LOTTA COME AMORE: LcA marzo 1991

I due volti della pace

Scriviamo questo numero di Lotta come Amore in una situazione particolare. Intanto siamo verso la fine di gennaio e prevediamo che questo giornalino possa arrivare - se tutto va bene - per Pasqua.
Tutto con lo scoppio della guerra nel Golfo, si è come terribilmente accorciato, rappreso. La gente in strada con la radiolina all'orecchio per ascoltare "tutta la guerra, minuto per minuto" non è stato solo uno dei modi nuovi di partecipare questo infausto evento, ma anche un segnale significativo di una dimensione interiore, individuale ed insieme collettiva.
Da una parte una spinta irrazionale alla semplificazione di una realtà estremamente in divenire e piena di complessità, ribollente di conflitti e di tensioni ad ogni livello. Semplificazione offerta dallo scontro diretto, dal duello all'ultimo sangue dai proclami di Bush e di Saddam.
Dall'altra una testimonianza della sfiducia nei valori di una collettività responsabile e solidale. Una corsa all'accaparramento non solo dei generi alimentari nei supermarket, dei bunker unifamiliari, ma anche della ultima notizia così da non rimanere indietro nella maratona di una vita all'insegna dell'ognuno per se e Dio con tutti.
Anche lo scontro tra pacifismo ed intervento militare si è fatto al calor bianco. Fin da subito. Il Papa, citato universalmente prima del 15 gennaio, si è trovato (forse per la prima volta nel suo pontificato) all'opposizione nel contesto politico italiano e mondiale. La sfiducia nell'intervento militare come metodo risolutivo delle controversie internazionali è stata affrontata e respinta come imbelle fantasia utopica da una nutrita schiera di intellettuali cosiddetti opinionisti (fabbricano o vendono opinioni...). Il loro realismo si è ammantato spesso di tali contraddizioni e di tali assunti non provati, da rivaleggiare con posizioni antitetiche altrettanto fantasiose e discutibili. Le TV hanno subìto dosaggi strategicamente stabiliti. Negli USA è stata condotta una battaglia, ritenuta dal Pentagono non meno importante di quella combattuta nel Golfo, per depistare l'informazione sulle manifestazioni e sui movimenti pacifisti.
All'interno del nostro movimento pacifista si è forse sofferta più del dovuto la mancanza di leaders storici, di capi carismatici. Ma il clima che si respira nei coordinamenti locali è in genere diverso da quello di precedenti occasioni. Hanno meno possibilità le volontà egemoniche e di contro cresce una capacità ed una attenzione ai modi concreti e alle diverse possibilità in cui si riesce ad esprimere una posizione comune. E gli slogan vengono - sia pure faticosamente - articolati. Riprende fiducia una informazione che non cerca di scopiazzare le grosse iniziative commerciali, ma trova i più giusti canali di una realtà circoscritta e quotidiana in cui la gente si informa dalla gente.
Dicevamo prima che stiamo mettendo insieme questo giornalino in condizioni particolari. E non solo per la situazione determinatasi nel Golfo che sembra aprire la strada ad un nuovo lungo periodo di conflittualità dura e cruenta. La nostra piccolissima comunità si trova attualmente divisa su due continenti e questo fatto che si è compiuto pochi giorni dopo l'inizio dei bombardamenti su Bagdag, può apparire assurdo e sconsiderato. Non tanto, e non davvero, per rischi e pericoli personali, quanto per suddivisione di forze che indebolisce ancora di più la sottile rete della resistenza delle coscienze. Come spesso ci accade, dal momento che siamo peccatori, ci orientiamo volentieri verso il peccato di presunzione, E così pretendiamo, tramite quel nulla che siamo, che la continuazione di una fatica quotidiana, la sottile progettualità che anima piccoli se non insignificanti gesti di incontro e di comunione, non venga spezzata dalla eccezionalità degli eventi.
E' caratteristica fondamentale di una pace che non chiediamo agli altri, ma a cui apriamo la nostra porta, quella di non lasciarci travolgere dall'immediato, ma di lasciarsi colmare dalle misure sempre sovrabbondanti - dolci e amarissime insieme - della vita. A questa pace - questo sì lo confessiamo come una vera e propria mancanza di fede - a questa pace confessiamo di avere poco creduto quando nulla faceva prevedere l'assurdo precipitare della guerra. Forse ne abbiamo parlato con precisione di termini e acutezza di analisi, ma, nello stesso tempo, ci siamo lasciati mettere in trappola da orizzonti senz'altro nobili, ma sempre troppo angusti e ripiegati. Immersi così tanto amorevolmente e doverosamente nel presente da dimenticare che la storia pretende continuamente da noi di contenere negli otri vecchi il nuovo vino. E la Fede di rinnovare continuamente gli otri. Di fronte al dilatarsi del tempo e dello spazio, al rarefarsi delle possibilità di concretezza immediata, c'è come una tentazione prevalente alla marginalità che ci fa privilegiare il vissuto anche ricco, ma statico, di una quotidianità fine a se stessa.
E viviamo l'eccezionale come tale, amato e odiato nello stesso tempo, oscuro oggetto di un desiderio che non sa se abbandonarsi alla corrente viva della storia di questo mondo, o se preferisce racchìudersi in anse profonde dove più immediati si possono leggere i valori della fedeltà e della continuità.
La pace come frutto di un lavoro continuo, costante, premuroso ed attento e la pace come dono che porta via e continuamente rinnova vecchi e nuovi ristagni.
Dovremmo forse vivere questo dialogo incessante, questo incontro aperto e fecondo.
Labbra di una vita che ha la sua definizione in questo suo definirsi mai.


La Redazione

La posta di fratel Arturo

Cari amici d'Italia,
il pensiero della guerra non mi lascia, anche se non posso seguirne gli eventi. Ho raccontato spesso la motivazione - almeno quella che posso definire in termini di ragione - che mi ha spinto a entrare nel sacerdozio, fu la scoperta hegeliana del valore della storia. Mi colpì molto una frase di Benedetto Croce: il cristianesimo è storia, fuori del cristianesimo esiste solo archeologia. Non so se le parole sono esatte, ma mi faccio responsabile del senso. E proprio questo oggi mi tormenta. La guerra ha le sue radici in terra cristiana: le armi e la strategia sono made in cristianity. La politica del "divide et impera", che fatalmente sbocca in opposizioni armate, è nata nella Roma precristiana ed è cresciuta vigorosa nell'Europa cristiana. Questo è sufficiente per dichiarare il fallimento del cristianesimo.
Se crediamo nel Cristo, se veramente c'interessa il suo progetto che si confonde con la sua identità, non possiamo rifiutare la critica seria della sua proiezione storica: siamo responsabili della esecuzione del suo progetto, e l'esecuzione è riuscita pessimamente. Non è onesto continuare a costruire le parti di un edificio che sicuramente crolleranno, schiacciando molta gente. Paolo crea un'immagine che ci invita alla critica: "voi siete anche l'edificio di Dio. Dio mi ha dato il compito e il privilegio di mettere il fondamento, come fa un saggio architetto. Altri poi innalza su di esso la costruzione. Ciascuno però badi bene come costruisce. Il fondamento già posto è Gesù Cristo. Nessuno può metterne un altro. Su quel fondamento altri costruiranno servendosi di oro, di argento, di pietre preziose, di legno, di fieno, di paglia... Essa (l'opera di ciascuno) verrà sottoposta alla prova del fuoco" ( I Cor. 3,10). La nostra parte è già raggiunta dal fuoco. Perché noi seguaci del principe della pace, vogliamo la guerra? Questo perché mi martella nel cuore ed è la domanda che rivolgo costantemente all' Amico: perché?
Mi si presenta attualmente una risposta: abbiamo tradito un ordine preciso del Maestro "Cercate PRIMA DI TUTTO il Regno di Dio e la sua giustizia". Un viaggiatore che viene dall'India o dalla Thailandia e ha sentito parlare di Cristo e vuole entrare a far parte di una comunità cristiana, viene iniziato a pratiche di culto, a obbedienze ecclesiastiche, a impegni dottrinali e di organizzazione che occultano assolutamente questa priorità. Mi viene in mente il canto della mia giovinezza "siamo l'esercito dell'altare", promettiamo di difendere l'altare, il culto, la chiesa come ambiente chiuso e separato, non la giustizia, quella che storicamente, intenzionalmente è orientata a togliere le abissali disuguaglianze che sono la causa dei sanguinosi conflitti che lacerano la storia.
Una certa forma di vivere la fede cristiana è responsabile delle più assurde compatibilità. Si possono creare delle facoltà cattoliche che preparino dirigenti d'impresa capaci di spogliare elegantemente i "fratelli" del terzo mondo. Si possono proteggere i fabbricanti di armi togliendo di mezzo quelli che protestano. Perché il Vangelo parla di pace, ma non dice nulla sulla deterrenza o sulla non produzione delle armi; questa è una glossa di preti scalmanati e sovversivi. La cosa più urgente non è la giustizia: è l'obbedienza silenziosa, anche quando l'obbedienza esige accettare delle posizioni chiaramente antievangeliche.
Oggi non vedo altra alternativa: o rifiutare il cristianesimo o meditare seriamente il Vangelo per svelare i tradimenti del mondo cristiano. Pare esistere una terza posizione: quella di essere degli spettatori passivi della strage.
Ma prego lo Spirito del Signore che risparmi me e i miei amici da questo definitivo inabissarsi nel male.
La tristezza dell'ora mi fa sentire più necessaria e più tenace la nostra amicizia.
Vi abbraccio.

Arturo

Andare oltre...

Quando la solitudine prende alla gola e scende fino a ghiacciare il cuore di assurda e prepotente impossibilità alla vita, deve essere veramente una cosa tremenda. E queste righe sono dedicate ad un amico che una sera, a vent'anni, si è avviato a piedi sui binari incontro al treno, senza una parola o una riga di biglietto.
Non voglio parlare di lui, né argomentare sui motivi che possono portare a gesti simili. La sua immagine però mi sta accompagnando in questo tempo in cui mi capita di ascoltare uomini e donne confessare la loro estrema solitudine. A volte si tratta di persone che comunque sia non riescono a trovare nessuno che suoni con loro a quattro mani un progetto di vita, la realtà quotidiana, il confronto con impegni difficili se non ostili. E in questo caso ci si può chiedere quanto vi giochi l' alterna fortuna e quanto la errata o discutibile collocazione di livello di attesa e di aspettativa nei confronti degli altri. Ho sentito diversi preti e religiosi lamentare questa impossibilità di amicizia, sia pure in circostanze assai diverse.
Credo che qui ci si incontri con problematiche diverse e fare di ogni erba un fascio può essere conclusione inevitabile se non si pesano con attenzione le parole. Scrivendo cosi di getto cercherò di esprimere, più che delle idee, delle sensazioni, delle intuizioni, per quanto possano valere.
Da un pezzo a questa parte (qualcuno potrà anche dire: e quando mai prima?) avverto in me segnali di insofferenza nei confronti di tutto ciò che accentua il "fare le cose per gli altri", "essere per gli altrì", ecc. ecc. Avverto la sottile possibilità di una linea di confine in questo "essere per". L'identificazione in una diversità e la tentazione della preghiera farisaica. Ma anche quando (ed è la stragrande maggioranza delle volte) questo fare per gli altri rientra in una coscienza formata all'altruismo e alla solidarietà, avverto una sottile linea di separazione dall'annuncio evangelico.
Amare Dio con tutto il cuore, lo spirito, l'essere intero. E il prossimo tuo come te stesso. Non c'è il "per" nella sintesi etica di Gesù, anche se si può dire che ne è immediata e inevitabile conseguenza. Ma avverto sempre più quanto sia decisivo nella vita delle persone l'innamorarsi di una realtà che non si lascia definire. Che sfugge a qualsiasi possibilità o tentazione di definizione. Ognuno ha un modo ed un percorso diverso nell'innamorarsi. E cosi ho incontrato persone capaci di essere prese in un rapporto con l'universale ad ogni latitudine e in ogni cultura. Persone aperte ad un rapporto non definibile nel concreto di progetti sia pure grandi e ambiziosi. Persone liberate, nella concretezza di rapporti umani anche profondi, da ogni tentazione di assolutizzazione e di possesso. Persone ricche di gratuità e, comunque chiamino o non chiamino la fonte di questa ricchezza, ho sempre pensato che non potesse essere se non il Dio di Gesù Cristo. Sono convinto che Gesù Cristo non è venuto fra noi principalmente per iniziare il cristianesimo e formare una chiesa, ma per compiere la rivelazione del Padre. La chiesa è continuità di Lui in quanto ha capacità di riconoscere e di svelare ciò che è nascosto e già presente nel cuore della umanità. Cosi l'insegnamento dell'esistenza di Dio non può prescindere da una realtà che si fa strada comunque da se nell'intimo della persona e della storia umana. Gli stessi evangelizzatori dovrebbero essere i primi ad essere evangelizzati dalla presenza di Dio che sempre li precede. E solo chi è realmente innamorato con tutto se stesso, sa riconoscere quando lo stesso mistero si compie, dovunque intorno a se.
Ed è dal dono di questa possibilità di dedizione totale che nasce il miracolo di un amore umano libero, serenamente libero da ipoteche, ricatti, supremazie. Amore innocente, comunque vi sia impegnato spirito e il corpo. Amore che non è mai destinato alla delusione e alla solitudine perché ha in se la multiforme polifonia cantata da Paolo nel capitolo 13 della lettera ai Corinti. Spesso è tradotto quest'amore come carità o semplicemente amore, ma non lo si può raccogliere né imparare se non come frutto di questo innamorarsi di quello che ci trascende, nella fede o nella sapienza umana dilatata dal suo Creatore,
Ho ascoltato poi lo sfogo di persone costrette malgrado loro a rapporti umani cosi rarefatti da rasentare la disumanità. Oppure a rapporti cosi difficili da impedire ogni possibilità di confidenza od anche solo momenti di serena ed umana coesistenza.
La cosa mi turba profondamente quando avviene tra credenti, persone religiose che usano oppure sono costrette a soffrire l'uso della religione come motivo di ricatto e di costrizione. Una manipolazione della coscienza che spesso sfocia in vere e proprie espropriazioni di ogni intimità, di ogni dignità. Più spesso di quanto si creda la ragion di chiesa assurge a principio ultimo di valore, ancor più cogente, perché ricatta la coscienza, di ogni ragion di stato. Non mi so dar pace per quanta sofferenza è prodotta nel nome del cristianesimo, del vangelo, delle sue ragioni. E non sto parlando di una chiesa medioevale o solo anche preconciliare. L'obbedienza assurta a valore in se produce aridi deserti dove spesso non cresce più alcuna vita. E l'obbedienza oggi non la si trova forse più nei mandati canonici o negli editti, ma si è modernizzata in apparente cogestione, in assunzioni fittizie di responsabilità, in un invischiamento che sotto il manto della partecipazione fa scattare le trappole dell'autodistruzione. O dell'autoesaltazione che comunque distrugge intorno a se.
Quando incontro persone penate di queste sofferenze, schiacciate da questi ingranaggi, che mi confessano l'aridità della loro preghiera, la fatica terribile di ogni elevazione della mente a Dio, l'assenza di qualsiasi conforto nell'orazione individuale o nella liturgia, io credo che questo non sia segno di un peccato che permane, ma il frutto di una fede che resiste. L'aridità (purché non sia autocompiacimento) è condizione di sete e fame di tutto ciò che può riportare alla vita. E quando si è come schiantati dalle condizioni non umane in cui viviamo, la preghiera non può essere tutta evasione o semplice conforto. Essa avverte, forse prima di ogni altra consapevolezza, il bisogno di lottare per una vita diversa. Non è la preghiera ad essere arida. E' la vita, e la preghiera spinge la sensazione dell'aridità fino a compiere la dolce violenza che porta il cambiamento, la conversione. Che è la preghiera se non sete di Dio, di Gesù Cristo e quindi anche di Umanità? Siamo normalmente abituati alla preghiera come fedeltà nel tempo, come dovere, come conforto e non ci rendiamo sempre conto che l'aver sete e l'aver fame è comune segno positivo nella malattia, ma può essere patologico questo voler colmare la sete con la sete, la preghiera con la preghiera come un'eterna impazzita abitudine. Se la preghiera non chiama la vita e la vita non suscita preghiera c'è qualche corto circuito, c'è intasamento, ostacolo da superare o togliere perché l'acqua rinnovi il mistero segnato nella teologia di Giovanni.
* * *
Non so davvero perché il ricordo di una morte cercata, mi abbia portato lungo il filo di queste riflessioni. Può darsi che ne venga solo il senso di una grande confusione o il semplice e più ovvio saltare di palo in frasca. Eppure mentre mi rendo conto che probabilmente non ho fatto che questo e forse peggio di questo, non riesco a schiodarmi dalla mente prima di tutto il fatto che non posso davvero sopportare l'interrogativo su che cosa avrei potuto fare "per" quel mio giovane amico. Non avrei altra scelta che quella di andare incontro al treno come lui, se solo mi chiedessi seriamente e sinceramente cosa sto facendo "per" gli altri. Perché altri sono o tutti o nessuno, quelli che incontro ogni giorno sulla strada della vita e sono stanchi, feriti, incapaci di reale autonomia... Nello stesso tempo avverto di non avere altra scelta che quella di innamorarmi ancora di ciò che è oltre ogni nostro desiderio e di pregare perché cresca in me la sete della umanità e la sete conduca sempre più alla sorgente.
Può essere tutto uno spiritualismo vuoto ed inutile, ma può essere anche il modo di andare incontro oltre il treno all'amico che ho perduto.

Luigi

Progetto Speranza

Abbiamo ricevuto dagli amici carissimi dell'Abruzzo un piccolo opuscolo che illustra un loro progetto di vita, di lavoro, di impegno culturale nel solco della nonviolenza e della fraternità.
Presentiamo questo "Progetto Speranza" sul nostro giornalino come segno di una partecipazione al cammino di ricerca degli amici abruzzesi ai quali siamo legati da tanti anni di semplice, profonda amicizia. Anche noi avvertiamo chiaramente che occorre raccogliere con gelosa attenzione il seme della "speranza" per continuare a gettarlo a piene mani (e a pieno cuore) nel vento della vita perchè cresca e fiorisca un nuovo cielo ed una nuova terra.
* * *
"Costruite case e abitatele, coltivate orti e mangiatene i frutti. Prendete moglie e abbiate figli e figlie. Crescete di numero lì dove siete e lavorate per il benessere della città dove vi ho fa deportare".
(Geremia 29,5-7)

Collocati nell' esilio del grigiore, della stasi, della superficialità, del soffocamento della fantasia, della fine dei rapporti sinceri, liberanti, gioiosi, occorre continuare a vivere, a progettare, a sperare!
Ci sembra ormai giunto il tempo, per noi, di uscire dal campo delle buone intenzioni, campo in cui facilmente alberga il mugugno e la critica contro tutti coloro che non permettono il nostro decollo, l'impegno, la nostra lotta, la nostra compromissione con la storia.
Tempo di gestazione, il nostro, e quindi epoca di contraddizioni spesso estreme: trepidazione, sofferenza, frustrazione, angoscia, ma anche attesa, speranza, lavorio profondo. Esiste in ognuno come un rifiuto di nascere, di staccarsi dalla matrice calda, accogliente, rassicurante, un rifiuto di affrontare i rischi della vita. Ma c'è anche l'opposto: c'è il bisogno di dar vita e di vivere, il desiderio di accollarsi tutta la responsabilità di venire continuamente alla luce, di acquisire autonomia, di liberarsi e liberare. Tutti siamo coinvolti, in parte gestanti, in parte nascituri.
Consapevoli del nostro privilegio di appartenenti al Nord del mondo corroso dal tarlo della sazietà che cresce a scapito di altri mondi dilapidati, riteniamo doveroso rifiutare "concretamente" questo modello di sviluppo che persegue il puro e semplice soddisfacimento egoistico dei bisogni superflui e non si preoccupa dei pericoli che ne derivano per la pace, per le risorse energetiche, per l'equilibrio della natura, per i costi di vite umane.
Come?
Con una scelta di vita non violenta, da opporre alla imperante cultura di violenza e di morte. Nonviolenza che non sta ad indicare solo opposizione ad ogni militarismo, ma è soprattutto forza della Verità, creatività, lotta, denuncia, progettazione, costruzione. Insieme con gli altri.
Riscoprendo la dignità della propria fatica attraverso modi nuovi di lavorare. La cooperazione, seriamente e coscienziosamente vissuta in settori abbandonati quali l'agricoltura e l'artigianato, può diventare segno di rivolta alle leggi di mercato.
Offrendo la propria disponibilità alle più svariate situazioni di bisogno, uscendo dal chiuso dell'egoismo familiare o di gruppo, per aprire spazi di coinvolgimento e di attenzione agli altri.
Ricercando insieme con gli altri il "senso" profondo dell'esistenza, per il superamento della solitudine. Senza rimanere a guardare e ad aspettare che si moltiplichino i posti per il recupero dei drogati: forse è meglio offrire "prima" un luogo a tanti giovani in cerca di un "senso"; molti credenti vi troveranno il senso della loro Fede, molti non credenti vi troveranno il significato della loro vita. E quando si ha un punto di riferimento e di accoglienza, sarà quanto meno più difficile cedere alla lusinga della droga, di "tutte" le droghe.
Quello che ci proponiamo può sembrare utopistico, non incisivo nei confronti dei meccanismi del "sistema", discriminante nei confronti di chi, come la classe operaia o i lavoratori in genere, deve continuare a "collaborare" per procurarsi la sopravvivenza.
Ma è proprio in questa consapevolezza di essere una minoranza - che va ad aggiungersi ad altre minoranze - la nostra forza di denuncia e di verità. E, comunque, ci sembra quanto meno inopportuno continuare a dirci soddisfatti di una società che si è votata al suicidio.
Per tutti questi motivi, compiendo una rivisitazione del benedettino ORA et LABORA, e poiché non vogliamo ritirarci su un monte, lontani dai problemi di tutti, lo abbiamo integrato con un irrinunciabile PARTECIPA perché, facendo nostre le parole della Scuola di Barbiana, siamo convinti che "il problema degli altri è uguale al nostro. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l'avarizia".

Associazione per una ricerca ed attuazione di vita non violenta Via Buonconsiglio, 2 - TORRE DEI NOLFI (AQ)


Amarti...

Amarti
come il volto del più caro amico
Inseguirti
come un aquilone che vola lontano
Coltivarti
come il più stupendo dei fiori
pace,
sorella,
fondamento di vita,
utopia cui osiamo credere,
sogno che ci piace sognare.



Nicoletta Pasetto


Gli scritti di Sirio

Una fede che lotta

Le drammatiche vicende della guerra del Golfo che ci hanno accompagnato e coinvolto per due lunghi mesi, ci hanno riportato alla memoria gli scritti "teatrali" di Sirio nei quali è espressa con profonda tensione emotiva e forte passione di fede e di amore la ricerca di pace intesa come liberazione delle coscienze dal dominio della "cultura della guerra" e come costruzione di nuova umanità.
Il primo "teatro" contro la guerra, la sopraffazione, lo sfruttamento e la violenza del sistema produttivo, risale a vent'anni fa: drammaticamente esso riporta dentro di noi l'attualità di un problema che continua a schiacciare ed opprimere i rapporti umani.
Il teatro era intitolato "Una fede che lotta" e così veniva presentato da Sirio nella piccola introduzione:
"Responsabili come ci sentiamo per la nostra Fede e scelta cristiana di tutta la problematica religiosa di sempre ma specialmente del nostro tempo, abbiamo cercato attraverso una realizzazione teatrale a carattere tipicamente popolare di portare nelle chiese la realtà - specialmente quella più dolorosa e drammatica - della vita del nostro tempo ed approfondire la Parola di Dio fino ad illuminare questa realtà esistenziale per giudicarla e quindi affrontarla e lottarvi dentro secondo tutto il Mistero di Cristo".
Riproponiamo agli amici la lettura dell'inizio della seconda parte di quel teatro come segno di un asco1to di una sofferta partecipazione ad una lotta tenace per la costruzione di una cultura popolare che rifiuti la guerra e lo sfruttamento come metodi e sistemi "inevitabili" dell'umana convivenza.

UNA FEDE CHE LOTTA
Un soldato
Potenza e denaro, denaro e potenza
gli eterni nemici del popolo
che il popolo ha sempre pagato col sangue
rinsaldando soltanto le proprie catene:
E' un nemico della povera gente
chi parla incitando alla guerra
prepara la morte
anche se parla di pace, di onori, di gloria!

Un secondo soldato
O decorato al valore, strappati dal petto
le medaglie di gloria,
sono state coniate dal fuoco di guerra
di sangue son fatte, non d'oro e di bronzo!
E tu che sei rimasto invalido e ferito
quando la patria ti paga,
ti paga il tuo sangue o quello che tu hai versato,
e alle vedove paga la morte:
piangi, piangi, piangi
che quei soldi sporchi di sangue
non abbiano a mettere in pace
chi con trenta denari d'argento
ha comprato e continua a comprare
la morte di tanti fratelli

Un terzo soldato
Ci han benedetti per balzare all'assalto
perché Dio ci aiutasse ad uccidere l'altro
e ci dicevano che santa era la guerra,
quest'orrore infangato d'acqua benedetta.
Va bene qui fratelli, su quest'altare,
purché un altare della patria non sia,
qui deposto, sull'altare della croce di Cristo,
anche se fosse un nemico è nostro fratello:
siamo tutti figli di Dio
signor cappellano dai gradi di capitano!
Traditeci tutti, sfruttateci tutti
raccogliete il nostro lavoro e fatene oro
quando in fabbrica o nel campo
ci spremete di lavoro,
ma non ingannarci, sacerdote di Dio,
quando la morte ci porta davanti al tuo Dio!

(Prorompe forte il canto. Qualcuno si avvicina all'altare e si unisce ai soldati nel sistemare meglio il soldato morto con semplici gesti)


O popolo, popolo della guerra scardina via
l'istinto maledetto che in tutti si annida!
O popolo, popolo respingi lontano
chi di guerra e di sangue ha macchiato la mano!
O popolo, popolo distruggi i cannoni
e come il sogno che Dio ha sognato
di spade e di lance fai attrezzi da grano!

(tono recitativo con sottofondo di chitarre)

Povero popolo chiamato alla guerra
cantando canzoni di stelle alpine
col cuore gonfiato di gloria
e svuotato prima di amore
e poi a fucilate anche di sangue.

(una strofa del canto)

Tutto quello che è attrezzo da guerra
è fatto soltanto per scavare la terra:
ma non il campo di grano
a biondeggiare pane per tutti
ma soltanto a scavare la terra
per seminarla di poveri croci
e concimarla di giovani corpi!

(una strofa del canto)

Una voce (in mezzo al pubblico, incita)
O popolo,volta la pagina
che chiuda il libro di una storia d'orrori!
I tuoi figli ne aprano un' altra
che non parli di re, principi e duci,
di generali di corpo d'armata,
di innumerevoli giovani ammazzati di spada,
dilaniati da schegge, grondanti di sangue,
a brancolare per l'ultima volta le braccia
levate a cercare la luce
prima che il buio li seppellisca per sempre.

Un'altra voce (in mezzo al pubblico, grida implorando)
O Signore nostro Dio siamo colmati di orrore
siamo stanchi di un mondo fatto così:
abbiamo schifo di noi, terrore dei nostri fratelli!
Non chiediamo perdono, nè lo vogliamo,
non siamo qui a piangere, ma a gridare,
a gridare una disperazione che non vede speranza!
Eppure siamo qui a giocare la vita
mescolandola a chi tutta l'ha sacrificata da sempre
perché lo spettatore è vergogna schifosa,
perché chi guarda e non fa è traditore,
perché chi aspetta e niente dà è sporco egoista,
perché chi non fa guerra alla guerra è un assassino!
Fratello, che giaci qui morto
dilaniato da un ordigno di guerra,
mi inginocchio davanti a te e chiedo perdono
di lasciarti morire da solo!
Mi tolgo di dosso la divisa che mi hai lasciato,
anche se è sacra e santa perché di sangue hai bagnato,
ma fratello, tu lo sai, non è per disprezzo di te
che io non voglio morire come sei morto te!
Non credo alla gloria come tu non ci hai creduto
povero figlio, strappato di casa,
dalle braccia appassionate della tua fidanzata,
che la morte in guerra è grandezza di patria!
La morte é la morte e serve soltanto
per chi dalla strage ne riporta guadagno.
Non serve alla patria, non serve alle patrie
ammazzare i fratelli, versare del sangue.

Giudica tu, che della morte hai varcato la soglia
che dalla guerra sei stato ammazzato,
che della guerra hai vissuto l'orrore,
l'assurdo, la pazzia e l'infinito dolore
giudica tu!
Se mi parlassi, mi diresti: vigliacco che fai?
Mi diresti forse traditore? Un uomo che non sa essere uomo d'onore?
Tu che hai visto morire a migliaia per strappare al nemico una fossa,
perché qualcuno su un foglio di carta decideva col dito il campo di battaglia.
Tu che hai visto scontrarsi i fratelli, dilaniarsi, annientarsi a belve feroci,
e tornava, chi tornava, lordo di sangue,
disperato di non sapere nemmeno perché!
Non voglio divise di guerra,
non voglio essere uomo di morte:
voglio soltanto spezzare una catena di morte.
Voglio lottare contro una legge di patria
che ti condanna se uccidere non vuoi,
che ti condanna se rifiuti di essere uomo di guerra!

Fratello, fratelli che siete morti in tutte le guerre
non è tradimento di patria, non è mancare d'onore
lottare contro la guerra che affoga la patria di sangue:
è fedeltà alla vostra morte
lottare contro chi vi ha costretti a morire,
perché la morte non continui la morte,
ma sia l'ultima morte
e dopo sia soltanto la vita.



Ti condurrò nel deserto

Non mi posso dimenticare la dolcezza solenne del deserto di Giuda, il suo vasto silenzio, l'ombra delle sue pietrose colline che si distendevano piano piano davanti alla luce del sole del mattino.
Ho avuto la gioia di fare una lunga camminata pochi giorni prima di rientrare a casa, in completa solitudine, lungo le stradine segnate dalle capre e dai pastori beduini in quella parte di deserto che scende da Gerusalemme verso Gerico (la tradizione vi colloca il luogo dove Gesù ha ambientato la parabola del "buon samaritano"), Volevo arrivare fino al monastero di S. Giorgio in Kossiba, antichissimo luogo di preghiera chiuso fra le rocce che lo sostengono e lo raccolgono come un bimbo nel seno materno. Ho camminato senza fretta, lasciandomi andare alla dolcezza di un mattino luminoso di sole, all'azzurro limpidissimo di un cielo vasto e profondo, all'onda di pensieri di pace, di ascolto, di accoglienza, di comunione con ogni essere. Il deserto ha una voce potente, anche se espressa col suo tenero linguaggio di silenzio e di "assenza" quasi assoluta. E' un silenzio che può diventare miracolosamente "parola" ed è assenza che si può manifestare come dolcissima "presenza". Forse è per questo che Mosè vide e ascoltò il Dio Vivente nella grande solitudine del Sinai; ed è sicuramente per questo che i profeti parlano spesso di un "ritorno al deserto" del popolo infedele al suo Dio. "Ti condurrò nel deserto e parlerò al tuo cuore": è stato molto bello camminare una intera mattinata, passo dopo passo, nella fresca brezza delle prime ore del giorno e poi nella forte fiamma di un sole bruciante, con l'anima dilatata ad accogliere, ad ascoltare, a percepire questo "sussurro" del mistero profondo dell'esistenza che saliva da quelle colline d'argento che si perdono fino alla profonda vallata del Giordano. Ricordo soprattutto lo splendore della luce, il riverbero del sole sulle pietre, la gioia di una palma fiorita lungo uno straordinario canale d'acqua che circonda la vallata, passa dal monastero e discende fino alla pianura di Gerico. "Fiorirà la steppa, germoglierà il deserto": miracolo stupendo quello di un piccolo corso acqua che scende cantando la sua viva canzone in mezzo al "niente". Parabola indimenticabile di Colui che è "acqua viva" e nutre e da forza a qualsiasi solitudine che si apre ad accoglierlo e a lasciarsi abbracciare come una sposa dal suo amato sposo.

***
Questa visione del deserto l'ho raccolta primi giorni di agosto della scorsa estate... Ora invece in tutto questo tempo crudele che ci è precipitato addosso col la guerra del Golfo, il deserto visto da lontano, immaginato come spazio privilegiato dell'incontro e della scoperta dell'essenzialità della vita, ha rovesciato totalmente la sua immagine. "Tempesta nel deserto", "scudo nel deserto": parole nate dalla fantasia malata dei generali e degli strateghi che hanno definitivamente sconsacrato quello spazio divenuto ormai "teatro di guerra". Ho visto immagini di quel grande deserto arabico solcato dai carri armati, dai camion militari, calpestato da uomini in armi pronti ad uccidersi per' "pezzo di terra".
Il silenzio ormai è stato rotto dal rombo supersonico dei bombardieri carichi dì tonnellate di bombe: uccelli di morte costruiti da abilissimi ingegneri e operai, guidati da piloti eccellenti, miracoli di scienza e di tecnica. " Il deserto fiorirà...": dopo questa sciagurata e folle "operazione di polizia" nata e cresciuta fra mille inganni e bugie senza fine, il deserto non richiama più spazi stupendi di silenzio dolcissimo, vuoto ricolmato di pienezza e di luogo adatto all'incontro e alla comunione con l'Eterno Vivente.
Ora il deserto è divenuto luogo maledetto, simbolo di morte, di distruzione, campo seminato di odio e di assurda violenza.
Sento con estrema chiarezza che l'unico deserto da custodire con tenace gelosia è il deserto cuore, dell' anima, della coscienza. Solo lì, nell'intima e fragile profondità del proprio essere, nello spazio segreto del proprio mistero, può stabilirsi l'ascolto e l'incontro, l'accoglienza e l'intesa, la fioritura e la crescita di ogni valore buono e autentico. L'incontro con Dio, Creatore e padre, come con ogni essere vivente è "dentro" il deserto del proprio cuore. che può. e deve avvenire. Nell'immenso spazio della mia fragilissima anima, fra le sabbie così evanescenti del mio "io" mi è consentito pronunciare parole di pace, di amore, di fraternità, di tenerezza, di rispetto, di giustizia, di comunione con tutti. E' "dentro" che sempre più mi rendo conto occorre avere una sorgente d'acqua viva a cui poter attingere nei momenti in cui tutti pretendono di vendere l'acqua marcia dei propri inganni e delle proprie terribili strategie di potere. Bisogna imparare a custodire sempre più questo "spazio sacro" della propria anima, della mente, dello spirito da ogni tentazione di facile accondiscendenza alla cultura dominante, alla saggezza di questo mondo, alla logica raffinata dei maestri di turno.
Il deserto diventa, almeno per me, il mio stesso fragile e debolissimo essere in cui è necessario potermi guardare e scoprire quello che è vero, giusto. buono, autentico. E' lì dentro che scopro che la guerra non è necessaria, giusta, inevitabile, santa: la guerra è morte, è macchina ben studiata, progettata, voluta e messa in moto da uomini che sanno benissimo ciò che vogliono. Sono uomini costruiti da una cultura di potere, di forza, di culto idolatrico del denaro, di obbedienza alle leggi dello sfruttamento dei piccoli e dei poveri. Il "dio" di cui parlano e al quale si appellano (sia il "dio cristiano" o il "dio del Corano") non ha niente a che fare con il Dio Vivente, il Dio di Gesù Cristo, il Dio clemente e misericordioso, tre volte santo. E' il dio della morte e delle tenebre, non della vita e della luce.
E' nel deserto della mia anima che devo scoprire la forza di dire di "NO" alla cultura di morte espressa in concreto dai mercanti di cannoni, di carri armati, di bombe terrificanti, di missili, di additivi chimici e batteriologici. Ed è dentro di me, nel deserto della mia coscienza, che devo imparare a difendermi dagli ipocriti e falsi politici nostrani ed esteri, che tranquillamente prendono in giro la povera gente, il povero popolo di ora e di sempre, con i loro fumosi giochi di parole, rimbalzate in mille modi attraverso i mezzi di comunicazione. Devo fare "deserto" dentro di me, ascoltare la fragile voce dell'anima, lasciarmi andare alla "stoltezza" di una parola custodita miracolosamente in fondo alla caverna del cuore: "Non di solo pane vive l'uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio". "Non uccidere... amate i vostri nemici... rendete male per male... Chi di spada ferisce di spada perisce... il lupo pascolerà con l'agnello... Non impareranno più il mestiere della guerra...". Sogni, utopie, speranze, poesia, esaltazioni: semplici verità come l'acqua di sorgente, il sole limpido al mattino, la musica della pioggia, il fragore del mare, la maestosità delle montagne, una stretta di mano sincera, gli occhi di un bambino, una rondine a primavera, una spiga di grano...
Nel deserto della mia anima, oggi (18 febbraio 91) ho fatto Pace.
Domani non so quello che accadrà: è una vigilia carica di attesa, di angoscia, di trepidazione. Pochi uomini hanno in mano la vita di migliaia di altri uomini. Pochi uomini possono decidere, nello spazio di questo giorno, la sorte di migliaia di altre vite e di una storia che sarà di sangue, di odio, di violenza e di morte, oppure far rinascere "dal deserto" il sogno della pace e della giustizia. E' un'attesa dura, opprimente. Non mi resta che incamminarmi nel deserto del mio cuore e chiedere al mio Dio "grande e misericordioso" di avere pietà di tutti noi.

* * * *
"Nel deserto
preparate la via
al Signore,
appianate nella steppa la strada
per il nostro Dio"
Isaia 40,3

don Beppe

Lettera aperta a Mons. Giovanni Marra

Vescovo Ordinario militare

Eccellenza,
mi sono deciso a scrivere questa lettera "aperta" dopo aver atteso inutilmente segnale di cambiamento di rotta da parte dei cappellani militari italiani e soprattutto da parte sua che è il vescovo e quindi "il pastore di quanti, o per scelta professionale o per adempiere gli obblighi di leva, vestono la divisa militare" (così è scritto in modo molto preciso sul settimanale "Toscana oggi" del 3/2 91 all'inizio di una intervista con lei).
Quando parlo di "un segnale" di cambiamento mi riferisco a scelte e indicazioni molto diverse da quelle fatte da lei stesso nella sopracitata intervista di fronte a tutto ciò che di terribile, di disumano, di assurdo è accaduto dal 15 gennaio fino al momento in cui mi sono messo a scrivere. Per liberare il Kuwait dall'esercito iracheno è stata messa in opera la distruzione massiccia delle così dette "infrastrutture" nel territorio dell'Irak e si è cominciato con il durissimo bombardamento di Bagdag, per proseguire senza sosta su questa strada criminale rovesciando sul territorio e sulla popolazione un carico di morte superiore a quello di tutta la seconda guerra mondiale. Di fronte a questo fatto di una gravità spaventosa ho sperato che da parte sua e dei sacerdoti cappellani militari venisse un segnale di rifiuto, di respinta, di "obiezione di coscienza". Un invito evangelico chiaro e preciso ai capi di stato maggiore con i quali lei ha pregato il 13 gennaio nella chiesa di S. Caterina a Roma, ponendo giustamente una domanda che però non ha avuto alcuna risposta: "Può oggi la guerra essere considerata uno strumento moralmente accettabile, quando si conoscono le conseguenze drammatiche che essa comunque comporta per vincitori e vinti, per colpevoli e innocenti?"
I due cappellani militari presenti nel Golfo, uno con la Marina ed un altro con il personale dell'Aeronautica, non avrebbero dovuto (almeno loro!) saper dare una risposta al suo preciso interrogativo, dopo che la "logica" della guerra totale contro l'Irak stava crescendo di giorno in giorno con partecipazione dei "nostri ragazzi"? Nessun segnale è venuto né da lei, eccellenza, né da loro. L'unico che ha rotto questo assurdo silenzio è stato il contro ammiraglio Buracchia che ha "osato" dichiarare che questa guerra poteva essere evitata e, per questo, è stato rimosso dall'incarico. Speravo che almeno lei che è il "suo" vescovo lo appoggiasse pubblicamente, riconoscendo il valore della libertà di pensiero e di parola che è garantito dalla nostra Costituzione ad ogni cittadino. Non mi risulta che nessuno dei cappellani italiani (dovrebbero essere circa 200) abbia speso una parola pubblica per questo loro illustre "parrocchiano".
Eccellenza, questa mia lettera vuol essere portatrice alla sua coscienza di vescovo di domanda che riguarda tutta la comunità cristiana, tutta la Chiesa del Signore Gesù.
La domanda è semplice; ed anche la risposta sarebbe semplice, se andassimo ad attingere le parole alla Sorgente viva e vera: "Un cristiano può partecipare alla guerra, a questa guerra, a qualsiasi guerra, senza tradire e calpestare il suo Dio che da millenni ha proclamato "NON UCCIDERE"? Che cosa ci vorrà ancora di atroce, di assurdo, di folle, di immorale per ritrovare la chiarezza di una coscienza cristiana che dichiari la guerra "fuorilegge" almeno per coloro che intendono seguire la via indicata dal Vangelo di Cristo?
Mi hanno veramente impressionato le sue parole riportate nell'intervista di "Toscana oggi" alla domanda che le è stata fatta "Cosa si sente di dire ai giovani che in questo periodo sono impegnati in operazioni militari o che comunque corrono il rischio di esservi coinvolti", lei risponde in maniera davvero preoccupante: "Prima di tutto invito a pregare per la pace... Al giovane dico che compia il proprio dovere e che abbia il coraggio di compierlo, perché nella vita ci sono momenti in cui non ci si può tirare indietro. Quindi davvero non mi sento di invitare né all'obiezione di coscienza né tanto meno alla diserzione come qualcuno ha fatto. Li invito a pregare, ad essere sereni ed anche ad avere il coraggio di essere cittadini dell'Italia e del mondo in quanto parte delle Nazioni Unite".
Devo dire che da un vescovo, anche se della diocesi militare, in questo momento della storia mi sarei aspettato un "invito" molto diverso: che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini che ordinano di distruggere e di uccidere; che il "giovane cristiano", anche se è militare, deve amare i propri nemici (ammesso che ne abbia) e non rendere male per male; che "uccidere" è sempre un gravissimo peccato contro Dio e contro l'Umanità (infatti coloro che uccidono si chiamano "criminali"). Le sue parole, eccellenza, potevano star bene in bocca ad un generale (americano, iracheno, italiano, francese, inglese, israeliano...) oppure a qualcuno dei nostri politici che non hanno esitato a calpestare la Costituzione della Repubblica nata dai milioni di morti della seconda guerra mondiale.
Credo che le sue parole spieghino molto bene l'atteggiamento tenuto da tutto il gruppo dei cappellani militari italiani nei confronti dei "nostri ragazzi" di leva e di professione inviati nel Golfo o rimasti nelle caserme: a me pare che "nei fatti", nelle scelte concrete sulle quali si misurano i valori profondi che danno senso alla vita, la sua posizione sia una completa smentita della stessa "linea" portata avanti dal papa Giovanni Paolo II. Ma soprattutto viene rimessa in gioco la "credibilità" di una Chiesa che mentre prega Dio per il dono della pace, dà il benestare ai giovani di far tuonare i cannoni in obbedienza "alla patria e alle Nazioni Unite".
Questo "nodo" va sciolto: le chiedo di fare il possibile perché si apra in tutta la Chiesa italiana un capitolo nuovo, diverso, che renda onore a tutto il messaggio di pace e di verità portato da Gesù Cristo e pagato da Lui sulla croce.
Nessun cristiano e tanto meno nessun vescovo può permettersi di legittimare la guerra e l'obbedienza delle coscienze a chi la comanda e la impone, senza negare le proprie "radici cristiane".
Bisogna sciogliere coraggiosamente questo nodo secolare perché sia possibile ritrovare la limpidezza della scelta cristiana: "Non si può servire a due padroni"; non si può amare la pace e nello stesso tempo fare la guerra; non si può pregare il Dio della Vita e nello stesso tempo seminare la Morte.
Questo nodo va sciolto, questo "muro" va finalmente abbattuto, per la gioia di tutti i popoli: e penso che sarebbe bellissimo che i primi a prendere il piccone in mano fossero proprio i cappellani militari guidati dal loro vescovo.
Eccellenza, se un giorno dovesse prendere questa evangelica decisione, vedrà che saremo in tanti a darle una mano.

don Beppe

Una domanda sulla pace

Una certa preoccupazione
continuava a trattenere John
dal formulare
la sua domanda
sulla pace.
Voleva bene al dottor Orme
perché era un uomo
che non parlava molto di Dio,
quando c'era qualcosa da spiegare,
e desiderava che le cose restassero così.

Il dottor Orme ci arrivò da sé.
L'umanità avrebbe imparato, disse.
Imparava
un po' più lentamente
di quanto egli avesse supposto.

Dipende dal fatto che gli individui capaci
cercano sempre di cambiare quel poco che conoscono del mondo.
Un giorno
scopriranno il mondo
anziché cercare di migliorarlo.
E non dimenticheranno più quello che hanno scoperto

S. Nadolny "La scoperta della lentezza" ed. Garzanti

menù del sito


Home | Chi siamo |

ARCHIVIO

Don Sirio Politi

Don Beppe Socci

Contatto

Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455

Link consigliati | Ricerca globale |

INFO: Luigi Sonnenfeld - tel. 0584-46455 -