LOTTA COME AMORE: LcA giugno 1991

Come tra cielo e terra

Siamo ormai alla metà del mese di giugno e stiamo ancora aspettando un po' di sole vero. La sensazione di un freddo ancora incollato alla pelle ci perseguita. Non sappiamo quanto queste anomalie atmosferiche influenzino la consapevolezza di vivere in un tempo deludente e difficile da interpretare insieme. Storia di un dopo guerra che sembra piuttosto l'inaugurazione di un epoca attraversata da terribile e cinica frenesia intorno a nuovi ed inquietanti equilibri di potere sulla terra.
Abbiamo creduto per un certo tempo, forse tutti gli anni '80, di poterei sottrarre agli effetti destabilizzanti dell'equilibrio del terrore nucleare tramite l'utilizzo intelligente dei beni di consumo, la razionalizzazione delle risorse personali, l'austerità intesa sia sul versante etico (e cioè come 'stile povero')che sul versante estetico (e cioè come 'stile di classe'). Gli anni '90 hanno fatto crollare anche questo muro. Ora tutto è molto di più allo scoperto e non consente di indugiare in territori apparentemente neutrali. Non è più possibile destreggiarsi in un mondo che vuole contarsi. Dove cioè appare sempre più decisivo sapere se si vuol essere del Nord o del Sud (ammesso che lo si possa scegliere) per erigere nuovi e più efficaci sistemi di difesa e di separazione.
Chi sono i nostri vecchi-nuovi padroni che stanno tirando le fila degli scenari che animano (si fa per dire...) la vita politica, economica, culturale delle nostre città, dei nostri paesi? Chi sono e cosa vogliono coloro che stanno guidando e incanalando processi così marcatamente deflagratori da rendere i paesi potenziali tremende polveriere? Appare difficile credere che un mondo in continua evoluzione, con spinte e controspinte tali da liberare energie di masse diseredate ribollenti ai confini del benessere, non abbia occhi assetati di potere pronti a cogliere ogni possibile interconnessione per dirigere la storia verso nuove-vecchie forme di schiavitù.
Non è possibile in questo nostro tempo contrastare i venti cupi e tesi del predominio con speranze accuratamente limate nelle attese e attestate su obiettivi di basso profilo. Il quotidiano non è il luogo del rasserenamento, il dolce sciabordare delle acque nel porticciolo del privato o del piccolo gruppo spontaneo. La tuta multicolore che indossiamo per rilassarci ci apparenta ad atleti famosi dal fisico eternamente giovane; il telefonino cellulare impone ritmi artificiosamente gonfiati alla produttività dei nostri rapporti personali... E' avamposto di lotta anche il 'personale'. Tutto sommato forse non credevamo che in così poco tempo potessero avverarsi tali e tante occupazioni del potere nei confronti degli spazi dove si pensava di poter essere 'diversi'.
Ci rendiamo conto che, se mai poteva essere così, oggi, ancor meno di ieri, è possibile pensare di delegare la propria presenza, il proprio atteggiamento, il proprio schieramento. Sappiamo di aver subìto pesanti espropriazioni su questo terreno, ma ormai, chi se ne rende veramente conto sa che non vale la pena attardarsi in isolette corporative quando è nel grande mare dei senza identità che siamo continuamente ributtati. Tanto vale prenderne atto e cercare di abituarsi alla compagnia perdendo anche gli ultimi vizi di una nobiltà decaduta che si crede separata per divina volontà dal destino del popolo. Occorre quindi cercare di prendere veramente sul serio ogni goccia della nostra vita perché può essere piccolo, fragile eppure importantissimo anello che ci collega ai grandi nodi del vivere umano in questo nostro tempo. Non possiamo tirarci indietro di fronte a questo impegno che non ci richiede altra conversione che quella di guardare con occhi nuovi al nostro stesso vissuto. E non perché sono nuove le cose che possiamo fare, ma perché nel nostro angusto e soffocato quotidiano possono splendere preziose perle, concrezioni sapienti e ricche di una misura umana che non è in se bella perché piccola, ma, al contrario, è bella perché capace di esprimere la novità di un sentire comune.
Il territorio infinitamente piccolo del nostro io può esser luogo di passaggio di moltitudini e gli elementi di condivisione così forti da farci scoprire con stupore quali aggregazioni stanno nascendo attraverso i grandi rivoluzionamenti politici ed economici di questa nostra era di crisi.
E' allora possibile allargare le braccia come in croce non per esprimere inappellabile resa di fronte al turbinio di avvenimenti, ma per cercare di stendere al massimo le dita raggiungendo altre dita, sfiorandole in una suprema tensione di incontro, come tra cielo e terra.

La Redazione

Un cappio per la stampa periodica

OGNI CITTADINO DEVE SAPERE
UN CAPPIO PER LA STAMPA PERIODICA
Spedire un periodico in abbonamento costa, dali gennaio 1991, il 600% in piu' di un anno fa'.
Centinaia e centinaia di medie e piccole testate spariranno mentre certamente andra' ad incrementarsi la tiratura dei periodici delle grandi concentrazioni che non vengono spediti per posta ma distribuiti autonomamente, con i larghi mezzi di cui dispongono i trust, quelli cioe' nei cui confronti, a chiacchiere, il potere politico afferma la necessita' di urgenti misure di contenimento, a salvaguardia del pluralismo. della liberta' di stampa, della democrazia. Dal l luglio 1991 e' oprevisto nei piani ministeriali. un ulteriore raddoppio, per cui si passera' al 900% di aumento.
Il "cappio" al collo della stampa periodica si continua a stringere sempre piu': il pluralismo informativo e culturale e' destinato, sia pure con un sistema apparentemente morbido e graduale ma ne Ila sostanza brutale, a scomparire; giornali e giornalisti italiani sono ormai ineluttabilmente a passare sotto il controllo del "Grande Fratello".
A CURA DELL'UNIONE STAMPA PERIODICA ITALIANA

La posta di fratel Arturo

Cari amici d'Italia,
prima di tutto, come lucchese, voglio unirmi ai giubili dei miei concittadini per la nomina di monsignor Bruno Tommasi a nostro Arcivescovo. A parte l'affetto che sento per il nuovo Arcivescovo (la mia gioia è motivata dal fatto che penso sia più facile che si realizzi il desiderio dello Spirito Santo espresso nelle parole del Vaticano II: "I vescovi abbiano i presbiteri come fratelli e amici" (P.O.1264). Se ben ricordo, Antonio Rosmini nel libro scomunicato e poi assolto solennemente, metteva in evidenza la difficoltà di arrivare ad una relazione di amore e di amicizia con un pastore sconosciuto, che viene da altra esperienza. Così la gioia di noi lucchesi è piena. Ora sta a noi, a voi che vivete quotidianamente questa relazione, di non incrinarla con le nostre contraddizioni psicologiche e spirituali.
La ultima esperienza che mi ha riempito di gioia è stata un viaggio nel vicino Paraguay per un incontro con giovani contadini. Durante l'incontro si affacciava continuamente alla memoria il ricordo, davvero lontano, dei nostri ritiri ad Arliano. Per i lucchesi questo nome è familiare. Arliano nei tempi della mia giovinezza era una di quelle vecchie ville abbastanza decorosa di aspetto, priva di un minimo di comfort di cui oggi facciamo difficilmente a meno. Non solo ci morivamo di freddo, vivevamo in una strettezza da veri poveri. In quel tempo l'azione cattolica giovanile reclutava giovani contadini o della classe popolare, con poche eccezioni di studenti liceali o di istituti superiori. La massa giovanile militava nelle organizzazioni fasciste. Si poteva contare su risorse veramente magre e quindi i nostri pasti dovevano essere più che monastici (parlo dei monaci del medioevo). Eppure quei ritiri nella povertà mi hanno accompagnato sempre e mi hanno trasmesso un gusto evangelico che ho risentito in questo incontro con i giovani paraguaiani. Finalmente un ritiro dove si mangia poco e male, dove mancano cose ritenute essenziali, ma dove vi sentite coinvolti in un clima di interesse, di entusiasmo e di gioia; parlo naturalmente di interesse per il messaggio. Per uno sketch preparato dall'inesauribile umorismo dello Spirito Santo, sono capitato poco dopo in una lussuosa casa di "spiritualità'" durante un ritiro super borghese. Sono passato per la cucina; dichiaro che non ci sono andato espressamente. Una vera folla di persone era lì convocata ad escogitare il menù e a preparare il pranzo per i contemplanti. Mi hanno detto che questa regia fa parte del programma di questi incontri spirituali. Evito ogni commento; voglio solo farvi partecipare la immensa dolcezza che mi ha lasciato l'incontro del Paraguay e il vero disgusto dell'altro. Forse perché vi arrivavo da una favela.
Vi racconto queste esperienze per introdurre una notizia per me buona. Verso la metà giugno pensiamo sia pronta una casa per ospiti a dodici metri dalla casa che abito. La casa può ospitare da otto a dieci persone. Non la penso come una casa di spiritualità. Ce ne sono troppe e non ci ho trovato felicità. Vorrei che le persone che frequentano questa casa fossero piuttosto dei cercatori di Dio che dei cercatori di metodi e di regole. Mi veniva in mente - e non prendetemi in giro per la sproporzione - un passaggio della lettera ai Galati:"a me (Paolo) è stato affidato il vangelo dei non Giudei, come a Pietro quello dei Giudei" (Gal. 2,7). Il testo greco è più esplicito: a me il prepuzio e a Pietro la circoncisione. Una ventina d'anni fa proporre a degli italiani di passare un tempo di ricerca della propria identità e della ragione di vivere in Brasile poteva sembrare una presa in giro, oggi no. E lasciate che indulga a un resto di nazionalismo: mi piacerebbe inaugurare la casa con gruppo di italiani, anche perché italiani hanno contribuito alla costruzione. Io non sarò qui dal 5 agosto al 5 novembre. Ma la mia presenza non è così necessaria; lo Spirito Santo resta.
Vi saluto con molto affetto.
Vostro fratello

Arturo

Una scuola per la Pace

In questi mesi travagliati dal dopo guerra del Golfo, dalle sue amare conseguenze per il popolo Kurdo e per tutta la popolazione dell'Irak, dal protrarsi della situazione di guerra quotidiana fra israeliani e palestinesi, dalle vicende somale, etiopiche... è venuta maturando l'idea di costituire in Versilia una "scuola popolare per la pace" come strumento permanente che aiuti ad approfondire i problemi legati alla convivenza umana costruita sulle ragioni del dialogo, della comprensione, della giustizia e non su quelle della forza e del potere. Questo progetto è appena agli inizi e la speranza alimenta il desiderio che sia possibile realizzarlo insieme a tante persone della nostra città e "dintorni": mi sembra un progetto che cammina sulla linea di quella Lotta come Amore che è sempre stato il filo rosso di tanti ideali, sogni, utopie, piccole ma significative realizzazioni.
Per questo vorrei condividere con gli amici qualche pensiero intorno a questo piccolo progetto, perché pensare ad una scuola per la pace mi sembra cosa interessante e nello stesso tempo può accendere qua o là la fantasia per dei suggerimenti, illuminazioni, idee, intuizioni... La parola "scuola" in questo progetto assume un significato molto largo, poiché vorrebbe esprimere il tentativo e la possibilità offerta a più gente possibile di leggere i fatti, i problemi, le ricerche del presente, in una luce di seria conoscenza, comprensione culturale, accoglienza che abbia la caratteristica di essere profondamente "umana". Per abbattere i muri di ogni genere che inevitabilmente producono e rafforzano le ragioni della guerra è senza dubbio importante conoscere più in profondità la realtà umana,economica, politica che ci circonda. Una maggiore conoscenza reciproca, a tutti i livelli, può aiutare a scoprire che in definitiva è della pace che tutti abbiamo bisogno e che solo la pace, intesa come totale capacità di accoglienza, di integrazione, di rispetto della diversità, di sforzo verso una "unità" più grande, è la vera condizione di una piena umanità: mi è rimasta nel cuore una frase molto "vera" di Sirio che esprime intensamente questo pensiero: "Non c'è umanità se non c'è pace".
Lo strumento della scuola per la pace vorrebbe tentare di mettere in movimento una serie di energie sul piano della conoscenza e sul piano dello scambio delle idee, del dialogo, dell'incontro fra la gente che vive in uno stesso territorio per riuscire a non lasciarsi ingabbiare in quella logica di massa che può portare a dare il proprio consenso a ciò che in realtà è totalmente falso, ingiusto, assurdo, inutile e disastroso.
Un esempio per me molto significativo è il discorso che ormai si va facendo con disinvoltura sulla necessità di un "esercito professionale" al posto dell' ormai logoro esercito di leva. Dal punto di vista di una politica di pace, di rapporti tra i popoli basati sul reciproco rispetto e sulla fraterna solidarietà, sullo scambio delle culture e delle loro risorse. questo progetto di un esercito di professionisti bene addestrati ed armati, pronti e disposti senza dubbi morali ad intervenire là dove venga loro ordinato perché quello è il loro "mestiere" (così si è espresso tranquillamente il comandante italiano dei Tornado) è una scelta che non può che aumentare lo spirito di guerra e un atteggiamento generale di dominio del più forte.
Guardare sinceramente alle ragioni della pace, ad un modello di rapporti quotidiani, nazionali, internazionali, che vadano nel senso dell'incontro, dello scambio, del "mutuo soccorso", non può che fare sognare ad un popolo senza esercito, senza armi, senza strutture legalizzate ad esportare la morte e la distruzione in nome del diritto e della democrazia, della libertà e addirittura della pace. Questa utopia di un popolo "disarmato" militarmente credo meriti di essere costruita attraverso strumenti di vario genere; uno di questi potrebbe essere questa scuola per la pace che diventi lo spazio culturale in senso più ampio possibile ("popolare") in cui poter scoprire che la guerra fra i popoli è una delle più grandi assurdità della storia umana e non una necessità storica. In tutti i tempi la guerra ha rappresentato una tragedia senza fine, non ha risolto i problemi per cui era stata voluta e comunque ha sempre richiesto un prezzo che solo una "cultura folle" può ritenere giusto e doveroso. Questo tipo di cultura della guerra come "necessaria, giusta e doverosa" è realtà molto attuale: la sua ultima manifestazione si è avuta con il rientro dei soldati americani dal Golfo accolti come eroi e difensori della democrazia e del diritto violato.
Può essere allora apprezzabile e da sostenere con tenacia e decisione questo tentativo di progettare uno strumento che faccia crescere una cultura di pace, di conoscenza dei problemi reali che fondano i rapporti tra i popoli, di presa di coscienza di quanto il nostro modo di vivere, la nostra economia, il nostro spreco, il consumo dei beni della terra da parte di noi "nordisti" sia in stretta rela-zione e debba fare i conti con la situazione di povertà, di sfruttamento dei paesi del sud del mondo. Se questa presa di coscienza è sincera e senza preconcetti, può certamente contribuire a preparare un terreno di incontro e non di contrapposizione: essa può aiutarci a scoprire che il "nemico" non va cercato "fuori" ma "dentro" le maglie intricate del sistema sociale in cui tutti siamo compromessi a diversi livelli. Si tratta senza dubbio di uno sforzo collettivo di liberazione da un sistema di vita che ci costringe a star bene nel senso materiale e di quantità) sulla pelle milioni di uomini sottomessi all'impoverimento e alla sudditanza politica. Forse la scuola per la pace potrebbe venirci in aiuto nella scoperta più chiara e documentata di quanto il "nemico" da battere e sconfiggere (per usare termini della cultura militare) non vada tolto di mezzo con armi ancora più precise, chirurgiche e tecnicamente più avanzate, ma cambiando i rapporti sociali, il sistema economico, il modo di procurarci le materie prime, le relazioni commerciali, una "diminuzione generale dei bisogni" - come insegnava il mahatma Gandhi e molto prima di lui il Signore Gesù - piuttosto che uno stile vita basato sull' accumulo e sul consumo sen misura. Il nemico da battere e' senza dubbio il modello di sfruttamento capitalistico, il sistema militare, la cultura della forza e della potenza, l'assoluto dominio del denaro e de finanza. C'è una grande "scuola" che prepara ed alimenta questo tipo di cultura e sorregge efficacemente questa costruzione sociale e storica: questa scuola produce guerra a tutti i livelli, sia sul piano dell'esistenza quotidiana sia nei grandi rapporti internazionali.
Non sono così ingenuo da pensare che la futura, sperata, desiderata "scuola per la pace" della Versilia possa riuscire ad arrestare la crescita di un modello di vita e pensiero che innesca meccanismi di potere economico e politico capaci di un "dominio a dimensioni mondiali": essa può essere vista come la piccola pietra nascosta nella fionda del giovane pastore David, oppure come seme della quercia robusta che germoglia lentamente affondando le radici dentro buona terra. Oppure, anche come il "lievito" di memoria evangelica che ha l'energia capace di fermentare una grande massa di farina: è dalla sua segreta ed invisibile potenza che ne verrà del buon pane. La scuola per la pace dovrebbe appartenere a quel genere di cose che aiutano a riprendere coraggio, a riaccendere speranze, a dilatare orizzonti, a far scoprire nuove possibilità di rapporti e di progetti concreti. In un dizionario che si rispetti, l'espressione "scuola per la pace" dovrebbe trovarsi fra i diversi significati di parole come". "lotta", "resistenza", "utopia", "futuro": essa nasce sicuramente dalla stessa sorgente da cui è scaturita la vita. Se la guerra rappresenta in così larga parte il passato recente e lontano della storia umana, non c'è che la pace - nella sua pienezza e profondità - a dare Speranza per il presente e il futuro.

don Beppe

Ho capito di capir sempre meno

Avevo in mente di comunicare attraverso queste pagine qualche riflessione sulla mia permanenza in Etiopia. Durante questi ultimi cinque anni mi sono fermato diverse volte per alcuni mesi in una missione cattolica circa 200 km. a sud di Addis Abeba. Mio compito era aiutare l'inizio di una piccola attività di carpenteria in ferro nell'ambito di laboratori scuola all'interno di una piccola "citta' dei ragazzi" orfani o comunque appartenenti a famiglie povere. Scrissi qualcosa all'inizio, dopo la mia prima esperienza.
Poi più nulla. E mi riusciva anche sempre più difficile di parlarne con quanti mi chiedevano cosa stessi facendo. Mi sono reso conto sempre più di capire sempre meno. E non era questa la ragionata sensazione di chi si dispone con umiltà a raccogliere i dati di un problema più vasto e complesso di quanto all'inizio fosse stato dato di vedere. Era ed è piuttosto una sorta di confusione e di stordimento.
La sensazione di non dover comprendere perché ciò che mi interessava in fondo era essere compreso e più propriamente e fisicamente preso in mezzo.
Intuivo che questo sempre meno mi dava la possibilità di gestire la mia identità e che venivo usato da destra e da sinistra, ma sapevo anche con lucida certezza che questo mi interessava assai poco. Perché, per un processo a me misterioso, avvertivo più chiaramente un'identità che scopriva me a me stesso. E innocentemente. Oltre ogni utilizzazione.
Perché forse tutto questo mio pellegrinaggio tra Viareggio e Assella non è stato altro che un semplice lasciarmi amare fino a riuscire anche ad amare. Oltre qualcosa e qualcuno. Oltre la terra immensa e bellissima. Oltre le persone ognuna con il fascino della propria storia e della propria individualità.
Capisco che tutto questo può essere solo banalissimo sentimentalismo, ma non riesco a darmi altra spiegazione e non so, sinceramente, se davvero mi interessa tentare di farlo.
Mi è capitato quasi per caso, sotto il naso, questa lettera di Arturo Paoli pubblicata sul mensile missionario "Nigrizia". Mi è parso, questo suo scritto, così vicino a quello che tentavo di esprimere, anche se con parole e attraverso esperienze sicuramente assai più fragili delle sue. Così riporto (su Lotta come Amore,) le parole di Arturo ponendo alla vostra attenzione soprattutto quelle che sottolineano un'autentica soggettività del popolo nella accoglienza. Una soggettività spesso negata nei fatti, oltre le buone intenzioni. Riconoscere agli altri, nella loro spesso disorientante diversità, il diritto a manifestare fiducia e stima e desiderio di incontro, ad aprirci la porta perché si possa entrare in un mondo che non è il nostro, è ancora punto di partenza nell'incontro tra il sud e il nord a qualsiasi livello. Anche e soprattutto al livello della mia sciocca presunzione di aver fatto con un pugno ragazzotti etiopici qualcosa di buono.

Luigi

Il rischio di amare il popolo

Mi interessa molto l'affettività dei missionari, siano essi religiosi o laici, perché vivendo nei quartieri poveri dell'America latina, vedo che qui l'affetto è un diritto genericamente negato.
Sommerso com'è dalle numerose proposte di aiuti che gli giungono, il popolo sa distinguere chi veramente lo ama da chi soltanto dice di amarlo. Di recente, parlando ai membri di un organismo di assistenza ai paesi poveri, ho manifestato questa convinzione. Mi hanno risposto che, in questo campo, il popolo potrebbe anche illudersi di capire, come accade quando gli tocca di scegliere i candidati politici. Ho difeso con tutte le mie forze la capacità discrezionale dei latino americani, che considero infallibile in questo aspetto: se fosse loro negata anche questa facoltà, sarebbero veramente le creature più sprovvedute della terra.
Il vero guaio per questo povero popolo è un altro: quando un agente pastorale o un missionario giunge ad amarlo in profondità, viene immancabilmente rimosso e invitato a partecipare ad un corso di specializzazione in un'università o ad andare a dirigere un collegio, aperto da poco, alla periferia di una città dell'Europa orientale. Altre volte, più brutalmente - ed è questo lo stile che si va instaurando -, viene privato, di punto in bianco, del suo incarico e allontanato dal luogo di lavoro. Naturalmente non si tratta di porre termine a comportamenti o relazioni 'affettive' che possono suscitare scandalo, quanto piuttosto di togliere di mezzo una persona scomoda ai potenti perché troppo 'amante' del popolo.
Ripeto: il popolo sa discernere chi ama e chi non lo ama. Dirò di più: credo che abbia ricevuto da Gesù l'incarico di rendere umana la 'missione' dell'apostolo e di dare un volto più 'amichevole' all'intero processo di evangelizzazione. Nel capitolo decimo del vangelo di Luca è infatti descritta la parte riservata al popolo nell'attività apostolica dell'inviato di Cristo: è il popolo che apre sua casa al discepolo per offrirgli un posto a tavola; è ancora il popolo che accoglie il missionario di Gesù e se lo fa amico, dedicandogli tutto il tempo necessario. Si verifica così quella reciproca fecondazione tra vangelo e cultura di cui parla il Vaticano II.
Il popolo non è passivo, ma ricopre una funzione importante nella formazione dell'affettività del 'missionario': consente all'inviato di Cristo di entrare in un'atmosfera di amicizia in cui potrà offrire una 'notizia buona', e non dare ordini. Se affermo, pertanto, che l'affettività è una componente essenziale di tutte le nostre attività evangelizzatrici e deve trovare tutti i canali liberi per potersi espandere, non dico nulla di nuovo.
Le comunità di base mi hanno offerto una verifica costante della verità espressa nel capitolo decimo di Luca sulla missione. Nel discorso che Gesù fa ai settantadue discepoli c'è l'indicazione del 'rimanere', necessario all'amicizia e contrapposto al passaggio frettoloso del dottore della legge che ha molte cose da fare e se la sbriga il più in fretta possibile, rischiando però di 'passare oltre', scansando l'uomo nel bisogno. E c'è anche l'idea di un popolo che non è solo 'oggetto di evangelizzazione' , ma autentico agente della costruzione del Regno: è il popolo che accoglie, che riceve, che dà ospitalità, che offre da mangiare, e che sperimenta così la gioia di uscire dalla categoria dei miserabili che attendono solo e sempre dagli altri. Fortissima è pure la sottolineatura data alla povertà dell'evangelizzatore: "Non portate né borsa, né sacco, né sandali". Chiara, infine, la 'linea politica': "Quando entrerete in una casa, dite subito a quelli che vi abitano: Pace a voi!". Gesù non lascia dubbi: è solo dando che si riceve. In questo spirito, anche la formazione affettiva dell'inviato avviene come processo normale e spontaneo di una relazione d'amicizia: il missionario, prima ancora di essere un maestro, deve essere un amico.
Ma quanti missionari scontenti e delusi ho incontrato nella mia vita! Se uno è partito da una profonda esperienza personale di Cristo - e non da un programma steso da altri, per scaltri e previdenti che siano - arrivato alla fine della sua vita, potrà anche dire a chi l'ha invitato a seguirlo che non è stato facile, e forse anche 'rimproverarlo' amichevolmente - come fece Teresa d'Avila - per avergli riservato fatiche e dolori, ma non dovrebbe mai - assolutamente mai - sentirsi frustrato.
Un giorno ho incontrato una giovane suora. Proveniva da una famiglia di contadini e serbava ancora vivo nel cuore il ricordo del padre che aveva dovuto lottare tenacemente per allevare sette figli. Il convento in c viveva era un'antica villa con una lussuosa piscina cui si accede da un imponente scalone di marmo. Una giovane donna come questa che ha dovuto compiere un così radicale passaggio tra due stridenti stili di vita, dimostrerà di essere una persona normale soltanto se manifesterà degli scompensi psichici. In caso contrario, se cioè accetta tranquillamente questo cambio di vita e di ambiente, se dà per scontato il fatto che diventare religiose comporta l'uscire dalla baracca per entrare in villa, allora vuol dire che la sua affettività è già compromessa: prima o poi colerà a picco. Potrà diventare un'ottima professoressa di un collegio per figli di borghesi o una valida infermiera in una clinica privata a pagamento e produrrà reddito per la congregazione, ma sarà incapace di donare amore. La crisi però è sempre in agguato.
Penso che lo Spirito veglia sempre su ciascuno di noi e, in un modo o nell'altro, sa cogliere l'occasione buona per riaprirci all'amicizia col popolo. Ma intanto la gente comune continua ad essere defraudata del sacrosanto diritto di essere amata.

Arturo Paoli
(da "Nigrizia", maggio 1991, p.43)

Gli scritti di Sirio

Ricordo che, durante i primi giorni della guerra del golfo, amici di diversa provenienza parlando dello sgomento di quei tristi giorni mi abbiano comunicato lo stesso pensiero: "questo a Sirio è stato risparmiato". A significare - credo io - la misura di una amarezza che colpiva corde insondabili dell'animo umano e che nella delicata sensibilità di Sirio avrebbe operato una vera e propria tortura.
Ma credo anche che c'era nell'animo di tanti amici una viva e struggente nostalgia nei confronti un uomo molto amato per la sua capacità di farsi voce collettiva nei momenti importanti, di sapere dire in circostanze gravi e decisive ciò che molti non riuscivano a dire neppure a se stessi.
E scuotere il capo piangendo la miseria del tempo presente (ma chi può mai sapere come il cielo ama e piange la terra?) era come riaprire la ferita di una presenza che deve ora nascondere la troppa luce e la troppa verità per i nostri occhi abituati alla penombra di questa nostra carne. .
Preparando questo numero di Lotta come Amore, venivo raccogliendo un poco per volta vari scritti di Sirio in ordine alla raccolta da ordinare presso l'Istituto Storico della Resistenza e Storia Contemporanea di Lucca. Ne parlammo nell'ultimo numero del 1990 e, anche tramite amici che ci hanno scritto, stiamo lavorando a questo progetto di raccolta degli scritti di Sirio, non solo per una documentazione storica, ma per continuare a rendere viva tutta una fatica e una ricerca che non ha età né luogo particolare che non sia l'umanità intera e la terra tutta.
Così mi è capitato di leggere un articolo pubblicato sulla rivista "La prora" dell'amica Grazia Maggi. E vi ho letto la sofferenza di Sirio di fronte al chiudersi dei cieli e delle speranze storiche. La data dell'articolo la metto in fondo così che anche voi possiate misurare l'effetto delle sue parole e la sua "attualità''.
C'e' molto pessimismo nelle parole di Sirio, o meglio, la sua nota radicalità. E sono parole che sono sicuro di avergliele sentite dire più o meno in altre occasioni. Se si parla di sofferenza, credo anch'io che Sirio avrebbe terribilmente sofferto se fosse stato con noi quella notte in cui, tornando da un consiglio comunale aperto terminato in un modo a dir poco osceno proprio perché sulla pace e sull'ultimatum, accendemmo meccanicamente la TV e vedemmo la guerra.
Ma non mi sembra questo il punto.
Credo che dovremmo ricordare quanto e come anche il pessimismo più feroce non costituisse per lui un freno alla ricerca di qualcosa da fare per tradurre in un vissuto, mai limitato alla testimonianza personale, le aspirazioni di dignità e di umanità che gli gridavano dentro.
E la nostalgia di Sirio è tutta per questa sua capacità di veder nero (e quanto nero a volte) e nello stesso tempo amare con lucida passione la stessa umanità, la stessa vita.
Amare e quindi oltrepassare sempre la soglia del giudizio fine a se stesso per ritrovare energie di opposizione e di proposizione.
La sua pagina che riportiamo è lontana nel tempo, addirittura come di un altro tempo, eppure letta per contrasto alla luce della sua vita, può aiutarci a ritrovare speranza e cioè inguaribile energia e desiderio di autentica condizione umana.

L'ora attuale

Penso e sento l'umanità come una immensa folla in cammino. E' un andare avanti senza soste, senza riposi. Il tempo è una spinta irresistibile. La storia costringe ad un avanzamento incessante. E a volte si ha l'impressione d'essere poveri pezzi di legno portati via da una corrente vorticosa, travolgente, di una fiumana sterminata. Foglie in balia di un vento impetuoso, spietato.
E' difficile fare una sosta, ottenere una pausa di calma serenità. Non ne abbiamo più il tempo noi perché ci è ormai quasi impossibile concederci la libertà di prendere del tempo per impiegarlo nel fare una sosta, una pausa, cioè per vivere un momento di silenzio, un abbandonarci alla pace, un'esperienza di contemplazione, una seria profondità di preghiera. Ma nemmeno le cose, i doveri, gli impegni, le urgenze, l'ingranaggio spietato della vita dal quale siamo mangiati ogni giorno, ci concede il tempo di fare una sosta, ci permette il tempo di un riposo tranquillo, ci consente di guardare dentro di noi con calma e di dare un'occhiata intorno per approfondire una vera conoscenza e realizzare un onesto e serio adeguamento.
Dare un giudizio ad un periodo storico passato (o anche semplicemente ad una vicenda della nostra vita trascorsa) è sicuramente più facile che dare un giudizio sul momento che passa, sull'ora attuale. Qui tutto è in movimento, in agitazione, in un farsi precipitoso e urgente e si ha l'impressione che la materia ci sfugga continuamente di mano, come ad uno scultore che tentasse di fare statue col fumo.
Perché l'ora attuale è di una fluidità impressionante. E' acqua di torrente, improvvisa violenta e dopo poco sono secche di sabbia riarsa e di ciottoli bianchi. E' come il tempo di marzo fatto di squarci di azzurro prepotente, bellissimo e subito dopo di nuvoloni neri, minacciosi di tempesta. Viviamo un periodo di storia terribilmente provvisorio. Sembra che andiamo rimediando una storia fatta di giorno in giorno. Assolutamente senza sicurezze, senza programmi.
La vita umana sempre più è tutta nella speranza. Ma disgraziatamente non una speranza serena e gioiosa determinata da premesse concrete e sicure, ma una speranza fatta di fatalismo, di occhi bendati, di abbandono irrazionale, non soltanto per un non sapere ma anche e specialmente per un non Amore, cioè una speranza senza consenso, senza scelta. E l'inevitabilità è davvero un'immensa tristezza.
Il nostro mondo attuale è troppo privo ormai di possibilità di iniziativa personale. Siamo dei costretti. La posizione attuale è quella di subire. E ne viene una passività che non è rassegnazione, ma piuttosto resa incondizionata. Perché è vero che abbiamo alzato le mani ad una resa incondizionata.
Chi è che non prova, suadente e allettante, la tentazione dell'adattarsi, dell'abbandonarsi alla corrente, del lasciare andare le cose come vogliono andare?
A volte si ha l' impressione tanto dolorosa, sgomentante, d'essere tutti stanchi. Gente che ha sperato seriamente, ha creduto dal più profondo, ha sognato con entusiasmi ardenti e poi si è afflosciata, ripiegata e raggomitolata in se stessa con dei vuoti immensi di stanchezza, di delusione.
E la risoluzione è chiara, sempre più diventa scoperta, evidente: sta affermandosi sempre più un individualismo sconcertante. S'impone quasi come l'unico modo di concretezza, di realtà d'esistenza. Sta convincendo come unica possibilità di salvezza.
L'ora attuale è un'ora di povertà impressionante di stima vicendevole, di fiducia nelle istituzioni, di speranza nel valore umanità. Siamo sempre più dei frammenti di umanità, E ci stiamo contentando della compiutezza d'immagine umana che riusciamo a mettere insieme ciascuno per conto proprio, aiutandoci con le nostre risorse fatte di chiusure culturali, di grettezze di cuore, di egoismi sociali, di formalismi religiosi.
Sento così l'ora attuale. E vi vedo come riflessa in uno specchio l'immagine del mondo... e gli esempi potrebbero continuare fino al numero corrispondente a tutta l'umanità perché ognuno è e soffre un dramma, indicazione fedele del gran dramma che travaglia il mondo del nostro tempo. Perché ormai tutto è a misure universali, cosmiche.
Non so. Penso che in questo nostro tempo ci sarebbe bisogno di santi, di uomini luce, di uomini totali, di uomini di Dio. Ma non so nemmeno immaginarli in questo nostro mondo attuale. Non so come farebbero ad essere santi: uomini attraverso i quali Dio incide di un suo segno la storia. Perché mi sembra che il nostro tempo è spaventosamente capace di cancellare tutto, come il vento le orme lasciate sulla sabbia del deserto...

Sirio Politi
da "La Prora", aprile 1965

Il sogno (S. Roque)

come esperienza pastorale nella parrocchia di S.Roque
Un libro che raccoglie i fax scritti da un nostro caro amico preteoperaio, Cesare Sommariva durante la sua permanenza in El Salvador, e di cui pubblichiamo l'inizio e la fine con l'intermezzo di brani tratti dall'introduzione che è poi un fax a Cesare di Gianni Tognoni.
E' ancora un continuare a tessere vita con fili di variopinto colore...
5 aprile 1990
l) Su di me
Non so
Questa è la prima cosa che mi viene in mente pensando a questo andare in El Salvador. Ho cercato di fare quanto sapevo fare.
Sistemare il più possibile le cose qui, consegnare le cose definite, aprire le braccia per le altre. Ho chiesto consiglio a chiunque potesse dirmi qualcosa.
Però la mia mente rimane vuota lo stesso.
So che è un nostro nuovo fronte.
So che alla mia età non sarò molto diverso da quello che sono qui.
So tutte le cose che ho già scritto nelle lettere passate e che riscriverei tali e quali.
E poi tutto mi appare "vuoto": è come se avessi tagliato il ponte dietro di me e non sapessi cosa c'è davanti.
Cercherò' di tenere qualche collegamento con ciascuno di voi.
Vi ringrazio di quella unità profonda che ho sentito nelle parole e negli aiuti.
..
Queste lettere sono scritte da un buco del mondo. Uno di quei buchi neri dove esiste la rappresentazione di tutto quello che è l'altra realtà, Sappiamo, da sempre che questi buchi neri esistono. Sono infiniti; al di là delle immagini che li fotografano e descrivono, sono indecifrabili non tanto perché non si sia in grado di farne analisi, o di saperne le cause, ma perché la loro esistenza minaccia il senso della nostra, e allora li si lascia là, all'esterno. Quando da uno di questi buchi arrivano lettere, uno e' costretto a guardarci dentro: il lavoro di deciframento può iniziare. Alla ricerca di che cosa? \
C'e' una costante che ricorre lungo tutta questa corrispondenza dal buo nero che racconta la parabola della realtà altra: un continuo tentare di difendersi, razionalizzare, argomentare, riorganizzare il pensiero: perché la grande, strana, incontenibile sorpresa del buco nero è la "retorica" della vita (e del suo grande nemico, la paura e la morte) che scoppia da tutte le parti e costringe a lasciarsi andare. L'uomo-non-so aveva promesso di non lasciarsene prendere. Poi ne è invaso, ripetutamente, difesa dopo difesa: fino ad accorgersi che la vera interpretazione della vita è la "materialità" di questa vita.
Nei buchi neri - come là, nel territorio reale dove si svolge la storia, sotto il ponte irreale dove un trenino improbabile passa ogni tanto, altissimo sopra il fiume-fogna, e c'è sempre paura il passare - si può ,forse si deve, anzitutto "sprofondare". Certo, non è un verbo della lucidità, né che promette di produrre chiavi di lettura ordinate come teoremi, o capaci di tracciare linee di coerenza tra quello che si vive e quello che si interpreta. Verbo ambiguo, dà il senso della non misurabilità del tempo e dello spazio in cui si vive. A meno che...
Se l'ambiguità è cercata-vissuta come un teorema, o un modo di barcamenarsi, non se ne può trarre molto. Quando si ha la stranezza di lasciarsi sprofondare, guardando con curiosità - paura delle proprie difese che fanno acqua, lasciandosi prendere dalla nostalgia proprio mentre le opere crescono con una efficienza febbrile (eccessiva ma necessaria, per se, per la gente, per una geometria di metodo, per logica di presenza-assistenza), l'ambiguità può avere significati diversi: innamoramento, sogno, conversione, scelta istintivamente strategica.
E' bene? E' male? Ha senso chiederselo,pretendendo sul serio una risposta? O pretendendola mentre si vive l'esperienza dell'innamoramento, e della sua onnipotenza che è anche totalmente cosciente della propria fragilità ? E' per questo che le lettere ambigue d'amore dal cuore dei buchi neri hanno bisogno di destinatari in ascolto a tempo pieno, che non si stupiscano, che si lascino coinvolgere, che permettano di "dire": così che si abbia il tempo per lasciare sedimentare, rileggere, guardare avanti e intorno. Ritorna il paradigma Nord-Sud: il Sud sprofonda, senza potersi lasciar andare, perché non c'e' nessun amico strano che fuori dal buco nero raccolga, a tempo pieno, al di là dei rumori di fondo, il motivo-grido di vita, per un tempo sufficientemente lungo da permettere di dire, sedimentare, capire che là, nel buco nero, il protagonista possibile, nonostante tutto, è l'innamoramento della vita.

2 marzo 1991
Conclusione della vicenda.
A Madrid debbo attendere undici ore. Ne approfitto per andare sotto il monumento a Colombo e lì sotto ripensare a tutta la vicenda per trarne alcune conclusioni.
Un tiepido sole - molto differente dal tropicale - mi permette il primo distacco riflessivo da là. E voglio scrivere, prima che l'impatto con lì renda tiepido anche il ricordo, il cuore, la mente. E scrivo, così che possa confrontare con almeno alcuni di voi alcune conclusioni riassuntive.
Sento che il confronto è molto importante, perché mi permetterà di vedere quali sono le cose che il "sole caliente" di là ha esageratamente illuminato e riscaldato.
1) Ho una sensazione chiara che prevale su tutte. Le parole per esprimerla mi sembrano queste: * un sogno
* una ondata velocissima
* un essere stato usato come strumento di forze immateriali.
E' stato come l'essere rapito fuori dal tempo, travolto sulla cresta di un'onda velocissima, "impulsato" da una strana forza che via via prendeva forme differenti, ammirando come dal di fuori ciò che veniva creandosi gradualmente e velocemente.
Sensazioni condivise anche da altri.
2) L'altra sensazione era il vedere dopo l'opera attuata come una opera nuova e buona.
* Una buona novità che fa dire alle persone: Nunca hemos visto cosas asì.
* Una buona novità che si insegna da se sola.
* E "si" insegna con autorità. Cioè non insegna con una autorità che viene da fuori, ma da se stessa. Cioè ha dentro quella cosa che don Milani diceva delle opere d'arte: la gente vede e si riconosce. Ed è questo che dà autorità.
3) E, da ultimo, la sensazione altrettanto chiara di quando questa "cosa" ha avuto termine: buttato sulla spiaggia stremato, risvegliato come intontito, scrutando e toccando per rendermi conto che il sogno era stato realtà,
Gli elementi principali di questa vicenda, così come la ricordo ora, mi sembra che siano due: impulsi interiori e azioni. Cerco di descrivere per punti:
1) Un primo impulso forte è stato il rifiuto della confusione che mi impediva di vedere. Rifiuto del torbido e del caos che permette di dire cose che non puoi verificare.
2) Il secondo impulso forte e' stato il desiderio di una sistemazione territoriale che permettesse due cose:
* il vedere ben chiaro,
* la creazione di spazi di aggregazione/azione, azione progettata, con metodo, un metodo che desse due possibilità:
di agire in modo non ripetitivo/rotativo,
di comunicare con un medesimo linguaggio. _ _
Spazi e metodi che impediscono all' energia di disperdersi in calore, convogliandola in movimento.
3) Questi due impulsi successivamente si sono trasformati in un grande impulso interiore di misericordia, cioè una spinta interiore che, biblicamente, potrei chiamare (e così l'abbiamo chiamata) regale, cioè del re biblico scelto e unto per difendere il diritto dei poveri contro i soprusi, il diritto dei poveri a vivere. Il re che definisce il suo regno, detta le leggi della vita, e agisce partendo dai più deboli e con i più deboli...
4) Questo poi si è trasformato nell'impulso misterioso che ti fa desiderare per te e per gli altri la autonomia.
Passi da un'identità collettiva ad un desiderio di identità personale non detta a parole ma sperimentata con un crescere di strumenti metodologici.
Sottolineo questo punto che riprenderò sul finale: è la scoperta/ricerca e applicazione di strumenti metodologici per il tuo lavoro di re che coltiva e fa sperimentare il "nuovo essere personale"
5) Questi impulsi hanno dato origine successivamente a fatti creativi.
Mi sembra che questo inno cristiano possa dare una idea di come io ho vissuto i nove mesi e tre giorni in S. Rocco:

Ci hai segnalato un pezzo di vigna
e ci hai detto: "venite e lavorate".
Ci hai mostrato una tavola vuota
e ci hai detto: "riempitela di pane".
Ci hai presentato un campo di battaglia
e ci hai detto: "costruite la pace".
Ci hai condotti all'alba nel deserto
e ci hai detto: "costruite la città".
Hai messo strumenti nelle nostre mani
e ci hai detto: "è tempo di creare".
Ascolta adesso, o Signore, il rumore del lavoro
con il quale stiamo affaticandoci nella tua creazione.

Io penso che anche ciascuno di voi e tutti insieme abbiamo vissuto questa grande esperienza cristiana: la grande esperienza di vedere Dio presente nel nostro campo.
Abbiamo vissuto l'esperienza mistica di essere "impulsati" da Dio, di essere strumenti di Dio. Egli fu il vero autore... Diamo grazie a Lui.
Affidiamo a Lui il nostro camminare ed egli agirà creando...

L'indirizzo dell'autore è:
don Cesare Sommariva
presso Cooperativa di cultura popolare "don Lorenzo Milani"
via Adriano 2
20128 Milano
tel. 02/2591834
L'autore gradirebbe avere dei riscontri di critica, sintonia, dissenso, ed e' a disposizione di qualunque gruppo voglia con lui discutere del libro.



Il ritorno delle ceneri

Questo corpo che fu un corpo non vagherà più lungo il Tigri e l'Eufrate.
Raccolto da una pala che non si ricorderà più di alcun dolore
messo in un sacco di plastica nero
questo corpo che fu un'anima, un nome e un viso
ritorna alla terra delle sabbie
detrito e assenza.
Questo corpo che fu una parola non guarderà più il mare pensando a Omero.
Non si è spento. E' stato colpito da una scheggia del cielo che ha spezzato la parola e il fiato.
Questi cristalli confusi alla sabbia sono le ultime parole pronunciate da questi uomini senza armi.

Questo corpo che fu un riso
brucia adesso.
Ceneri portate dal vento fino al fiume
e l'acqua le riceve come i resti di lacrime felici.
Ceneri di una memoria dove si delinea una piccola vita ben semplice,
una vita senza storia, con un giardino, una fontana e qualche libro.
Ceneri di un corpo sfuggito alla fossa comune
offerte alle tempeste di sabbia.

Quando il vento si leverà, queste ceneri andranno a posarsi sugli occhi dei vivi.
Costoro non ne sapranno niente.
Cammineranno trionfanti con un po' di morte sul volto.

Tahar Ben Jelloun

Tahar Ben Jelloun è considerato in Europa il più famoso scrittore del Maghreb. Marocchino, vive a Parigi. I versi che presentiamo sono tratti dall'inizio di un lungo poema al quale Ben Jelloun sta ancora lavorando. Partendo dalle immagini dei corpi carbonizzati dai bombardamenti su Baghdad, Ben Jelloun ricostruisce quel che è stato, prima della guerra, uno di questi corpi ora ridotto in cenere.
Il pensiero va a tutti i morti senz'armi provocati prima, durante e dopo questa ormai dimenticata operazione di polizia del nuovo ordine mondiale...


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