LOTTA COME AMORE: LcA marzo 1995

(frontespizio)

Il coraggio di cambiare
ci dirà
dove stiamo andando

Siamo in folle

Siamo in folle e cioè in balia di ogni movimento, di ogni spinta come di ogni freno, inclini a prendere velocità ogni volta che la strada punta verso il basso; a rallentare fino a rimanere un attimo immobili quando la strada della vita si impenna, sotto la sferza delle difficoltà e dei problemi, per ripiombare giù a velocità sempre più sostenuta dall'aggravarsi e l'appesantirsi delle situazioni.
Si può ironizzare quanto si vuole su questo titolo e magari lanciarci in più o meno eleganti giochi di parole centrati sul termine follie, ma non si può negare che il riferimento al cambio delle automobili e alla sostanziale precari età di tale posizione, richiama fortemente la attuale condizione di vita.
Che fare, allora? Tentare di saltar fuori per ritrovare un contatto anche traumatico con una realtà tutta diversa? Agire sui freni in uno sforzo titanico di fermare il mondo? Chiudere gli occhi e incrociare le dita puntando tutto sulla buona sorte?
Può darsi che abbiamo sperimentato questi atteggiamenti e chissà quanti altri con risultati a volte confortanti, spesso deludenti. Se poi le conseguenze sono state disastrose ne portiamo ancora le cicatrici o, più probabilmente, soffriamo di ferite ancora aperte.
Eppure, se vogliamo cambiare, dobbiamo proprio partire dalla consapevolezza di questa nostra condizione. Dal fatto di essere in folle.
Cambiare non è davvero facile!
Cambiare, e cioè abbandonare situazioni di totale passività, assumere decisioni e responsabilità anche solo verso se stessi, sperimentare relazioni attive con gli altri e con le cose, accettare verifiche che non siano bagni di morte e risurrezione, ma, più semplicemente un bilancio di errori e di risultati positivi, entrare - insomma - in un rapporto creativo con la vita.
Di fronte alla complessità del nostro vivere quotidiano non si può continuare a rivestire i panni dell'infantile onnipotenza. Occorre misurarsi con la propria vulnerabilità e non fare un dramma ogni volta che la vita stessa ci ferisce. Anche se doloroso, molte volte non c'é altro modo che renda possibile un mutamento di rotta, un ripensamento, liberando il coraggio di attingere alle proprie energie e alla propria voglia di vivere. Tesori questi a volte intatti, ma che noi dimentichiamo sepolti, presi da una paura senza volto e senza nome. Come l'uomo della parabola dei talenti che non ha trovato di meglio che seppellire ciò che gli era stato dato per vivere. Fare del cambiamento non un dramma che riassume l'insieme di gesti e di atti di interi spezzoni dell'esistenza, ma la spinta quotidiana che si esprime in ciascuno di quegli stessi momenti della vita. Cercare la vita dove essa si rigenera e si rinnova e rianimarla nei corpi imbalsamati dalle paure della diversità.
Occorre trasmettere fiducia nel cambiamento rielaborando le esperienze negative di tanti tentativi e cercando di inventare letteralmente più strumenti di intervento in situazioni difficili quali ad esempio la disincarnazione dei giovani dalla storia, la relazione con persone in difficoltà.
E per far questo dobbiamo sperimentare nuovi percorsi nella consapevolezza di una solitudine necessaria alla ricerca di modalità personali per immergersi nel grande fiume del cambiamento ed insieme della possibilità di uno scambio intenso e profondo con chiunque manifesti interesse alla maturazione di questa dimensione soggettiva.
Dal punto in cui si è, accorgersi di essere in un processo da rinnovare continuamente. Specchiarsi; e invece di fermarsi a rimirare la propria immagine o cadere in preda al più nero sconforto, sognare una nuova immagine di sé.
Far emergere e rendere consapevole il disagio mascherato dal conformismo, ma non permettere che esso distrugga ogni novità.
Cercare punti fermi, tagliando i ponti con le lamentose constatazioni del venir meno delle sicurezze.
Scoprire le vere esigenze, senza riprodurre acriticamente ciò che si è visto fare.
Dar valore ai rapporti interpersonali invece di sbocconcellare quel che di buono si può trovare negli altri.
Accogliere la vita come mistero che ci avvolge e ci comprende invece di piangere sulla nostra incapacità di comprendere la vita.
Se sappiamo da dove veniamo e ne siamo consapevoli, siamo già in folle. Il coraggio di cambiare ci dirà dove stiamo andando.

Ringraziamo tutti gli amici, che in vario modo e misura, ma con uguale cordiale partecipazione hanno voluto sostenere le spese di questo nostro modesto foglio.


La Redazione

"La mia pace" di fratel Arturo

Il titolo che io stesso ho dato potrebbe far pensare alla pace di Arturo. Invece queste sono le parole del Vangelo: "la mia pace", cioè la pace che Cristo offre come sintesi della sua missione nel mondo.
Stasera vorrei parlarvi della pace perché, in questi ultimi tempi della mia vita, guerre orribili come quella del Rwanda e della vicina Yugoslavia hanno scosso tutti e mi hanno fatto pensare seriamente che la nostra vita non è veramente una vita umana se non contribuiamo in qualche modo alla pace.
Vorrei darvi tre linee fondamentali che appaiono nella cultura attuale del mondo in cui viviamo e che possono costituire delle linee di azione per la pace. Una è di indole non solo religiosa, ma strettamente cristiana. Le altre due sono piuttosto motivazioni o linee di ricerca scientifica. La prima linea è rappresentata da un fenomeno che è avvenuto nel nostro tempo e che ancora non ha avuto gli sviluppi promessi. E' la scoperta del momento centrale della missione di Gesù.
Nella tradizione cristiana (o per lo meno per molti secoli) questa si è concentrata su Gesù come essere divino che è venuto a compiere nel mondo una missione extramondana, cioè non di questa terra. E' venuto, in modo particolare, per aprire le vie del cielo e persuadere il Padre al perdono. Elementi questi che si raccolgono nella sua persona di salvatore, ma che in un certo senso vanno al di là della nostra vita storica e interessano il nostro futuro oltre il tempo.
Invece il Concilio Vaticano II, portando a compimento una lunga ricerca teologica, ha riscoperto il filo conduttore della Bibbia. E ha riscoperto Gesù come trasformatore della storia. Dice il Concilio Vaticano che il centro della predicazione di Gesù non è l'anima; è il Regno di Dio. E questo Regno di Dio è un regno che si deve, anche se non completamente, realizzare già nella storia. Ed è praticamente una famiglia umana che è, nello stesso tempo, famiglia di Dio. A partire dal conflitto, a partire dal non intendersi, a partire da un mondo scandaloso, bisogna cercare di mettere dentro questo mondo delle dinamiche di amore. L'intento di Gesù è soprattutto la fraternità umana, l'intesa, il dialogo, l'amicizia, il superamento e la distruzione delle guerre e della violenza. E' quindi vero che questo eone della storia deve terminare alla fine del mondo in quella che chiamiamo la parusia, ma non per questo la missione di Gesù cessa di essere una missione terrena, storica.
Noi quando leggevamo l'Antico Testamento, restavamo scandalizzati al vedere il nostro mondo non solo come un mondo di amicizie, di incontri, di comunione, ma anche un mondo di violenze, di incomprensioni: l'uomo com'è, l'uomo che conosciamo, l'uomo che siamo noi.
E sappiamo che la Bibbia è un libro santo proprio perché dentro questa storia così confusa e così scandalosa appare l'azione delicata e profonda di Dio che conduce l'uomo verso l'amore, la convivenza, il convivio pacifico, il convivio amoroso e, per questo, lo rende felice. La missione di Gesù non poteva essere altra cosa. E' stata la nostra cultura dualista, spiritualista e idealista che ci viene da quella greca e, secondo studiosi attuali, addirittura dall'oriente, a spiritualizzare così tanto Cristo. Questa nostra cultura lo ha messo così tanto fuori dalla nostra esperienza umana, dalla nostra storia, dalla nostra sensibilità; ce lo ha allontanato tanto da far diventare il Cristo un essere molto importante per la nostra vita eterna, ma di nessuna importanza per la vita che ora viviamo.
Invece tutto un cammino teologico, culminato nel Concilio Vaticano II, ha riscoperto il Regno di Dio come un impegno su questa terra di Cristo che è morto proprio per poterlo realizzare. E' morto, Gesù, perché si è opposto fortemente, coerentemente, a questo mondo che è la negazione della fraternità, dell' amicizia, della pace, della concordia e della convivenza pacifica. Questo primo elemento importante è entrato nella nostra cultura. E' irreversibile, anche se viene negato; e forse non tanto negato volontariamente quanto attraverso una nostra religiosità tutta interiore che privilegia la figura di Gesù come salvatore dell'anima, che manda nel cielo le anime del purgatorio, e risolve i nostri interessi spirituali ed eterni. E' quindi una resistenza di tipo culturale. Ed è molto difficile accettare questo Gesù umano, incarnato nella storia, che assume a tutti gli effetti la nostra storia. A volte viene addirittura considerata un'eresia.
Il secondo elemento è parallelo al primo. Diceva Hegel che in fondo il fronte umano avanza con una certa compattezza e con un certo equilibrio.
E di fatto anche la filosofia, i filosofi del nostro tempo che hanno seguito la via di Kant, sono arrivati ad un vicolo chiuso. Si sono accorti che tutta la nostra speculazione non ha avuto nessuna influenza sull'andamento della storia. Anzi, la storia ha decisamente camminato verso la guerra, verso la discordia, verso la violenza, piuttosto che verso la pace.
Sapete che colui che forse può essere definito il più grande filosofo del nostro tempo, ha finito la sua ultima pagina scrivendo: "Solo Dio ci può salvare!"? E questo non è un atto di fede, come qualcuno ha pensato, ma piuttosto un atto di scetticismo e di disperazione: non c'è davvero salvezza! La nostra ragione è incapace di salvezza. E non parla - questo filosofo - della salvezza eterna; parla della salvezza del mondo minacciato dall'apocalisse. Solo Dio ci può salvare: un po' come dichiarare di non poter far altro che lavarsene le mani. Noi non possiamo farlo; assolutamente.
Il discorso giunto a questo punto morto viene ripreso da un altro filosofo, ebreo e alimentato dalla Bibbia; in particolare dai profeti. Egli dice che il pensiero umano (e parla del pensiero filosofico non tanto di quello scientifico a cui arriveremo tra poco) può riprendere il suo cammino solamente a una condizione: che ci appaia il volto dell'uomo oppresso, dell' uomo marcato dalla sofferenza e dall'ingiustizia. Questa visione ci può scuotere tanto da far cambiare profondamente la nostra vita. E' di lì, dice Levinas, da questo choc terribile, che può ricominciare il pensiero umano non dimenticando mai l'immagine di questo mondo. E' il volto dell'uomo il punto da cui comincia la filosofia.
E voi capite che questo è estremamente rivoluzionario, estremamente nuovo. Perché i filosofi non hanno mai, mai!, messo l'uomo concreto, reale, con i piedi in terra, e gli avvenimenti provocati dall'ingiustizia e dalla disuguaglianza umana come principio del pensare filosofico. E' invece da lì che comincia il pensiero filosofico. Ci voleva questo ebreo per insegnarci veramente quello che abbiamo dimenticato del cristianesimo. Noi abbiamo costruito e volumi e volumi di teologia speculativa domandandoci per anni interi come è fatto il corpo degli angeli, e non abbiamo mai pensato che Gesù ci ha detto: di lì dovete cominciare, perché ricordatevi che nel punto finale della vostra vita voi non sarete giudicati sulla dottrina, non sarete giudicati sul numero dei cori angelici, ma sarete giudicati se: "avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete rivestito". Dal volto dell'uomo: di lì dovete cominciare a ragionare, di lì dovete cominciare a pensare.
E qualcuno si può scandalizzare, ma io domando: è più nobile, è più reale, è più autentica l'idea platonica o l'uomo concreto, l'uomo che sta accanto a te, l'uomo che soffre? E solamente partendo di lì possiamo pensare ad una rivoluzione di tutte le teorie. E non solamente quelle spirituali, ma anche quelle economiche, le teorie politiche, tutto il nostro pensiero reale che sta aderente a questa scoperta. Allora sì che il nostro può essere realmente un pensiero di pace.
L'altra linea è tipicamente scientifica. Sono un incompetente e, leggendo un libro di fisica mi sono sentito insieme perso e affascinato: perso perché molti termini mi sfuggono e non saprei tradurli in parole più comprensibili. Affascinato perché l'autore di quel libro si sente a un certo punto coinvolto nel mondo della natura, come in una specie di grande danza. C'è una tale rivoluzione in questo modo di pensare rispetto ai sommi principi, alle idee eterne di Newton, di Galileo. Qui si parte dall'esperienza di sentirsi dentro questa danza così poco razionale, è vero, ma così immaginativa e creativa. Essa ha una spinta, una finalità, una meta, e non è assolutamente caotica. E' danza, non caos, non disordine.
Ho sentito una corrispondenza profonda tra queste tre linee fondamentali. Non si parte più, anche se lo volessimo, dalle idee; non si parte dai princìpi, non si parte dagli assiomi, ma si parte dalla realtà, si parte dall'uomo, dall'uomo concreto. E quindi - finalmente! - abbiamo messo i piedi in terra. Ed è un fatto importante. Abbiamo assunto la storia. E da questa visione della fisica nasce una idea che mi ha affascinato tanto ed è l'appartenenza.
Noi apparteniamo, apparteniamo anche se non lo vogliamo, apparteniamo a questo mondo, siamo parte di questo mondo. Quindi bisogna assolutamente superare l'idea del dominio - la natura è mia, la cosa è mia; io posso fare uno stabilimento e contaminare l'acqua che voglio, l'aria che voglio; calpestare tutto perché è mia, appartiene a me. Invece è la condizione contraria: io sono parte, sono dentro. E di qui nasce l'idea di responsabilità: noi non possiamo mai isolarci, sentirci soli, pensare a noi come noi, perché allora non siamo più uomini. Siamo perduti. Perdiamo la nostra identità, necessariamente, fatalmente. E molti hanno perduto la loro identità e la perdono continuamente anche perché tutto quello che li circonda - il mondo del consumismo, il mondo in cui viviamo, - praticamente è la distruzione della nostra identità.
La nostra identità come forza creativa; come identità autentica in poche parole. Siamo in un mondo nuovo! Ancora non si sa dove andrà; evidentemente questi esploratori, questi che vanno avanti; questi teologi o questi fisici, questi scienziati o questi politici sono quelli che esplorano, che vedono profeticamente dove va il mondo. E noi stiamo cercando, attraverso queste loro intuizioni, qual è il nostro cammino della pace.
Oggi viviamo in una pluralità religiosa e non più in un regime di cristianità. Ciascuno ha in mano la propria vita religiosa e con essa due possibilità: essere fautori di guerra o essere costruttori di pace.
Perché la religione è uno dei primi strumenti di guerra. In nome della religione abbiamo ucciso, perseguitato, diviso, separato, creato società di discordia. Ricordatevi che in tutto quello che è contro la pace, anche se fatto in nome di Dio, Dio non c'è. Perché, dove c'è Dio, c'è concordia e c'è pace. E per poter convivere con le altre religioni e per far sì che la religione sia veramente strumento di pace non c'è altro cammino, se ci pensate bene, che incontrarsi nell'uomo, incontrarsi nell'amore per l'uomo, incontrarsi nel compito di fare un mondo meno scandaloso. Non ci incontreremo mai se ci confrontiamo sulle idee, sui princìpi, sulla dottrina; mai! Non potete mai sperare che il papa sia il solo pastore di tutta l'umanità. Impossibile. Si può pensare che Cristo sì in quanto lui è il centro della pace, in quanto si è identificato con l'uomo povero, con l'uomo affamato, con l'uomo che soffre: lui sì che può essere principio della pace; non le idee, non i dogmi. Con questo non voglio dire, assolutamente, di negare i dogmi, ma voglio dire che l'incontro non si fa lì. Perché si fa unicamente partendo dall'uomo, partendo dai suoi bisogni e partendo dalla nostra responsabilità personale di contribuire a fare un mondo meno scandaloso e più giusto, più umano. Se la nostra religione ci aiuta e ci impegna a questo, allora sì che la nostra religione diventa elemento e strumento di pace. Se invece partiamo da una visione intellettualistica, dottrinaria della fede e siamo attaccati a questa, diventiamo necessariamente strumento di discordia. E non c'è niente contro la pace come una visione religiosa che si oppone all'altra e che dice: tu non sei come me, e io sono superiore a te; tu non hai la verità che ho io perché io sono tutta la verità. Capite? Tutto questo è una provocazione profonda a pensare. Non pensare partendo dai principi, ma da queste necessità. E costruire un mondo pensando agli ultimi, pensando ai piccoli, pensando agli esclusi, ai derelitti. Ed è proprio questo che i filosofi hanno visto; è la cosa di cui si sono accorti. Ancora noi non ce ne siamo accorti: il mondo dell'industria, il mondo della produzione non se n'è accorto. E pensa di vedere, ma non vede, non vede assolutamente. E chi invece va a vedere gli esploratori, quelli che vanno avanti, quelli che vedono già quello che sarà domani, e si prepara a questa novità. Cominciamo a dire che non siamo più agenti religiosi conquistatori, ma che siamo agenti di pace.
E che l'uomo non è l'uomo se non collabora alla pace dell'altro. Perché la nostra identità è proprio relazionarci: siamo esseri di relazione. Relazione con la natura, relazioni con gli altri, relazioni con le cose. E, nella misura in cui realizziamo pacificamente che le relazioni ci danno gioia e danno gioia agli altri, noi scopriamo negli altri la nostra identità.
Bisogna riscoprire l'uomo e riscoprirlo dentro di noi. Questo non lo si fa mai individualmente, mai in forma isolata: lo scopriamo nella relazione, nella relazione con gli altri. Quanto più siamo uniti agli altri e quanto più sentiamo la responsabilità degli altri e la responsabilità della natura, la responsabilità del mondo, tanto più ci sentiamo uomini, scopriamo la nostra identità.
Vorrei finire questa conversazione - perché io la sento come una conversazione con voi - con una poesia. Una poesia brasiliana che è stata scritta da un mio amico che si chiama Lino. Vi dico in poche parole la sua biografia. E' un uomo che da giovane, si scopre lebbroso. E allora va per le strade senza trovare rifugio, senza sapere che fare e finalmente trova una suora italiana salesiana che costruisce un lebbrosario. Se voi andrete a Campo Grande nel Mato Grosso lo troverete. Piante, fiori, bellezze. E quest'uomo è accolto nel lebbrosario e passa tutte le tappe della lebbra. Gli cadono le braccia, gli cadono le gambe; è fatto a pezzi, a poco a poco. In questi giorni mi è arrivata la notizia che quest'amico è morto.
Verso i 50 anni. Ha lasciato molti scritti, tra cui questa suora amica mia mi manda questo che mi ha fatto pensare tanto:
"Io non sono questa sedia di dolore; non fa parte di me. E non sono questo volto gonfio, questo ventre moscio: quello non sono io. Queste mani schiacciate dal dolore: io sono nascosto in queste rovine.
Sono dietro questi occhi tristi che la sofferenza ha appannato. Nonostante che sia così sterminato e irriconoscibile, sono felice perché non sono stato sconfitto. Perché amo la vita con gioia e fiducia in Dio. Sono una barca sfasciata da tempeste della vita, ma non ho mai perduto la rotta e sono ancora nella rotta della speranza.
Felice,felice perché la stella dell'amore ha brillato sempre davanti a me".
Noi che siamo efficienti, intelligenti, forti, capaci, che possiamo ricevere informazioni, che abbiamo tante amicizie, che abbiamo tanti tesori, tante possibilità, qualche volta ci sentiamo depressi, scoraggiati, vinti da questo mondo, da questa situazione politica, dalle grandi forze del male, dalle immense forze del male. Ma forse contiamo sulle cose esterne, sui bisogni. Non contiamo su questa prodigiosa forza che è dentro di noi. Non contiamo su questa nostra grandezza che è nascosta; e qualche volta abbiamo sepolto dietro apparenze di grandezza, dietro costruzioni false, sotto un barocchismo che noi stessi abbiamo costruito, che ci hanno aiutato a costruire gli altri. Non abbiamo scoperto questo io profondo, questo che dice...: "Io sono dietro, io sono dietro questi occhi tristi che la sofferenza ha appannato. Sono dietro queste mani schiacciate dal dolore". Vedete, che bellezza qui spunta: è il suo corpo, il suo corpo che è la negazione del suo io. E' il suo corpo che mi fa sentire l'impotenza. l'impossibilità, vorrei dire il nulla dell'uomo. Eppure dentro questo corpo si è allo zenith! La sua grandezza è la grandezza dell'uomo: l'uomo che spera, l'uomo che assume la sua responsabilità, che assume l'aspetto anche doloroso del suo essere uomo. E' quello che dobbiamo fare, quello che dobbiamo costruire. Perché allora sì che possiamo veramente essere strumento di pace. Ricordatevi che la pace - come dire? - nasce proprio dal nulla. Gesù ha detto una parola straordinaria: che sono i poveri, e cioè quelli che non contano sulle cose esterne, sulle forze che ci recano il male, il denaro, il prestigio, le forze esterne a noi. I costruttori di pace sono veramente i poveri, cioè questi poveri che non hanno che se stesso. E qualche volta che ritrovano se stesso anche quando sono così distrutti; come Lino, distrutti dalla lebbra, dalla fame, dalle difficoltà. E lì si erge l'uomo. E io lo capisco stando con loro, e auguro a tutti voi di diventare da oggi persone che sperano nella pace e che lottano per la pace.

fratel Arturo

La condizione umana

Ci sono momenti in cui avverto una particolare difficoltà ad esprimere ciò che si agita nel profondo dell' anima: come se tutto si mescolasse in un turbinio indistinto di pensieri, sentimenti, sensazioni, impressioni che la vita, nel suo insieme, comunica ma non in maniera definitiva. Forse è un momento legato alla situazione personale, all'età che avanza, al clima sociale molto fluttuante e quasi inafferrabile, ad avvenimenti e storie di persone che mi hanno colpito profondamente... Forse è soltanto un'impressione molto superficiale e di poco conto. Chissà: certo è che avverto la complessità dei mille fili che si intrecciano nel cammino della vita, la necessità di rimanere ancorato ad un punto di riferimento sulla linea dell' orizzonte, il dovere essere attento ad ogni storia, anche molto piccola ed in apparenza "di poco conto" che incrocio sulla mia strada. Ed è altrettanto certo che la mia attenzione di questo tempo è fortemente attratta da quella che non riesco a definire in modo diverso se non come "la condizione umana".
Non voglio davvero riecheggiare un celebre titolo di un glorioso romanzo francese, ma non riesco a trovare un' espressione più efficace per tentare di comunicare questa impressione forte, intensa, che si allarga dentro di me e mi coinvolge sia dal punto di vista puramente "umano" sia nei suoi risvolti di carattere "religioso": perché è dentro questa "condizione umana" che avverto così misteriosa, così carica di contraddizioni, così provocatoria e nello stesso tempo affascinante, che mi sento spinto a cercare quello che la Bibbia descrive con parole molto speciali come "il volto di Dio": "Il tuo volto, Signore, io cerco - non nascondermi il tuo volto!".
Mi sostiene in questo percorso il cammino di Gesù a cui cerco di rivolgere sempre il mio cuore e nella cui storia mi sembra di scoprire sempre più l'infinita tenerezza di Dio che è entrato in modo inequivocabile nella "condizione umana" e si è fatto nostro prossimo, amico, compagno di strada. Questo abitare di Dio con noi, nella misteriosa ed affascinante storia di Gesù, è il segreto sostegno alla quotidiana fatica di accettare l'intricatissimo intreccio dell' esistenza, nel cui misterioso seno la presenza amorosa di Dio è come velata, nascosta, quasi "assente".
Mi ferisce in modo insopportabile la storia di uomini e donne lacerati dal dolore, dalla violenza, dalla sopraffazione atroce e spietata di altri uomini e donne che per interesse di potere economico, di affermazione personale, di dominio ad ogni costo, trasformano l'esistenza in una realtà terribile e tragica. Rimango sempre intimamente sconvolto quando sul mio cammino quotidiano incontro qualcuno che nella sua persona porta i segni di un abbandono, di una solitudine, di un'angoscia, di un vuoto che è impossibile colmare. Ugualmente, la sequenza molto rapida dei volti e dei luoghi travolti dalla tragedia della guerra e dell' odio che passano sullo schermo televisivo penetrano nella profondità dell'anima e lacerano lo spirito: nascono delle domande a cui è molto difficile dare risposte troppo scontate.
C'è qualcosa di realmente sconvolgente nella nostra condizione umana, qualcosa che inquieta e chiede di essere accolta con un amore ed una attenzione del cuore di cui forse non conosciamo né l'intensità né la misura. La storia di Gesù Cristo, entrato nella nostra esistenza assumendo la condizione di servo povero e obbediente alla misteriosa legge della vita, mi sostiene in questa ricerca di condivisione umile e attenta a tutto ciò che brilla sul volto di coloro che incrocio sul piccolo sentiero della mia vita: il sorriso e le lacrime, il dolore e la gioia, la durezza della malvagità e la dolce forza della bontà, la luce di un cuore pacificato e le tenebre di un cuore violento.
A volte, la vita mi appare come una macina che stritola e frantuma ogni cosa: anche Dio lo avverto come debole e prigioniero di questo misterioso ingranaggio dove solo la morte sembra essere l'unica risposta al travaglio umano. Ci sono pezzi di terra continuamente bagnati dal sangue di esseri umani schiacciati da chi fa dell'uccidere una tremenda "ragione di vita". Ci sono storie di persone dominate fin dalla nascita dalla solitudine, dall'abbandono, dalla miseria più dura, dal non contare assolutamente nulla. Ci sono volti di creature umane resi irriconoscibili dalla violenza e dalla crudeltà.
Apro il Vangelo e cerco di ripercorrere in silenzioso ascolto una storia affascinante e carica di mistero, la storia di un uomo cresciuto come tutti dentro questa condizione umana della quale niente ha rifiutato, ma tutto ha raccolto con un amore stupendo ed unico e tutto ha abbracciato rispondendo di persona alle infinite provocazioni che la vita gli poneva di fronte.
Nella condizione umana di Gesù mi sembra di poter raccogliere quella piccola luce necessaria a camminare sullo stretto sentiero della vita in compagnia di tutti coloro che quotidianamente formano la mia carovana. La pista, a volte, si apre in distese ampie di luce e di serena visione; a volte, invece, si fa dura e difficile da percorrere e lo spazio si indurisce in solitudini di deserto e di aride pietre. Dal cuore sento salire l'invito a continuare il cammino con molta umiltà, scandendo il passo insieme a tutti gli uomini e donne costretti a marciare sulla pista di questa esistenza che porta nel suo grembo la presenza di un mistero davvero immenso e straordinario, la cui esperienza principale sembra essere proprio quella dei "dolori del parto". Come nel cuore della notte più profonda il sole del nuovo giorno cresce e si espande in silenzio

don Beppe

Sul filo dei giorni

Domenica scorsa, 19 febbraio, abbiamo ricordato in modo molto semplice il settimo anniversario della morte di Sirio.
Un gruppetto di persone mescolato alla gente della messa domenicale nella chiesa parrocchiale della Darsena. Ed insieme, altri amici lontani eppure vicinissimi nella memoria e nell'affetto.
Eppure, forse come mai prima, ho sentito l'esigenza di confrontarmi con quella memoria nella dolce nostalgia della sua presenza e del conforto della sua amicizia. Dov'è Sirio ora?
Questa domanda non è puramente retorica e neppure vuole stabilire delle misure comuni a mondi eternamente distanti. Piuttosto nasce dalla difficoltà di immaginare cosa avrebbe fatto Sirio ora, in questo nostro tempo, in questa nostra realtà attuale per tanti versi così diversa da quella di appena una diecina di anni fa.
Dov'è Sirio ora rispetto a questa nostra realtà, a questo nostro vivere?
La domanda può essere semmai inquietante perché se anche i muri della Chiesetta, le darsene del Porto, la spiaggia e il mare e i monti sono ancora alloro posto, lo spirito che abita i luoghi e li rende storia può essere davvero molto diverso.
Lui non è più qui, ma anche il qui e ora non è più lo stesso.
E la prima conclusione giunge scontata: è illusorio fissare una memoria nella pietra o nel bronzo, su una lapide o su un cartello di una strada.
Ma anche delegare ai ricercatori e agli studiosi la descrizione di queste derive della storia non dà una vera risposta alla domanda che mi sono posto. Perché il "dove è Sirio, ora" porta dentro una domanda ancora più diretta: "dove sono io, ora?". "Dove siamo?"
E non mi riferisco solo a noi, abitanti di questa Chiesetta, piccole porzioni di questa comunità, ma a tutti noi che in un modo o nell'altro, in riferimento a Sirio o ad altri ugualmente cari, sentiamo forte nella nostra vita una presenza che non si materializza nei modi consueti, eppure conta così tanto, forse più di quella delle persone che ci sono fisicamente accanto. Solo cercando risposte dentro di sé ad una vita che scorre tumultuosa come un torrente in piena oppure pigra dentro alvei sinuosi che solcano immense pianure, si può capire quanto siamo vicini a coloro che sembrano lontani. Solo se ci lasciamo andare a questo fluire delle cose e delle realtà umane.

Mi ha aiutato in questo la lettura di un breve tema a mo' di lettera, scritto in classe un anno fa da Michele, un ragazzo che allora faceva la terza media:
"Parlerò di me, del Michele attuale, così diverso dal bambino di tre anni fa, non solo nei tratti fisici. Traccerò il mio ritratto psicologico nel tentativo di giustificare certi atteggiamenti e comportamenti che spesso gli adulti disapprovano e non capiscono".

Cara Giulia, *
la nostra avventura alla Carducci è giunta ormai al termine. Bene o male? Forse male; dovrò abbandonare molti dei miei amici, alcuni forse per sempre: la terza F era una classe simpaticissima, e probabilmente non eravamo così disuniti e sempre in conflitto come sarebbe potuto sembrare (vedi, per esempio, pianti dell'ultimo giorno di scuola).
Mi ricordo sempre del nostro primo incontro: la professoressa fece la sua brava gaffe d'inizio d'anno: "oh, vedo che abbiamo un bel ragazzo nuovo! come ti chiami?" "Giulia". "Ah, allora sei una ragazza!".
Tu eri una bambina (non una ragazza) molto timida, con due occhioni neri sempre nascosti dai capelli. Ma si capiva subito che eri una persona speciale: e infatti saresti diventata la mia migliore amica.
Anch'io sono molto cambiato: sono riuscito a seppellire quasi totalmente il mio passato; ero un bambino sempre zitto, molto riflessivo, serio: il bambino della mamma.
Avevo infatti con mia madre ottimi rapporti, nel senso che lei seguiva la filosofia de "il figlio è mio e me lo gestisco io". Mia madre decideva come vestirmi (il mio primo paio di jeans risale ad appena un anno e mezzo fa), come pettinarmi, come pensare, cosa mi piaceva e cosa non mi piaceva, cosa era giusto e cosa era sbagliato.
Come in tutte le dittature portate all'estremo, poi arrivò la rivoluzione, che fu lenta ma non indolore, e tuttavia sempre troppo veloce per mia madre, la quale è sempre stata una "brava bambina", anche nell'adolescenza, credo. (cosa vuoi, è stata in collegio dalle suore fino a venti anni!).
Molti hanno cercato di spiegare i motivi di questa ribellione per l'indipendenza che interessa, chi più, chi meno, tutti gli adolescenti. Nel mio caso è stata una situazione esasperata a farla scattare, unita alla mia età (cielo, non ero mica più un bambino!) e alla certezza di poter vivere bene. se non meglio, anche senza la supervisione della mamma.
Così sono diventato più spigliato (anche più simpatico, non trovi?), ho rinnovato totalmente il mio guardaroba, ho cambiato pettinatura e sono diventato un "rockettaro".
Molti criticano le ribellioni ostentate con un look provocatorio (orecchini, teste rasate, anfibi, eccetera... ), ma penso che l'obiettivo di questi "schiaffi alla morale pubblica" sia proprio quello di attirare critiche, per poter magari abbattere i pregiudizi che condannano una persona dal suo aspetto esteriore e che confermano che la società non è mai adatta al mondo della gioventù, ma, al contrario, sembra fatta su misura per contrastarlo.
E questo è anche il messaggio di molti gruppi rock:' Shock to the system", "Stop development", cioè "Shock al sistema", "Stop allo sviluppo". Questi sono i miei ideali: distruggere per ricominciare; e pensare che due anni fa ero un conservatore! Ma bisogna sbrigarci: se non cambiamo il mondo, allora sarà il mondo a cambiare noi. Forse sarebbe meglio? Non lo so. La politica dei piccoli passi è sempre la più sana. Non so se avrò il coraggio di organizzare una rivoluzione; tu mi aiuteresti? Se non altro saremmo già in due.
Ma nemmeno io sono sicuro delle mie idee (andiamo bene!). Nonostante tutto, infatti, non ho perduto il mio carattere introverso, riflessivo e silenzioso, più parlo e meno penso. Perciò scrivo. Ma adesso ho scritto anche abbastanza.
Rispondimi
Ciao
Michele
* (Professoressa, non pensi male!)
Dov'è ora Michele? Dov'è ora Sirio?, Dove sono io, ora?
Queste domande si intrecciano, si rincorrono, si parlano.
Difficile dare una risposta senza darsi una risposta.
Eppure dal tema di Michele, come da molti ricordi di Sirio e della sua vita, esce un elemento che è connotato dalla ricerca del cambiamento. Mai fine a se stesso, ma sempre accolto come qualcosa che fa parte della vita, che ne è come il midollo, rimasto sanissimo - questo sì! - in Michele. Vero, nell'implacabile guardar dentro le cose di Sirio.
Ed insieme la ricerca affettuosa e sincera di quanti si muovono in questo clima per vivere relazioni aperte, mai possessive. Là dove la storia rinnovata inizia ancora da un uomo e una donna.
Perché l'accoglienza reciproca di questa differenza, che le riassume tutte (fino quasi a soffocare le altre in questo nostro tempo ... ), è comunque fondamentale per un percorso di vita non irrigidito e arroccato sulla permanenza e quindi sul potere, ma liberato al fluire e all'incontro di uguali, diverse realtà.
Fino a intuire che anche se siamo così terribilmente sottoposti a toccare con mano la morte nella vita, possiamo - forse anche solo nel silenzio e nella solitudine -, percepire la vita nella morte.

Luigi

Perù: la notte dei poveri

Pueblo andino ponte a cantar
pueblo que canta no morirà.
; Sembrar la vida y la paz!
Una canciòn, una canciòn
llena los campos y la ciudad.
; Sembrar la vida y la pazl
El campesino sale a sembrar
la Pachamama se alegrarà.
;Sembrar la vida y la pazl
Quechuas y Aymaras quieren cantar,
eu vida empieza y no morirà.
;Sembrar la vida y la pazl
(canto delle comunità cristiane)

Amici, fratelli, famigliari, tutti sempre carissimi,
come viandante che riposa nel cammino, prendo il mio tempo per salutarvi, per pensarvi, per comunicare con voi. E' bello, di tanto in tanto, sedersi ai piedi di un albero, godere della sua ombra, assaporare l'acqua che sgorga dalla montagna e, ristorate le forze, riprendere il cammino. Camminare insieme, da vicino o da lontano! I giorni, le notti, i mesi, vengono gli anni e lo zaino è sempre più carico di esperienza, di vita, di regali. In piedi, come davanti alla finestra, si apre il vasto orizzonte del mondo. Il mondo della realtà quotidiana, della economia e della politica, degli interrogativi e dogli affetti, dei bambini che giocano e sorridono, delle ombre silenziose, degli anziani incurvati dal tempo e dagli stenti, degli ubriachi che tentano di affogare i loro perché...
Il calendario segna una nuova tappa: dieci anni al di qua dell'Oceano, al passo di questo popolo, superando frontiere, avvicinando culture, balbettando nuove lingue, cercando di dare respiro alla fede, mantenendo viva la speranza... Dieci anni non sono una parentesi! Il tempo e gli anni segnano il dilatarsi della vita e la gratitudine al Dio della vita per ciò che ha reso e rende possibile. Per le attese, per le difficoltà, per i sogni, per i silenzi, per i raccolti in sperati o fatti di niente, per i piccoli semi sommersi su vasti terreni: nella sabbia o sulle altezze andine...
1. La notte dei poveri
In questi anni di crisi si è andati avanti rimandando la soluzione dei problemi di fondo del paese. Era urgente risolvere, nel breve periodo, i problemi della iperinflazione e del terrorismo. Ora ci si trova di fronte ai problemi del lungo periodo, tanto decisivi sia per il presente che per il futuro del Perù.
La inflazione galoppante è stata in gran parte controllata, però oggi, in Perù, ci sono più poveri di prima, e i poveri stanno diventando sempre più poveri. L'occupazione è scarsa. Molti posti di lavoro sono andati perduti. Aumenta il lavoro informale, occasionale, ambulante. Tutti devono lavorare per vivere. Anche i bambini!
I salari stanno al di sotto dei minimi vitali. Si sopravvive per mezzo della solidarietà spicciola, per il paternalismo e populismo del governo, per l'intervento di istituzioni ("comedores populares", ONG, Caritas, organizzazioni popolari) che avrebbero dovuto intervenire per un tempo corto, per situazioni di emergenza, che in realtà diventano permanenti perché la crisi è sistematica.
Gli interventi di investimenti nazionali (scarsi) e stranieri non si sono orientati finora ai settori che danno occupazione. La bilancia commerciale è sbilanciata! Le importazioni sono molte di più delle esportazioni.

La popolazione scolastica cresce annualmente del 2/3%. Lima ha oggi circa 7 milioni di abitanti. Nella stessa città, tutti i giorni, 20mila bambini lavorano per strada e mille bambini, ogni notte, dormono per strada. Altra faccia occulta del Perù è la morte silenziosa dei bambini: il tasso di mortalità infantile è del 133 per mille.
Cosa significa, poi, l'abbassamento dei livelli di inflazione, se contemporaneamente aumenta la tubercolosi nel paese?
2. La necessità di una utopia
In questo "mare magnum" che oggi viviamo, sia sulla scena nazionale che internazionale, i potenti di turno (cfr. la bestia apocalittica) vorrebbero affossare ogni possibilità di alternativa, di cambio, di trasformazione della situazione attuale. Fine dell'utopia? Essi stessi dichiarano prigioniera l'utopia e vogliono imporre sul piedistallo della storia le utopie conservatrici e neoliberali del capitalismo attuale.
Un grande maestro, José Carlos Mariàtegui, pensatore e politico peruano, del quale quest'anno si celebra il centenario della nascita, è certamente un punto di riferimento obbligato se vogliamo parlare del Perù di ieri e di oggi. Egli affrontò il tema della congiuntura - quella del suo tempo, della decade degli anni 20 -, però ebbe il coraggio di guardare lontano.
Mariàtegui si impegnò profondamente per una trasformazione del Perù. Fu molto cosciente che non bastava l'analisi della realtà, l'osservazione delle forze sociali presenti, ma che era necessario avere presente anche un progetto. Questo progetto egli lo chiama "mito".
A questa parola sottintendeva un progetto storico, una utopia, cioè segnalava la possibilità di qualcosa di diverso dall'attuale, l'essere convinti che è possibile cambiare le cose.
Oggi, per i paesi poveri e per quanti con motivazioni diverse ci vogliamo collocare in questo cammino a partire dai poveri, questo livello del mito e del progetto è molto importante. Infatti, certe tendenze ideologiche dell' economia e della politica vorrebbero espropriare la propria utopia, la propria capacità di credere in qualcosa di diverso.
Al contrario, è possibile un diverso modo di vivere in società! Si tratta di restituire al popolo l'utopia della libertà, della giustizia, della solidarietà, della dignità umana, di una società nella quale anche la bellezza sia importante: l'amore alla giustizia e alle rose!
3. Lampa. nell'altipiano sur-andino del Perù
In quest'angolo di terra, al sud del Perù, più vicini alla Bolivia che al centro del Paese, si estende la provincia di Lampa. Per chi viene da Juliaca, verso nord, in un percorso di strada sterrata lungo 35 Km, si avvicina lentamente a Lampa. Solo dopo l'ultima curva, che copre l'abitato, appare Lampa, paese tipicamente coloniale. Ne sono testimonianza la maestosa chiesa del 1685 e le case coloniali che ancora rimangono in piedi, qua e là, nel centro del paese.
La giurisdizione ecclesiastica della Parrocchia "S.Giacomo Apostolo" di Lampa, comprende quattro comuni: Lampa, Palca, Vila Vila e Ocuviri.
La popolazione si aggira sulle 17mila persone, residenti, oltre che nei centri di Comune, in circa 50 comunità campesine, disseminate dai 4000 fin oltre i 5000 metri della cordigliera andina.
Il cammino pastorale ha il suo ritmo, i suoi alti e bassi, a piedi, al passo del campesino: un passo lento e tenace, con lo sguardo in avanti, sicuramente illuminato dal sole di giorno e dalla luna di notte!
4. Al suono della quena...
La società e la civiltà di oggi è malata. I poveri sono sempre più maggioranza e per loro le cose non vanno bene. La speranza, a volte, non si riesce a trovarla rapidamente. Le sofferenze, però, non hanno potuto e non potranno affogare la speranza di questa gente e di questa terra. La fede continua a nutrirsi della Madre Terra (Pachamama), viene vissuta nel lavoro comune (faena) e viene coltivata tra lacrime e sorrisi.
...Il suono dolce e triste della quena giunge lontano! Dalle altezze delle Ande ci delinea il cammino di un popolo tra sofferenza e allegria, ci parla del giorno e della notte, della pioggia e della siccità, della semina e del raccolto, del sole e del freddo, di distanze e di dolcezza, di dolore e di tenerezza.
Il suono della quena ci ricorda che Dio ha memoria viva e fresca del piccolo e del dimenticato ... Il povero non è soltanto il destinatario privilegiato dell' annuncio del Regno, ma è lui stesso il portatore della Buona Notizia.
Il suono della quena ci ricorda che il povero deve essere finalmente trattato orizzontalmente, a tu per tu, da persona a persona.
Ed il cuore, intanto, dalle altezze e dal silenzio della cordigliera andina ama, ama e ama.
Il mio pensiero di saluto e di affetto, a tutti.

Giovanni Gnaldi

Una voce nel deserto

(continua dal numero precedente)
"Dammi, Signore, la sapienza
affinché non sia escluso
dal numero dei tuoi figli".

Ogni donna come ogni uomo
in seno all'assemblea liturgica
è ad un tempo:
padre nell'annuncio della Parola,
madre nel comunicare la Vita,
figlio - figlia di Dio
e della Chiesa.

Ogni uomo come ogni donna
in seno alla famiglia di Dio
è chiamato a dar da mangiare
all'affamato,
da bere all'assetato,
a rivestire l'ignudo,
a servire...
senza più abili adattamenti interpretativi,
o indebite distinzioni di ruoli ecclesiali.

La sapienza sarà il criterio
per l'elezione di chi presiede
non più l'emblema
dei caratteri somatici di Cristo.

E se si darà l'evenienza
anche il Figlio
obbedirà alla Madre.

"Una voce nel deserto"
si alza a richiamare:
un "io" umano non rappresenta Cristo.
La "persona Christi" è pienezza.
La "persona Christi" è integrità collettiva.
La monopolarità dell'istituzione ecclesiale
è un segno negativo,
sostenuto lungo la storia
dalla "durezza dei vostri cuori".

Il segno della frattura
è sceso negli inferi.
Con la sua vittoria
Cristo si è riconsegnato
al Padre, Sposo e Sposa.

Uomini di Chiesa,
non temete la parità ecclesiale
della donna.
Temete piuttosto
che l'attaccamento alla Tradizione
non sfumi nell'attaccamento alle "vostre tradizioni".
Temete piuttosto che la fedeltà
al comportamento di Cristo,
con tutte le sue unilaterali aggiunte successive
che hanno idolatrato il maschile,
non sia la zona d'ombra
d'un ancestrale criterio di superiorità.

"Dove due o tre sono uniti"
nel nome di Cristo,
lì è presente Cristo,
lì è presente la Chiesa,
lì si compie azione liturgica
senza distinzione
di uomo o di donna.
L'emblema di Cristo
che vive in mezzo a noi
è l'Uomo integrale redento
che è Sposa
che è la Chiesa.

La Chiesa di Cristo è
nel suo essere mistero, Cristo Sposo,
nel suo essere sacramento, Cristo Sposa.
La "persona Christi" dell'azione liturgica
è la Chiesa.

E non "si mette
vino nuovo in otri vecchi".

Siate prudenti, ma non siate pavidi.
"Lo spirito di sicurezza"
inviato da Cristo
risplende oggi nella voce
e nelle mani delle figlie di Sion.
Mentre lo spirito di profezia
che le investe vi sollecita:
"Liberate i cristiani
dagli steccati divisori e insidiosi

dalle varie confessioni;
rinsaldate il vincolo della carità
e promuovete insieme quel che vi lega".

Come dice l'Apocalisse,
è opera dell'avversario
mettere avanti i punti della divisione.

Le differenze ecclesiali
esprimono in terra
la policromia dell'Amore.

"Io sono di qua e di là"
dice il Signore. Mie sono le cose vecchie,
mie sono le nuove,
mie le passate, le presenti, le future.

Le cose vecchie sono emblema
della realtà che resiste
alla manifestazione della Verità
che avanza.
Il nuovo cammina verso l'Unità
della realtà futura
che cresce in voi e nella Chiesa
con la vostra capacità ad accoglierla.

Siate operatori della Novità
che avanza nella Persona
che tutto pervade,
tutto vivifica, e procedendo,
tutto unifica.

Con i fratelli della Riforma
abbiate in comune
l'annuncio della Parola, rivolta a tutti
e la consumazione della Sacra Mensa
riservata a chi cristiano si professa
in opere e parole.

E "non gettate le perle ai cani"!

L'una e l'altra azione liturgica
siano presiedute da quei miei figli
e da quelle mie figlie
che usciti dal mio popolo
sono segno incarnato dell'amore sponsale
di Dio con l'umanità.
Saranno i chiamati dal Padre,
promossi dalla comunità dei fedeli
e investiti della diaconia dalla Chiesa.
Su di essi graverà la responsabilità
di tutta la pastorale.

"Non temete, piccolo gregge,
io ho vinto il mondo"!
Io porto avanti verso l'Unità
la mia Alleanza
con la mia Creatura,
nonostante voi.

Con i fratelli dell' Ortodossia
abbiate in comune anche
l'elezione dell'Episcopo
nominato tra i "presbiteres" (5).
I "presbiteres" saranno rappresentati
da quei miei figli
e da quelle mie figlie -
la distinzione qui è soltanto vostra -
che, essendo usciti dalla propria terra,
seguono Cristo
e si offrono a lui nella totalità
del loro essere
per una progenie eterna.
Vivranno il monacato
in fraternità e in sororità.
Ad essi sarà affidato il compito
di ripetere e di annunciare
con dignità e consapevolezza
la Memoria - Compimento
del Sacrificio dell'Uomo - Dio.

Basta, popolo mio,
con la moltiplicazione delle
"Memorie" profanate!
Basta con l'irresponsabile moltiplicazione
di indebite azioni sacramentali!
Siete figli,
e so che figli siete,
ma basta!

La Misericordia opera sempre,
ma le conseguenze
delle vostre

irresponsabilità
ricadono su di voi!

Ti ho costituito lievito
che fermenti la pasta umana.
Non alterare la qualità del lievito
col renderlo massa,
favorendo così l'illusione di accrescere
col numero la forza del messaggio.

Io sono la vostra forza.

Sii zelante nell'annuncio,
ma non pretendere di misurare in numeri
la sua incidenza.

Conta pure nei tuoi registri
i tuoi inviati,
ma i miei figli, io li conto
- dice il Signore.

I miei figli nella massa
io li battezzo con quel battesimo
con il quale io sono stato battezzato.

Non voler deconcentrare il lievito
per aumentare gli
"Osanna al Figlio di David".
Popolo mio, guarda a Samuele, e sii più attento
nell'ungere gli inviati.
Sii più accorto nell'investirli,
testimoni di Cristo
e del suo Vangelo.

Un sale senza sapore a che serve?
Chi serve un testimone
che non ha coscienza
né della testimonianza di cui è investito
né del suo contenuto?
Non accumuli sul suo capo
tizzoni per il giorno dell'ira?

Lo Spirito del Risorto mi invia
ad ammonire l'Uomo:
spostate l'orizzonte del passato,
ritracciate il traguardo della conoscenza.
Ricercate la natura della creatura divina.
Spogliatevi della superficialità
e scoprite il ruolo della Donna
nella femminilità della creazione,
nella femminilità della redenzione.
Spingete lo sguardo della mente eterna
nel ruolo della Donna messianica,
e della Donna escatologica.

La conoscenza, attività della mente,
immagine eterna di Dio Padre,
si sposi all'amore, attività del cuore,
immagine eterna di Dio Madre,
affinché la Vita generata dai due
immagine eterna di Dio Figlio;
cresca nella "figlia"
della mente e del cuore,
si sviluppi la creatura divina personale
e avanzi nel mondo,
mediante l'Amore,
verso la perenne Conoscenza
del Mistero,
dell'Unità,
dell' Essere.

Consapevole dell'ammonimento:
"Se uno parla nel mio nome
e io non l'ho inviato, costui morrà"
la "voce del deserto"
chiude la profezia con la firma:

"Come è vero ch 'io vivo
io ho parlato" - dice il Signore.

Per intercessione della Santa Chiesa di Dio
in cui vive e regna Cristo nostro Signore,
ci assolva dai nostri peccati
e ci benedica Dio onnipotente
Padre - Madre - Figlio.

sorella Teresa, anacoreta

Semi di resistenza

A TUTTI I PRETI OPERAI ITALIANI ED AI LORO AMICI:
Cari compagni, è il momento di ritrovarci in convegno.
In un contesto di grandi sofferenze di continenti e di popoli dove i molti (deboli) subiscono gli effetti delle decisioni dei pochi (forti), abbiamo bisogno di mettere insieme, confrontare, ciò che vediamo e pensiamo, per allargare la nostra capacità di analisi, per sostenere le nostre azioni, per resistere attivamente al "baccanale dell' esteriorità" che imperversa nel nostro paese, per cercare ancora il volto dell' amico.
Il titolo: "BEATO COLUI CHE RESISTE"
1. Testimonianze di resistenza evangelica.
2. Esperienze di resistenza politica.
Il luogo: Salsomaggiore - dai francescani.
La data: 29 aprile - l maggio 1995. (Renzo Fanfani)

DONNE MILITARI? NO, GRAZIE!
Le donne non hanno lottato per ''fare come gli uomini", ma perché tutti, uomini e donne, abbiano la "possibilità di sviluppare liberamente il proprio potenziale umano, senza essere vincolati a ruoli rigidi, predeterminati fin dalla nascita". E "imparare ad ammazzare delle persone" non sviluppa nessun "potenziale umano né maschile né femminile". Lo scrivono le Donne del Comitato Oscar Romero di Torino, prendendo posizione contro l'ipotesi di servizio militare femminile configurata nel Nuovo Modello di Difesa. Ipotesi che, pare, incontra il favore dell'opinione pubblica "emancipata", forse poco consapevole della differenza che corre tra il femminismo di maniera e la liberazione reale di un' esistenza di donna. Proprio a partire da questa differenza, le donne del Comitato Oscar Romero sottolineano il valore universale dell' emancipazione femminile, che non si riduce a mera rivendicazione di spazi, ma diventa soggettività alternativa in grado di ridisegnare un mondo più libero per tutti.
Ecco quindi l'assurdità di fare del servizio militare un argomento di "parità", ed ecco anche lo sconcerto di fronte al silenzio-assenso che circonda questo argomento.
(da ADISTAIDOC 14 gennaio 1995)

RIFIUTARE QUESTA CONCEZIONE DI DIFESA
Dalla presentazione nell'ottobre 1991 il progetto del Ministero della Difesa sul "Nuovo Modello di Difesa" (NMD), viene portato avanti in perfetta continuità dai diversi governi che si sono succeduti.
Tutta la difesa del progetto è apertamente dichiarata nelle prime 70 pagine. Vi si dice che, caduto il muro Est-Ovest, il nuovo confronto è nell'area mediterranea "tra una realtà culturale ancorata alla matrice islamica ed i modelli di sviluppo del mondo occidentale" (pagg.15-16). Là è il nuovo nemico, il nuovo conflitto economico- religioso.
Il recente disegno di legge Previti (n. 1307 , 23/9/94), prevede il servizio militare professionale, fino a 78.500 unità, e quello volontario femminile.
La guerra non è più un'eventuale tragica necessità, ma una funzione normale; non è più ripudiata, ma legittimata. Quello delle armi diventa un lavoro, una professione riconosciuta, come quella del boia: l'arte e la tecnica dell'uccidere per incarico, da mercenari.
E' ancora in grado il nostro popolo di vedere e di rifiutare questa vergogna? (Enrico Peyretti su "Il foglio" n.215/1944)



Poesia per l'anno nuovo

"Con l'anno nuovo
il caso comincerà a trattar bene
voi e me e tutti gli altri"
promette il venditore di almanacchi
al passeggiero.

Io non compero almanacchi.
Sto nel giardino e il mio Diletto
da dietro il muro
così mi dice:
"Alzati e affrettati, mia colomba,
l'inverno è passato
il tempo della semina è venuto;
fammi sentire la tua voce
ché la tua voce è soave"

La mia voce
ha una modulazione sola
quella del giovinetto Samuele:
"Parla, Signore.
Io ascolto".

Grazia Maggi

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