbiamo fatto degli errori. La Guerra del Golfo è stato un gravissimo errore. C'è da vergognarsene appieno. Ma possiamo imparare dai nostri errori e possiamo onorare la memoria di Mahmoud facendo eco alle sue parole: "American-Salaam-Iraqi".
Sister Eileen Storey
In The Catholic Worker, 1993
L'embargo economico, commerciale e finanziario adottato dagli Stati Uniti nei confronti di Cuba è in vigore da ormai più di 30 anni. Le prime misure economiche contro Cuba furono prese nel 1960 e gradualmente estese. Nel 1963 l'embargo era completato. Esso è stato finora costantemente mantenuto con poche varianti. Nell'ultimo anno si è avuta un'ulteriore "escalation" di tali misure, culminata nell' adozione da parte del Congresso del progetto di legge presentato dal deputato Torricelli: il "Cuban Democracy Act of 1992". Per i dati consultare il volume "United States Economie Measures Against Cuba" a cura di Falk e Krinsky.
Riassumendo le più importanti misure economiche degli Stati Uniti nei confronti di Cuba, in generale:
Importazioni ed esportazioni - Sono vietate tutte le importazioni da Cuba verso gli Stati Uniti e le esportazioni degli Stati Uniti verso Cuba. Trasferimenti di denaro e altre proprietà - E' fatto divieto a qualsiasi persona fisica o giuridica statunitense di trasferire a Cuba o a cittadini cubani (o cittadini di Stati terzi residenti a Cuba) denaro o proprietà di qualsiasi genere, inclusi i crediti e le tecnologie. All'inverso è vietato ai cittadini USA ricevere proprietà da Cuba o da cittadini cubani. Poche le eccezioni contemplate: invio di modeste somme di denaro a parenti, pacchi dono a parenti o istituzioni di beneficenza e simili, invio di medicinali a organizzazioni non governative. Qualche limitata possibilità di esportare medicinali e attrezzature mediche è ora prevista dal "Cuban Democracy Act".
Servizi - E' vietato a cittadini statunitensi fornire servizi a Cuba o a cittadini cubani )0 a cittadini di Stati terzi residenti a Cuba) o ricevere da essi servizi.
Contratti - E' vietato stipulare contratti con Cuba o cittadini cubani (o cittadini di Stati terzi residenti a Cuba).
Viaggi - E' vietato ai cittadini statunitensi pagare Cuba o cittadini cubani per spese di viaggio e soggiorno a Cuba. Poche eccezioni. Aerei - E' vietato agli aerei statunitensi atterrare a Cuba quale che sia il paese da cui decollano. Inoltre è vietato a tutti gli aerei (statunitensi o meno) di decollare da un aeroporto statunitense con destinazione Cuba.
Navi - E' vietato l'ingresso nei porti statunitensi di navi, siano esse cubane, statunitensi o di Stati terzi, che trasportino merci o passeggeri da e per Cuba o in cui Cuba possa avere interesse. Inoltre dal 1993 è fatto divieto a qualsiasi nave che abbia toccato nei sei mesi precedenti un porto cubano di caricare o scaricare merci in un porto statunitense anche se non si tratti di merci cubane.
Cari amici di Viareggio,
il vostro giornale mi arriva da molti anni e precisamente da quando conobbi Luigi ad un convegno della Pro Civitate Cristiana. La vostra voce mi giunge così, in modo rapsodico e regolare e vi sono grata per non avermi cancellato dal vostro indirizzario quasi membro di una comunità ideale che fa della fede in Dio impegno e testimonianza quotidiana...
E' di fronte a lettere come questa che l'intenzione di sfoltire l'indirizzario di Lotta Come Amore svanisce come neve al sole. Possiamo forse sottoporre il lungo elenco di oltre 2000 indirizzi ad una sorte di decimazione, senza nessun criterio? E quale criterio? Rischiando di tagliare i fili delicati dell'amicizia e della compagnia?
D'altra parte appare necessaria una "parsimonia" nelle spese di stampa e spedizione perché le nostre energie e i contributi di amici sostengano questa piccola pubblicazione con dignità.
E' importante allora che coloro che non l'avessero ancora fatto ci inviino un segno della loro presenza e della loro intenzione di continuare o meno a ricevere il giornalino.
Abbiamo - nei numeri precedenti - proposto una "cartolina". E che cartolina sia, allora!
PREGHIAMO COLORO CHE NON L'AVESSERO ANCORA FATTO DI INVIARE UNA CARTOLINA CON IL LORO INDIRIZZO E L'INTENZIONE DI CONTINUARE (O MENO) A RICEVERE LOTTA COME AMORE.
Speriamo di ricevere una montagna di cartoline illustrate per conoscere le immagini dei vostri paesi e delle vostre città. Sarà un modo per conoscerci meglio...
HANNO SCRITTO:
"Riflessioni sulla conformità o meno al diritto internazionale dell' embargo economico, commerciale e finanziario attuato dagli Stati Uniti nei confronti di Cuba"
a cura di A.Bernardini, F.Lattanzi e M.8pinedi.
La diffusione nelle librerie è curata da DIEST Torino, tel.0ll/8981164
oppure chiedere direttamente Fondazione Internazionale Lelio Basso, via della Dogana Vecchia, 5 00186 Roma tel.02/68801468 fax 6877774 oppure Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, via U. Foscolo, 3 20100 Milano tel.02/86463483 fax 72023442
Serge Latouche
"Il pianeta dei naufraghi" (saggio sul doposviluppo) Ed. Bollati Boringhieri Torino, 1993
[dalla copertina:] La nave dello sviluppo ha fatto naufragio e mentre - come sul Titanic - l'orchestra continua a suonare, sembra proprio che una possibilità di salvezza venga da quanti, persa ogni speranza di tornare a bordo, fanno di necessità virtù, piuttosto che dagli altri, per niente disposti ad interrompere le danze... Si tratta della constatazione che il naufragio degli uni, per gli
altri può essere la condizione di una vera e propria 'alternativa allo sviluppo'. Alternativa fatta per ora soltanto di iniziative e di esperienze spontanee, per di più non prive di ambiguità, ma tutte convergenti nel senso della subordinazione dell'economia alla società, del primato dei rapporti tra gli uomini sulla produzione e sul consumo delle cose.
Jacques Ellul
"Anarchia e Cristianesimo" Ed. Elèuthera, 1993
[dalla prefazione di Mimmo Franzinelli:] "Il titolo scelto dall'autore per questo
saggio non coglie appieno il contenuto del volume. La monografia non consiste in un organico raffronto del cristianesimo con l'anarchia. e solo di sfuggita si occupa delle critiche via via rivolte dagli anarchici alla religione. 'Anarchia nel cristianesimo' ci pare rendere meglio la monografia di Ellul, valorizzando i fermenti libertari da lui ravvisati nell'originario messaggio biblico. Oppure, con un pizzico di provocazione in più, si sarebbe potuto escogitare un titolo apparentemente paradossale: 'L'anarchia del cristianesimo', considerato che gli sforzi dello studioso francese si focalizzano appunto sulla funzione 'eversiva' delle scritture e culminano nell'esigenza di liberare Gesù dal cristianesimo.
HANNO DETTO:
"Chiedo scusa - disse Yuan Hien -, mancare di beni è essere povero, ma essere miserabile è non poter mettere in pratica il proprio sapere. Io sono povero, ma non miserabile".
Chuang-Tse
"Noi siamo gli architetti delle nostre case, noi siamo i medici dei nostri malati, noi siamo gli insegnanti dei nostri figli, noi siamo gli ingeneri dei nostri cantieri" .
Ritornello popolare delle 'barriadas' del Perù.
Questa rubrica vuoi essere una minuscola agenda contenente indirizzi, numeri telefonici, titoli di libri, riviste, film, musiche, brevi frasi ... che possono aiutare e consolidare la ricerca di uno spirito critico attraverso incontri, letture, ascolto e visione, incentivando l'iniziativa personale.
Sono graditi i contributi dei lettori pur nei limiti dello spazio disponibile. Del resto sopra abbiamo reso conto di libri che ci sono stati regalati o inviati.
Signore, Salvatore promesso,
i miti marciscono
come foglie
di morte stagioni;
le scelte si logorano
come vestiti
consumati dall'uso;
le verità sono sepolte
dentro lapidi
di lucida carta stampata;
gli spiriti gemono
come donna
in un difficile parto.
Gesù,figlio di Maria,
la fede coltiva
deserti d'incredulità;
la speranza ravviva
attese d'impotenza;
la fedeltà prepara
futuri di liberazione;
l'amore matura
il tempo della gioia.
Emmanuele, Dio con noi,
sento che torni,
dal confino del cielo,
a visitare un uomo
brancolante alla vita
per rinascere in lui
come Cristo vivente.
Sergio Carrarini
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455