La terra ha già nel suo seno
la stessa
dimensione del cielo
Le parole e il pensiero di Dietrich Bonhoeffer grande teologo evangelico, resistente, incarcerato a Berlino e ucciso a Flossenburg il 9 aprile 1945, continuano ad imprimere un grande amore alla vita e la forza di reggere l'urto con le ricorrenti tentazioni a mettere i remi in barca e lasciarsi trascinare dalla corrente.
Scrivendo dal carcere di Berlino-Tegel alla fidanzata Maria, così si esprime: "Il nostro matrimonio deve essere un sì alla terra di Dio, deve rafforzare in noi il coraggio di operare e di creare qualcosa sulla terra. Temo che i cristiani, che osano stare sulla terra con un piede solo, staranno con un piede solo anche in cielo".
Oggi più che mai abbiamo bisogno di confrontarci con queste parole. Per noi stessi, prima di tutto. Per una speranza che non si spegne nelle acque amare delle proprie illusioni, ma, resa energia vitale, dà sostanza autenticamente umana ad ogni passo, ad ogni gesto della nostra vita. Per una ricerca non più rivolta a strategie capaci di vincere una volta per tutte le contraddizioni della nostra storia, ma a cambiare con mite ostinazione la terra su cui poggiamo i piedi.
Per anni ci siamo arrampicati sulle taglienti sottilizzazioni delle differenze tra il "pubblico" e il "privato", il "personale" e il "politico", il grande" e il "piccolo", ora esaltando ora comprimendo volta volta le categorie poste a confronto. Proiettandole fuori di noi, sugli ipotetici schermi di un immaginario collettivo. Ora - ci sembra -, questo mondo reso villaggio gioca (ed è abilmente giocato) a tutto campo nel mescolare le carte imprimendo al singolo episodio i contorni del grande evento e passando sotto silenzio i drammi di intere collettività.
Questo produce stordimento, confusione, imbarazzo ed infine paralisi nella capacità creativa e nella concreta operatività. Come se fossimo preda di un infinito gioco di specchi, spesso non osiamo muovere un passo in una qualsiasi direzione e proviamo la disperante sensazione di essere imprigionati in un labirinto. Qualunque mossa, qualsiasi movimento, azione, impulso svanisce nelle nostre mani e nel nostro cuore, intrappolato dalla vertigine che misura l'ampiezza e la profondità dei problemi che dobbiamo affrontare e la confronta con i pochi centimetri quadrati sui quali poggiano i nostri piedi esitanti. Fino a sentire il bisogno di alzarne uno, tanto per far vedere a noi stessi, prima, e poi anche agli altri, che ci stiamo muovendo, che abbiamo intenzione di fare qualcosa e che già lo stiamo facendo. E rimaniamo così con un piede in aria, in equilibrio precario, spendendo fior di energie pur di non essere sorpresi (da chi poi non sappiamo) con tutti e due i piedi in terra, magari cercando faticosamente di spostare il proprio baricentro per compiere anche solo un passettino, ma - vivaddio! - un passettino vero.
Ci guardiamo attorno smarriti, alla ricerca dei maestri e dei profeti che eravamo abituati a seguire invidiandone il corposo senso di presenza alla vita, e ci sgomenta la solitudine e il silenzio che ci circonda. Forse, un po' come dei bambini, abbiamo preso troppa confidenza di fronte al dono delle parole forti, dello sguardo teso all'orizzonte di uomini come Turoldo, Balducci, Sirio ... , della loro amicizia, della loro forte personalità. Fino a considerare un passo decisivo per noi l'esserne discepoli e seguaci. E a sentirei in diritto di portare il lutto per la loro scomparsa. Uomini e donne di poca fede! Non sapevamo forse che anche la terra dove poggiano i nostri piedi è destinata a portare frutto perché fecondata da una comunione d'amore? Non sapevamo forse di lottare insieme a loro perché ogni uomo, ogni donna potesse alzare la testa e camminare nella dignità di una umanità nuova? Come possiamo essere così ciechi da continuare ad invitarli - calata la sera - alla cena delle nostre memorie, dei nostri ricordi, senza che il cuore ci sussulti nel petto e la buona novella della Risurrezione ci converta ogni giorno alla vita come soggetti di una storia nuova?
E' venuto il tempo - ed è questo - in cui la profezia appartiene a coloro che tengono tutti e due i piedi per terra e sognano non di lasciare un'impronta, ma di non lasciare la terra perché questa ha già nel suo seno la dimensione del cielo. Ed ogni trasformazione, ogni nascita nuova, ogni gesto, ogni segno - anche il più piccolo! - che ne porta notizia, è già grande perché appartiene alla comunione di un popolo innumerevole che solo Dio può contare.
Occorre guardare in faccia la nostra paura e volerle bene. Sentire che il coraggio, il coraggio vero di sè e della propria vita, non nasce quando si è forti al punto tale da scacciare la paura, ma quando la si accoglie come sorella che ci impedisce di volare come spiriti celesti e ci costringe a camminare come esseri umani. La grande paura di morire e le mille paure che appesantiscono ogni giorno il cuore, lo spirito e il corpo. La paura di non essere amati e di non poter veramente amare. La paura terribile di essere già stati giudicati e di portare con sé la maledizione di una colpa nota solo al Giudice e che solo sacrificando tutto di noi al Giudice, può essere tolta. E con essa ogni difficoltà, incomprensione, fatica, separazione, sofferenza... La paura che ci iscrive in un cerchio che va spezzato per una liberazione autentica e completa attraverso il coraggio che la accoglie non come ostacolo insuperabile, ma come indicazione della misura e della ampiezza di questa lotta. Il coraggio di rispondere ad un appello alla vita che cuce le nostre esistenze in un tessuto di incontri innervati sul filo del quotidiano operare.
Ci sembra che un brano di Sirio, tratto da "Antico Sogno Nuovo", letto durante la liturgia del sesto anniversario della sua morte, contenga questo invito nel dialogo tra due donne di nome Speranza e Fede:
"E' vero", e le parole rilucevano negli occhi di Speranza, "è vero che vivere è camminare verso l'incontro, anche se il pedaggio da pagare è ancora", e chissà per quanto tempo, "lo scontrarsi impietoso e a volte crudele". "Perché", spiegava Fede, "bisogna versare tutte le lacrime prima di imparare a sorridere e camminare tutte le strade per poter arrivare" .
"Perché è anche vero, cara Fede" , precisava silenziosamente Speranza, "che l'uomo non arriva finché non smette di viaggiare" .
"Per arrivare dove", chiedeva quasi con sgomento Fede.
"Per arrivare in un luogo che non è un luogo, in un tempo che non è un tempo" .
"Per arrivare", chiariva un gesto di Fede che aveva ben capito ed era d'accordo, "nel luogo in cui soltanto i sogni hanno conoscenza e in certi momenti di grazia, la preghiera" .
"Noi siamo su questa strada", affermava con dolce fermezza lo sguardo di Speranza.
"Noi chi?", voleva una risposta sicura Fede. "Io e tu, intanto", puntualizzava Speranza.
La Redazione
Cari amici,
da vari mesi si presenta alla mia mente il tema della risurrezione. Credo di dovere questo orientamento del mio spirito a una frase di Popper che mi colpì molto. Considero un dono di Dio l'ingresso di parole o idee sconvolgenti che influiscono su quel processo di trasformazione interno, che è il segno che ancora viviamo. Popper dice: "Noi tutti dobbiamo morire, e forse anche la vita deve morire". A me piace questo pensatore che conosco solo per i suoi scritti (e non profondamente), perché parla e scrive sorridendo. Le cose che scrive ultraottantenne, perdono la pesantezza accademica e acquistano una levità piacevolissima. Con quel suo fare allegro giovanile, ha attaccato gl'idoli della filosofia, arrivando a dire di Hegel che "non cerca la verità: vuole impressionare" . Per questo la sua dichiarazione non certo nuova - che tutti dobbiamo morire -, non mi poteva arrivare in altro modo che sulle ali di farfalla come altre sue affermazioni. Ma la seconda parte - che "forse anche la vita deve morire" , mi ha immerso nel pensiero della risurrezione.
Ormai il distico dialettico morte-vita è entrato nella nostra cultura. Non sono state le guerre a svegliarci alla consapevolezza della morte, ma lo sparire delle specie animali e vegetali, la creazione che muore intorno a noi. Di noi sapevamo che dobbiamo morire, e i cadaveri straziati dalla violenza dell'uomo sono entrati nel conto della legge inesorabile della nostra vita. Ma la natura era così fedele al suo ciclo, morte-vita-risurrezione, che non ci accorgevamo della sua morte. Chi poteva chiamare "morte" i nostri autunni toscani che ci regalano le foglie delle viti rosso-ruggine e quei pacifici tramonti che andiamo puntualmente a godere in un luogo scelto della nostra campagna? Ma ora ci siamo accorti che molti degli esseri vivi che entrano nel ciclo, non tornano più. E questo ci fa pensare che "forse anche la vita muore". Ho ripensato seriamente alla mia fede che è fede nella risurrezione, e ho concluso che noi cristiani abbiamo perso tempo, non poco tempo, secoli di tempo. Perché ogni anno abbiamo ricordato con simboli sempre meno significativi per le generazioni che si succedono, la risurrezione di Cristo; l'abbiamo discussa, polemizzata fino a trovare una formula accettabile, ma non abbiamo capito di essere noi portatori responsabili della energia della risurrezione.
Lévinas ci ha familiarizzato con l'idea che a una modernità razionalista, onnipotente, giunta all'esaurimento delle sue possibilità creative, può succedere solo un'epoca che parta dalla coscienza che esiste la morte. Ma se ignoriamo la forza della risurrezione o non siamo capaci di accoglierla e di trasmetterla, l'impatto con la morte non può produrre alcuna novità. La pura obbedienza al comandamento "Non uccidere" non può aiutare la storia ad andare avanti con speranza; la legge non ha dato mai frutti di vita e non li darà. Bisogna che il cristiano ripeta veramente l'esperienza del Cristo: essere attaccato ad una fede profonda che "Dio ha il potere di risuscitare dalla morte" e vivere questa fede immergendosi fino in fondo nella realtà, sottomettendosi alla legge della storia che non ha mai risparmiato quelli che sognano un mondo migliore. Dico questo perché il discorso sulla vita che chieda solo il rispetto alla vita, dall'uovo fino al prodotto finale della sua evoluzione, non spinge i ricchi, i soddisfatti ad uscire dalla loro piccola grotta ecologica, e il mondo continua ad essere attanagliato da forze di morte. Portatori dell'energia della risurrezione possono essere solo quelli che per condizioni di vita o perché presi senza scampo nell'utopia di un mondo diverso, accettano con Cristo di lottare contro le forze di morte presenti in tutte le attività umane. Il divieto di uccidere permette di scusarsi: "non è detto per me"; la convocazione a combattere la morte che sta nella natura, nelle relazioni, nelle istituzioni, e a fare della risurrezione l'ipotesi di base di tutte le attività a cui ci dedichiamo: questo è un appello universale, anche se le motivazioni possono essere varie. So che io devo morire, ma non voglio che anche la vita muoia, ed è il desiderio - se volete ingenuo, ma fremente di speranza -, che è diventato il contenuto della mia preghiera al Risorto.
Vi auguro una pasqua lieta, perché la letizia è proprio la grazia della Pasqua.
Arturo
Mi è impossibile, prendendo la penna in mano per scrivere il mio articolo per il giornalino, non raccogliere pensieri ed immagini che in questi mesi (e da tanto tempo, purtroppo) hanno accompagnato in modo amaro e drammatico il cammino quotidiano. Mi sono entrati nell'anima i volti di uomini, donne, bambini, gente di ogni età, che ogni tanto - anche se per pochi attimi - sono apparsi davanti ai miei occhi nei flash dei telegiornali o nei servizi dalla Bosnia. E' questo "povero popolo" martoriato, affamato, distrutto, di ogni gruppo etnico, di ogni città o villaggio della Bosnia che mi è penetrato dentro, fin nel midollo dell' anima.
Sono riapparsi dentro di me volti ed immagini che porto impresse da quando ero bambino e la guerra era lì davanti a me, sopra di me, parte del mio vivere quotidiano. Nell'impotenza assoluta di fronte a questo folle e assurdo massacro, è questo povero popolo lacerato e diviso, costretto a scavare tombe nei giardini, nei campi sportivi, nelle strade, che sento penetrare nell'anima mia come una spada affilata. Questo povero popolo (che è quello di tutte le guerre) rinchiuso ancora una volta nei campi di concentramento, violentato nelle donne, dilaniato nella carne dei suoi poveri morti, in ogni angolo di quella terra che doveva essere bella e ricca di alberi, di fiumi, di vita ... E' questo povero popolo, questa umanità che non mi abbandona mai, con il suo terribile carico di dolore davanti al quale non c'è possibilità di rassegnazione. Di fronte alla sua tragica, spaventosa tragedia io mi sento (come penso accada a tante persone) schiacciato ed oppresso dal peso dell'impotenza e da un acuto sentimento di sconfitta. E' come sentir gridare aiuto dentro un palazzo in fiamme e non avere nessuna possibilità di rispondere a quella invocazione di soccorso... Questo però non significa dover arrivare alla conclusione amara che bisogna rassegnarsi e chinare la testa di fronte alla forza degli eventi.
Anzi, da questa tragedia che ha sconvolto come un uragano la storia di una convivenza che doveva avere i suoi problemi, ma che difficilmente era prevedibile dovesse finire in un così spaventoso massacro, mi è ancora di più fiorita dentro l'anima la necessità e il bisogno di ribellione. Credo che questa parola esprima bene ciò che ho sentito e sento chiaramente nella profondità del mio essere.
Penso che occorra cercare sia individualmente sia insieme di dare significato e valore alla realtà di una ribellione che metta radici dentro il cuore e si diffonda il più possibile come valore, come modo di vita, stile di partecipazione, forza propositiva di cambiamento. Ribellione alla guerra, alla cultura della guerra, all'idea del nemico; ribellione all'idea di una patria intesa come un pezzo di terra da difendere col sangue e con la morte propria e degli altri.
Ribellione morale, religiosa, culturale, politica, sociale all'idea della necessità ed inevitabilità della guerra: una ribellione che possa condurre fino al traguardo di dichiarare la guerra un crimine in se stessa, un crimine di "lesa umanità". Sono passati vent'anni da quando Sirio scrisse un testo molto intenso e appassionato per una rappresentazione teatrale dal titolo "Una Fede che lotta". Il tema era la ribellione contro la tragedia dei morti sul lavoro (allora si chiamavano "omicidi bianchi") e dei morti in guerra. Ribellione alle leggi della morte violenta, alle ragioni dello sfruttamento economico che non guarda in faccia l'esigenza di sicurezza e di vita di chi deve guadagnarsi il pane quotidiano e ribellione alle ragioni dello sfruttamento politico-militare che ha fatto e continua a fare dell'esercito e della fabbricazione delle armi un "motivo essenziale" per la vita di un popolo. Ribellione, rifiuto, lotta contro una cultura di "amor patrio" che trova ampio spazio sia nella realtà laica come in gran parte del "mondo cristiano". "Ribellati, o popolo, alla legge di guerra; làvati il sangue che le mani ti macchia; se vuoi che l'uomo - vicino o-lontano - un nemico non sia, ma ti stringa la mano". Questo era un pezzo forte della rappresentazione teatrale: il tema di fondo nasceva dalla constatazione che di fronte all'immane tragedia di ogni guerra, il dramma è vissuto dal "povero popolo" di cui nessuno ha veramente e sinceramente pietà. La tragedia del popolo bosniaco, nella molteplicità delle sue razze, lingue, culture, religioni, credo sia un'emblematica e terribile riprova di questo fatto. Mi ha molto impressionato che più volte da parte di autorità religiose cattoliche, ortodosse e musulmane si sia insistito che la guerra che ha lacerato la Bosnia non deve essere considerata una guerra di religione. Ma il problema per me è un altro: il fatto religioso, la propria fede, il riferimento personale e collettivo a Dio che significato ha avuto in questo terribile sconvolgimento? Ho cercato di interrogarmi sinceramente, a cuore aperto: credo che il problema stia tutto nella capacità che la scelta religiosa fatta con cuore puro e sincero, dovrebbe portare ad una immediata, radicale, totale ribellione contro la guerra. Di fronte alla guerra, per il credente - se il suo Dio è il Dio della Vita, della Misericordia, dell' Amore - non c'è altra strada che la diserzione, il rifiuto, la respinta, 1'opposizione. La fede, se è limpida e vera, non può che portare ad una posizione di assoluto rifiuto di tutto quel mondo politico, militare, economico, religioso, che in molti modi - alcuni più espliciti, altri più sottili e camuffati - sostiene, incoraggia e mantiene la possibilità concreta della guerra. Non basta che il Papa invochi la pace. Non basta il suo invito a fermarsi. Non basta il suo grido e la sua sincera angoscia. Occorre una ribellione popolare, un rifiuto coraggioso, una cultura coerente con le ragioni del dialogo, dell'accoglienza, dello scambio, della diversità come valore.
Bisogna maledire la guerra con la parola, ma nello stesso tempo occorre smilitarizzare il tessuto sociale, la struttura dello stato, la stessa realtà ecclesiastica che dopo tutto ciò che è accaduto nella storia ha ancora il coraggio di mantenere in piedi la realtà dell'Ordinariato militare (vescovo militare, cappellani militari, diocesi militare) e continua ad essere presente in modo perfettamente integrato in quella macchina da guerra che è per sua natura 1'esercito.
Bisogna cambiare rotta, operare un cambiamento che incida nel concreto del meccanismo della guerra. Bisogna riuscire con infinita tenacia e pazienza, senza arrendersi e senza stancarsi, a costruire un modo di sentire e di pensare che rifiuti il concetto di una "morte gloriosa" sui campi di battaglia, di "eroi di guerra" , di "sacrificio necessario" . Lavorare in profondità, in modo quotidiano e fedele, per la crescita di un sentire comune, popolare, allargato, che costruisca il rifiuto della guerra e lo faccia diventare un modo primario di essere. Nel crudo inverno di tutta la tragedia bosniaca qualche fiore di speranza è spuntato, anche a durissimo prezzo: tutto il movimento, molto ampio e diversificato, dei "volontari di pace" che hanno condiviso in molti modi le terribili sofferenze del "povero popolo" di quella terra straziata, rappresenta un motivo di grande possibilità di cambiamento. E' stato sicuramente un modo di ribellarsi alla logica della guerra, un movimento di rifiuto e di coraggiosa opposizione: da questa testimonianza e da questa lotta può nascere una primavera di pace.
don Beppe
Pubblichiamo una testimonianza di Licio, un amico di Viareggio che, impegnato da sempre in atti concreti di solidarietà, vive - come tanti suoi compagni - una silenziosa, ma reale vicinanza agli abitanti di Sarajevo nell'ambito dell'opera di pace dei "Beati i costruttori".
E, a seguire, una intervista - da lui stesso curata con una donna serba residente a Viareggio da due anni, dopo essere fuggita con la famiglia dalla guerra.
L'azione delle "formiche della pace" e la sofferta condizione di sradicati, in queste pagine della rubrica "I popoli senza volto".
Sono stato a Sarajevo due volte in questi ultimi mesi: alla fine di dicembre '93 e la prima settimana di marzo '94. Ho potuto così verificare il clima che c'era in città prima e dopo la minaccia dell'intervento armato della NATO. Sarajevo è interamente circondata dalle colline: un enorme campo di concentramento di 300/350 mila persone, da cui non si esce e non si entra. La morte e la vita si sono fronteggiate ogni attimo in questa città multietnica e multiculturale che sopravvive grazie alla sua coesione interna, provata da due anni di assedio, ma decisa a non cedere la propria dignità nemmeno di fronte alla morte.
Un elemento centrale di questa città è la solidarietà, perché Sarajevo non vuol perdere quel carattere di tolleranza e convivenza che l 'ha contraddistinta. Qui ortodossi stanno insieme a musulmani, cattolici, ebrei, ecc. e mai niente aveva messo in discussione il diritto all'esistenza di ognuno. Vogliono dividere gli uni e gli altri ma a Sarajevo sono morti ogni giorno sia gli uni che gli altri e tutti insieme rivendicano la pace, finalmente la pace.
Ancor prima della strage del 5 febbraio, a causa della quale è stato imposto il cessate il fuoco, la gente manifestava la sua voglia di vivere continuando, per quanto possibile, le attività culturali e ogni forma di iniziativa che facilitasse le relazioni. Ho visitato il Teatro 55, sulla grande Marsala Tita, più volte bersagliato dalle granate in questi lunghi mesi di guerra. Tre rampe di scale, su un pianerottolo alcuni bambini giocano vociando come tutti i bambini del mondo... un'occhiata, lo scambio di un sorriso e via di nuovo a giocare cantando. Nei primi sei mesi del '93 questo teatro ha prodotto ben 570 rappresentazioni e ancora si producono commedie, musical, concerti, ecc.
Alle 22 comincia il coprifuoco; fino alle sei di mattina uscire in strada è un azzardo che può costare la vita. Ma la vita il giorno dopo ricomincia. Non c'è luce, acqua e gas, ma finché si trova legna da bruciare si può fare un po' di pane nel fornino delle caratteristiche stufe fatte a mano che quasi tutti hanno, e almeno un po' ci si può scaldare. La sede di "Beati i costruttori di pace" è meta tutti i giorni di gente che viene a prendere notizie dei propri cari che sono riusciti a raggiungere l'estero. Le attività pacifiste si susseguono; è terminata proprio in questi giorni una raccolta di firme per intitolare una strada della città a Moreno Locatelli (collaboratore di "Beati i costruttori.." ucciso da un cecchino il 3 ottobre '93 sul ponte Vrbanja). La gente di Sarajevo ricorda con molto affetto e riconoscenza Moreno...
La gente ci saluta, stringe le mani, ringrazia per il solo fatto che siamo lì. Sarajevo non vuole essere dimenticata nella propria tragedia. Un altro giorno è passato e ancora fervono le attività dei beati con la preziosa collaborazione dei volontari di Sarajevo: le riunioni sulle iniziative future, la distribuzione di medicinali, prodotti alimentari e vestiario, i rapporti con i mezzi di informazione ... A Sarajevo ci sono ancora radio e giornali che hanno continuato il loro impegno, spesso in condizioni di fortuna. Radio Indipendente 'Studio 99' è forse tra le più attive della città. Per le attività che svolge e per l'elevato indice di ascolto (quasi 1'80%), è in un certo senso un vero e proprio miracolo in questa guerra. Nel seminterrato che ospita la struttura, ragazzi impegnati a organizzare le trasmissioni, tecnici e ospiti pronti a dare il loro contributo.
Come è lontana da qui l'Europa, come pesa la responsabilità della comunità internazionale che non ha fatto niente per evitare questa guerra. Quante vite costerà ancora l'ipocrisia e l'interesse dell'Europa? Sarajevo vive l'ingiustizia di una violenza che si accanisce indiscriminatamente e nessuno mostra una reale volontà di fermarla. Quanto ancora resisterà l'unità della popolazione, unica vera forza che ancora lascia spazio alla speranza?
La speranza... forse ora, dopo una strage costata più di sessanta vite umane, comincia lentamente ad accendersi. Lo scoppio delle granate non rappresenta più, almeno fino ad ora, il sottofondo macabro del vivere della gente che, giorno dopo giorno, torna a sperare che forse qualcosa possa cambiare. Ma, nonostante tutto, c'è pure un grande pessimismo. La consapevolezza che la fine dei bombardamenti non rappresenta di per sé una pace, la paura che la divisione etnica del territorio sia la tremenda condizione da dover accettare.
Nell'assedio di Sarajevo non esiste famiglia che non abbia avuto un lutto e la distruzione, ora che è meno rischioso girare per la città, appare in tutta la sua evidenza.
Non si può non provare un nodo alla gola nel pensare a quello che ha dovuto subire questa gente in due anni di assedio, durante i quali sono piovute, micidiali, più di tre milioni di bombe. Le condizioni di vita delle popolazioni sono ancora drammatiche; manca di tutto. Dai generi alimentari alle medicine. Solo l'attenzione e la solidarietà della società civile occidentale potranno garantire che Sarajevo ricostruisca, almeno in parte, i suoi legami con l'esterno.
I giovani studenti universitari della capitale bosniaca mi hanno affidato i loro saluti a Viareggio, mi hanno espresso tutta la loro riconoscenza perché la Biblioteca della nostra città ha donato loro alcuni volumi per l'iniziativa culturale "Bosnia-Italia" che si è tenuta dal 14 al 18 marzo. Ed è proprio dai giovani e dalle donne che viene la promessa di costruire un futuro senza odio e senza divisioni; anche se prima di tutto devono cessare la guerra e l'assedio. Sì, perché Sarajevo è ancora assediata e circondata. In Sarajevo si è ancora prigionieri, con l'incubo che questo piccolo spiraglio di speranza possa diss olversi con il solo tiro di una granata sulla gente indifesa. E noi, che troppo facilmente ci siamo dimenticati di quale immane tragedia stesse avvenendo, ci chiederemo forse un giorno perché mai non abbiamo urlato abbastanza la nostra indignazione per quanto stavano facendo a civili inermi fuori l'uscio di casa nostra.
Licio Lepore
D. - Nonostante quello che sta avvenendo nel tuo paese, è possibile non provare il sentimento dell'odio?
R. - Io non voglio odiare o ferire nessuno. Quando hai tanto amore dentro di te non puoi provare il sentimento dell'odio. Hanno distrutto la mia casa, una parte della mia vita, ma adesso sono qui e cerco di dimenticare. La vita può ricominciare anche a partire da qui.
D. - Sei una cittadina serba di Sarajevo. Che cosa significa per te questa cosa?
R. - Spesso mi sento colpevole per ciò che è accaduto e che accade. Mi sento colpevole per tutte le distruzioni e le sofferenze provocate dai serbi, ma non sono tutti uguali i serbi. Bisognerebbe conoscere a fondo la verità... mi sento molto triste per tutto quello che dicono contro di noi. Sarebbe necessario conoscere a fondo la storia della Jugoslavia per capire veramente. Nessuno ha il diritto di fare ciò che stanno facendo i serbi, i musulmani, i croati, ma chi è il maggiore colpevole? Certamente la responsabilità non è solo dei serbi.
D. - Come è possibile che una nazione che ha vissuto tanti anni di coesione interna e ha espresso il meglio di sè sul piano della convivenza fra diverse etnie e religioni esprima poi una tale brutalità?
R. - E' una questione molto complessa. Tutto ciò che è successo in Jugoslavia può accadere anche in altri paesi. Ci sono dei grossi interessi economici in gioco anche se questo elemento rimane poco chiaro all'opinione pubblica. Certo, lo sappiamo tutti, le alleanze storiche di serbi e croati sono sempre state conflittuali. Penso alla seconda guerra mondiali, ma anche prima. Penso che in realtà i serbi sono stati ingannati nel corso della storia. Noi siamo un popolo aperto ... anche se adesso non riconosco la mia stessa gente e non posso credere che si siano macchiati di tutti i massacri che ben conosciamo. Dovremmo capire chi sta giocando con noi, chi ha provocato questa grossa esplosione di odio. E c'è un pericolo latente in tutto il mondo, anche in Italia.
D. - L'idea di costruire la Grande Serbia trova consenso fra la popolazione?
R. - L'idea della guerra non riguarda il popolo. Sono stata in Serbia cinque mesi fa; non puoi immaginarti le reali condizioni di vita della gente così provata dall'embargo. C'è una grossa propaganda contro la Bosnia e la Croazia, ma nonostante questo la gente non vuole andare in Bosnia a combattere, non ne vede il motivo. Ho conosciuto molte persone scappate per non andare in guerra. Con l'embargo hanno letteralmente distrutto la gente. A volte penso che vogliono distruggere la Serbia e tutta la Jugoslavia. Fanno di tutto perché si acuiscano le tensioni con l'Europa. Forse il vero scopo è proprio quello di preparare le condizioni per un conflitto più generalizzato.
D. - Pensi che una grossa pressione internazionale potrebbe rompere l'isolamento di Sarajevo, permettendo a significativi settori della società civile internazionale di entrare in città?
R. - Sarebbe bello se molte persone andassero a Sarajevo a chiedere la pace, ma è molto pericoloso. In qualsiasi momento potrebbe accadere qualcosa di grave e allora le ripercussioni sarebbero molto dure. Purtroppo però non è più possibile avere fiducia nelle trattative: è da più di due mesi che parlano, parlano... Credo che l'isolamento di Sarajevo dipenda prima di tutto da Izibegovic e Karadric.
D. - Se non possiamo credere alla volontà della diplomazia internazionale di fermare la guerra, dobbiamo allora credere alla forza della gente, in qualunque parte sia, perché riesca a costruire la pace... altrimenti non c'è speranza...
R. - In realtà io sono molto pessimista; non vedo nessuna speranza per tutti noi. Prima pensavo che fosse impossibile la guerra in Bosnia: invece c'è stata. Se questo è successo vuoI dire allora che non c'è nessuna speranza per il mondo. Forse penso così perché non sono credente come lo siete voi italiani. Voi siete abituati a credere in qualcosa... Prima avevo una grossa fiducia nel socialismo. Stavamo bene, prima, ma il nazionalismo ha troncato questa nostra esperienza e ora è difficile credere in qualcosa. Il nostro socialismo era molto diverso da quello di altri stati, per esempio della Russia. Per loro noi eravamo occidentali e del resto nel giro di non molti anni avremmo potuto raggiungere un tenore di vita simile al vostro. Ma "in alto" hanno deciso di distruggere quel sistema. E' stato facile allora alimentare i nazionalismi e arrivare alla guerra.
Se le persone vogliono dividersi secondo la religione o l'etnia, allora ti dico che non voglio più tornare indietro. Per me esiste una sola regola: un uomo o è buono o è cattivo. Su questo baso la mia vita e il rapporto con gli altri. Quando all'inizio è scoppiata la guerra in Croazia, non avremmo mai pensato che sarebbe arrivata anche da noi. Quando invece è stata una realtà non potevamo esporre i nostri figli al pericolo e quindi siamo venuti via.
D. - Avevate rapporti con famiglie di altre etnie e religioni?
R. - Abbiamo molti amici croati e musulmani. Non c'è mai stato nessun problema fra noi. La diversità era una cosa reciproca e normale. Abbiamo vissuto benissimo per anni a Sarajevo. Ci sono tanti matrimoni misti a testimonianza di come eravamo. Quando è scoppiata la guerra in Croazia ci consigliavano di comprarci delle armi, ma per noi era una cosa assurda. Eravamo amici di tutti, contro chi avremmo dovuto usarle? Come avremmo potuto trovarci opposti agli amici? Abbiamo sempre creduto nel valore dell'amicizia e gli abitanti di Sarajevo erano fieri proprio della loro diversità. Ci sentivamo speciali. Sarà difficile ritrovare i valori di prima, molto difficile.
A volte i miei figli mi chiedono il perché della guerra, perché siamo venuti in Italia. Non ho mai parlato male né dei serbi, né dei croati, né dei musulmani. Non voglio che crescano con un senso di rancore nei confronti di qualcuno, ma che pensino piuttosto al bene che c'è nelle persone. Il problema è anche quello di pensare ai bambini che saranno gli adulti di domani: forse loro potranno ricostituire la nostra società, un popolo nuovo.
Spero che tutte le mamme facciano in maniera che quello dei loro figli non sia un futuro di odio.
Da PRETIOPERAI n.26, gennaio 1994, editoriale di Roberto Fiorini: Lo scorso 3 ottobre a Montreuil si sono ricordati i 50 anni della pubblicazione di "Francia, paese di missione?", un libro di H.Godin e Y.Daniel che ha segnato un'epoca. In quel contesto è stata ricordata la drammatica vicenda dei preti operai costretti dal divieto romano culminato con la lettera del card.
Pizzardo del 3 luglio 1959, a scegliere tra la vita operaia e gli obblighi connessi con la vita sacerdotale. Si era alla vigilia del Concilio. Dei 100 preti operai allora impegnati circa la metà decisero di continuare nella loro fedeltà alla condizione operaia.
Proprio a questi non sottomessi, ormai rimasti in pochi (due di loro lo scorso anno sono intervenuti al convegno nazionale dei preti operai italiani e le loro testimonianze sono pubblicate nei numeri 20-21 e 22 di PRETIOPERAI), il vescovo di Soissons presidente della commissione episcopale francese per il mondo operaio si rivolgeva: " ... vorremmo che anch'essi sappiano che noi riconosciamo la loro ricerca di essere fedeli, nel mezzo del dramma, alla loro missione. Vogliamo dire a questi preti che si sono sentiti esclusi che noi siamo pentiti di tutto ciò .che quarant'anni fa, e ancora oggi, ha fatto pensare che la condizione operaia sia incompatibile con lo stato di vita del prete".
Roberto Fiorini riporta in seguito uno stralcio del commento apparso sulla rivista IL REGNO 20/93 pag. 625, a cura di Chierigatti:
"Doloroso è stato pensare all'atteggiamento dei vescovi, dei preti e dei tanti laici cristiani verso coloro che hanno continuato a lavorare rimanendo sacerdoti: sono stati ignorati e ci si è comportati come se non esistessero. Ora si rischia di farne degli eroi ... Giustamente non c'è stata euforia fra i preti operai francesi presenti a Montreuil nel ricevere la dichiarazione dell' episcopato francese: non è stata una vittoria di qualcuno contro altri, ma la dichiarazione di una disfatta per tutti. Non si possono costruire monumenti per gli uomini che si sono prima uccisi...
Sono stati uomini forti, quei vecchi preti che hanno ascoltato con dignità la loro riabilitazione, senza pretendere nulla in cambio...
Il mea culpa dell' episcopato francese non è certamente consolante anche perché altre questioni brucianti sono oggi sul tappeto della chiesa e sono liquidate nello stesso modo dei pretioperai... ".
E così Sirio descrive la sua "obbedienza" alla conferma anche per lui in Italia della decisione della Chiesa:
"Sono oggi otto giorni che sono uscito l'ultima volta. Ho timbrato il cartellino d'operaio con sopra il mio nome e cognome senza il "don", all'orologio di portineria e sono venuto via con una tristezza infinita nel cuore. Sapevo di abbandonarli.
Li lasciavo. Dopo tre anni.
No, è chiaro, non sono più di loro. Anche se facessi miracoli non apparterrò a loro. Non sono più uno di loro e quindi non sono loro nemmeno davanti a Dio.
E questo è terribile.
E questo la Chiesa non lo doveva volere. Perché è giusto che questo povero mondo operaio abbia qualcuno che sia lui veramente e sinceramente davanti a Dio. Che lo rappresenti con diritto.
L'Amore cristiano esige questa "Incarnazione" .
Il sacerdozio ha questo dovere di mediazione.
Rimangono soli anche se io ero spaventosamente nulla. Anche se incredibilmente indegno, ero il loro sacerdote.
Ogni mattina alla Messa. In tutta la preghiera. In tutta la mia ricerca di Dio. Nel mio povero sforzo di libertà e di presenza. Nella mia situazione umana e sociale. Nel mio morire a tutto il resto. Nella sofferenza a cuore aperto di tutto il dramma operaio in tutto il mondo e particolarmente in Italia. Nell'umiliazione di essere povero e nulla come loro. E di essere perfino incapace di un buon mestiere. Nella fatica di ogni giorno. Nella schiavitù della sirena. Nella sfinitezza di tante sere dopo giornate tanto dure e penose. Nella povertà di quella povera busta presa dopo aver fatto una lunga coda: e l'amara sorpresa di quel poco, e sapevo bene, e glielo leggevo in faccia, che per loro con moglie e figli e affitto di casa e tutto il resto era ancora più poco.
Il loro prete. Anche di quelli che non credono in Dio, che non vanno mai in chiesa, che nemmeno vogliono sentir parlare dell'anima... tutti ugualmente, senza la minima differenza, ma anzi preferendoli, ho raccolto nell'anima mia e nel mio sacerdozio. Senza nemmeno dir loro una parola, non pretendendo mai assolutamente nulla, nemmeno che sapessero del mio Amore e tanto meno che lo capissero e meno ancora che lo corrispondessero.
Ma li ho raccolti così come sono, in blocco e uno per uno anche se dispersi su tutta la terra, chiedendo a Dio che li amasse così com'erano e trovasse Lui il modo perché niente di loro andasse perduto. No, non ho potuto sopportare che tutta la loro vita si esaurisse sotto quel torchio di lavoro e di schiavitù alla fatica per avere l'indispensabile per non morire. Che tutto il valore umano - è in Dio che ho conosciuto quanto valga questa povera realtà umana, è in Gesù che ne ho scoperto la misura di valore - finisse in una materialità soffocante e avvilente, in una miseria morale incredibile, dentro limiti che non vanno al di là del mangiare e del bere e di dormire con una donna. E che tutto il travaglio di avere una famiglia e di mantenerla con tutti quei calcoli che vanno dall'usar della propria moglie col terrore di un figlio dopo il primo o al massimo dopo il secondo, fino ai conti della spesa e dell' affitto e delle cambiali e delle medicine e tutto il tormento della vita d'ogni giorno... che tutto insomma li uccidesse spiritualmente riducendoli a povere macchine come quelle dell'attrezzatura del cantiere.
No, questo è insopportabile e volevo che un prete vivesse interamente questo terribile problema di materialismo e vi portasse per mezzo del suo Sacerdozio-Redenzione di Cristo, un po' di salvezza.
Ma non discorsi o lamenti, ma caricarsi di tutto, come se tutto fosse proprio tentando di portar tutto questo carico enorme a Dio per mezzo di Gesù... ".
(Sirio Politi, "Uno di loro", ed. Gribaudi)
Nel numero di marzo 1994 del COURIER P.O., il trimestrale dei preti operai francesi, in un inserto speciale che ricorda i 40 anni dal primo pronunciamento di sospensione dell' esperienza, riporta un saggio di M.Dominique Chenu, noto teologo domenicano, apparso nella rivista "La Vie Intellectuelle" nel febbraio 1954, di cui riportiamo la parte finale:
"Quali che siano le modalità di uno statuto da definire, appare chiaramente che questo ministero è comandato da un atto primo e assai difficile di presenza nel senso forte che diamo oggi a questa parola. Una presenza di Chiesa, che sola realizza, nella circostanza, una comunione di vita. Come battezzare una civiltà se non vi si entra? Una presenza non è certamente ancora un insegnamento (didaké) né un sacramento. Ma è la condizione della parola, compresa la Parola di Dio. E' in tutta la forza del termine e l'emozione diffusa di fronte alla messa in questione dei preti operai lo prova - una testimonianza efficace di fede. E' la prima espressione, spesso silenziosa in parola ma mai in atti, di una vera evangelizzazione, e del volto finalmente visibile della Chiesa.
Le condizioni ineluttabili di una presenza, oltre l'abisso delle assenze e dei muri di separazione, sono da prendere in considerazione e da misurare. Ma, se si restituisce al sacerdozio la sua prima dimensione, le condizioni, poste dalla gerarchia, non somiglieranno più - come queste - a delle concessioni miserabili e grette, ma al contrario ad una garanzia della presenza dello Spirito nella Chiesa e una speranza cristiana per il mondo che si va preparando".
Il deserto sembra velluto dalla autostrada;
invita i miei passi.
Il creosoto, la sabbia, gli arbusti di salvia
si fondono in melodia.
Vi entro e non trovo affatto dolcezza
ma piuttosto l'aspro, silenzioso vibrare
di un demone luminoso e insieme invisibile.
Il deserto, dove la mia storia riposa,
cancella il mio futuro,
inghiotte tutti i miei figli
vomitando ossa di terracotta sbriciolata
che brillano di luce spettrale nella notte.
Jeanette Arnquist
(continua dal numero precedente)
"Una voce nel deserto" annuncia:
"Deponi, Figlia di Sion, (4)
la veste della frattura.
Deponi figlia di Gerusalemme,
il velo della dipendenza dalla carne.
Alza il capo,
sta in piedi e guarda.
E' qui il tuo Salvatore.
Egli ti muta le vesti di mestizia,
in toga di letizia.
Sei stata segno dell'umanità contrapposta,
dell'umanità dominata dal potere
della colpa.
Ora sarai segno, alto sulle nazioni,
dell'umanità restaurata,
dell'umanità riconciliata.
Sarai segno per tutti i popoli
della divinità che in Cristo
ha rivestito l'umanità
per restaurarne l'unità, la dignità,
la capacità a costruirsi nella divinità.
Non innalzerà più al mondo
come vittoria il Redentore
cocci conflittuali, contrapposti.
Il Sacramento della divisione
è morto
con il Cristo Risorto.
E la Chiesa,
continuità del suo Sacramento,
rivestirà l'emblema del Cielo e della Terra.
La sua realtà divina
si presenterà nell'unità ricomposta
dall'uomo e dalla donna.
La sua realtà umana
si esprimerà nella distinzione storica
dei sessi.
Si mostrerà Cielo riconquistato,
dove non c'è più né uomo, né donna;
dove l'opera concorde della distinzione
ha conseguito la realtà
divino-umana della Sposa.
Si mostrerà reale sacramento di Cristo
che ha compiuto in terra
ogni divina volontà
nella sua pienezza di creatura umano-divina
composta di tutti i caratteri maschili e femminili.
Ogni donna come ogni uomo
è carne della sua carne immolata.
Ogni donna come ogni uomo
è sangue del suo sangue sparso.
E' creatura rifusa dal fuoco
degli inferi che esce vittoriosa
con la divinità umanizzata
del Risorto.
Dio è venuto come Sposo
e si è fatto Sposa.
Nella Sposa ha assunto
l'uomo e la donna.
L'Incarnato è Sposo ed è Sposa.
Una febbre profetica mi fa gridare:
"Anche noi, anche noi donne
apparteniamo a Cristo.
Il suo sigillo è stampato
sulle nostre fronti di battezzate.
E per salvarci egli non ci chiederà
la nostra perpetua minorità.
E per disporre delle vie regali
dei sacramenti,
non esigerà che sottostiamo
a ricorrenti conflitti interiori
tra le esigenze del proprio carisma
e i ricatti dell'uomo
che avendone il monopolio
li amministra con soggettiva liberalità
Egli oggi ci impone a non subire oltre
un modello salvifico discriminato
in quanto mediato da quella metà
della Creatura umana
che è maggiormente legata
alla ragione del potere.
E' caduto l'ebreo e il gentile.
E' caduto il libero e lo schiavo.
Cadrà ora l'ingenua pretesa
di superiorità dell'uomo sulla donna.
Anche a noi dice, oggi il Signore:
"Venite, discutiamo insieme".
Hai messo, Signore, uomini
sulle nostre teste,
sulle nostre spalle hai caricato
il dominio della carne.
Tu sei risorto
ed hai mandato noi ad annunciarti;
ma gli uomini ci hanno strappato
di mano l'annuncio
e ci hanno imposto il silenzio.
E per essi tu sei uscito vittorioso
dal potere delle tenebre,
ma per noi, siamo noi a saperlo,
sei rimasto nella tomba.
Tu hai lavato i piedi agli apostoli
e li hai esortati a ripetere il gesto.
Ma essi, ancor oggi,
con abili inversioni di significato
e con dotti discorsi,
lo riservano a noi l'onore
di lavare i piedi,
lo consegnano a noi
l'elevato compito della compassione.
Ad essi spetta il parlare.
A noi lo stare zitte e faticare.
Fino a quando, Signore,
fino a quando sopporterai
che una metà e più dell'umanità
venga considerata l'ausiliaria dell'altra?
Non siamo tutti la tua unica Creatura,
Signore?
Ha forse uditori selettivi
la tua unica Parola?
Opera forse nella Chiesa lo Spirito
in considerazione delle qualità somatiche?
E avremmo subìto l'imposizione,
avremmo atteso la Parusia in silenzio
se il tuo Spirito oggi
non ci imponesse di svegliarci
dal sonno di secoli
e non ci percuotesse in petto
il richiamo:
Uomini di Galilea,
calate nelle mani, i principi di uguaglianza
che tenete saldi nell'annuncio.
Ricomponete l'unità sacramentale
di Cristo.
Rinnovate la veste
che avete fatto indossare alla Chiesa.
La chiamiamo madre
ed è composta di padri.
La diciamo sacramento di Cristo
e la vediamo un Cristo diviso a metà.
La consideriamo mistero
e si mostra barricata nel Sacramento.
La annunciamo Sposa
e presenta una mente maschile
nel magistero, nella pastorale,
nei sacramenti.
La predichiamo cattolica
ed è discriminata in se stessa.
Non temete la voce del profetismo femminile.
Non temete la presenza responsabile
della donna nella Chiesa.
Sovvertimento dell'ordine divino
non è la sua presenza,
bensì la sua assenza.
Quando compare la donna
nella storia dell'umanità,
l'uomo si apre alla coscienza di sé
e della sua dipendenza da Dio.
Una febbre divina mi spinge
a declamare:
è finita l'egemonia sacramentale
dell'uomo;
è finita la dipendenza salvifica
della donna.
I mezzi efficaci della grazia saranno
ugualmente aperti
nella comune azione ecclesiale.
Non dipenderà più per lei
dalla misura o dal criterio di lui
la larghezza sacramentale
del dono di Cristo.
Lo Spirito ci ha dato coscienza
della nostra diretta appartenenza
a Cristo.
Ed ora ci sollecita a rimuovere
la condanna.
Abbiamo da sempre subìto l'imposizione
perché non ci era consentito di parlare.
Ora il silenzio unilaterale cade.
E fino a che non avremo conseguito
lo scopo
non deporremo la profezia,
non smetteremo di dire
che,fatte coscienti della nostra dignità,
non possiamo più accettare di considerarci
"terra" dominata da un "cielo"
fatto esso pure di terra.
Siamo chiamate ad alzarci
e a correggere quella dottrina maschile
che predica la donna finalizzata
a completare l'uomo.
Ci leviamo a correggere l'errore,
non a rovesciarlo dall'altra parte.
La Donna salirà nei cieli.
L'Uomo è come l'erba:
sarà consunto dal sole di giustizia
che assorbirà nella sua luce
tutto ciò che è servito al tempo
a edificare la "sposa".
Dio dà oggi voce
al profetismo femminile
perché abbatta quel culto umano
che rapina i diritti di Dio.
Il Risorto
mette in mano alle donne
la sua forza
per demolire quell'altare profano
che si è collocato
tra il Cristo e la sposa
e che le richiede doppio scotto
di sottomissione salvifica.
Siamo di Cristo,
non di Paolo, o di Apollo, o di Cefa!
Dobbiamo assumere la nostra posizione
di figlie di Sion,
tra i figli di Israele.
Un nuovo cammino si apre
di dialogo fraterno,
di comunione con la sorellanza.
E' superata la posizione storica
della donna che guarda all'uomo
come a emblema di Dio,
mentre l'uomo guarda indietro
nell'intento di recuperare
quell'assoluto umano ch'egli era
quando "in principio" scorazzava
con gli animali.
L'uno e l'altra,
come figlio e figlia dell'unico Dio,
saranno aperti alla reciproca accoglienza;
saranno attenti al reciproco ascolto;
l'uno e l'altra
avanzeranno lungo la storia
guardando avanti
alla "nuova creatura" personale
da far crescere.
L'uno e l'altra saranno impegnati
a realizzare nella Chiesa
le qualità della Sposa del Verbo.
La Novità del Risorto
collocherà la donna nella Chiesa come
inizio di un nuovo impulso,
cammino nell'unità,
segno di riconciliazione,
dinamica nell'armonia,
pegno di ricchezza,
splendore di bellezza,
annuncio di tempi messianici.
(Continua)
(4) La figlia con la lettera maiuscola sta ad indicare la Chiesa; con la lettera maiuscola rimanda alla donna.
Il CENTRO NUOVO MODELLO DI SVILUPPO è un piccolo centro di documentazione sorto nel 1985 a Vecchiano nei pressi di Pisa.
Il Centro, che affronta i temi del disagio, inteso come malessere economico, sociale, fisico, psichico e ambientale, sia a livello locale che internazionale, è parte integrante di una iniziativa gestita da un gruppo di famiglie che hanno scelto di dare solidarietà concreta a situazioni di disagio.
Il Centro dedica una particolare attenzione a ciò che avviene nel Sud del mondo per capire quali sono le nostre responsabilità e per scoprire quali iniziative possiamo intraprendere per opporci allo scandalo dell'impoverimento.
Il Centro che si basa totalmente sul volontariato e che non riceve finanziamenti pubblici, dispone di una biblioteca che mette a disposizione di chiunque voglia approfondire questi temi con spirito di impegno.
Per conoscere meglio quali altre iniziative si portano avanti nel Centro potete scrivere a:
CENTRO NUOVO MODELLO DISVILUPPO
via della Barra, 32
56019 VECCHIANO (PI)
Riceveranno volentieri le vostre critiche e le vostre proposte per organizzare meglio, tutti insieme, la nostra resistenza contro l'ingiustizia in modo da garantire ai nostri figli una terra migliore.
Le EDIZIONI DELL' AMICIZIA segnalano nella denominazione l'origine dell'iniziativa e la prospettiva nella quale vorrebbero disporsi. Nate all'interno di un sincero, già lungo rapporto di persone, ricco di esperienze, di riflessioni costantemente intrecciantisi, nel rispetto, sempre lievitanti crescita umana, vorrebbero accendere un circuito più ampio di doni a livello delle emozioni e dei pensieri, instaurando possibilmente anche rapporti personali... Una particolare attenzione dedicheranno al mondo altomolisano.
Circoleranno in forme personalizzate, privilegeranno gli ambienti sereni delle biblioteche operose. Escluderanno gli attuali canali di distribuzione. Considerano lettori amici ideali coloro che, nella gratuità del dono, sappiano cogliere l'invito ad una lettura meditata e serena. Sono aperte alla partecipazione spontanea di quanti ne riscontrano la validità, ne sentono e condividono lo spirito animatore:
EDIZIONI DELL'AMICIZIA Corso V. Emanuele, 45 Tel.0865178424 - 86081 AGNONE (IS)
"LIBERARSI" non è l'organo di un partito o di una associazione rigida, ma è e rimarrà uno strumento che, senza censure, farà conoscere il pensiero, la vita, la realtà dei detenuti e del carcere e di tutto ciò che si muove intorno a questo problema.
La situazione oggi è veramente pesante, molti carceri sono invivibili, molti sono i segnali di chiusure e di irrigidimenti: noi denunceremo questa realtà, ma volentieri ospiteremo anche ciò che si sta muovendo in modo positivo:
LIBERARSI DALLA NECESSITA' DEL CARCERE
Periodico bimestrale edito da: Circolo Ora d'AriaPantagruel, c/o Centro Stranieri, via degli
Armeni ,1 - 51100 Pistoia tel.0573/975435 - Abbonamento annuo L.I0.000 da versarsi sul c.c.p. n.11852514 intestato a PANTAGRUEL, C.P. 360 - 51100 PISTOIA.
(Tegel) 20 agosto '43
Mia carissima Maria!
... Il sole mi ha sempre affascinato, spesso mi ha ricordato che l'uomo è tratto dalla terra e non è fatto di aria e di pensieri.
E questo al punto che, quando una volta mi recai a Cuba per predicare nei giorni di Natale e dal ghiaccio del Nord America arrivai nella fiorente vegetazione tropicale, rischiai di farmi sopraffare dal culto del Sole e sapevo a malapena che cosa dovevo predicare. Fu una vera crisi; e qualcosa di simile mi colpisce ogni estate, quando comincio a sentire il sole.
Il sole per me non è una grandezza astronomica, ma qualcosa come una forza viva, che amo e che temo. Trovo così codardo sorvolare su queste realtà in modo razionalistico. Lo capisci?
E così la pazienza, la gioia, la gratitudine, la calma e il perdono devono continuamente farsi strada attraverso ogni genere di ostacoli. Poter veramente riconoscere, sperimentare e credere che, come è detto nel salmo, "Dio è sole e scudo", è questione di alti momenti di grazia, ma non
saggezza di tutti i giorni.:
sempre il tuo Dietrich
Dal carcere di Tegel, Cella 92, escono in certo modo solo ora le "Lettere alla fidanzata" di D. Bonhoeffer. Edite in Germania nel 1992 e offerte al pubblico italiano dalla Queriniana (febbraio 1944). Maria e Dietrich si fidanzarono il 17 gennaio 1943. Dietrich fu arrestato i15 aprile, come resistente, e incarcerato a Berlino-Tegel. Vi rimase fino all'S settembre 1944, quando fu tradotto nei campi di concentramento di Buchenwald e di Flossenburg, dove fu ucciso il9 aprile 1944.
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455