LOTTA COME AMORE: LcA giugno 1992

Europa, Europa...

La Rocinha, a Rio de Janeiro, è forse la più grande favela (baraccopoli) dell'America latina con i suoi 350 mila abitanti.
"Immaginate se il 10% di loro scendesse in città", ha detto il generale Joao Figueiredo, ultimo militare ad aver ricoperto la carica di presidente della repubblica, in una intervista a sorpresa. "Sarebbero 35 mila persone e non ci sarebbe né esercito né polizia capace di fermarli. Ci troveremmo di fronte a una esplosione sociale" ha aggiunto, "non c'è forza al mondo che può impedire al popolo di rivoltarsi contro la fame". Solo a Rio, città assediata da miserabili favelas occupate da milioni di persone, dove continuano gli assalti ai supermercati, gran parte della popolazione già si manifesta in favore dell'impiego dell'esercito in funzione di ordine pubblico. I soldati sono stati applauditi quando sono scesi per le strade di un quartiere che si pensava minacciato dalla "discesa" dei favelados.
(Newton Carlos da Rio de Janeiro per Il Manifesto 16/05/92)
"Sono molto triste per i morti, ma la rabbia è un sentimento che non si può controllare. Non credo che i criminali fossero tutti neri, ma la Guardia nazionale è intervenuta perché la gente ha sconfinato dai ghetti. Il bilancio ufficiale è di 56 morti. Ma come sono morti? L'unica immagine che ha fatto il giro del mondo è quella del camionista bianco picchiato dai neri. Quello è un morto, ma gli altri 55 chi sono? Sono convinto che molti neri sono stati uccisi dalla Guardia nazionale e dalla polizia".
(Il regista nero-americano Spike Lee in una conferenza stampa al Festival del Cinema di Cannes '92)

Sono due citazioni raccolte sui giornali quotidiani mentre in Tailandia la rivolta contro i militari al potere sta portando ad una feroce repressione ed a una resa di conti tra le fazioni stesse dell'esercito, in Ruanda, Sudan, Somalia, Etiopia, ma praticamente in tutta l'Africa, ondate di profughi vivono nel silenzio dei mass media il dramma della devastazione e della desolazione che la TV mostra nell'ex Jugoslavia.
Una guerra si è aperta e traversa tutto il mondo e le nazioni al loro interno. Nord e Sud del mondo si fronteggiano ormai a tutto campo. Il Nuovo Ordine Mondiale si trova ad affrontare, prima di tutto, il problema planetario dell' ordine pubblico: come difendere chi ha da chi non ha. E' ormai fin troppo chiaro che sono saltati i meccanismi (culturali, sociali, economici, politici...) che hanno permesso fino ad ora il controllo delle aree di povertà necessarie per permettere le isole della ricchezza o del benessere.
L'Europa bussa con più energia alle porte del nostro paese e lo invita a mettersi in regola. E' necessario spremere mezzo milione dalle tasche di ogni italiano, fin nella culla o sul letto di morte, per entrare in Europa! Ma che cos'è questa Europa?
E' il luogo dove si può sperare di essere difesi dalla marea montante dei poveri del mondo, la linea di demarcazione dell'isola del benessere che consente alla polizia dell'ordine mondiale di distinguere il nemico da combattere.
Se non entriamo in Europa saremo come i coreani di Los Angeles in prima linea a fronteggiare la rabbia dei neri e a rischiare le pallottole della Guardia che difende solo chi è residente nei quartieri alti. Saremo come gli abitanti dei quartieri popolari di Rio, in prima linea ad applaudire i soldati contro la fame dei diseredati dell'est.
Se entriamo in Europa dovremo convivere con la paura dell' assediato.
In ogni caso, una soluzione è speculare all' altra e come uno specchio risponde alle identiche domande:
"Chi è il mio nemico?" e "Come posso controllarlo?"
Una volta, secoli fa, un uomo della strada in un piccolo paese del terzo mondo teneva alto uno specchio. E lo specchio rispondeva alle domande: "Chi è il mio prossimo?" e "Come posso amarlo?" Vi si vedeva l'immagine di uno straniero, un Samaritano, che soccorreva un 'nemico' nel bisogno. E l'uomo che teneva alto lo specchio disse: "Tu va e fa altrettanto" (Luca 1037).
I popoli senza nome e senza terra non hanno mai avuto prima così tanto bisogno della nostra attenzione e noi non abbiamo mai avuto prima così tanto bisogno di specchiarci in una immagine nuova.

La Redazione

Una relazione singolare, o dell'innamorarsi di Dio

"Rabbi," disse la donna, "Sono innamorata di te!"
Il Rabbi la fissò con compassione.
"Donna," rispose, "tu sei innamorata di te stessa." E non aggiunse parola.
La donna si allontanò con il cuore spezzato. Essa si sentì respinta dal Maestro.

Dopo un po' di tempo, la donna ritornò.
"Rabbi," disse, "è proprio vero! Sono innamorata di me stessa! In fondo, sono proprio una donna meravigliosa!"
Il Rabbi la guardò con compassione.
"Donna," replicò, "tu sei innamorata del mondo intero.' E non aggiunse parola.

Dopo un lungo periodo di tempo, la donna ritorno. "Rabbi," disse, "è vero! Sono innamorata del mondo intero! Amo il sole, la pioggia, la luna, le stelle, gli uccelli e tutte quelle piante meravigliose e gli animali che ci circondano. Amo la mia piccola casetta e questo popoloso villaggio antico. E' vero, Rabbi. Sono innamorata del mondo intero."
Il Rabbi la guardò con compassione.
"Donna," disse, "tu sei innamorata di Dio." E non aggiunse parola.

La donna si allontanò veramente perplessa. "Sono innamorata del mio Dio?" pensava, "Che cosa può voler dire tutto questo?"
Anni dopo la donna ritornò. "Rabbi," disse, "è vero. Sono innamorata di Dio. Amo Dio con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima e con tutta la mia forza. Sono innamorata del mio Dio."
Il Rabbi la guardò con compassione.
'Donna," le disse, "tu ami me."
La donna diventò furiosa. "Non hai sentito ciò che ho detto?" ribatté, "Io sono innamorata del mio Dio! Chi ti credi di essere?" E si precipitò fuori casa sbattendo la porta dietro di sé.
Dopo un tempo assai lungo, la donna ritornò. "Rabbi," disse, "io ti amo."

"Bene, e sia!" esclamò il Rabbi, e i due si abbracciarono come amici a lungo separati.
Poi si guardarono negli occhi con una compassione che i loro volti a stento potevano contenere. Cara amica," sussurrò il Rabbi, "noi amiamo gli stranieri e i nemici."
La donna annuì col capo e si allontanò senza dire una parola.

Passò del tempo e molti, da diverse parti, cominciarono a venire dalla donna per raccontarle i propri guai. Essi le aprivano il cuore e chiedevano il suo consiglio. Finché anche la sua gente cominciò a trattarla come un Maestro.
Un giorno, un giovane venne a trovarla.
"O mio Maestro," le disse, "io sono innamorato di te!" La donna lo guardò con compassione.
"Giovane amico," replicò, "tu sei innamorato di te stesso." E non aggiunse parola.

Francis Dorff, O.Praem.


Dal letame nascono i fiori

Vorrei cercare di offrire agli amici alcune riflessioni raccolte durante l'incontro del piccolo gruppo di preti operai italiani, agli inizi di maggio, in un convegno dal titolo: "Dai diamanti non nasce niente... - Dalla condizione operaia: Vangelo o Evangelizzazione?".
La prima frase è stata presa in prestito da una famosa canzone. ormai "vecchia". ambientata negli stretti vicoli della zona portuale di Genova. che proseguiva così: " ...dal letame nascono i fior".
Il filo conduttore delle mie riflessioni è stato appunto questo sguardo sul "letame" in questione. nella ricerca attenta. sincera. fraterna e molto appassionata che si è dipanata per due intere giornate ricche di confronti, di scambi di idee, ma soprattutto di ricchezza di comunione tra persone che hanno investito la loro esistenza umana. cristiana, sacerdotale "nella condizione operaia" come condizione quotidiana di confronto vitale con il messaggio cristiano e la realtà della storia.
Sono stati due giorni molto belli, anche se carichi di una fatica alla quale sono poco allenato: l'intensità del confronto e delle comunicazioni a cuore aperto mi hanno allargato l'anima verso dimensioni più ampie di respiro interiore e stimolato ad una più profonda comprensione dell'impegno quotidiano. Così mi sono convinto ancora di più dell'importanza del... "letame".
Forse la mia origine contadina mi ha portato più facilmente sulla strada di una riflessione che aveva come motivo base (come "luogo teologico" direbbero gli esperti) la condizione del buon letame fresco di giornata che i miei nonni toglievano fedelmente dalla stalla e depositavano con cura nella "concimaia" perché piano piano si stagionasse e diventasse così capace di nutrire la terra e di "arricchirla" al momento della semina. Oppure, all'inizio della primavera, lo mettevano nelle vigne e ai piedi dei vecchi olivi perché prendessero nuovo vigore e "incoraggiamento" nella loro annuale fatica. Da scene simili, anche Gesù deve aver tirato fuori la semplice ma bellissima parabola del fico sterile che il contadino insiste a voler concimare dopo averlo scalzato ben bene intorno nella speranza che finalmente qualcosa spunti dalla sua quasi disperata sterilità.
Le due giornate dell' incontro mi hanno colpito soprattutto per certe "rivelazioni" nate da un forte carico di sofferenza, di speranza, di concretezza, di analisi attenta della situazione, senza vittimismi né rimpianti, ma con la tenacia propria di chi ha chiara coscienza, al di là di tutto, che occorre rischiare di persona sempre, ma in modo particolare quando si tratta di Gesù Cristo, di Regno di Dio, di Vangelo. La lettura di questo convegno di preti operai consapevoli di essere sempre più "gente di confine" nella società e nella Chiesa l 'ho raccolta proprio a partire da questa immagine del "letame" in contrasto con quella dei "diamanti" dai quali non può fruttificare nessun germe di vita.
Mi è venuto spontaneo scavare nel primo, prezioso letame che ha arricchito la mia vita e segnato senza alcun dubbio il cammino a volte molto intricato di tanti preti operai (non soltanto di loro. naturalmente): il Vangelo, nella sua essenzialità. nella sua meravigliosa limpidezza. nella sua sostanza profonda di concretezza della vita di Gesù Cristo. Specialmente il letame del "tempo di Nazareth" come stile di vita e di presenza dentro la realtà umana, un modo di essere fra la gente nella condizione del lavoro manuale come normalità d'esistenza. come segno di una volontà di servizio e non di potere. come desiderio e proposta concreta di una liberazione della Chiesa da tutto ciò che la allontana dalla via tracciata dal suo Signore che "da ricco che era si è fatto povero per arricchire tutti della sua povertà". Il letame di Nazareth è stato davvero molto prezioso nel mio percorso ed ha nutrito con vigore le radici di un desiderio molto chiaro fin da principio: essere "uno di loro". Questo desiderio forte, questa passione profonda ed intensa l'ho sentita fino alla commozione più intima nella storia di un "non-prete operaio" francese, di origine italiana, respinto per anni nella sua richiesta di essere ordinato sacerdote, rimanendo fedele alla scelta della condizione operaia. Sulla sua storia ha pesato la decisione di "condannare" la scelta dei preti operai francesi nel 1954 da parte del Vaticano, che rimane un segno doloroso ed amaro di una incapacità a lasciarsi convertire dall'appello dei poveri che ricorre troppo spesso nel cammino della Chiesa. L'amico francese, ormai vicino ai 70 anni, ha raccontato con serena commozione la sua vicenda: tre tentativi, a distanza di anni. sempre respinti; un "sacerdozio di desiderio" mai realizzato a causa di una sua netta volontà di appartenenza ad una condizione di "classe" che avrebbe dovuto avere piena cittadinanza nella Chiesa di Gesù di Nazareth. Una storia di letame non raccolto, rifiutato. messo ai margini, anziché giocato e rischiato nella piena fiducia di quell'Amore Unico che ha gettato tutto se stesso nel mistero dell'umanità facendosi servo e lievito di salvezza dentro la vita.
Questa storia personale. piccola quanto un granello di sabbia, mi ha molto commosso e scosso dentro l'anima; ha rimesso in movimento antiche passioni. sogni, speranze. desideri di lotta, di allargamento di orizzonti per una "chiesa" che non abbia paura di accogliere fino in fondo il Vangelo di Cristo che è la ragione unica del suo esistere nella storia.
Anche la "piccola storia" di un altro caro amico prete operaio a Milano ha agitato le acque del cuore per una coincidenza di calendario che è tutt'altro che banale: il giorno del venerdì santo di quest'anno, verso le tre del pomeriggio, nella periferia industriale milanese, si è svolta una "liturgia" tutta particolare: più di cento operai erano tutti in fila in attesa di ricevere la lettera di licenziamento per chiusura indeterminata della propria fabbrica. "Letame" dichiarato inservibile e quindi messo a riposo dalla logica precisa e inflessibile delle leggi economiche di sfruttamento di quella che una volta si chiamava la "manodopera". Anche il nostro carissimo amico era partecipe di questa liturgia padronale per aver scelto da tanti anni la condizione operaia come luogo del suo essere cristiano e prete.
Le piccole storie che ho qui raccolto sono il segno faticoso di un amore grande ed intenso. di una volontà di partecipazione al cammino umano dalla parte del letame e non dei diamanti, nella profonda fiducia che ciò che può produrre vita. libertà, gioia. pace. pane, fraternità. sono i valori che Gesù Cristo cerca di mettere in luce con quell' espressione 'regno di Dio" da lui raccolto in modo particolare nelle parabole e che coincidono perfettamente con le aspirazioni dei piccoli e dei poveri della terra intera.
Il "letame" della storia che ne ha impedito la putrefazione, che ha sostenuto la vita. alimentato la speranza, fatto rifiorire la libertà, risuscitato la pace, è certamente costituito da quella immensa moltitudine che ha i lineamenti degli uomini e delle donne che in tutti i tempi hanno "resistito" con tutte le loro forze alle terribili leggi della conquista. della deportazione. dello sterminio. dell'asservimento al dominio del più forte. Questa realtà emerge con forza da tutte le angosciose tragedie umane: dai popoli conquistati e trucidati dopo la "scoperta" dell'America; dagli schiavi negri strappati all'Africa e deportati a milioni per rendere fertili le "nuove terre"; dalle moltitudini di ogni colore degli emigrati; dai campi nazisti dove 6 milioni di ebrei trovarono la morte programmata e organizzata con scientifica ferocia; dai popoli profughi a causa della guerra, sospinti come gregge senza più pastore né patria... Dentro questo fiume di dolore inesprimibile ci sono sempre le "tracce" di presenze tenaci. chiare, intense che hanno fatto sì che la storia umana, dopo l'oscurità della notte, conoscesse lo splendore di nuovi mattini. Presenze "perdenti", ma nello stesso tempo splendido, meraviglioso, fertile letame da cui la vita ha succhiato le energie necessarie alla sua vittoria.

don Beppe

Sono passati due profeti

Alla fine di questo secolo così sconvolto, travagliato e provato da impensabili mutamenti, due profeti sono passati tra noi e ci hanno lasciato nel giro di pochi mesi: p. Turoldo e p. Balducci. La fine del millennio, la stagione che si sta spegnendo, ci chiama forse alla raccolta dei frutti che sono stati seminati. Allora approfondiamo, ascoltandola più attentamente, questa voce forte e libera che da loro è uscita coraggiosa e ci ha accompagnato per quasi tutto il '900. La seminagione è stata abbondante, ne fa testimonianza il coro che si è levato da un capo all'altro della cristianità e della società in genere alla loro morte.
All'improvvisa scomparsa di p. Balducci il 25 aprile, scrive il Vescovo di Molfetta sul Manifesto del giorno dopo: "Una Chiesa 'edita', arrivata, troppo sicura della sua corazza culturale e troppo innamorata della sua cristallizzazione è stata scossa dalla nostalgia della Chiesa 'inedita', non ancora emersa in superficie, ruggente nelle viscere della storia".
Nelle pagine di questo giornalino, nato dalla seminagione di un altro profeta che da poco ci ha lasciato, don Sirio, più che sottolineare quanto del Regno di Dio essi abbiano realizzato nella città terrena, vorrei raggiungere quel nodo, quella sorgente, da cui si è sprigionata la forza liberatrice del loro messaggio e della loro azione.
Vedo, al principio della loro profezia, della loro profonda umanità e liberatrice spiritualità il mistero di "quel brivido di vento leggero" "segreto dei segreti" "che non è esprimibile né dimostrabile". Esso coglie l'eletto nell'intimo: l'amore di Dio che rapisce l'uomo e l'abbandonarsi dell'uomo a quell'amore incondizionatamente. Questa reciprocità è i mistero dei misteri ed è il punto decisivo perché nasca quanto ancora deve nascere nel cammino verso la risurrezione.
La sperimentazione del Dio-amore è dunque il baricentro della forza e dell'azione profetica. Questo ci ha significato p. Balducci nelle sue due ultime omelie alla Badia Fiesolana la domenica delle Palme, alla lettura del Passio, e il giorno di Pasqua. Già in "La verità e le occasioni" ricorda "l'ora di grazia che gli fu concessa in una delle celle dell'Eremo di Camaldoli, anzi, nel piccolo giardino in cui la cella trova respiro e gaudio". "Come cristiano" - scrive - "ho sempre saputo che sono, sì, 'nella' storia, ma non sono 'della' storia...", Nulla pertanto, è così salutare per un cristiano d'oggi, quanto l'uscire, di tanto in tanto, dal cerchio mobile degli eventi per ritirarsi negli spazi fermi dove la successione si annoda nell'attimo eterno e vi si placa... "Beata pacis visio!... chi non rinnova la propria libertà nella contemplazione di Dio, perde, in un tempo, e la Verità che è fuori della storia e la verità che, di generazione in generazione, la storia partorisce con dolore".
La scomparsa improvvisa di p. Balducci è stata preceduta di pochi mesi da quella a lungo sofferta di p. Turoldo, profeta e poeta che ha anch'egli vissuto le dialettiche del nostro tempo, cercando di scioglierne i nodi con la fede e la poesia. E, se la fede è stata la forza propulsiva per quella svolta culturale e religiosa di grande valore che fanno di lui un profeta, la poesia - cioè quella che lui meglio chiamava il canto -, è stata il carisma che gli ha aperto l'accesso a quel "mistero dei misteri" che non è esprimibile né dimostrabile. I suoi "Canti Ultimi" cominciano con questo grido a Dio, a quel "Tu necessario" con cui lungo tutto il libro colloquierà: "La vita che mi hai ridato / ora te la rendo / col canto".
La malattia rende essenziale e urgente "prendere finalmente la giusta misura davanti alle cose / raggiungere quel silenzio ? in cui Dio irrompe / cui fa eco un vento leggero leggero". Attraverso la lirica Turoldo raggiunge il vertice della più alta contemplazione in quel clima vissuto solo dai santi e dai mistici dove dalla desolazione e dal dolore può scaturire l'inno di lode. Due profeti, p. Turoldo e p. Balducci, due monaci che hanno amato il loro chiostro, l'uno nell'Abbazia di Sotto il Monte (terra di Papa Giovanni), l'altro nella Badia Fiesolana, ma hanno impegnato la loro vita e duramente com battuto perché la "città di Dio" sia costruita nella misura con cui costruiamo la "città dell'uomo". Come tutti i profeti. avvertiti spesso scomodi e ribelli, essi sono stati però quanto mai 'fedeli' all'autenticità della Parola evangelica e ci hanno lasciato un 'eredità unica. quella per cui i profeti sono una necessità vitale per la storia dell'uomo. Sono stati i profeti della speranza. P. Balducci nelle sue Omelie alla messa domenicale delle ore 11, cui non mancava neppure per Ferragosto, pur commentando e meditando di volta in volta l'iniquità di questo nostro tempo di odio. di crudeltà e di stragi, non mancava mai di affidarci alla speranza che il Signore è venuto per salvarci dalla morte. Egli proclamava e ci affidava a quel di più di speranza per cui il bene è possibile e il male non è invincibile.
"La disperazione sarebbe l'ultima parola ragionevole se non ci fosse una speranza che nutre se stessa in questo messaggio che attraversa i secoli": così p. Balducci ci ha consegnato la sua riflessione sulla lettura del Passio ed era quasi l'ultimo suo grido prima di incontrare anch' egli il mistero della morte.
E della speranza si è fatto interprete lungo tutta quella via crucis che è stata la sua malattia, p. Turoldo, esorcizzando ogni pessimismo: "anima mia non pensare / male di Lui... è impossibile far altro / E vedrai! / il Male non vincerà". "Vera tua onnipotenza/è che il Nulla non vinca". "Sono convinto" - concludeva Turoldo raccontano del suo terribile male - "che sperare è sempre più difficile che credere. Credere per credere... tutti credono in qualcuno o in qualche cosa, in qualche modo.
Ma sperare. cari miei... ! Proprio per questo trovo sollievo se riesco a rischiarare un po' di strada a chi non ha olio nella lampada, qualche amico, qualche fratello che in questo momento è tentato di lasciarsi andare, di scoraggiarsi, di disperarsi. Vedete ogni giorno è un'alba nuova, è un giorno mai vissuto sulla terra da nessuno. Aiutiamoci a sperare!". "Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui. E' risuscitato". Sono state le parole iniziali dell'ultima omelia di p. Balducci, le abbiamo avvertite come le parole di speranza consegnate a noi quale testamento spirituale. In un fascicolo intitolato "Ricordo di p. Turoldo" che raccoglie gli interventi tenuti durante la commemorazione per la sua scomparsa alla Badia Fiesolana, p. Balducci stesso racconta quanto avvenne al grande Convegno di "Beati i Costruttori di Pace", tenutosi a Verona lo scorso settembre: "Appena entrò David sul palco dove mi trovavo, fu tutto un applauso, uno sventolio di fazzoletti, di striscioni; era un'apoteosi. lo mi commossi.
Quest' uomo che Gladio ha cercato di eliminare, che ha sofferto, che sembrava un emarginato, è entrato nel cuore delle giovani generazioni, è il segno che la sua seminagione è stata larga e feconda. Io glielo dissi: Guarda, David, questi sono gli Angeli dell'Apocalisse che ti salutano. - Era un sottinteso commiato" Questo "commiato", questo saluto di Angeli non era solo per Turoldo, era anche per Balducci stesso. Per ambedue era "tempo di nozze" e lo sposo stava arrivando: per l'uno annunciato, per l'altro improvviso. Sentiamoli vivi nell'applauso delle nuove generazioni, non Ii cerchiamo tra i morti. Con gli Angeli dell' Apocalisse lodiamo il loro amore per gli ultimi, l'amore per la pace e la giustizia. e ringraziamo per la fede che ci hanno trasmessa. una fede inquieta di popolo in cammino sorretta dalla speranza nell' avvento del Regno di Dio sulla terra,
La speranza dei profeti e dei testimoni del Vangelo che hanno incontrato Dio nel mistero di "un brivido di vento".

Grazia Maggi

L'unico modo per non perdere la memoria...

E' muoversi liberamente nella realtà!

Nel numero precedente avete potuto leggere il bando delle due borse di studio per Sirio e l'intervento di Gianni Tognoni così ricco di intuizioni, analisi e proposte.
L'iniziativa delle borse di studio necessita sicuramente di un buon lavoro di informazione e di sensibilizzazione.
Invitiamo quindi gli amici che volessero farsene carico a mettersi in contatto con noi in modo da avere informazioni e materiale perché sia possibile indirizzare studenti, docenti, persone in grado di realizzare ricerche e scritti sui temi proposti.
Il termine fissato per la consegna degli elaborati è stato fissato per il 31 ottobre prossimo e quindi non molto distante ma pur sempre sufficiente.
La morte di padre Balducci è stata particolarmente sentita da tutti noi anche perché lui aveva accettato con affettuosa disponibilità di essere il presidente del comitato di lettura delle borse di studio per Sirio. Ci disponevamo a lavorare con la sicurezza di chi ha le spalle coperte da un amico così capace e chiaro nella visione delle cose. Ora abbracciamo forte anche lui in una memoria che si sta colmando di volti e di vita e ci sta spingendo sempre di più allo scoperto in un confronto con la realtà attuale in cui ci sentiamo indicibilmente più soli.
Ancora di più oggi in cui fare memoria, come dice Gianni Tognoni, diventa esercizio molto rigoroso che elimina i sentimentalismi e tende a divenire lavoro molto serio, approfondito, proprio della ricerca.
"All'origine di ogni liberazione - continua Gianni -, o di ogni resistenza o di ogni vocazione che sia quella di Sirio o di Francesco o di un fondatore di un movimento di liberazione c'è questo rapporto personale con la storia corrente... e qual'è la caratteristica di chi affronta il rapporto con la storia pensando di trasformarla? Pensa che nulla è impossibile e che tutto ha senso e che proprio in funzione di questa voglia di vedere al di là delle difficoltà della storia succederà di aver già qualcosa che permette di trasformarla o almeno di darle senso.
Far memoria è ritrovare la capacità di domandarsi (con la rigorosità della ricerca, senza inventare nulla) se noi che facciamo memoria siamo in condizione oggi di ri-attualizzare il modo di vivere di Sirio o dei tanti con cui Sirio si riconosceva.
Non la memoria di una persona, perché Sirio, più che come persona (ognuno che l'ha conosciuto se lo ricorda!), vorrebbe essere certamente ricordato per la continuità della sua storia. Della storia di quelli con cui lui si è messo, che fossero quelli del porto, della darsena, o quelli dei popoli.
Il contributo di Sirio è l'aver vissuto nel 'locale' della concretezza facendo vedere che la concretezza del' locale' , dello specifico, del!' essere fedele. può essere letta in termini di ricerca, cioè di trasformazione della storia universale.
Il muoversi liberamente nella realtà è l'unico modo per non perdere la memoria".
Riflettere su queste cose non è possibile rimanendo tranquillamente come prima. E sembra che molto - o forse tutto? - debba cambiare della nostra vita perché è sempre vero che non si può mettere vino nuovo in otri vecchi. Ci sono momenti della storia personale e no in cui l'unica cosa da fare è avventurarsi su terreni sconosciuti anche se dalla terra dove si abita sgorgasse latte e miele.
Guardo il capannone dove per tanti anni ho lavorato il ferro, leggo le lettere che mi richiamano in Etiopia, queste stesse quattro paginette che, con fedeltà e amore, abbiamo continuato a spedire dopo la morte di Sirio e tutto mi appare così intensamente vivo di ricordi. di sogni, di vita, di me, di gente amata... Eppure tutto questo mi sembra solo la cresta dell'onda che arriva a lambire appena il presente.
Non voglio andar via da Viareggio. né ho in mente chissà quali salti nel buio, ma sento sempre più che i ricordi non sono la chiave per chiarire il passato, ma per aprire il futuro.

Luigi

In condizione operaia: vangelo o evangelizzazione?

Convegno dei preti operai italiani
Salsomaggiore 1-3 maggio 1992

Eravamo una sessantina a Salsomaggiore. Un numero dignitoso per un incontro che si è sviluppato a ritmi serrati nelle quattro mezze giornate previste dal programma del convegno.
Una sessantina di preti operai, forse appena più della metà di quelli attualmente esistenti in Italia. Ma è sempre stato difficile contare le persone in base a criteri mai del tutto oggettivabili...
Alcune assenze annunciate, il quasi totale disinteresse degli organi di informazione, la ormai pacifica e assoluta ignoranza da parte della Chiesa, sembravano dover seppellire questo convegno negli angusti confini dell'incontro tra veterani d'arma tutto avvitato su se stesso.
E certo una rilevanza non l'ha davvero avuta, né è possibile dire che sia scaturita dal confronto una strategia innovativa di rilancio dei preti operai. E neppure la testimonianza di un movimento radicato nelle linee portanti della storia.
Se dovessi descrivere l'impressione che mi ha fatto il convegno, userei l'immagine di un incontro ad un crocicchio di strada di uomini pensosi che si scambiano preoccupazioni e speranze. Alcuni, tra loro, tentano di far sintesi. Ma forse si tratta, più che altro, di nuove immagini che dilatano quelle appena tracciate dalle testimonianze di vita. Qualcuno - senza rendersene ben conto - racconta favole che aiutano a camminare più leggeri. Altri si scambiano indirizzi e informazioni sempre preziose in viaggio.
La testimonianza di coloro che lavorano ancora in fabbrica, sembra uscire da un libro di storia. E' sempre più difficile credere che sia vero il racconto dei giorni, quando tutto oggi ci insegna a credere solo nella favola di un mondo patinato di tempo libero, vestito firmato e vacanze esotiche. Un mondo che viene dato come a portata di mano e ostacolato solo dagli imbrogli della politica, dalla delinquenza giovanile e dalla droga, dalla mancanza d'ordine e di autorità.

"Il lavoro di fonderia è caratterizzato dalla dequalificazione permanente. L'operaio impara in poche ore quelle che sono le sue mansioni, e poi le ripete per centinaia o migliaia di volte al giorno, per tutti i giorni che vi lavorerà...
Chi non si impegna nel lavoro, chi non rende, viene spedito via in breve tempo. Ma anche chi parla troppo facilmente con i compagni, chi manifesta uno spirito critico, chi presenta qualche problema di salute... non viene confermato.
Si richiede quindi a tutti gli operai la massima disponibilità, che vuol dire il massimo di tempo di lavoro possibile e il minimo di assenze... La malattia dev' essere un' eventualità rarissima e, nel caso, di pochissimo tempo... L'orario medio settimanale è di 50/52 ore; per alcuni anche 60 ore e più.
Quando l'azienda ha bisogno si lavora anche di domenica, anche nelle feste, anche di notte.
Ma oltre a questa disponibilità al lavoro senza tanti limiti, si richiede anche la 'collaborazione', ossia il sentirsi coinvolti nella vita dell' azienda.
La contropartita a tutto questo è un trattamento salariale privilegiato con superminimi individuali elevati, forme di cottimo allettanti per chi ha bisogno di impinguare gli scarni introiti di fine mese. Così uno per quattro soldi in più, svende non solo il lavoro delle proprie braccia, ma anche il proprio tempo libero, la salute, e spesso anche la testa, la propria libertà di pensiero e di giudizio...".

"Da circa un anno sono arrivati i senegalesi. Essi praticamente hanno rimpiazzato i giovani con contratto di formazione-lavoro nel ruolo di mano d'opera più debole e precaria, facilmente ricattabile e licenziabile. Sono infatti assunti in genere con contratti a termine di pochi mesi.
Specialmente all' inizio sono stati un ulteriore elemento di divisione tra i lavoratori. Per il loro isolamento, la difficoltà reciproca a comprenderci, per certe prevenzioni e resistenze da parte degli operai italiani verso di loro... ".

"Sono circa 7 milioni i lavoratori delle aziende con meno di 16 addetti. Ma anche tra le aziende con più di 16 addetti sono molto numerose quelle che non hanno la presenza del sindacato; o nelle quali comunque i lavoratori non sono sufficientemente tutelati.
E' una realtà negata da tutti:
dagli stessi operai che sono costretti a subirla;
dalla cultura dei mass media perché è considerata lilla realtà 'normale', anzi quasi un privilegio (l'operaio della grande fabbrica in genere è considerato un 'garantito'; l'operaio della piccola azienda un fortunato perché lavora in un ambiente 'familiare' !);
dalla Chiesa, che nei suoi documenti più autorevoli dimostra di non conoscere questa realtà (dall'enciclica "Centesimus annus"; n.: "Nella società occidentale è stato superato lo sfruttamento, almeno nelle forme analizzate e descritte da Carlo Marx" )."
(dalla relazione di Piero Montecucco e Luigi Consonni)

Nostalgie di persone abbarbicate ad una visione irreale della storia? Immagini provenienti da spezzoni in via d'estinzione di una realtà produttiva ormai modernizzata e automatizzata? E poi, di fronte ai passaggi epocali, alla minaccia di distruzione del nostro ecosistema, alla caduta di muri e all'innalzarsi di altri, alla sfida rinnovata per la pace e la giustizia nel mondo, cosa hanno da dire i preti operai?

"In questa grande storia, parlare di qualcosa di "così storicamente minuscolo, così specificamente europeo, cosi particolarmente ecclesiastico" come l'esperienza dei preti operai, è come parlare delle briciole nel piatto.
Ma allora, come mai in tutti i nostri scritti traspare la coscienza di essere in una posizione privilegiata, non unica certo, ma in uno dei posti giusti per accogliere le sfide del tempo e persino tentare delle risposte?
Proviamo a dame una spiegazione.
Il Vangelo consiglia una particolare attenzione "affinché nulla si perda".
Il profeta Maometto usava ripulire il piatto con le dita dicendo: "quello che resta per ultimo del cibo è quello che ha più benedizione". E si leccava le dita finché diventavano rosse.
La rivelazione cristiana del nome segreto di Dio, "io sono il pan ... chi mangia di questo pane vive la vera vita" (Gv. 6,51), è il rovesciamento dell' onnipotenza divina immaginata dall'uomo potente; l'onnipotenza del pane non è il potere di fare tutto, ma la capacità di alimentare solamente la vita. Di questo pane ci siamo nutriti in questi lunghi anni durante i quali ci siamo spogliati delle nostre piccole onnipotenze.
Nel nostro tempo Dio ci ammaestra sul fatto che non esistono assoluti e che l'imponderabile, il diverso, il vuoto sono presenti in tutte le forme dell' esperienza umana.
Distaccarci dai nostri assoluti ci mette in una situazione difficile, spesso drammatica, dove ogni gesto richiede di essere pensato, inventato, non avendo più alcun punto assoluto di riferimento, né il conforto di una legge codificata o comunque accettata.
E proprio perché è una azione disancorata dai modelli, dalle ideologie, dai principi assoluti, richiede una responsabilità più grande, una adesione più attenta e rispettosa alla vita e alle sue espressioni. Non è questo che il Maestro indica nell'episodio dell'adultera?
Non è questo che nella nostra vita abbiamo sperimentato quando l'esserci dentro è stato più importante di ciò che dicevamo o facevamo, perché proprio questa fedeltà e condivisione aprivano nuovi orizzonti, "antichi sogni nuovi" ?
Non è questo che ci viene richiesto oggi, a chi - come noi - non accetta l'idolo imperante; a chi - come noi - pensa che l'impegno per la giustizia e la pace non sia un fatto opzionale ma una condizione di fedeltà; a chi - come noi - è cosciente che nella forra contro la disuguaglianza strutturale in questo villaggio-mondo, occorre investire un eccesso di intelligenza organizzata e di immaginazione?

Siamo briciole nel piatto, avanzi; ma proprio l'essere questo ci pone in una situazione privilegiata. Non perché siamo puri, ma perché non suscitiamo né invidia né desiderio. E proprio perché non possiamo proporci come modelli, possiamo accogliere le diversità tra di noi e trovare amici, compagni di viaggio, in chi - come noi e meglio di noi -, si ostina ad opporsi, a fare resistenza, a dire di no alle strutture di dominio, a credere nell'uomo, a volere la sua liberazione, la sua promozione solidale, la sua dignità responsabile.
Anche nel piccolo orto delle nostre chiese locali, nei piccoli tavoli del quotidiano, nelle realtà popolari di un quartiere o di un borgo, si aprono spazi per versare il vino spremuto dai preti operai. Non perché essi lo hanno addolcito, ma perché anni di presenza hanno reso meno rigido l'incontro.
Nei molti percorsi di questo labirinto le convergenze non sono poche.
Dal nostro vissuto e dalla diversità del nostro vissuto qualcosa può essere detto; basta che la parola non si allontani da chi la dice e non si riduca a un discorso sui contenuti e sui risultati da ottenere. Anche tra noi non dobbiamo portare" né borse, né bisacce, né calzari" . L'evangelizzazione dolce vale anche nei nostri rapporti.

Non abbiamo un cammino già segnato. Abbiamo un orizzonte che insieme ad altri condividiamo. Siamo tasselli di un mosaico che si va componendo". (dalla relazione introduttiva di Renzo Fanfani)

Mi sembra che ci si possa ricollegare ad un concetto espresso in questi giorni da Loris Campetti, recensendo il libro di G. Polo e M. Revelli "Fiat, / I delegati di reparto" (Erre Emme edizioni) possa adattarsi anche al nostro gruppo di preti operai così residuale perché proprio "i residui sono i soggetti che detengono la memoria di una grande lotta e di una grande sconfitta". Residuo come "punto di partenza per una critica dell'ideologia e per una rappresentazione realistica dei fenomeni sociali". Dalla voglia di "permanere" del residuo si può ripartire: "Sono loro, gli sconfitti di ieri, gli unici capaci di strappare il velo di maja e rivelarci, nella loro storia, spezzoni di realtà, frammenti di verità su un processo di trasformazione epocale"

E questa voglia di "permanere" i preti operai sembravano esprimerla rimarcando la fedeltà all'intuizione di una fede "povera" ricondotta all'osso delle sue espressioni e al tempo stesso piena di energia e di vivacità secondo la parabola evangelica di Mc. 4,26-27 (cfr. relazione di G.Zago "Vangelo o Evangelizzazione" p. l).
L'intuizione cioè di poter vivere il Vangelo senza vivere del vangelo.
E la consapevolezza di essere entrati nella realtà del lavoro operaio non per caso o per avventura, ma a seguito di intuizioni che sorprendentemente (rispetto all'educazione, alla formazione, per esempio) sono fiorite come per l'effetto di una chiamata. A seguito di una esigenza del primato della evangelizzazione sulla sacramentalizzazione e il servizio alla comunità.
Andati per evangelizzare abbiamo scoperto più o meno lentamente che ad essere evangelizzati eravamo noi.
Ed è da questo terreno che emerge l'esigenza di capire, distinguere, chiarire: Vangelo o evangelizzazione?

"L'interrogativo posto in termini alternativi ha la forza di porre alle radici una inquietudine, è una maniera per cercare di dire un paradosso che comunque si vive. Vi è consapevolezza che non si da' vangelo allo stato puro, che esso si storicizza, prende forma, diventa comunicazione e linguaggio, e dunque mediazione.
Forse non vi è altrettanta consapevolezza che nessuna mediazione, nemmeno la più pura, la più disinteressata, è l'evento che quella mediazione cerca di raccontare...
Ogni evangelizzazione presuppone il vangelo come suo alimento continuo, come fonte, come sorgente della testimonianza e del racconto. L'evangelizzazione esiste perché c'è un evento evangelico da vivere e da offrire. A tenere viva questa polarizzazione concorrono tanti elementi: l'intuizione, la fantasia, la creatività, le varie risposte con cui una persona o un gruppo di persone stanno davanti all'evento evangelico.
Alla radice di tutto però c'è la storia, cioè la fedeltà al proprio tempo.
E' questa fedeltà ai propri giorni che fa andare in crisi il modello di evangelizzazione ereditato da altre generazioni. Questa fedeltà al proprio tempo costringe a risalire al vangelo e a ricordare l'importanza di ritornare alla fonte, all' esperienza originante... mentre se si aggiorna semplicemente diventando "nuova evangelizzazione" rischia di chiudersi su se stessa, di spegnersi, di ridursi ad uno schema o a una forma ideologizzata".
"L'evento di salvezza è un fatto sorgivo: all' inizio è un fatto partito dalla vita e solo dopo è stato verbalizzato, cioè si è tentato di dargli una veste di comunicazione attraverso il racconto, la parola, la trasmissione scritta.
L'evento non è qualcosa in mano a qualcuno, non è qualcosa che si possa controllare né si affida alla
gestione di nessuno: vive di luce e di forza propria.
A questo primato del Vangelo, a questo bisogno di tornare all' evento sorgivo ci riconducono la vita quotidiana, la vita di condivisione, la vita di lavoratori.
Di politica, di etica, di morale sessuale, di catechesi, di aggiornamento... c'è sazietà.
Le sfide che raccogliamo dalla condivisione e dalla riflessione su ciò che viviamo nella compagnia degli uomini e delle donne con cui ogni giorno ci incontriamo e ci scontriamo sono altre:
Come stare davanti al vangelo che è evento prima che parola, che è fatto prima che racconto, che è relazione con il Vivente prima che testimonianza?
Dentro la complessità delle situazioni e della realtà in cui si vive, come ascoltare Dio senza ridurlo ad oggetto, possesso, merce, ma riconoscendolo nella sua assoluta signoria?
Come lasciarlo nella sua libertà e gratuità di agire senza preconfezionare niente?".

"Si tratta di ridare al soggetto tutta la sua responsabilità di costruirsi: una libertà non vuota ma come educazione progressiva alla obbedienza e all' ascolto di Dio. L'evento porta con sé la presenza di un dono e stimola alla risposta non confezionata ma responsabile, ad una adesione in cui si opera il proprio coinvolgimento.
Creare persone libere è spesso fuori di ogni logica istituzionale: ogni istituzione chiede prestazioni in
cambio di garanzie.
Creare le condizioni perché soggetti pensanti vadano fino infondo nella scoperta del senso della vita, è una sfida, un progetto da raccogliere: è il senso stesso della nostra esistenza".
(dalla relazione di GianPietro Zago)


Il vescovo rosso

Più di 1.500 persone hanno affollato la chiesa cattedrale 1'8 febbraio scorso per i funerali del vescovo Sergio Mendez Arceo, morto due giorni prima per un attacco cardiaco all' età di 84 anni a Mexico City. "Vogliamo vescovi dalla parte dei poveri" hanno gridato molti dalla folla all'attuale vescovo di Cuernavaca, Luis Reynoso Cervantes.
Appena la notizia della sua morte si è sparsa centinaia di persone in lutto hanno iniziato ad affluire a Cuernavaca per sfilare davanti alla bara aperta dell'uomo di chiesa, Il suo corpo attraversò i villaggi per un ultima visita al popolo che egli rappresentò per più di 30 anni.
Contadini provenienti da lontano si mescolarono spalla a spalla con i residenti della città e, prima che il clero riuscisse ad aprirsi una strada nella folla, una persona dopo l'altra presero il microfono per ricordare fatti e parole del loro vescovo.
Molti lo conobbero semplicemente come don Sergio. Molti, in tutto il mondo, lo conobbero come il vescovo radicale dedito alla teologia della liberazione e alla lotta per la giustizia in America Latina. Le corone al funerale manifestarono questa sua dedizione. Alcune erano di famiglie del luogo, altre di gente straniera, altre delle comunità ecclesiali, gruppi cristiani, leaders nazionali, rivoluzionari Latino Americani. Una anche dal presidente cubano Fidel Castro.
Don Sergio nacque a Tlalpan, nel distretto federale di Mexico, il 28 ottobre 1907. Venne a Roma per studiare nel 1927 e vi fu ordinato sacerdote il 28 ottobre 1932. Tornato in Messico nel 1940 fu nominato direttore spirituale e insegnante del seminario di Mexico City.
Nel 1952 fu consacrato vescovo di Cuernavaca e divenne il solo vescovo designato direttamente da Roma per partecipare alla assemblea di fondazione del CELAM, la conferenza episcopale Latino Americana, in Brasile nel 1955.
Don Sergio partecipò attivamente al Concilio Vaticano II e fu uno degli uomini chiave della commissione liturgica. Emerse come uno dei vescovi di punta dell'episcopato Latino Americano avendo parlato ufficialmente per 13 volte durante le sedute plenarie. Spesso usava dire che il concilio fu un momento chiave nel processo della propria conversione come lo fu il crescente contatto con i poveri del Messico.
Visitò Cuba nel 1972 per la prima volta e giocò un ruolo importante per anni come ponte tra il governo cubano e la chiesa, godendo la fiducia di entrambi.
La sua attenzione per i diritti umani e le lotte dei popoli lo portò a partecipare negli anni '70 come giudice al Tribunale internazionale per i Diritti dei Popoli. Questo tribunale trattò processi contro governi accusati di opprimere i loro popoli come in Cile, El Salvador, Guatemala e Afghanistan.
Fino al 1982 egli era considerato come uno dei vescovi cattolici più radicali nel mondo e fu soprannominato il "vescovo rosso".
In quell'anno, compiendo 75 anni, venne personalmente a Roma per presentare le sue dimissioni al Papa Giovanni Paolo II ma gli fu detto che il Papa non poteva riceverlo a causa del suo radicalismo. Così ritornò in Messico e inviò le sue dimissioni tramite i canali ecclesiastici.
Egli vide in questo fatto il rifiuto di un vescovo suo fratello di incontrarlo e ne fu molto addolorato. Tuttavia rimase un uomo di chiesa anche se uno dei suoi più forti critici. Una volta ad un gruppo di superiori maggiori americani che gli chiedevano a che prezzo, secondo lui, si poteva continuare a lavorare nelle strutture della chiesa ufficiale, egli rispose: "Non dobbiamo dimenticare mai che la chiesa è nostra madre e, se non l'amiamo abbastanza da accettare che essa sia anche prostituta e da lavorare per renderla migliore, noi non siamo degni di lei".

R.E. Plankey in National Catholic Reporter



Fiore del deserto

Il mio nome è Paul E. Cook, e sono
un obiettore di coscienza tra i marines.

L'esame della mia richiesta di libertà
sulla parola richiederà almeno due mesi,
ed io vi chiedo di inviare lettere di sostegno
al coordinatore che sta esaminando questa mia richiesta.

Attualmente sto raccogliendo indirizzi di compagni
reduci dalla guerra del Golfo, che hanno da raccontare
sofferenze, emozioni e storie o anche foto della guerra.
Stiamo pensando come fare per renderle pubbliche
perché esse appartengono a tutti!

La mia storia inizia dalla convinzione
di lottare contro l'uccidere e il distruggere
nelle guerre quando tornai in patria da Panama
con la mia unità dei Marines nel 1989.
Nel 1990 mi fu detto che le mie idee erano
troppo politiche per lo stato di obiettore
di coscienza. Sono stato poi comandato
in Arabia Saudita durante la guerra nel 1991.

Andai in Arabia, ma rifiutai di prendere il fucile
o contribuire comunque alla guerra eccetto che
lavorando alla radio per l'evacuazione dei feriti.

Mi fu negata ogni protezione contro le armi chimiche
e fui costretto ad andare ai confini del Kuwait.
Quindi sono stato accusato e formalmente imputato
di "non aver fatto il massimo
per impegnare il nemico".

Ora voglio prendere parte a videos anti reclutamento
con la War Resisters League di New York
e fare tutto ciò che posso per la pace e la giustizia
appena fuori dall'esercito.

Tutte le lettere a sostegno che potrete mandare
saranno benvenute.

Per la giustizia, la ragione e la pace.

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