Che un giovane in un campo! Così recita un vecchio adagio contadino che valorizza l'esperienza di chi ha già vissuto una vita, anche se ormai ridotto all'angolo del focolare, rispetto alla vitalità e all'efficienza del lavoro delle forze giovani. Questo proverbio è stato messo in crisi dal sistema di sviluppo iscritto nel ciclo della industrializzazione. L'accento è stato posto sulla innovazione con la conseguenza di ripone in soffitta ogni sapere derivante dal confronto con ciò che si è già vissuto.
Eppure oggi assistiamo ad una generale caduta di tensione rispetto alle aspettative che il nuovo pareva voler riservare: il mercato 'giovane' e rampante che sembrava sul punto di dilagare oltre i muri, appare costretto a tirar giù la maschera e a mostrare di nuovo il volto vecchio devastato da sete e fame di potere. Il 'giovane' ordine mondiale, abile nel mostrare i muscoli quando si tratta di combattere contro un nemico dichiarato, è costretto poi ad arretrare confuso davanti al degenerare dei conflitti in risse a tutto campo. E compaiono di nuovo le ben note diplomazie a difesa degli interessi costituiti. Le 'giovani' nazionalita' , poi, sembrano volersi servire della ricetta più antica del mondo per rafforzare la propria identità e cioè scoprire un nemico contro cui levarsi in armi.
Di fronte alle scricchiolanti avventure di una realtà che sembrava decollata verso i cieli rosei del benessere e dell'equilibrio, hanno buon gioco tutti coloro che risollevano i colori delle antiche saggezze e dei vecchi equilibri. Il 'vecchio' - dall'antiquariato dei mercatini alle aste miliardarie dei pezzi unici, dall' inossidabile età dei politici alle nostalgie del carroccio e delle città-stato, dall'esportazione geriatrica dei giapponesi alla nostrana gita 'con pentolame ' - tutto il vecchio numericamente rilevante, viene riciclato in appetibili fette di concupiscenza economica, politica, culturale e religiosa.
Il 'vecchio' è di nuovo e tutto nel campo a contendere al 'giovane' il futuro. Perfino la 'vecchia' guerra è tornata tra noi, disinvolta e accattivante prostituta imbellettata di nazionalismi e rivincite, a battere strade di morte.
No. Non vogliamo unire le nostre voci a questo coro che richiama il passato, compreso quello delle chiese affollate. Questo coro, in realtà, 'nel canto' non c'è mai stato, ma ha solo badato, nelle diverse contingenze storiche, a non perdere potere (e lo dimostra il sollevarsi qua e là di simulacri delle famiglie che un tempo reggevano i popoli, quando era ben chiaro a chi toccava tirar la carretta e a chi menare la frusta...).
L'aver ripreso questo proverbio non è per alimentare il gioco di concorrenze tra generazioni, il vecchio contro il giovane o viceversa. E' per sottolineare semmai l'assurdo di una contrapposizione quando viene a mancare un elemento indispensabile. Perché abbiamo presente il giovane, il vecchio e il campo, ma dimentichiamo il fuoco. La luce e il calore. La trasformazione incessante, l'energia. Senza questo elemento il vecchio è letteralmente spento e il giovane nel campo non può voltare il capo e sentirsi a casa. L'uno condannato alla solitudine, l'altro privato dell'incontro, del riposo, della festa.
Senza il fuoco, senza il bruciore cauterizzante della vita, vissuta e non solo passata o bruciata essa stessa, siamo tutti vecchi. Impegnati sul campo giorno e notte, senza liberare l'immaginazione di fronte al multiforme divenire della vampa, siamo tutti vecchi.
Se c'e' il fuoco, anche il cantone più sperduto, anche l'angolo più' buio e disperso diventa e casa e calore e cibo e incontro. Non c'è povertà che non permetta di stringersi insieme anche di fronte a poche braci. Uomini e donne dai capelli bianchi ci hanno fatto il dono del loro sogno innocente, di un mondo amato nonostante tutto, di un mondo buono, anche se arato a sangue. Popoli dispersi e sepolti negli angoli bui della storia raccontano i loro sogni di dignità umana. Amici che camminano con noi testimoniano la trasformazione e l'incontro. Occorre non dimenticare di custodire il fuoco perché la parte giovane di noi si possa dedicare al campo e seminare e crescere frutti di umanità. Occorre non dimenticare il fuoco perché allora si può davvero diventar vecchi senza che la vita diminuisca e il desiderio e il sogno.
La Redazione
Caro fratello Arturo, questa volta ti scriviamo noi una lettera. Certo, non è la stessa cosa; ma, durante questi mesi, ci hai fatto arrivare ben più che una lettera. Ti abbiamo seguito durante il tuo pellegrinare in Italia, abbiamo avuto la gioia di incontrarti qui a Viareggio e quindi la tua presenza fra noi è stata particolarmente viva e... vivace. Ti dobbiamo quindi, innanzitutto un fraterno, caloroso ringraziamento. Un abbraccio sincero per quel tuo parlare appassionato, lucido nelle analisi severe e affatto incoraggianti, eppure così carico di speranza.
Abbiamo capito quanto ci vuoi bene. Fino a diventare sentinella che grida nel torpore di questa nostra notte dove si consuma una vita priva di senso, vuota ed assurda. E mentre parlavi, a Viareggio, era come se le cose riacquistassero un loro significato e fosse possibile riprendere in mano la propria vita e rinascere ad una coscienza attiva. Come un diradarsi di nebbie fino ad intravedere i margini di una lotta possibile e forse senz' altro doverosa per vestirsi di umanità.
E' stata una cosa bella quell'incontro!
Ti sei accorto che quando hai finito di parlare la gente non andava via?
Ci saranno stati anche quelli che sono rimasti inchiodati alla seggiola dallo stupore scandalizzato di non ritrovare, nelle tue parole, neppure nel sottofondo, i binari rassicuranti ( non si devono incontrare mai e sono gerarchicamente costituiti!) che ci separano in anima e corpo, chierici e laici, uomini e donne, civili e barbari, meritevole ed imbelli, bene e male intenzionati, ecc. ecc.
Ma sono rimasti soprattutto quelli che hanno sentito, nel vigore delle tue parole lo spessore di una vita che chiama alla vita. Tornavo, quella sera, da un viaggio assai lungo, dopo aver passato una intera giornata a salire e scendere le scale per coglier mele in val di Non. Quando sono entrato nella sala comunale, già colma di gente, mi sono rimproverato per non essere arrivato qualche minuto prima. Mi sono messo spalla al muro pronto a lottare contro l'invincibile avvolgente sonnolenza che la fatica fisica comporta. Mi sono ritrovato, dopo le prime frasi, teso ed attento. Leggero, in un modo sorprendente.
Vorrei dire subito che non sono andato a cercare, nelle tue argomentazioni, delle indicazioni concrete. Francamente non le ho raccolte. Sono rimasto come bloccato, ma forse sarebbe meglio dire affascinato, da un invito che sentivo correre dentro le tue parole. Un invito da amico, da vero amico che non teme la parola bruciante, a riprendere in mano la propria vita personale, la propria coscienza. E un invito fraterno a considerare, seriamente e realmente, la possibilità di riprendere in mano in modo solidale la vita collettiva. Aprendo una crisi, affatto cerebrale o intimistica, sul modo neutrale e disamorato con cui oggi si affrontano le responsabilità personali e sociali. Mettendo in crisi non tanto i massimi sistemi delle teorizzazioni sulla vita, quanto i gesti e gli atteggiamenti quotidiani attraverso i quali passa l'inevitabile adeguamento ad un mondo - il nostro - che ha sempre più bisogno del sangue degli altri per sopravvivere.
E mi veniva su chiaro quella sera il pensiero che, infondo, non si tratta tanto di escogitare chissà che cosa per rompere la patina opaca di immobilità che ci avvolge, quanto di essere serenamente, ma decisamente presenti a se stessi - coscienti - consapevoli che esiste un legame tra luoghi e tempi apparentemente distanti come se fossero posti su piani diversi.
Ci lasciamo invece anche troppo andare - e forse proprio adagiare - ad un compromesso esistenziale che ci permette di sopravvivere ritagliando una vita fatta di piccoli doveri ed impegni che mettono alla frusta le nostre energie personali, senza intaccare minimamente la crosta che metterebbe in discussione i nostri rapporti con gli altri, persone e popoli.
Quello che si dovrebbe fare non lo si fa perché tanto - diciamo - non serve a niente. Quello che si potrebbe fare non lo sappiamo.
In un' altra occasione mi dicesti di essere rimasto impressionato da come il nostro mondo, in generale, non accetta di portare l'età con dignità. Tutto un tirarsi sù in modo spesso tristemente artificiale per mascherare i segni del tempo. Tutt'altra cosa rispetto alla proprietà del vestire e alla cura della persona. Sta di fatto che questo rifiuto lo applichiamo un po' in tutti i campi, ripetendo il gesto dello struzzo che nasconde la testa dentro la sabbia. Così le intenzioni prendono il posto delle azioni, le preghiere rituali quello della conversione del cuore, la carità quello dell' amore e... l'allargar le braccia la lotta della fede.
Ci hai invitati al coraggio di lasciare che questa maschera mostri le crepe attraverso le quali è possibile vedere il volto devastato di questo nostra condizione di vita. Perché ci possa essere nel nostro cuore autentica pietà e dolore e quindi anche tutto l'amore capace di ridare tratti di umanità alla nostra vita collettiva, al rapporto con le risorse che sono di tutti, al rapporto con coloro che sono fuori da tutto. Un invito con energia tutta giovanile, caro vecchio dalla testa bianca! Una mano sinceramente tesa a ritrovare la dignità del vivere e la forza del credere.
Aspettiamo una tua lettera per Natale in modo da metterla nel primo numero del nuovo anno. Un anniversario, particolarmente per i rapporti con l' America Latina, che ci spinge davvero a cambiare la direzione del nostro vivere.
Luigi
Mi piacerebbe che ci fosse un vescovo (anche uno soltanto) che una mattina, al sorgere del sole, in una qualunque diocesi d'Italia, dopo aver partecipato ad una delle tante "tavole rotonde" sulla lettera enciclica di papa Giovanni Paolo II "Centesimus Annus", avesse l'illuminazione di cominciare a vivere del lavoro delle proprie mani.
E quando dico "lavoro" intendo proprio un lavoro reale, semplice magari, ma vero: il lavoro del contadino, dell'operaio agricolo, del ciabattino, del fabbro, del falegname...
E quindi attrezzare (questo vescovo della mia vecchia utopia sicuramente ingenua e fuori del tempo) una qualche stanza del suo episcopio a piccola "bottega di lavoro"; oppure uscire all'ora prescritta per andare alla quotidiana fatica per guadagnarsi il "pezzo di pane".
Mi piacerebbe molto che una simile cosa accadesse molto semplicemente, quasi in silenzio, come nel silenzio carico di vita si aprono i fiori in alta montagna.
Un avvenimento senza pubblicità, ma nella chiarezza di una scelta pubblica, fraterna, gioiosa, convinta.
Una scelta che nascesse a seguito di un amore traboccante per Gesù di Nazareth, il "figlio del fabbro", lavoratore anche lui negli anni sconosciuti e "silenziosi" che formano la maggior parte della sua vita.
Magari passando attraverso la memoria dell'apostolo Paolo che ricorda con schietto orgoglio (se non sbaglio, ai cristiani di Corinto) che il suo annuncio del Vangelo si era intrecciato con i fili del tessitore di tende.
Mi piacerebbe, dicevo, venire a sapere che questa inutile, ingenua, meravigliosa, semplice cosa è accaduta in qualche diocesi italiana il cui vescovo e pastore avesse deciso di intraprendere un cammino di povertà nella "riscoperta" della teologia di Nazareth: una teologia rimasta, forse, sepolta sotto la cenere di una immagine della Chiesa che e' ancora sicuramente troppo legata al modello che proviene dalla cultura imperiale romana (da Costantino in avanti).
Un simile avvenimento probabilmente non provocherebbe la fioritura di convegni, giornate di studio, seminari, dibattiti culturali ecc., ma sarebbe una straordinaria lettera pastorale a tutta la Chiesa di Dio pellegrina nel mondo.
Mi piacerebbe anche che nella solita mattina, colma di sole e di brezza leggera, tutti gli operai che lavorano nelle molte fabbriche di armi italiane, al Nord, al Centro, al Sud, fossero presi da una improvvisa, assurda, straordinaria voglia di ribellione, di rifiuto, di lotta dura e tenace, a seguito di un inspiegabile "rigurgito della coscienza".
Voglia di recuperare in un solo momento la propria dignità di uomini, di lavoratori segnati dall'assurdo destino di fabbricare con le proprie mani e la propria fatica dolore, distruzione e morte.
E allora, tutti insieme, nello stesso momento, assumessero per sempre la storica decisione di non costruire più armi, di non spendere una goccia di sudore, un grammo di energia, di intelligenza, di vita, per la realizzazione di tutto quell'orribile arsenale militare che in tempo di pace mangia miliardi sulla pelle dei poveri, degli affamati, dei deboli della terra, e in tempo di guerra produce fiumi di sofferenza e di strazio senza fine.
Non sarebbe un giorno meraviglioso quello in cui la scure fosse decisamente calata alla radice della "mala pianta" di un' industria che prospera soltanto succhiando il sangue dei poveri e degrada la dignità' del lavoro umano?
Mi piacerebbe moltissimo, nella stessa dolce, luminosa, straordinaria mattina, partire dal piccolo angolo della darsena dove è' ancorata la casa che mi protegge e mi accoglie soprattutto di notte, per mettermi in cammino, a piedi, lungo le strade. Vorrei tanto camminare fra la gente, semplicemente camminare. Salutare, stringere qualche mano, scambiare qualche parola e soprattutto dire "pace". Vivete in pace, cercate la pace, non vi stancate di impastare ogni giorno il pane della pace: in tutto, con tutti, a costo di tutto, sempre. Pace con le creature della terra, pace con gli alberi, il cielo, l'acqua, le strade, gli uccelli che ancora resistono nelle campagne e nello smog delle città, i palazzi che ricordano la sovrappopolazione degli alveari, il rumore dei motori nel traffico quotidiano... Ogni tanto, qua e là, mi piacerebbe continuare il gesto bellissimo, colmo di speranza, fatto dai giovani palestinesi di Gaza nei giorni della Conferenza di Madrid: offrire qualche ramo d'olivo e un boccone di pane a chi vive con il fucile in mano e l'orgoglio del padrone. Ma, soprattutto camminare, perché nel cammino mi sia data la possibilità di accogliere dentro l'anima il mistero umano nella sua radice, l'attesa inespressa di ogni essere, il gemito della creazione, la voglia d'infinito che a volte muore entro le strette misure del quotidiano, la necessità di una vita fraterna che si realizzi nell'incontro con ogni persona, di ogni colore, di qualsiasi tendenza, di qualunque credo politico o religioso. E, camminando, allargare il cuore e l'anima alla ricerca del volto di Dio. Raccogliere il mistero della sua Presenza nei colori dell'alba e del tramonto, nella pioggia, nel vento, nella luce del sole, nella fatica della gente, nella solitudine e nella speranza. E soprattutto approfondire nel lento ritmo della strada il mio rapporto con Gesù di Nazareth, via e strada che conduce alla pienezza del mistero di Dio. Anche Gesù, dopo i lunghi anni "silenziosi" della sua bottega di fabbrofalegname, si mise sulla strada e, camminando, aprì a tutti il meraviglioso tesoro del regno dei cieli. II Vangelo è nato nella lunga gestazione di Nazareth, ma poi è fiorito e maturato in pienezza nel vento e nel sole ardente delle strade di Palestina.
Mi piacerebbe farmi pellegrino non per "fare" qualcosa di particolare, ma semplicemente per tentare di essere più autenticamente ciò che devo essere. Scoprire più radicalmente il mio rapporto di amore e di comunione con la creazione, con le creature, con il Creatore. Fare della strada lo spazio vitale di una "scuola" di umanità più profonda, di accoglienza più vera, di confronto, di scambio, di una possibilità di dare e di ricevere le infinite provocazioni che il cammino racchiude dentro di sé.
Ora che ho scritto sul foglio di carta queste "vecchie utopie" che dormivano chissà dove dentro di me, mi viene quasi il timore di essermi lasciato andare ad assurde e vuote immaginazioni, come uno scolaro sbadato che va "fuori tema". La realtà concreta delle cose, lo spessore della vita quotidiana, le vicende sociali, politiche, economiche sembrano prevalere su qualsiasi tentativo di illuminare la scena sulla quale si svolge la grande rappresentazione umana con la luce dell'utopia, del sogno, della logica dell'impossibile. Eppure mi sembra, a volte, che l'unica possibilità di "salvezza" dalla folle e assurda logica del pensiero dominante, stia proprio nella capacità di lasciarsi prendere sulle ali del vento e farsi condurre verso nuovi orizzonti, in nuovi spazi dove il mistero di Dio e il mistero umano possano tessere rapporti nuovi di libertà, di amore e di più profonda comunione.
don Beppe
Scomodo lo era sempre stato don Fausto, fin dal tempo del Seminario, per noi compagni e anche per i superiori. A quel tempo tra noi si parlava tanto di contestazione, si teorizzavano nuovi modelli di società e nuove esigenze dell'essere prete; don Fausto non partecipava molto di queste discussioni: ogni tanto si portava in stanza qualcuno della Piazzetta per fargli fare una doccia calda, oppure usava del tempo libero per le compere per essere presente con questi amici "sconvenienti" secondo i canoni comuni per un buon seminarista. Questo atteggiamento metteva in discussione le nostre belle teorie e al tempo stesso proponeva un modello di prete che sa essere attento a tutte le realtà varcando se necessario i limiti di una parrocchia per proporre, più attraverso una presenza solidale e amica che non con le parole, il Cristo che libera e salva. Confesso che noi compagni lo invidiavamo per questa sua capacità di farsi uguale agli altri, di intessere rapporti anche con le persone apparentemente più distanti dal nostro modo di essere e di pensare.
Lo ha sintetizzato bene don Piero quando ha definito don Fausto un uomo semplice. Lo si vedeva anche dai suoi quadri, esposti domenica a San Gervasio, dove predominano i campi, i tramonti, la natura e le cose umili della vita del contadino. Lo hanno sperimentato i suoi amici e compagni, i preti che con lui condividevano questa scelta, i piccoli fratelli e le piccole sorelle di Charles de Foucauld, con i quali si sentiva in sintonia spirituale, le altre suore laiche che accompagnano i Sinti e i Rom. Questa semplicità l'hanno sentita soprattutto coloro che vivono ancora ai margini della nostra società, perché non vogliono, per scelta o per cultura, "integrarsi" con i nostri modelli di vita: i nomadi, i madonnari, i girovaghi, i giovani che vivono alla giornata... Da don Fausto non avranno certo sentito tante prediche moralistiche o tante parole altisonanti. Avranno però sentito qualcuno che si faceva vicino ai loro problemi, alle loro sofferenze, alle loro "diversità'', senza volerle giudicare, ma cercando di comprenderle e valorizzare in esse quel "buono" esistente e che è il cammino che ci fa incontrare Dio.
Raffaele Donneschi
da "La Voce del Popolo" 12 aprile 1991
Qualche tempo fa mi accadde di cogliere al volo una frase, durante un incontro di amici. Si riferiva alla morte di un giovane prete che faceva il madonnaro. Viveva, cioè, esercitando [' antico mestiere di disegnare, con gessetti colorati, immagini sacre sulle grandi pietre del sagrato delle chiese raccogliendo i frutti spontanei della approvazione della gente. Un'arte povera irrimediabilmente destinata a scomparire calpestata o lavata dalla pioggia.
Immediatamente mi venne in mente un giovane che bussò alla porta della Chiesetta, tanti anni fa, e cercava Sirio. Disse di essere un prete e non lo dimostrava (non tanto per gli abiti ché eravamo abituati a vederne pochi in talare da quelle parti, quanto per modi tranquillamente ordinari). Raccontò che era venuto a Camaiore per partecipare ad un concorso nazionale per madonnari, non tanto per vincere o meno, quanto per conoscere colleghi sulla strada come lui. Era rimasto assai deluso dalla manifestazione che aveva attirato più artisti che si cimentavano sulla pietra di autentici girovaghi della strada.
Ricordo che gli facemmo un sacco di domande sulla sua vita quotidiana e sui "trucchi" del mestiere, specie sui permessi e sui problemi dell' occupazione del suolo pubblico, le sue schermaglie con vigili urbani e polizia, i fioretti vissuti con parroci molto più disposti a chiamar la forza pubblica per far allontanare quel "sedicente" prete che ad accettare anche solo un piccolo impegno di dialogo e di interessamento alla figura di una madonna che stava emergendo sul sagrato della "loro" chiesa. Ritornò alcune volte. Appariva all'improvviso, solo o con dei compagni ficcati a forza dentro quella sua macchinetta che serviva da camper. Scambiava due parole; la tavola con frugalità; ripartiva alle ore più impensate, attratto dalla strada come da un'amante gelosa.
Non ho più saputo niente di lui da quegli anni settanta, fino alla notizia della malattia che lo ha distrutto. Inspiegabilmente mi è nato dentro un grande desiderio di incontrarlo e il bisogno di rivolgergli alcune domande. Non è cosa razionale, lo so, e d'altronde queste domande neppure mi si chiarivano dentro, Ho cercato di parlare con qualcuno che gli fosse stato vicino negli ultimo tempi ed ho avuto la fortuna di incontrare una sua amica con cui ho rivissuto i suoi ultimi giorni. E mi sono imbattuto in una frase di don Piero, suo "compagno di viaggio", che mi ha chiarito le domande che erano sorte in me. Don Piero lo ha definito "sconcertante nel suo sapersi identificare con la gente semplice della strada". Che fortuna che ci siano ancora persone che sconcertano in questo modo!
Ecco, è questo sconcerto, questo stupore che mi provoca ad interrogare, a chiedere qual'è la fonte, l'origine e l'energia di questa identificazione, di questo sapersi mescolare con gli altri in un modo naturale, oserei dire sacramentale. E cioè non confuso, con modi ed abbracci. sia pure rettamente, intenzionali, ma chiaro nella perfetta aderenza tra il segno delle mani che si stringono e la realtà di un incontro personale ricco della sua semplicità. Non so come e quando questa ricerca proseguirà. Lascio che maturi dentro di me e so che devo attendere che sulla pietra scheggiata della vita appaiano i delicati colori che disegnano il mistero.
***
La morte non chiude la storia
Proprio nell'ultimo numero dell'anno scorso comunicavamo ai nostri amici la decisione di costituire un fondo - presso l'Istituto Storico della Resistenza e Storia Contemporanea in Provincia di Lucca - contenente gli scritti di Sirio in modo che possano essere non solo conservati, ma anche conosciuti e consultati.
Nel mese scorso ci siamo incontrati con i responsabili dell'Istituto e abbiamo loro consegnato due cartolari contenenti - in originale, se possibile, e comunque in fotocopia - gli scritti da Sirio stesso pubblicati e cioè: le annate de "La Voce dei Poveri" dal 1960 al 1965 e quella del 1971; i numeri del ciclostilato "Popolo di Dio" del 1968, '69, '70 e '71; le annate di "Lotta come Amore" nella prima veste dal 1972 al 1976 e quelle nella attuale edizione, dal 1977 al 1987. Abbiamo aggiunto i testi dei tre teatri popolari, ''Una Fede che lotta", "II cristiano dice:NO" e "Le ombre di Hiroshima". Infine i suoi tre libri: ''Una zolla di terra", "Uno di loro" e "Antico sogno nuovo" e la rivista "Pretioperai" n.4/5 del 1988 contenete scritti vari di Sirio. In un prossimo futuro completeremo questa sezione con i numeri de "Il nostro lavoro", articoli scritti da Sirio su riviste come Rocca, Il Gallo ecc. e i suoi contributi su libri composti a più mani.
Come scrivevamo, appunto un anno fa, dalla cortese attenzione e dal consiglio della direzione dell'Istituto abbiamo raccolto l'idea di realizzare, accanto al fondo, delle pubbliche iniziative in modo da incentivare la ricerca storica e non solo storica intorno a Sirio, le tematiche che gli sono proprie, il suo tempo, le sue esperienze.
Abbiamo quindi concordato di iniziare con due borse di studio con piccoli premi in denaro e la pubblicazione dei lavori vincenti. Una borsa è riservata ad una ricerca storica collegata a Sirio e agli anni trascorsi in Seminario e sarà quindi incentrata sulla formazione del clero nella diocesi di Lucca. L'altra, aperta a contributi meno specialistici, vuole condurre i partecipanti a cercare, attraverso l'esame del materiale di Sirio ora consultabile presso l'Istituto, di stabilire come e quanto quell'episodio della prima vita operaia di Sirio che lo vide saltare il muro di una fabbrica occupata per un gesto di solidarietà con gli operai asserragliati dentro, possa essere preso a simbolo di uno stile di vita.
Appena redatto il bando ufficiale di queste borse di studio lo pubblicheremo anche su Lotta come Amore. Abbiamo intenzione di prepararlo in occasione dell'anniversario di Sirio, alla fine del febbraio prossimo, in modo che questa iniziativa, che vorremmo ripetere nei prossimi anni in diverse direzioni, possa costituire l'occasione di una memoria sempre attuale.
La comunità del porto
Questa "Agenda per la pace" è un dono molto semplice, ma nello stesso tempo sicuramente assai prezioso, che l'ARCA - Associazione Ricerca Cultura Artigiana ha ricevuto da un numeroso gruppo di ragazzi di diverse scuole elementari e medie di Viareggio e "dintorni". Guidati dai loro insegnanti in un percorso che li aiutasse a trovare la maniera di esprimere, al loro livello, sentimenti, pensieri, emozioni, intuizioni, sogni legati fra loro dal filo d'oro della Pace, questi ragazzi ci hanno offerto un materiale ricco di valori che l'ARCA ha pensato fosse buona cosa mettere in circolazione.
Nel maggio '91 tutta la "produzione" di una ricerca durata parecchi mesi è stata esposta in una mostra allestita nella sala della Mostra Nautica in Darsena: da questa miniera di cose scritte, di disegni, di racconti, di composizioni molto variopinte e simpatiche, sono stati "estratti" alcuni pensieri e disegni per accompagnare lo scorrere dei giorni, lungo l'arco dell'anno, facendoci aprire il cuore e l'anima a pensieri di pace.
"Bombardati" (per usare un linguaggio guerresco) continuamente dalle parole dei grandi personaggi, le parole e i pensieri dei ragazzi hanno certamente il potere di far rinascere in ciascuno di noi il sentimento della meraviglia, della novità, di una speranza "fresca".
In un mondo così spesso lacerato da "rumori di guerra", da messaggi di violenza, di ingiustizia, di contrasti tragici e assurdi, questi pensieri hanno il sapore di un bicchiere di vino buono, di acqua di sorgente, di vento di maestrale, di serate di luna piena, di erba nuova di primavera, di sole tiepido e dolce nel chiarore dell'alba dietro le Apuane, del crepuscolo rosa di certe serate d'autunno visto dal molo di levante...
L'ARCA pensa di aver ricevuto un dono molto bello ed e' felice di non trattenerlo solo per sé; perciò' spera che questa Agenda sia cosa gradita per tutta la Città.
(dalla introduzione di don Beppe)
Chi desidera avere informazioni su questo percorso di pace, o vuole ricevere l'Agenda, questa ha un costo di lire 13.000 e può essere richiesta a:
Associazione A.R.C.A. - via Virgilio 222 - 55049 Viareggio
Abbiamo ricevuto da un' amica la registrazione dell' intervento di Alex Zanotelli all'apertura dell'incontro Arena 4 dell' Associazione "Beati i costruttori di Pace". Con piacere la pubblichiamo con un grande abbraccio per questo amico che da un "canto" particolarmente oscuro del Sud del mondo, ci manda il calore di un fuoco ben vivo.
Non posso negare d'essere commosso di tornare in Arena e soprattutto dell' abbraccio stupendo di tanti amici che ho sentito e che ho portato con me sulle strade del mondo. Davvero io non vi ricordo come massa; è bellissimo in questi momenti, in cui ho potuto abbracciare le persone, guardare la gente in volto e vedere il sorriso e la gioia di parlare cuore a cuore. E' stata la grazia più grande. Grazie davvero di questo.
Grazie perché davvero in molti, dico la verità, vi ho portato con me nell'inferno del Sud del mondo e con me avete camminato. Gli abbracci, i saluti, gli sguardi e il linguaggio del corpo sono il segno di una unità profonda che ci ha accompagnato e ci ha fatto camminare voi qui, i poveri sulle strade del mondo; ed io ho camminato e avuto la grazia di camminare con loro.
Vorrei portarvi gli sguardi dei poveri, i volti di tutti. Non c'è Chiesa, non c'è davvero popolo, se non è una Chiesa di volti, di un popolo di volti.
Io volevo proprio ricordarvi una cosa. Alcuni giorni fa ho avuto un'impressione enorme quando sono stato nel carcere di Rebibbia e ho potuto parlare, grazie a p.Efrem, (col quale siamo stati insieme), con Renato Curcio. Mi ha fatto un'impressione incredibile e vi lancio il suo messaggio. Lui mi diceva: "Alex, lo sbaglio che noi abbiamo fatto negli anni '70 e' stato quello di credere nel principio di Machiavelli, che il fine giustifica i mezzi. Oggi abbiamo visto quanto è assurdo questo principio e quanto è da essere negato. Mi pento di questo". Lui chiedeva che anche tutti i politici, tutto il mondo politico e gli stati neghino questo principio perché la nostra politica è basata proprio su "il fine giustifica i mezzi".
I volti e il volto di Curcio mi hanno detto:
"Alex, ricordati di una cosa: oggi capisco che il cammino è la stessa cosa della meta. Ti ripeto, Alex, che ogni uomo è sacro; che nessun uomo può essere strumentalizzato o usato per qualcosa d'altro". Mi sembra questo un messaggio importante per noi che riflettiamo sull'oggi di questa storia.
Insieme con lui voglio portare davvero i volti dei poveri che ho incontrato nella baraccopoli di Korogocho. Sono vissuto, adesso per un anno e mezzo, nell'inferno. Centomila abitanti accatastati in un pezzettino di terra lungo tre chilometri, senza praticamente nulla, né servizi né altro. Ho voluto scendere con loro. Per me non c'è missione se non c'è discesa negli inferi, se non ci si fa carne con la gente, se non ci si incarna, se non si diventa uno di loro, Chiedevo il battesimo dei poveri, ho avuto molto di più. Ho avuto la comunione dei poveri. Sono stato battezzato da loro, ma proprio perché dal mattino alla sera non avevo più tempo per me. Non mi appartenevo più. Mi sono sentito per la prima volta nella mia vita mangiato dalla gente e ho fatto la vera comunione. Non quella che facciamo in chiesa che è segno, ma questa è la vera comunione con quel Cristo che davvero sono i poveri, gli ultimi: sacramento e volto dell'unico Cristo. L'appello che faccio a voi è questo: che questo sacramento del Cristo, che sono i poveri, diventi davvero il centro della nostra storia. Fin che ci sarà Korogocho, fin che ci sarà Mathari Valley Kihera a Nairobi, fin che ci saranno Soweto o Pechino, questo mondo viene a dirci che c'e' qualcosa di radicalmente sbagliato. E' sbagliato perché costruito su un sistema che necessariamente crea i Korogocho, i crocifissi della storia. E siamo qui per rimettere questo in discussione.
Per me è importante - in questi 500 anni che celebriamo oggi di ricordo - questa grande lezione: uscire dalla mentalità della conquista, uscire da questo modello unico di impero del denaro, come preferisco chiamarlo io; rimetterlo in discussione perché crea in Africa, in America Latina i grandi crocifissi della storia. Ma è altrettanto importante uscire da questo profondo pensiero che ci domina tutti: noi siamo la civiltà e la cultura! Dobbiamo uscire per capire che ogni uomo è grazia, nella sua differenza culturale e religiosa. E' lui il volto dell'unico Abbà, dell'unico Padre che abbiamo. O facciamo questo salto, nell'anniversario della conquista delle Americhe, o non abbiamo futuro.
E' l'invito grande che faccio a voi a spalancare il cuore alle dimensioni del mondo, ad accettare il fratello, l'altro. Pensate ai terzomondiali qui in Italia, agli emarginati in Europa, a come vivono e come li trattiamo. Pensiamo ai problemi della Jugoslavia, dei Baltici, del Terzo Mondo. O usciamo da questa logica di superiorità culturale e religiosa che abbiamo o davvero il mondo sarà fatto di guerre di religione, di crociate. E su questa strada non c'è futuro. Ecco la grande lezione che ributto a voi e che riporto dai crocifissi della storia: incominciamo 500 anni nuovi. II futuro che ci attende tocca a noi; ad ognuno di noi costruirlo.
Pellegrino sulle strade del mondo, ho portato con me nel cuore i volti e soprattutto ho trovato un attimo, momenti forti per pregare, per riflettere. I poveri mi hanno aiutato a questo. Io invito tutti voi: chi crede, a trovare momenti di preghiera, di contemplazione, anche da soli; chi non crede, andate in cima ad una montagna, andate dove volete... ma fermatevi, distanziatevi dalla realtà'. Trovate respiro. Tocca a voi costruire il mondo nuovo attraverso questo spazio, questo silenzio.
Mi appello alle famiglie: spaccate voi, marito e moglie, i muri che vi dividono. Parlate, costruitevi delle famiglie dove riuscite a dialogare; buttate dove volete quella televisione che non interessa niente, che vi rovina. Come famiglie, come gruppi di famiglie, assumete stili di vita semplice. lo non sto a dirvi che cosa; tocca a voi. Usate la vostra immaginazione, uscite dagli schemi. Se avrete meno, ve lo garantisco, sarete di più. (Io ho perso 20 kg. a Korogocho e non sono stato mai così bene e così contento!). Siate davvero comunità, famiglie aperte all'altro, al fratello. E' l'altra metà che vi manca. Aprite i vostri cuori, le vostre porte. A livello familiare, personale, sappiate coniugare Vangelo e economia, prima che Vangelo e politica. Oggi il potere è economico e non politico. La cosa più difficile oggi per noi credenti e non credenti, è di coniugare i valori in cui crediamo con le scelte economiche che facciamo; con i nostri conti in banca dove abbiamo i soldi, dove li investiamo. Questi sono i discorsi veri. Infine un invito soprattutto ai giovani, in chiave politica. Un invito alla progettualità politica. Dopo quattro anni, quando sono ripiombato qui, sono rimasto scioccato dal grigiore politico. Non si distingue più la destra dalla sinistra. Non si capisce più nulla. Inventatevi degli stili nuovi, sogniamo ad occhi aperti, ma sogniamo. Non credete a coloro che vi dicono che questo è l'unico mondo che abbiamo; tocca a noi inventarne uno un po' migliore dell'attuale.
Per finire alcune considerazioni che ho sentite giù nella baraccopoli. Ricordate le battaglie che portate avanti. Io sono rimasto veramente male di certe cose che ho visto in questo periodo e proprio in Africa. E sono a chiedere a voi: prima di tutto una inchiesta parlamentare sulla cooperazione. Dove sono andati a finire i 5000 miliardi stanziati ogni anno? Guardate che è uno scandalo e nessuno si domanda dove sono.
Secondo una inchiesta parlamentare sulla politica italiana con l'Etiopia. Guardate dove abbiamo portato l'Etiopia e l'Eritrea. Voi sapete che il Corno d'Africa è stato spartito tra i due partiti: la DC l'Etiopia e il PSI la Somalia. Io chiedo una inchiesta che faccia luce su quello che è accaduto in Etiopia con la DC e in Somalia, dove abbiamo pompato migliaia di miliardi per andare a finire in una tragedia colossale.
Questa gente sta pagando. Andando in Kenya, in questi giorni, ho visto i campi profughi etiopi e somali. Dio mio, non avete l'idea della tragedia che sta avvenendo. Per favore insistete e fate pressione. Per questo vi chiedo di continuare nel controllo dell'operato dei deputati.
Vi chiedo anche di continuare sul controllo delle armi. Guardate che l'Italia è' usata sempre più come testa di ponte in Medio Oriente. C'è una militarizzazione in atto assai grave.
Infine permettetemi un appello a nome di due paesi che prendo da tutto il Sud del mondo. Un appello prima di tutto per il Perù: è la nazione in America Latina che oggi sta pagando di più, dove la gente soffre di più. Guardate quello che potete fare. Per l'Africa un appello per il Sudan. Il Sudan è' oggi la nuova apartheid, in una situazione incredibile di sfacelo a tutti i livelli, dove la gente paga in modo incredibile. So che ci sono gruppi che stanno lavorando: sono due nazioni che vi raccomando. Infine un appello ad una Quaresima storica. Abbiamo fatto i 500 anni, abbiamo il coraggio nei nostri gruppi, nelle nostre chiese di chiedere, come Pedro Casaldaliga (vescovo del Brasile) un periodo quaresimale in cui riflettiamo sui nostri errori storici e siamo convocati alla penitenza dalla storia in cui riflettiamo?
Ecco il mio invito serio a questa Quaresima: che l'anno prossimo diventi un anno quaresimale di riflessione sulla storia. Infine la croce. I poveri di Korogocho mi hanno insegnato che non si cambia nulla se non la si paga sulla propria pelle. Ognuno di noi per cambiare qualsiasi cosa, deve pagare, e la croce è l'unico strumento per andare avanti. Chiedo a tutti voi la capacità di perdervi, di buttare la vostra vita per qualcosa davvero che vale. Cioè questo pagare quotidiano, questo pagare sulla nostra pelle, di persona. A voi tutti un grazie per i vostri volti, per il vostro sorriso; per la vostra preghiera, per voi credenti e per il vostro ricordo per chi non crede. Perché mi avete permesso in questi anni di camminare per l'inferno del Sud del mondo. E ho scoperto all'inferno che Dio c'è davvero. Esiste.
Alex Zanotelli
Verona, 22 settembre 1991
Gennaio 1991
Stanotte scenderò sulla fredda, umida spiaggia
Spingendo lo sguardo lassù, tra le stelle splendenti
Penserò ad un altro cielo dove brilleranno
Sfolgoranti e colorate, le luci della morte
Così luminose come i fuochi d'artificio
I razzi di carnevale che piacciono ai bimbi
Felici dentro i loro variopinti costumi
Con le piccole mani cariche di coriandoli
E con i grandi occhi sfavillanti per la gioia
Ma non vi sarà gioia negli occhi d'altri bambini
Quando gli stroboscopici colori della morte
Spegneranno per sempre i loro giovani sorrisi
Non saranno di cartapesta le maschere d'orrore
Dipinte sui loro volti da mani ignote.
Stanotte cercherò nel buio gelo del mio cuore
Un po' di pace in questo mare di disperazione
E mi domanderò se ci sarà un raggio di sole
Tra le oscure, soffocanti spire del terrore
Anche per quelle donne e quegli uomini lontani
Quando i grandi uccelli metallici della morte
Romperanno il profondo silenzio della notte
Coprendo col loro fragore le grida umane
Affinché non giungano fino alle vostre orecchie
Illustrissimi potenti padroni della Terra
Voi, che avete voluto decidere per tutti
Calpestando sentimenti e sogni e speranze!
Che vi arrogate il diritto di arbitrare
Le nostri sorti, sconvolgendo il nostro presente
Distruggendo violentemente il nostro futuro!
Voi, disonore del mondo e dell'umanità
Che invocando il nome di Dio lo bestemmiate
Ergendo voi stessi a dei onnipotenti
Superbi signori d'una giustizia solo vostra!
Ed io mi sento avvilita, sfinita, frustrata
Ed umiliata nella mia essenza umana
Sola, tra milioni di disperate solitudini
Di tristi, stupite, dolorose incredulità.
Una tra le mille domande della mia mente:
Ora, mentre le lacrime mi solcano il viso
In quanti avranno il volto rigato di sangue?
Marina
Ogni tanto rifletto sul problema di come amare il mio prossimo in modo concreto. Quanto è facile mandare soldi lontano quando succede qualche catastrofe, e quanto è difficile, invece, mettere una famiglia di albanesi nella seconda casa (vuota da anni) per un po' di tempo, o semplicemente mettersi a sedere di proposito accanto ad un extracomunitario sul pullman, e magari conversare con lui del più e del meno.
Inevitabilmente cerco di fermarmi qui, perché queste sono situazioni non frequenti e quindi il disagio morale che ci creano è di breve durata e facile da ignorare (e poi la seconda casa non ce l'ho!). Purtroppo però queste considerazioni a volte mi portano ad esaminare i rapporti che ho con i vicini - i colleghi, gli amici, i genitori, mio figlio e mio marito - e mi sembra che più si stringe il cerchio, più difficile diventa la questione. Ho l'impressione che siamo in tanti ad aver bisogno di riordinare le priorità e di rianalizzarle spesso; di imparare a mettere le persone prima delle cose.
La causa di queste riflessioni, questa volta, è stata lo spostamento di un tavolo! In casa mia il televisore è in salotto, un salotto non grandissimo che faceva anche da tinello fino a qualche settimana fa. Abbiamo deciso di provare a mettere un tavolo nella cucina che in passato abbiamo sempre ritenuto troppo piccola per questa soluzione e mangiare lì, per sfruttare diversamente la sala dove passiamo la maggior parte del tempo in casa. Nostro figlio ha due anni e mezzo e volevamo dargli più spazio per ballare, cadere e rompere cose varie. Quindi abbiamo effettuato questo cambiamento per motivi molto materiali. C'è stato anche qualche altro effetto materiale: si fa prima ad apparecchiare e sparecchiare; si sporca un'area più ristretta e quindi si fa prima a pulire; abbiamo un piano di lavoro in più, Ma siamo rimasti piacevolmente sorpresi da quanti effetti collaterali non materiali ci sono stati. Mangiare in uno spazio più intimo, diciamo, per non dire quasi claustrofobico, e SENZA TELEVISORE, ha avuto il risultato che ci guardiamo negli occhi, parliamo e giochiamo molto più di prima.
Tempo fa ho letto di una ricerca che indagava su come i figli percepiscono l'amore dei genitori. In questo studio c'erano dei ragazzi che non ritenevano affatto di essere amati anche se i genitori volevano loro bene. La ricerca tendeva a capire perché in certe famiglie i figli percepivano l'amore dei genitori ed in altre, no. Tutte le famiglie studiate erano "normali" nel senso che non erano presenti traumi come il divorzio, la violenza o la scomparsa di uno dei genitori, ecc. Erano tutte famiglie "stabili" dal punto di vista emotivo. Le conclusioni di questo studio erano che il tatto, il contatto visivo, l'attenzione concentrata sul soggetto avevano un 'influenza notevole. Non era questione solo di stare insieme ai figli, ma come starci. Lo vedo con mio figlio. Ci sono determinati momenti della giornata in cui non gli basta solo la mia presenza fisica. Per esempio, io sto pulendo i vetri, e lui sta costruendo una torre. Ad un certo punto vuole assolutamente o aiutarmi a pulire i vetri o che io costruisca la torre insieme a lui. Non essendo amante di attività casalinghe, opto quasi sempre per la torre. Certo, portare questo comportamento all'estremo, come faccio io, vuol dire finire così:
MARITO: "Mamma mia, come sono sporchi i vetri!"
IO: "Cosa preferisci, caro, che la casa sia pulita o che tuo figlio si senta amato?!" (Sapere di certe ricerche fa proprio comodo, a volte.)
Ma sto perdendo il filo. Volevo dire che anche noi grandi, sicuramente, percepiamo l'amore nello stesso modo dei bambini. Questo tipo di stare insieme qualitativo diventa più difficile poi man mano che i figli crescono. Molti di noi insegnano ai figli, con l'esempio, che esprimere l'amore attraverso i gesti, le coccole, le parole e l'attenzione focalizzata è appropriato solo quando il soggetto è un bambino. Va a finire che teniamo dentro che cosa significano per noi gli altri. e gli altri fanno la stessa cosa e poi ci chiediamo come mai la solitudine è il male del nostro secolo.
Se ci si pensa bene, come trattiamo gli altri, come ci si sta insieme, è una delle poche cose che siamo in grado di controllare in questa vita. Possiamo decidere di ascoltare con attenzione quando il marito parla delle soddisfazioni e delle frustrazioni della sua giornata, o possiamo leggere il giornale. Possiamo dire quanto ammiriamo un'amica per come ha affrontato una situazione difficile, o possiamo parlare delle previsioni del tempo. Possiamo tenere la mano di un genitore, seduto insieme a noi sul divano mentre guardiamo la TV, o possiamo resistere a quest'impulso. Possiamo. passeggiando di domenica, chiedere a nostra figlia adolescente quali sono le qualità che apprezza negli amici, o possiamo continuare a tenere la radio incollata all'orecchio. La scelta è nostra.
Io sono convinta che se riuscissimo a fare uno sforzo in questo senso, staremmo molto meglio. E poi sarebbe un piccolo passo verso un amore che tocca i membri più lontani del cerchio di cui parlavo prima, credo. "Amare il prossimo": tre paroline semplici che rappresentano una dura battaglia quotidiana per una realtà più cristiana, anche dentro i muri di casa. Forse se cominciamo un passo per volta, con i piccoli gesti, saremo sorpresi un domani da quanta strada abbiamo fatto.
Shevawn
Mi Dios es moreno...
Tiene las manos callosas
de tanto remover la tierra,
sembrar speranzas,
sepultar rencores y crear el mundo
Mi Dios tiene los labios hinchados,
la boca verde y la lengua adormencida
de tanto mascar la coca de mla angustia.
Mi Dios tiene el rostro rustico y aspero,
como los vasijas de greda o de barro,
hecha por los ninos en sus juegos.
Mi Dios tiene su choma de paja y adobes,
sin agua y sin luz.
Mi Dios noes causa de guerra.
Mi Dios moreno es vida y amor,
sin embargo, le matan y le odian.
Mi Dios moreno no dice nada,
solo pide perdon y agacha la cabeza.
Mi Dios moreno!...
Sendo Castillo
(Epinar - Cusco)
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455