LOTTA COME AMORE: LcA gennaio 1994

(frontespizio)

L'uomo é ricco in proporzione
delle cose
di cui sa fare a meno

Camminare sull'acqua

Prendere la penna in mano per scrivere su questo giornaletto che arriverà a destinazione tra due mesi e affrontare dei temi che riguardano la vita di oggi, sembra cosa assurda, quasi un voler giocare d'azzardo con la storia. Che cosa mai succederà nel frattempo? Strana sensazione questa perché ci immobilizza nell'attesa della prossima puntata, rassegnati a produrre storie scontate e del tutto marginali all'interno di una cronaca che produce caleidoscopici nuovi scenari. Facciamo l'esempio della politica (ma se ne potrebbero fare tanti altri). Scriviamo a ridosso del primo turno elettorale delle amministrative di Roma, Palermo ecc. e ci ritroviamo a fare i conti con il MSI a livelli mai visti. Però, ci dicono tutti di non preoccuparci perché l'elettorato italiano è un elettorato sostanzialmente moderato. Infatti... sembra andare a sinistra. E così, un po' a destra e un po' a sinistra, forse va avanti la moderazione... Ma crediamo davvero che le realtà fino ad oggi al potere accettino supinamente di passare la mano? Che cosa mai succederà nel frattempo?
Mai come oggi - credo - abbiamo così poca voglia di scherzare sull'episodio di Pietro che vuol imitare il Maestro, camminando sulle acque. Ammesso che si voglia resuscitare la decotta battuta su Gesù che, paternamente, invita Pietro a camminare sugli scogli, ci chiediamo oggi - nella situazione di oggi - dove sono gli scogli?! La realtà, intorno a noi, si è disciolta in profondità imperscrutabili. Acque mosse e limacciose che impediscono di vedere il fondo. Se si vuol camminare, appare vana ogni ricerca di solidi appoggi. Ed anche nuotare appare disperante se si misurano le ampiezze di questi tratti di mare: lo sguardo ci si perde.
Torniamo dunque al mare di Galilea.
Pietro sa (ma anche noi lo sappiamo) che non si tratta di andare da riva a riva. La transizione, per il nostro mondo, non è un semplice, anche se rischioso, attraversamento pedonale. Certo, la transizione non è eterna e da qualche parte si arriverà pure a poggiare i piedi, ma nel frattempo l'altra sponda non è neppure rintracciabile. Le speranze e ancor più le certezze si confondono con i fantasmi. Fino a farci urlare di paura nel segreto della nostra solitudine. Pietro inizia il suo percorso perché sa di doversi affidare ad un altro che sta camminando - anche lui - sull' acqua. Segue una voce. E, nel momento del dubbio e della paura, sarà sostenuto da una mano.
Camminare sull' acqua è possibile, dunque, ma a condizione - sembra dirci questo episodio - che si vada incontro a qualcuno. Non conta tanto il 'saperci fare'. Non basta far di tutto per essere leggeri evitando i grossi peccati, cercando di salvarsi l'anima e la coscienza; non basta cercare di indovinare la direzione che prenderanno gli avvenimenti. Il 'segreto' è nel portare nel cuore il mistero della perenne creazione: la fiducia che cresce e moltiplica non il semplice numero dei viventi in progressione geometrica, ma la responsabilità condivisa di ognuno a tutto e a tutti. L'affrontare il mare aperto della storia (e può essere vicenda pubblica ed esemplare come semplice traccia nascosta di una vita qualunque) nella convinzione di non farlo unicamente per se stessi e da se stessi. Non si tratta di sapere in anticipo che non affonderemo. Si tratta invece della convinzione fiduciosa di non essere soli e da soli.
Per questo forse non ci sentiamo scaldare il cuore da ogni discorso che premette la necessità di ripartire da valori affermati, facendone piloni su cui gettare il ponte che non ci fa bagnare i piedi, costruendo zattere su cui traghettare anche il mondo intero. Gettar piloni, costruire ponti, legare con pazienza infinita i legni di una, cento, mille zattere... e correre ugualmente il rischio di affondare perché troppo occupati per poter trovare il tempo di incontrare qualcuno.
Per questo vorremmo invece che si ripartisse dalla fiducia che vale la pena rispondere agli inviti di chi - qualunque sia il suo nome - ci chiama a camminare sulle acque di questo nostro tempo, di questa nostra storia, e ci invita ad un incontro, ad un confronto continuo. E' importante - oggi assai più di ieri, se è possibile dirlo -, essere veramente attenti gli uni agli altri. Riscoprire il vino buono e forte dell' amicizia che è innanzitutto sincerità vicendevole, parola anche dura ma che provoca a tirar fuori il meglio di sé. E l'intessere trame affettuose, serene, veramente pacificanti. Perché, più o meno, abbiamo bisogno tutti di essere accolti e confortati ed amati non più e non solo ormai nelle ristrettissime famiglie di oggi, nei rapporti a due, ma rasserenati dalla ricchezza di ruoli diversi da giocare in respiri più ampi e dilatati che non la secca alternativa d'esser soggetto o oggetto di una proprietà d'amore.
Si apre tutto uno spazio nuovo - un antico nuovo spazio scriverebbe Sirio - alla non violenza e alla pace. Che non è più solamente un astenersi dalla violenza individuata nei 'luoghi' tradizionali degli armamenti, degli eserciti, della guerra. O anche un lottarci contro senza responsabilità e conseguenze per il proprio modo di vivere. La pace, forse, deve proprio ripartire dai gesti quotidiani, dai mille rivoli della vita vissuta, da una energia iscritta nella coscienza personale e resa forza convincente dalle multiformi trame di fili sottilissimi di gesti, atteggiamenti, sentimenti, convinzioni che non emergono per sovrapporsi, ma per intrecciarsi. Non c'è spazio, quindi, in cui sia lecito abbandonarsi alla violenza, ma neppure in cui sia lecito abbandonare se stessi all'irruzione cieca della violenza. Si può scatenare la guerra per un posto di lavoro, per una casa, per motivi d'insopportazione personale, perché con qualcuno bisogna avercela... C'è invece una quotidiana lotta da fare perché le responsabilità non siano di nuovo tutte delegate e per una coscienza personale da rivitalizzare. Un desiderio di soggettività sereno e mite; della forza inarrestabile della mitezza. E insieme un lasciarsi andare e permettere al sale della diversità di cuocere la nostra pelle e di liberarci il cuore dalla paura di essere noi stessi e di permettere agli altri di non essere uguali a noi. Per troppo tempo ci siamo risvegliati ogni mattino trovando naturale che, qualcun'altro per noi, avesse già provveduto a decidere quale vita volevamo vivere. Quale rotta la barca doveva tenere nel sonno cui volentieri ci abbandonavamo, sapendo che c'era chi sistemava le cose in modo da farci urtare il meno possibile contro gli scogli della disuguaglianza sociale e dei problemi della convivenza. Ora, tutta una serie di circostanze - gravide di tensioni come nubi temporalesche - si addensano sopra di noi. Stare svegli è divenuta dura necessità. Si può decidere se impazzire, o, pur tremando, aprire i nostri occhi ed essere infinitamente sorpresi di poter camminare sull' acqua.



La Redazione

La posta di fratel Arturo

Cari Amici d'Italia,
all'aeroporto di Foz do Iguaçu un' ondata infantile che mi viene incontro e quasi mi travolge, spenge il resto di pena che porto con me dal distacco da fratelli e amici. Quella dolcissima pena che "'ntenerisce il core - e d'amore punge il peregrin" anche se non è tanto novo peregrin, ma abituato a partenze e ritorni.
Dopo questa accoglienza festosa, mi viene incontro l'immagine spaventosa della FAME. Piove ininterrottamente da tre settimane, le baracche della mia favela sono invase da acqua e fango. La stanzetta sulla riva dell'Iguaçu, luogo del mio "deserto", emerge di appena un metro dalle acque che hanno risalito l'argine di circa l0 metri, e continuano a crescere. La vicina capanna dei pescatori è scomparsa, hanno avuto il tempo di salvare gli attrezzi della pesca e le cose più importanti, mentre il mio tavolo di lavoro e il giaciglio sono sott'acqua. Ma la perdita non merita nemmeno un sospiro di rimpianto, messa a confronto della tragedia di famiglie che vagano per le strade in cerca di rifugio. Pare che abbiano salvato solo i bambini che portano in collo o trascinano nella marcia aggrappati
alle loro gambe.
Eppure questo paesaggio così fosco è attraversato da un raggio di speranza. La fame è studiata, catalogata, pare uscita dalla clandestinità delle baracche e, messa sui tavoli dei laboratori sociologici, scopre la sua vera identità. Un giornale non certamente sovversivo, il Jornao do Brasil, che corrisponde al nostro Corriere della Sera, porta a titoli di scatola: "L'anima della fame è politica". Non è un'anima infusa da Dio o dal Destino: è politica. E in articoli scritti dalle penne più prestigiose e competenti del Brasile, si mette a nudo la vergogna della fame: 32 milioni di persone che vivono nell'indigenza, la popolazione dell' Argentina.
"Come morire di fame accanto a 70 milioni di tonnellate di cereali, di 8,5 milioni di ettari di terra adatta ai cereali, in un paese che è il terzo esportatore di alimenti sulla terra? Considerando che tutti questi brasiliani miserabili si sazierebbero con il 20% degli scarti, la fame di 32 milioni rivela l'essenza umana del loro paese che è capace di negare la condizione di vita al 20% della popolazione" (Herbert de Souza, sociologo). Questa rivelazione sarebbe solo scandalosa e non farebbe che aumentare la nostra indignazione e misurare la nostra impotenza, se non fosse un punto di partenza per affrontare la calamità. Di fatto per iniziativa di un vescovo cattolico, don Mauro Morelli e del sociologo "Betino" si stanno formando nel paese dei comitati per debellare la fame. "C'è una tremenda forza di cambiamento nell' aria, sulla terra. Esiste un movimento potente che tesse la novità attraverso migliaia di gesti di incontro. C'è fame di umanità fra noi", conclude l'articolo. Sento il vento dello Spirito e spero che soffi anche fra noi e raggiunga l'Africa, l'Asia, le terre devastate dalla fame, e ci spinga all'accoglienza di fratelli che da quelle terre sono arrivati da noi, forse guidati dall'intuizione che un cristiano non può non accogliere, non può chiudere la sua porta. E noi siamo una nazione cristiana, anzi cattolica che crediamo voglia dire autenticamente cristiana, discendente dalla generazione degli apostoli.
Mi diceva il vicario generale di questa diocesi che i ricchi cattolici, o cattolici ricchi, quelli che vanno al lavoro con cravatta, discutono la loro adesione a questi comitati contro la fame: "Non ci sarà dietro la manovra del partito dei lavoratori?". Ho appena finito di leggere il bel libro di Ettore Masina su Romero (E.Masina "Oscar Romero" ed. Cultura della Pace) e vi ritrovo con tristezza la meschina, ripetitiva difesa dei benpensanti cattolici per camuffare e drappeggiare di stoffe preziose l'alzata di spalle di Caino: "Che c'entro io con mio fratello?". Vorrei combattere la fame ma non voglio intrupparmi con i sovversivi. A questa lotta contro la fame hanno dato il nome persone di grande spicco. Ma vanno a messa la domenica? Amano il Papa?
Amici miei, voglio essere fedele a Cristo fino alla morte e ogni giorno di più mi sento appassionato di Lui, ma non rinunzierò mai al mio metodo di analisi e di critica: - "Tutto ciò che divide e separa manifesta assenza del Dio vero. Dov'è carità e amore lì c'è Dio; dov'è separazione, diffidenza, esclusione, élitismo (non sono come gli altri... ) lì Dio non c'è". Se ho il dono della profezia e conosco tutti i misteri e tutta la scienza; e se anche possiedo tutta la fede, sì da trasportare le montagne, ma non ho la carità, non sono niente. E la carità comincia dall'accorgersi che il fratello vicino a me respira, ma non vive. E io ho giurato di difendere la vita. Non assumendo questa responsabilità, tutto quello che faccio è paglia o qualcosa di peggio.
Vi abbraccio con affetto "saudoso" (pieno di nostalgia).

fratello Arturo

Pensieri per un anno nuovo

Nel trasformare i pensieri in parole scritte su questo nostro giornalino cerco di proiettarmi in avanti, spinto dal desiderio di offrire qualcosa di buono agli amici lettori che lo riceveranno molto probabilmente nel primo mese del '94. Perché l'operazione di "trasformazione" (dalla mente alla carta) è davvero assai complessa. Quindi nello scrivere c'è sempre un lasciarmi andare alla sincerità del momento, sapendo bene che passerà molto tempo prima che il "prodotto finito" giunga a destinazione. Ora, però, mi trovo quasi costretto a riflettere sul fatto che questo numero di cui inizia la preparazione dovrà attraversare un buon numero di giorni prima di vedere la luce ed arrivare fresco di stampa nella cassetta della posta.
Comincio quindi a scrivere con una leggera preoccupazione, quasi nuova per me: vorrei davvero riuscire ad estrarre dal piccolo tesoro del cuore quelle "cose nuove" che possono significare fiducia, speranza, serena certezza che la vita può aprirsi alla novità, l'orizzonte può dilatarsi a dimensioni inaspettate, l'acqua sorgiva può nuovamente tornare a sgorgare dalla vecchia fontana ormai esausta, il fuoco divampare con nuovo impeto e calore dai rami secchi e morti del bosco.
Stiamo attraversando un periodo molto duro; questi sono i tempi in cui nell' aria si avverte, anche se in modo non ben definito, uno strano odore di disfacimento. Molte cose sono in putrefazione e tutto questo non fa venire in mente il morire del chicco di grano sotto la terra, come promessa di frutti abbondanti. E' veramente difficile in questo momento cogliere la possibilità di qualcosa di autenticamente nuovo. Tuttavia, sento molto forte, nel profondo dell' anima, il desiderio di una ricerca appassionata e tenace della novità vera delle cose, dei valori, dei rapporti, delle scelte, dei sogni, delle speranze.
So con sicurezza umile ma ferma, che è possibile questo "rinascere", rifiorire, fruttificare nuovamente del vecchio albero apparentemente morto. Non riesco a rassegnarmi al dominio assoluto della legge del più forte, allo strapotere del denaro così spudoratamente diventato prezzo di tutto a tutti. Non posso chinare la testa di fronte alla inevitabilità della guerra ed alla "necessità" della fabbricazione e del commercio delle armi che la alimentano e la sostengono a suon di miliardi; non posso e non voglio abituarmi alla tragedia quotidiana di milioni di uomini e donne sottoposti alla frusta della fame, del disprezzo e della morte.
Allora mi pongo la vecchia, inevitabile domanda: che fare? .
Vorrei trovare una risposta nuova, che emergesse con vigore dalle profondità più nascoste
dell'anima ed illuminasse a giorno la strada che è necessario percorrere con passo fiducioso, sempre sostenuto dalla speranza. Fermarmi a scrivere, ogni tanto, per offrire i miei semplici "pensieri di carta" agli amici radunati insieme (per la grande maggioranza) dalla calorosa ed appassionata avventura umana e cristiana di Sirio, nella quale ci siamo meravigliosamente ritrovati ed incontrati davvero in molti, costituisce per me un impegno a scavare "dentro" per vedere se in qualche parte
del campo è ancora nascosto un tesoro prezioso. Devo allora confessare agli amici con i quali mi incontro in questo inizio di un "nuovo anno" che la parola che mi appare fortemente vicina a "novità" non può che essere "povertà" (e non per motivi di rima!). Almeno per me, sento fortemente in questo tempo il richiamo a questo valore evangelico così tanto amato da Gesù e che nuovamente mi appare così decisivo e capace di una forza di rinnovamento della vita, a tutti i livelli. Povertà come energia rivoluzionaria di un sistema di vita dominato in modo così assoluto e distruttivo dal potere del denaro fino a rendere l'aria irrespirabile, avvelenare i rapporti sociali, determinare sfruttamenti e oppressioni, dilagare di violenza e di morte. Vorrei di nuovo incontrare la Povertà sulla mia strada, per essere preso di nuovo tra le sue braccia, portato per mano, condotto dolcemente da lei là dove è possibile incontrare la vera novità di tutte le cose. Perché, forse, la Povertà può essere l'unica amica sincera che ci conduce, in verità e novità, anche all'incontro autentico con Dio. Senza di lei, anche la Chiesa brancola nel buio e illumina scarsamente la via. Certo è importante lo "splendore della verità", ma essa può anche ferire profondamente gli occhi ed il cuore e deviare dal giusto percorso, come la troppa luce del sole può farci perdere la vista. Lo "splendore della povertà", invece, sento che è colmo di dolcezza, di infinita tenerezza, di semplicità, di accoglienza rispettosa e fraterna, disinteressata e leale verso l'altro. Disponibilità totale all'incontro, al dialogo, alla condivisione, all'ascolto. Una Chiesa risplendente della luce della Povertà sarebbe sicuramente una Chiesa capace di indicare la via della salvezza in modo sicuro, ma senza ferire nessuno, senza far sentire a nessuno "il fiato sul collo".
Anche Dio, sembra aver voluto percorrere questo inusuale sentiero quando ha inviato nel mondo il suo unico figlio il quale pur essendo ricco volle farsi ed essere povero per arricchirci tutti della sua povertà. Infatti "il figlio dell'uomo è venuto non per essere servito, ma per servire". Guardando avanti, al di là delle brume autunnali, intravvedo con gioiosa fiducia la luce tenue, ma intensissima del Natale. Mi sembra di scorgere lì, nel Povero di Betlemme, la risposta che cercavo. Più la guardo, questa luce, più sento rinascere in me la speranza e la fiducia in una nuova possibilità di vita. Sotto la scorza del vecchio albero qualcosa di nuovo si muove e forse fiorirà.

don Beppe

E' morto un carissimo amico

La morte del dottor Bandettini, avvenuta in modo tragico dopo essere stato travolto sulle strisce la sera del 9 novembre da un' auto a Viareggio, ci lascia senza la presenza capace di starei accanto con vigile e sorridente attenzione.
Dai primi anni di sacerdozio di Sirio, alla sua avventura operaia, all' incontro con tutti noi che ci siamo riuniti nella comunità di Bicchio, alla rinnovata vita in Darsena.
Era stato duramente provato dalla morte del figlio e dalla sua lunga agonia, eppure, anche per la sua forte vitalità, era uscito da quella prova pacificato nel cuore e nell' anima. Molto vicino da sempre a Fratel Arturo, progettava un' estate a Foz do Iguaçu per vivere sempre più insieme all'amico i tempi ultimi della sua vita.
Ora la nostra generazione di cinquantenni non ha più nessuno che possa raccontarci la storia della nostra vita, un nonno dalla bellissima testa bianca che conserva e ricorda memorie che ci aiutano a credere in una vita concreta animata dal rinnovarsi del sognare.
Il "dottore" (come lo chiamavamo con scherzoso affetto) ci invita ora a prenderci cura di noi stessi, aiutandoci l'un l'altro.

Lettera ai parrocchiani

... Penso spesso - da un pezzo a questa parte - che cosa vuol dire per dei preti operai essere parroci e - di converso - cosa può significare per una parrocchia avere come parroci dei preti operai. Una grande sfortuna, innanzitutto! I preti operai sono in estinzione. Se ne contano ormai un centinaio e senza possibilità di riproduzione. Neppure il W.W.F. può fare più niente per noi... E allora, voi direte? Proprio a noi doveva toccarcene una coppia? Oh, che parrocchia disgraziata!
Sì, disgraziata per più ragioni. Non ci sarà, innanzitutto, come dicevamo, continuità. Sarà come arare la terra nella parte del campo dove sappiamo che tra poco verrà costruita una strada. O il contrario. La disgrazia comunque di quel "fare e disfare" a seconda del vento che tira (e cioè del parroco...) che è il frustante tran tran di tante - troppe - comunità parrocchiali.
Non siamo poi neppure un Ordine come i Servi di Maria, i Francescani, i Cappuccini, tanto per citare alcune famiglie religiose che hanno la responsabilità di una parrocchia nella città. Queste famiglie hanno sì il loro vestito, le loro devozioni, le loro regole, ma esprimono anche un parroco che fa il parroco come si deve! Certo che noi non siamo un Ordine, ma semmai un disordine l'avrete capito da quel dì... e quindi avete anche visto che non ci preoccupiamo né tanto né poco di organizzare la nostra vita in modo che almeno uno di noi sia presente con regolarità nei diversi momenti di vita parrocchiale. Ed infine avete constatato che tutto questo non ci fa problema, non lo portiamo dietro come un'imbarazzante condizione, non ce ne scusiamo neppure! Come se fosse la cosa più normale di questo mondo che un prete si occupi dei problemi della comunità solo dopo il lavoro come un qualsiasi padre di famiglia che torna verso sera per portare a casa il pane e partecipare della vita familiare.
Ci chiamiamo e ci chiamano preti operai. Ma che razza di preti sono questi preti operai? Nel nostro caso non è facile rispondere. Ci sono, nella mia vita e in quella di Beppe, elementi di possibile e prevedibile confusione che non aiutano ad una risposta immediata e semplice. Un elemento di
facciamo, ormai da lungo tempo, un lavoro operaio. Ancora di più: il lavoro che facciamo attualmente complica le cose trattandosi di un lavoro sociale. Un lavoro, quindi, assai in linea con molti dei compiti che il prete esplica in gran parte del suo ministero e non certo così dichiaratamente diverso come il fare l'operaio. Il tutto aggravato per di più dal fatto che per qualche anno (non per colpa nostra, ma per mancanza di energie, io in Etiopia, ecc. ecc.) abbiamo navigato sul filo della pura assistenza all'handicap e di un lavoro che - dal punto di vista economico - era poco più che un rimborso spese (però siamo stati bravi a sopravvivere...). E quando ci siamo incontrati, per la prima volta nella chiesa parrocchiale, era proprio così.
Non risulta quindi chiaro, non può risultarvi chiaro, visto che ci occupiamo di handicappati, perché siamo così "trasandati" nel nostro essere parroci. Mentre ci sono preti che si occupano dei poveri, dei drogati, degli extracomunitari e sono parroci nella norma e fanno tutto meglio di noi occupandosi di problemi sociali e di liturgie, di gesti concreti di solidarietà ed insieme di catechismi e di pastorale.
Perché noi ci ostiniamo a parlare di ciò che facciamo al Capannone di via Virgilio in termini di lavoro e non di missione o di impegno caritativo?
Non sarebbe molto più semplice se accettassimo di vivere quell'impegno di solidarietà insieme all'impegno parrocchiale come un'unica testimonianza?
Ho cercato, in questi ultimi tempi, di fare uno sforzo perché risulti più chiaro che il capannone che è in Via Virgilio 222 non è il nostro capannone e che la cooperativa non è la nostra cooperativa. Nostra e cioè, mia e di Beppe. Come se fosse un'altra parrocchia, un'altra iniziativa, un hobby sia pure buono e santo - di due preti che sarebbero pure bravi parroci, ma hanno da trafficare nel loro ambiente e nel loro lavoro. Sono contento che ora, in cooperativa, so di lavorare (e lo sanno anche gli altri che lavorano con me) non perché sono un prete, ma perché ho alcune capacità direttive e Beppe, non perché è un prete, ma perché sa impagliare le seggiole e sa usare questa sua capacità per orientare le piccole autonomie di soggetti gravemente handicappati.
E spero risulti sempre più chiaro che il nostro è un lavoro come un altro e che non lo facciamo
meglio di altri perché siamo preti. Nella cooperativa c'è gente che lavora almeno con altrettanta professionalità ed è il saper fare che conta, non l'intenzione anche se sorretta da santità di vita! Se di una cosa mi sento di chiedervi perdono, non è davvero perché pratico poco la Chiesa (che ostinazione, direte voi!), ma perché ho lasciato che questa chiarezza non risultasse così viva per una condizione di vita, buona e generosa quanto volete, ma purtroppo poco attenta ad una essenzialità di modi e di atteggiamenti e di trasparente semplice messaggio. Il messaggio che noi preti operai portiamo scritto dentro la fedeltà (non ad una scelta, ma ad una vocazione) della nostra vita, lo portiamo scritto nel nostro stesso nome: prete operaio. Un nome fatto di due termini quasi opposti, vissuto da una sola persona. Come un problema di equilibrio su due appoggi distanti, assai distanti tra loro. Perché si liberi un confronto tra la fede e la vita. Un confronto che spesso viene risolto separando il tempo in cui nella vita si lavora, si sta insieme, si gioisce e si soffre e il tempo per pregare e per i propri doveri religiosi.
Sì, noi preti operai siamo divisi tra il lavoro e la religione, ma quanta (tanta) gente non lo è? Questa divisione la assumiamo su di noi e cerchiamo, attraverso la nostra povera testimonianza, di indicare la frattura. Perché non accada - ma quando mai non accade!?... - che la connessione tra la fede e la vita sia ricomposta a spese dell'una o dell'altra dimensione sacralizzando la vita o togliendo ogni tensione storica alla fede. Così capite meglio che non è la mancanza di tempo e di energie che ci tengono lontano dalla chiesa e dalle sue attività.
E' perché per noi non si tratta della cosa più importante! Questo non significa: tra le cose che non contano. Tutt'altro. Ma per noi è più importante che la gente senta la presenza e la vicinanza di Dio in officina, in casa, nella scuola. E' qui che mettiamo le energie! Ci interessa meno sforzarci perché la gente venga in Chiesa, perché la parrocchia attiri, perché sia un centro funzionale e funzionante, ecc. ecc.
E perché la gente preghi in casa, in ufficio, in officina, a scuola, in cucina, ecc. ecc. non ha bisogno di maestri che dal di fuori insegnino questo. Ha bisogno di riprendere fiducia nella propria capacità di incontrare Dio attraverso la preghiera della vita ed ha bisogno di credenti e di preti capaci di aiutarli a sbrogliare pian piano la matassa che ha avviluppato la religione in una serie di pratiche, di devozioni, di intenzioni, di liturgie, di forme di vita tali da soddisfare coloro che le praticano, ma incapace per lo più di creare rapporti nuovi con la storia e l'esistenza dell'umanità.
Non è che questo lo possiamo fare solo noi preti operai. Sarebbe presunzione assurda e inaccettabile. Siamo solo segno di questa sete, di questa fatica, di questa lotta.
Come preti operai viviamo coscientemente la divisione. Non siamo la divisione, ma conviviamo con essa, con chiara avvertenza. Divisione tra corpo e anima, materia e spirito, dipendenza e soggettività e divisione nell'umanità tra oppressi e oppressori, popoli sviluppati e popoli depressi, culture dominanti e culture destinate a scomparire...
Considerateci "infedeli" allora, non quando non ci trovate in chiesa o in parrocchia, ma quando lasciamo la vita, le sue contraddizioni, le sue lotte, fuori della porta di chiesa, quando ci prestiamo a piegare il Vangelo alle condizioni di questo mondo perché nessuno si inquieti e Dio sia il solito tappabuchi. Quando il nostro lavoro risulta il facile lavoro di due scapoloni, quando sa troppo di opera pia e cioè quando non si capisce più dove sia il lavoro e si vedono solo due preti che si affaccendano a fare del bene!
La fedeltà passa attraverso una linea sottile e fragile che si cala, fino anche a scomparire, nelle pieghe della vita quotidiana. In essa dobbiamo prima ritrovarci come comunità e quindi essere sostenuti vicendevolmente dai doni e dai misteri di cui ci sovrabbonda la dolce bontà di Dio.
Con affetto.

Luigi

La memoria viva di Sirio

Ricordate le Borse di Studio riguardanti don Sirio? Quelle ricerche sul senso dell' esperienza descritta da Sirio stesso come "il salto del muro" e sugli anni trascorsi in Seminario e la sua formazione?
Lanciate due anni fa in collaborazione con l'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea in Provincia di Lucca, hanno raccolto una esilissima partecipazione. Eppure, per cominciare, bisogna sempre fare un primo passo!
Le Borse non sono state assegnate, ma i tre lavori pervenuti hanno dato ugualmente un contributo valido all'iniziativa.
Stiamo cercando - proprio in questi giorni - di mettere a punto i risultati di un ulteriore approfondimento da parte di due giovani partecipanti alle Borse di Studio e speriamo di realizzare un numero speciale di Lotta come Amore che ne contenga gli spunti migliori.
Abbiamo inoltre deciso di andare avanti con la ricerca di raccogliere la memoria viva di Sirio, proponendo un percorso per le scuole della città di Viareggio che ci sembra interessante ancorché impegnativo.
Proponiamo alla vostra attenzione il testo inviato agli insegnanti delle scuole della zona:

LA MEMORIA VIVA DI DON SIRIO
Ricerca-intervento proposta alle classi o gruppi di studenti delle scuole medie inferiori e superiori:
Obiettivo: recuperare la memoria viva di don Sirio nei 'luoghi' della sua presenza.
Mezzi: ricerche sugli scritti di Sirio, sui documenti d'epoca, interviste, riprese... tramite documentazione storica della città, testimoni viventi, scritti di Sirio messi a disposizione dalla Comunità del Porto...
Temi proposti:
l. Un giovane scanzonato: racconti dal Seminario.
2. Un parroco di collina: ricordi dei paesani.
3. Le grandi passioni della filodrammatica di Bargecchia.
4. Storia di una Chiesetta nel' cantaccio' della Darsena Toscana.
5. L'avventura operaia: dalla tonaca alla tuta.
6. Vita di redazione: la fiammata de "Il nostro lavoro".
7. Il sogno ad occhi aperti: "Una zolla di terra".
8. Una strana comune: l'esperienza di Bicchio.
9. Una penna ribelle: Sirio giornalista.
10. Una fede che lotta. Si calcano le scene!
11. Via Virgilio 222: il Capannone di don Sirio.
12. I preti di Viareggio ricordano don Sirio.
13. Le lotte antinucleari e il processo per l'occupazione della ferrovia.
14. Il decano dei pretioperai.
15. Alla conquista della: pace.

Realizzazione: sono previsti due momenti: il primo, di restituzione dei risultati della ricerca sotto forma di video, foto, disegni, testi teatrali, canzoni, registrazioni di interviste ed ogni altra forma in grado di essere utilizzata nel secondo momento e cioè nella realizzazione di una serata/incontro aperta alla città.
Termini della partecipazione: gli interessati devono mettersi in contatto con la Comunità del Porto (tel. 46455 ore serali/oppure chiedere di Luigi o Beppe tel. 384556 ore lavoro) e scegliere il tema su cui vogliono impegnarsi entro e non oltre il 15/12/93. I risultati della ricerca devono pervenire alla Comunità del Porto - Lungocanale Est, 37 Viareggio entro e non oltre il 31/03/94.
La serata/incontro sarà realizzata alla fine dell'anno scolastico '93/,94 secondo modalità da concordare alla presentazione dei risultati della prima fase.
Per la realizzazione della serata, la Comunità del Porto e l'Istituto Storico, nell' ambito delle Borse di Studio Sirio Politi, mettono a disposizione delle classi partecipanti la somma complessiva
di L.2.000.000 e la disponibilità di "esperti" per la regia e la sceneggiatura.
Come potete vedere, l'articolazione dei 15 temi proposti ricopre l'intero arco della vita di Sirio e costituisce l'ossatura di una biografia da costruire passo passo in una integrazione tra storia, memoria e realtà attuale. I temi sono volutamente proposti in modo da evitare un indirizzo celebrativo, da accogliere le emozioni e le passioni che non possono rimanere fuori dell 'uscio di una memoria autenticamente viva.
Insegnanti interessati, pur non lavorando in Viareggio, possono mettersi in contatto con noi al di là dei termini di tempo del "bando" sopra riportato. Rimarranno sicuramente temi su cui lavorare (magari quelli di interesse meno locale), valutando la possibilità di una partecipazione a distanza o anche in tempi sfalsati rispetto a questa iniziativa.

"Cosa fare?"
E' l'interrogativo immediato e inevitabile, più che giustificato, come per chi sta per soffocare e chiede aria da respirare.
Anche in questo deserto d'idee e di progetti, è assolutamente doveroso, perché vitale, camminare. Se non altro il sole di giorno e le stelle di notte potranno pur dare un
orientamento. Gli uccelli migratori seguono l'orientamento connaturato alla loro istintività, così i banchi dei pesci nelle profondità del mare. La natura imprime agli esseri viventi leggi determinanti il loro vivere. La degenerazione avviene soltanto strappandoli dall'" habitat" naturale e imprigionandoli in sistemi di vita imposti...
Forse per me, per te (per ogni essere umano) la prima cosa da fare è riconquistare la libertà personale. Bisognerebbe molto riflettere su questa libertà e quindi sulla propria liberazione. Forse non è possibile che s'impari molto a leggere o a sentirne parlare. Sta il fatto che nessuno respira con
i polmoni d'un altro e anche nel tempo dei trapianti, il principio vitale ognuno ha il suo strettamente personale. L'anima è il se stessi più profondo, inconfondibile e insostituibile. Liberare la propria anima, riconquistandola a se stessi, è la prima decisiva "cosa da fare".

don Sirio



Cesar Chavez leader della nonviolenza

Il 23 aprile scorso, all'età di 66 anni, è morto a San Louis (Arizona) César Estrada Chavez,
fondatore del sindacalismo nonviolento negli Stati Uniti. Era in casa di amici: l'hanno trovato nel suo letto, morto nel sonno. Una morte discreta, silenziosa, non spettacolare. Non riusciamo a crederlo: i grandi leaders della nonviolenza non hanno conosciuto una morte così pacifica, così naturale (ricordate Gandhi, Luthuli, Luther King!). Eppure era stato un uomo attivissimo, aveva avuto avversari potentissimi, non solo i grandi proprietari terrieri della California e i padroni dei grandi supermarket, ma anche la mafia americana e il potente sindacato dei camionisti, diretto da Jim Hoffa e Fitz-Simmons, personaggi senza scrupoli notoriamente legati alla mafia. Era sfuggito più volte a degli attentati, era sopravvissuto a lunghi digiuni di protesta. La sua lotta è stata lunga, difficile, mai terminata.
Anche se verrà precisandosi nel corso del tempo, l'opzione di Chavez per la nonviolenza è già
esplicita fin dal primo momento. Ma la non violenza di Chavez non è nata da una ricerca teorica, che ha soppesato tutti i pro e i contro delle forme di azione violente e di quelle nonviolente. D'altronde Chavez non era un ideologo e sicuramente non avrebbe voluto diventarlo. Il suo regno, come leader del movimento nonviolento, era quello dell' azione. Quanti andavano a trovarlo rimanevano sempre colpiti dal suo cocciuto rifiuto a teorizzare (la teoria percepita come una mistificazione!), dall'assenza di sistemi di riferimento categoriali e di una visione politica globale. Questo può sconcertare noi europei, sempre molto ideologizzati, ma non dobbiamo sottovalutare la controparte positiva di quest'atteggiamento: l'audacia e la felice creatività nonviolenta derivante da questa libertà
nei confronti delle norme e delle filosofie politiche. "La nostra nonviolenza - soleva dire - è molto terra-terra. Deve far fronte prima di ogni altra cosa a dei problemi economici. ( ... ) Posso solo dire che vi è attualmente una pratica della nonviolenza ( ... ) E' molto difficile parlare di nonviolenza a livello intellettuale, perché la nonviolenza è la gente e il modo con cui si comporta ( ... ) La nonviolenza è in grande difficoltà quando deve rispondere a tutte quelle domande che cominciano con il se: "Cosa succede se un uomo tira fuori il coltello o un fucile, o se ... , e se ... ". La non violenza non è questo. Se capitassero tali cose, Dio solo sa cosa si potrebbe fare".
Chavez rifiutava la nonviolenza "a buon mercato" di quanti impiegavano la retorica moralistica e non si assumevano le proprie responsabilità di fronte alle sofferenze umane. Per Chavez non è questa la nonviolenza. Non c'è ragione di essere nonviolenti se manca il fine, se non si vive per gli altri. Come Alinsky, Chavez è un pragmatico; come Gandhi, di cui ha letto le opere, si muove in modo sperimentale ("idealismo pratico"), facendo i "suoi esperimenti con la verità". Alinsky e Gandhi gli sono stati maestri di strategia. Chavez ha cercato di metterla in pratica. L'argomento decisivo a favore della nonviolenza è per Chavez la sua efficacia. Per provarla non c'è altro da fare che agire. Per questo dava molta importanza all'azione. "Senza azioni nonviolente - diceva - la nonviolenza non funziona e
la gente diventa violenta. Bisogna agire, per poter dire alla gente che la nonviolenza funziona, è efficace ( ... ). La nonviolenza da sola è una energia senza forza. Il suo solo valore è quello che acquista nel contesto di una lotta attiva per la giustizia. Se questo manca, è inutile parlare di nonviolenza, perché non ha alcun senso nella nostra vita".
La nonviolenza per Chavez è soprattutto organizzazione. Organizzare significa per lui: "comunicare con la gente", "aggregare della gente", "restare insieme" e "agire insieme", creare un movimento che permetta alle moltitudini di sfruttati di agire e di perseverare nell' azione. Egli stesso si riteneva soprattutto un organizzatore. Si era buttato ad organizzare un gruppo che nessuno era mai riuscito ad organizzare. Prima che lui arrivasse, gran parte dei suoi seguaci non solo non sapevano che cosa fosse la nonviolenza, ma non avevano mai partecipato' ad uno sciopero. Chavez si era rivolto ad essi non imponendo la nonviolenza dall' alto ma facendo in modo che l'accettassero indirettamente, facendo il primo passo e incominciando a praticarla. E' riuscito a trasformare quei contadini rozzi e analfabeti in attivisti nonviolenti. Anche se occasionalmente qualcuno lanciava dei sassi, nessuno ha più portato armi o coltelli o bastoni durante gli scioperi. Queste sono rimaste le armi dell' avversario. La gente ha avuto spirito di sacrificio. Non è stato difficile. La gente chicana accettava e comprendeva il concetto di sacrificio perché faceva parte della sua tradizione. Chavez ha dato ad esso un senso nuovo, quello della nonviolenza: non rassegnazione, ma capacità di sopportare la sofferenza che deriva dalla lotta per la causa giusta. E' importante sottolineare anche il ruolo che la religione ha occupato nel movimento di Chavez. I chicanos sono molto religiosi (la maggior parte sono cattolici). La religione ha dato loro la forza di impegnarsi e di perseverare nella nonviolenza. Anche Chavez era molto religioso. Si sentiva impegnato alla nonviolenza dalla sua religione e durante le marce non mancava di portare, oltre ai cartelli, la sua croce. Ha cercato subito l'appoggio delle chiese e nei momenti più difficili un contributo, a volte decisivo, gli è venuto da sacerdoti cattolici e da pastori protestanti. Ma non equivochiamo sulla natura religiosa della nonviolenza: "Noi non siamo non violenti - diceva Chavez, - perché vogliamo salvare le nostre anime. Siamo nonviolenti perché vogliamo ottenere
la giustizia sociale per gli operai".

Molti credono che un' organizzazione che usa metodi nonviolenti per raggiungere i propri) obiettivi debba continuamente riportare vittorie una dopo l'altra per convincersi a rimanere nonviolenta. Se cosi fosse, moltissimi sforzi sarebbero segnati solo da miserabili fallimenti. C'è qualcosa di molto più grande in gioco di quanto lo sia la vittoria. La mia esperienza mi dice che i poveri conoscono la violenza molto più da vicino di tutti gli altri, perché è una parte della loro vita. Sia la violenza delle armi che quella della miseria e del bisogno. Non sottoscrivo la diceria che la non violenza sia sintomo di paura, come dicono diversi gruppi militanti. In tante istanze la non violenza richiede uno spirito di militanza più forte della violenza. La non violenza costringe ad abbandonare l'uso di mezzi sbrigativi per ottenere qualcosa e cercare di cambiare l'ordine sociale esistente. La violenza, il metodo spiccio di avere qualcosa, è la trappola in cui cade la gente quando comincia a credere che questo sia l'unico modo per ottenere un risultato. Quando il popolo imbocca la strada della violenza, questa sarà sempre della specie più brutale. Quando la gente è coinvolta in qualcosa di costruttivo, cercando di contribuire a cambiare qualcosa, ha meno bisogno di essere violenta al contrario di coloro che non sono affatto impegnati nel ricostruire qualcosa o in qualcosa di creativo. La nonviolenza spinge ad essere creativi; costringe ogni leader a confrontarsi con la gente e a coinvolgerla fino al punto che questa ne venga fuori con nuove idee. Credo che una volta che il popolo comprende la forza della non violenza - la forza che genera, l'amore che produce, la qualità della risposta da parte dell' intera comunità - non l'abbandonerà più tanto facilmente.

César Chavez



Una voce nel deserto

Molto tempo fa ricevemmo un libriccino dal titolo "Una voce nel deserto", sottotitolato "Le vostre figlie profeteranno". Scritto da "sorella B.T. anacoreta che vive in un eremo di questo mondo". Una profezia che riproponiamo (dopo averla raccolta nella preghiera e nella riflessione) ai nostri amici di Lotta come Amore. La pubblichiamo in cinque puntate e facciamo nostra - in modo tutto particolare - l'ultima avvertenza della premessa stampata sul libretto stesso: "Lo scritto non è un' esposizione accademica a carattere teologico. E' profezia; è annuncio che richiede studio e applicazione pratica.":

PREMESSA
l) La profezia si apre con le premonizioni remote e recenti e con le personali reazioni per una duplice ragione:
a) per dare prova del carattere oggettivo della profezia;
b) per evidenziare un principio di discernimento sui fenomeni personali. Principio da proporre come criterio di autocritica diretta alla promozione di quella maturità personale che ci viene annunciata nei testi profetici dell' Antico e del Nuovo Testamento quale segno dei tempi messianici verso i quali si muove il profetismo femminile.
2) Si introduce con il festoso annuncio d'una novità che avanza ad opera dello spirito del Risorto.
3) Espone una denuncia: l'uomo che finalizza a sè la proprietà di Dio, la donna, l'emblema della sposa del Verbo.
4) Stabilisce l'equivalenza dell'uomo e della donna, fondandola sull'immagine personale di ogni creatura con il Creatore.
5) Rivendica il diritto-dovere all'ingresso ufficiale nell' ambito sacramentale della Chiesa: come segno della vittoria di Cristo sul peccato; come sacramento della pienezza di Cristo che è ad un tempo Sposo e Sposa.
6) Segna un ulteriore passo nella conoscenza della Trinità sulla base della Scrittura che rivela in Dio la manifestazione dell'inconoscibile mistero dell'Essere e che lo presenta come il Vivente,
l'Amore, la Conoscenza.
Proprietà divine presenti nel Figlio che traducendo i termini si professa Via, Verità, Vita.
7) Presenta alcune linee pratiche di unità liturgica in seno alla cattolicità e con le altre confessioni cristiane.
8) Si chiude con uno sguardo sull'immagine eterna della creatura divina, la gemella del Figlio che ha realizzato con lui l'unità sponsale di Figlia nel Figlio, ed ha conseguito il fine: "i due saranno uno".
9) Lo scritto non è un'esposizione accademica a carattere teologico. E' profezia; è annuncio che richiede studio e applicazione pratica.

Beatissimo Pietro, Giovanni Paolo II, venerabili fratelli e venerabili sorelle della Chiesa santa di Dio.
Colui, che in un passato che si perde indietro negli anni, m'ingiunse di collocarmi "sepolta nel silenzio" per divenire "una voce nel deserto" ;
Colui, che in un passato meno remoto mi ordinò: "Quello che avete udito nel segreto predicatelo sui tetti" ;
Questi mi mise nel cuore la profezia di Gioele " ... le vostre figlie profeteranno" e mi impose di realizzarla.
L'ingiunzione mi colse di sorpresa e mi trovò sprovveduta: che profezia avrei dovuto proclamare? Non me ne sentivo lo zelo; declinavo dall' idea di assumerne il tono.
Ma un certo giorno, mi sono sentita assalire dalla febbre del profeta che andava crescendo e mi manteneva in un persistente tremito.
Ed ora uno spirito m'invade e mi fa declamare:
Uomini di Galilea, (1)
ecco, si realizza la profezia di Gioele, le vostre figlie profetizzano.
Non temete.


Porgete ascolto alla loro voce: è un annuncio di gioia
che proclamano;
è un nuovo compimento che annunciano.
Lo spirito del Risorto le invia; è con la sua forza che profetizzano;
comporranno una Novità; imprimeranno un volto nuovo al sacramento di Cristo,
alla Chiesa.
E voi il Risorto
lo vedrete in Galilea.
Lo vedrete nella vostra terra. Lì egli si mostrerà
nel Sacramento della sua unità di Corpo e di Spirito
di Uomo e di Donna. (2) "Una voce nel deserto"
festosa annuncia: "E' finita,' è finita l'umiliazione
delle figlie di Sion.
Esse saranno come colonne nella ricostruzione del Tempio.
Per migliaia di anni si sono contenute, hanno contratto in petto
il mento e la voce.
Era il tempo di soggiacere come segno:
segno di tenebre,
segno di castigo,
segno di umanità sottoposta al peccato.
Ora esultanti annunciano:
"E' finita l'etica della nostra dipendenza dalla carne.
L'emblema della condizione umana dominata dal peccato
non permane in eterno.
Israele è pur stato liberato.
Non sarà in perpetuo una legge
il silenzio della donna.
Non sarà un obbligo perenne la simulazione di lei
di sottostare al dominio di lui. La sua pretesa minorità
si rivela alfine
un pretesto del démone del potere" .
E' un progetto di riconciliazione che risuona, non di rivendicazioni. Dio mette fine al conflitto.
Il carattere primitivo del peccato non prevarrà per sempre
su quello salvifico.
La condanna originale della donna non è inesorabile.
Lo stato di umiliazione
a cui soggiace il genere umano non sarà per sempre rovesciato sulle spalle delle figlie di Sion. Come torrente in piena
lo spirito del Signore
mi trascina nell' alveo
le parole da proclamare
e mi ammonisce a non tentare di addolcire i toni.
"E' mia ogni persona dice il Signore -
e voi avete acculturata la donna per il gradimento dell' uomo; l'avete finalizzata
alla reintegrazione di lui, dell' uomo. Ma l'uomo è come l'erba,
popolo stolto e tardo di cuore.
No, non si contraddice la mia parola.
La storia umana è sacra
ed è mia ed è vostra insieme. E' scritta da me
ed è scritta da voi.
lo ho rispetto per tutti, per tutte le vostre persone
che io ho creato a mia immagine e a mia somiglianza
perché su questa base
con questi mezzi
venga edificata la "sposa", la gemella del Verbo, gloria di Cristo

e gloria della Sposa. E della mia gloria io sono geloso"
dice il Signore.
Lo Spirito chiama oggi la donna a conseguire la propria maturità, umana, sociale, ecclesiale.
La spinge a uscire
dalla posizione di dipendenza dall' idolo maschile
nella quale l''' uomo vecchio" l' ha mantenuta per millenni quale luogo dei suoi piaceri. Egli non sopporta più
che la sua Creatura viva divisa tra il figlio che dipende da Dio
e la figlia che dipende dall'uomo. Non sopporta più
che la madre dei viventi per natura,
che la madre dei redenti per grazia,
passi da estranea
sui problemi dell' umanità.
Lei che è madre, sposa, sorella deve farsi carico dei doveri che le competono
in tutto l'ambito della storia umana per ridarle l'equilibrio delle forze.
La donna! (3)
E' il vertice della creazione.
E' il luogo dell' incontro con Dio.
E' il tempo del linguaggio del Creatore con la creatura.
E' l'inizio del ritorno.
E' il polo della relazione divino-umana. E' l'emblema della "sposa".
E' il termine del progetto divino.
E' la confluenza dell' ordine universale. E' il riflesso della manifestazione
dell' Essere.
Dalla donna della creazione dalla donna della redenzione dipende il no e il sì dell' umanità
all' opera di Dio.
Lei è gravida della responsabilità di vita o di morte
del genere umano.
Lei rovescia in negativo, o ricompone in positivo
le sorti dell' universo degli esseri. Lei che deve oggi
presentarsi ad un tribunale maschile per denunciare l'usurpazione dell' uomo dei diritti di Dio,
lei risplenderà in quel popolo
che gode il diritto di proclamarsi di Cristo, Capo delle donne
come degli uomini.
(Continua)

Note:
l) L'invasione dello spirito profetico mi ha calata nel giorno di Pasqua.
2) Uomo con la lettera maiuscola sta per la dualità sociale di maschio e femmina, immagine divina con funzione storica.
Donna qui vale per uomo e donna riedificati nella "nuova creatura" della condizione messianica. Donna vale per la Sposa del Verbo, per umanità redenta.
3 )Anche qui come in tutto il testo, figura e realtà sono fortemente intrecciate.



Semi di resistenza

HANNO SCRITTO:
Sandra Landi, "La guerra narrata, materiale biografico orale e scritto sulla seconda guerra mondiale raccolto a Certaldo", Marsilio Editore, Venezia 1989.
"La guerra è stata per tutti un evento eccezionale, traumatico, rottura delle consolidate abitudini... ha operato una profonda trasformazione dell'identità personale. L'uomo è strappato dal suo ambiente naturale e proiettato di colpo in un'esperienza anomala, drammatica ... L'episodicità giornaliera appare sconvolta: il mangiare, bere, dormire ... , persino la scansione del tempo lo scorrere delle stagioni risultano stravolti" (pp.18/19)

"La memoria delle storie", Ed. Lucca Grafica Coop 1993: quaderno di memorie e testimonianze su la guerra a Lucca negli anni '40 nell'ambito di un corso AUSER/UNIDEL.
"Sono gli stessi disagi, le stesse sofferenze, gli stessi stati d'animo di Nella e Mara, di Carmela e Luisa, di Luciano, Anna Maria, Grazia, che, con l'eroismo del quotidiano hanno saputo reggere, allora giovanissimi, all'urto degli eventi per ricavarne poi, per tutto il mezzo secolo successivo, una lezione e una morale di pace, di tolleranza, di solidarietà, che vogliamo raccogliere e valorizzare."
(da la prefazione di Luciano Luciani).

Anna Cataldi, "Sarajevo. Voci da un assedio", Ed. Baldini & Castoldi, Milano 1993.
"La prima cosa a essere uccisa nella guerra è il tempo segnato dalle stagioni, la seconda il senso della realtà. Per questo ho raggruppato le lettere in quattro stagioni, per rendere più tangibile la realtà di un anno di assedio.
Tutte le lettere sono autentiche ... Scritte da persone diverse per etnia, religione, età e cultura, costituiscono un coro di voci che da Sarajevo continua a gridare:
'Non lasciateci morire. Aiutateci. Abbiamo il diritto di vivere.'
(dalla prefazione)

HANNO DETTO:
2/9/1993 Campo Profughi di Ribnica (Slovenia). "Non riesco a smettere di pensare a loro. Li rivedo e li sento. Abbiamo visto la guerra, non si può scordare la guerra quando l'hai vista.
Anche senza i corpi mutilati o il sangue, anche senza il rumore delle bombe, senza aver visto fucili o lacrime e grida: abbiamo visto la guerra.
Ci siamo stati immersi, per otto giorni; ne abbiamo respirato gli odori, ne abbiamo percepito gli orrori, ne abbiamo ascoltato le malinconie, vissuto
l'assurdità e il vuoto.
..
I pranzi e le cene preparati da altri e distribuiti alla mensa hanno un diverso sapore dai piatti cucinati nella propria casa e per la propria famiglia.
Gli alloggi dove abitano, anche se abbelliti da tendine di pizzo fatte a mano con uncinetto e amore, non sono case ma soltanto luoghi e stanze.
La dipendenza dagli altri è assoluta, la precari età è assoluta, lo smarrimento è assoluto. E' questa la guerra, e non si può scordare la guerra quando l'hai vista!
E nel mezzo i nostri canti, i loro sorrisi; e nel mezzo il colore dei festoni di carta preparati insieme, per abbellire una festa; e nel mezzo noi e loro stretti e uniti a respirarci vicini, a darci emozioni, a scambiarci calore, a darci gioia, a comunicare" .
(Sandra Livi Palagi, Comunità Scout Firenze 2)

"Se gli uomini sapessero leggere in modo approfondito le proprie esperienze e le ingiustizie vissute, se fossero più abituati a un dialogo con loro stessi e la propria intimità, a scavare anche nelle pieghe più riposte della storia e della coscienza collettiva, saremmo più vicini alla realizzazione di un mondo diverso... ".
(Sandra Landi)



"Paradosso cristiano nel crepuscolo del XX°secolo"

"PARADOSSO CRISTIANO
NEL CREPUSCOLO DEL XX SECOLO"
23-24-25 APRILE 1994
SALSOMAGGIORE

Casa Maria Immacolata dei Francescani Conventuali, via Cavour 58. Convegno promosso da:
ESODO - IL FOGLIO - IL GALLO - PRETIOPERAI
sabato 23 - ore 16.00 Apertura e presentazione del convegno.
ore 17.00 Relazione: "Figure del cristianesimo storico nella transizione al postmoderno: una lettura storica."
(Prof. G. Miccoli)
Dibattito
domenica 24 - ore 9.00 Relazione: "Figure del cristianesimo storico nella transizione al postmoderno: una lettura teologica."
(Prof. P. Ruggeri)
Dibattito
ore 12.00 Eucaristia
ore 15.30 Relazione: "La Parola nella molteplicità delle parole." (Pastore G. Ferrario)
ore 17.00 Relazione: "Gratuità della testimonianza e obbligo dell' agire etico." (Pro! A. Rizzi)
Dibattito
lunedì 25 - ore 9.00 Tavola rotonda con la partecipazione delle riviste presenti su:
1) Da quale cristianesimo dobbiamo congedarci alla fine di questo
millennio e quali i nodi di questo congedo; ,
2) Le nostre responsabilità in tempi di transizione.
ore 12.00 Conclusioni
Il costo a persona del convegno, comprensivo di iscrizione e pensione completa dalla cena del 23/4 al pranzo del 25/4, è di L. 140.000.
Per informazioni: Luigi Sonnenfeld tel. 0584/46455 (ore serali) Prenotazioni: dal 01/04/94 al 20/04/94 presso coop. C.RE.A. - Viareggio



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