LOTTA COME AMORE: LcA ottobre 1990

Pace è stile di lotta

Chissà - quando questo giornalino raggiungerà i suoi lettori - chissà quale stadio avrà raggiunto la guerra del Golfo. Scrivendo alla fine di settembre, la situazione sembra via via avvitarsi su sé stessa rendendo drammaticamente più vicine le ipotesi più inquietanti e terribili. Lo scenario intravisto tramite i vari 'servizi speciali' è apocalittico. La potenza di fuoco raccolta in quel tratto di sabbia e di mare ha capacità distruttive folli. Una follia lucida il cui unico obiettivo è l'annientamento, la cauterizzazione traumatica del problema, di ogni problema.
Sembra che vi sia un punto, infatti, che affascina gli esperti della guerra ed è sapere se la scienza ha affinato le armi ad un punto tale per cui sia possibile operare con la massima potenza distruttiva in un conflitto locale senza correre il rischio di provocare un allargamento a macchia d'olio del conflitto stesso. E per far questo occorre operare in tempi brevissimi, tagliare, asportare e ricucire proprio come in una ben orchestrata operazione chirurgica. Con il bisturi dell' armamento nucleare, elettronico e batteriologico perfezionato al punto da calibrarne la portata mortale a ciò che si vuol toglier via.
Di fronte a questa ipotesi gli accordi per il disarmo est/ovest assomigliano alla svendita ai privati di mura, fortificazioni e castelli che intorno al 1500 fecero stati e staterelli essendo queste difese divenute inefficaci di fronte alla nascita della moderna artiglieria. E balza subito evidente all' occhio come il Medio Oriente sia divenuto in questi mesi terreno sperimentale ed insieme scenario reale di una mostra mercato di tecnologie e applicazioni scientifiche finora rimaste discretamente nascoste dalle cortine di riserbo del confronto russo americano. Inoltre la linea di confine tra industria bellica e industria civile sta divenendo sempre meno rilevante nell' ambito di una strategia globale. Sempre più si evidenzia la responsabilità etica e politica di coloro che comunque si preparano a sferrare il primo colpo, rispetto ad una discussione sulla legittimità di un regime, sui motivi immediati, sull'intrinseco essere malefico di persone strutture, attrezzi costituiti per uccidere.
Non sappiamo quanto importi in tutto questo che l'Emiro del Kuwait possa ritornare al suo posto e che sia ristabilito l'ordine internazionale. L'incancrenirsi dell' occupazione da parte di Israele di Gaza e della Cisgiordania e della tragedia libanese non sembrano lasciar dubbi sui secondi fini di tutta questa operazione a partecipazione corale.
«L'osso al cane non gli si leva», recita un proverbio popolare, e lo sviluppo in crescita dei paesi più industrializzati è da record assoluto. Il petrolio non si tocca. Finché Saddam Hussein tornava utile per contrapporlo a Komeini, non importava gran che sottilizzare sui suoi metodi. Ma quando ha deciso di mettersi in proprio... è diventato il nemico contro cui rivolgere un esercito (non solo targato USA) disattivato sulle frontiere ideologiche Est/Ovest e divenuto pericolosamente vagante, e quindi il banco di prova su cui verificare lo strumento di controllo mondiale che sostituisca il bipolarismo partorito a Yalta.
Sappiamo di trovarci di fronte ad un gioco antico quanto crudele nel suo rinnovarsi incessante.
Possiamo arrivare letteralmente alla disperazione se solo ci fermiamo alla constatazione delle cose, se solo ci lasciamo angosciare dal bisogno assoluto di arrivare ad un punto fermo. La pace non è tanto un traguardo quanto una dimensione della lotta per e della vita. A volte capita di dimenticarlo e il risveglio alla realtà può avere il sapore amaro della sconfitta. Ma non è così.
Se da una parte ci possiamo chiedere che fine ha fatto il movimento pacifista delle piazze e delle manifestazioni, dall' altra dovremmo anche saper valutare quanto circola in noi ed intorno a noi l'impegno in un discorso critico sullo sviluppo, nell' affrontare i nodi storicamente attuali della di-versità, nell' approfondire l'utopia nonviolenta di un confronto tanto radicale quanto incruento.
Certo, l'invio delle navi e dei Tornado, rimanendo nel nostro paese, è una sconfitta di una linea per la pace. Un tributo tipicamente 'italico' all'onore e all'onere dell'essere «mosca cocchiera» della CEE, non per questo meno in contrasto con iniziative costruttive nei confronti di un serio progetto di assunzione in sede ONU dell'intero problema. Ma non possiamo neppure nasconderci il fatto che questa missione militare è solo una ciliegina sulla torta di una presenza italiana in armi e sistemi d'arma tutt'altro che secondaria in Iraq e nel Golfo.
Una sconfitta non è mai evento da scuoter di dosso semplicemente le spalle. La si subisce, ma non la si esorcizza chiudendo gli occhi.
Il collegamento stretto tra modello di sviluppo e violenza armata deriva immediatamente dalla necessità di difendere se non addirittura di crescere il predominio a tutti i costi. E deve crescere nella consapevolezza collettiva il fatto che la bandiera italiana non si identifica più con una patria e dei «sacri» (?) confini, ma con un livello di benessere, con un livello di consumi, con un 'mercato' che va difeso contro ogni attentato che voglia mettere in discussione l'attuale assetto della distribuzione della ricchezza sul nostro pianeta.
La via della pace passa attraverso la capacità di mettere in crisi l'indiscusso diritto al livello di benessere e di sviluppo di cui attualmente godiamo. La via della pace passa attraverso la ricerca di soluzioni politiche riguardanti le nostre scelte energetiche, il nostro futuro di società multietnica, i tremendi squilibri esistenti nel campo dei diritti. Le soluzioni politiche - in una realtà sociale schiacciata dalla onnipresente immobilità partitica - possono nascere e crescere anche attraverso gesti utopici, piccoli ma vivaci segni profetici. Disponibili, come i semi dei grandi alberi, a mutare aspetto e dimensioni assecondando la vita che cresce.
Oggi, forse ancor più che ieri appare chiaro, che la via della pace è soprattutto uno stile di lotta.

La Redazione

La posta di fratel Arturo

Siamo lieti di dare spazio ad Arturo pubblicando due sue lettere. Una ci arrivò quando il precedente numero di Lotta come Amore era già in tipografia. E precedeva di poco la sua venuta in Italia.
L'altra 1'abbiamo ricevuta da poco attraverso i consueti amichevoli «canali». Sarà come vivere ancora la sua calda, serena presenza.

Cari amici italiani,
da più parti d'Italia mi ricordano che in questo mese di giugno si compiono i 50 anni del mio sacerdozio. Non lo avevo dimenticato, ma a quest'età della vita spirituale, gli avvenimenti della relazione si vivono silenziosamente. Con questa lettera mi propongo di darvi una spiegazione, perché le persone che mi amano e vogliono partecipare con sincerità a questo compleanno, mi capiscano e scoprano lo stile della loro partecipazione.
La nostra vita è la storia di una relazione con un AMICO che riesce ad essere presente intensamente nella nostra vita, quantunque invisibile, e a partecipare il suo progetto che riassume e unifica tutti i progetti che un uomo può pensare. Non dice mai: aspettami lì perché ho da fare qualcosa cui tu non puoi partecipare. Oppure: non posso stare con te ora perché altri amici mi attendono. Al suo partner chiede unicamente di credere che la relazione è reale, che è importante, che dà un senso costante alla vita in tutto il suo arco breve o ampio. Questa relazione è in continua evoluzione, anche se in certi momenti appare statica o addirittura sembra scomparire come l'acqua di un fiume sotto le pietre. La mia polemica contro la cosiddetta formazione spirituale programmata negli istituti appositi è che non sceglie come centro e come meta questa relazione. L'AMICO mi ha concesso il privilegio di comunicarmelo molto presto e di convincermi a crederlo con tutte le mie forze. Noi vecchi non possiamo dare molti consigli ai giovani perché nessuna delle nostre vite può servire da modello. Possiamo solo dire che vita spirituale è la storia di una relazione che tocca le punte estreme della gioia e del dolore, e che l'epilogo vi fa esclamare con una sincerità che raggiunge le radici dell'essere: «valeva la pena!». La mia preghiera è spesso una parola molto frequente sulla bocca dei miei amici brasiliani: «valeu», valeva la pena, la vita non mi ha davvero deluso. Vi direi di non frugare nella mia vita per cercarvi grandezze o miserie, peccati o trasparenze della grazia, perché tutto è travolto e distrutto (o trasfigurato) e resta la relazione. A me non è concesso di fare dei feed back nel passato: la relazione è presente, è acqua di fiume che scorre e quella che passava ieri sotto i vostri occhi, non è più. Per fare un bilancio della mia vita dovrei remare controcorrente: ma il guaio è che non ho remi.
La scadenza di cinquant'anni accende in molti il desiderio o prurito di sapere come sta il vecchio, come porta sulle sue spalle questo peso non indifferente. Gli si chiede che metta a disposizione il suo repertorio di fatti che dev'essere ricchissimo. E forse per questo che non amo si organizzi una festa delle «nozze d'oro»: perché non ho novelle da raccontare: non mi piacciono le farfalle infilate in uno spillo e i francobolli scaduti dalla loro funzione di messaggeri di un'amicizia che vi scalda il cuore. Il vecchio non è in casa in questo tempo; vive in una piccola barca senza remi e senza motore che scivola lentamente su un fiume pacifico verso l'estuario. Non aspettatelo sulla riva perché non tornerà: come può tornare se non ha remi? È molto contento, sta molto bene perché dalla riva lo si vede solo, ma l'AMICO è con lui ed è molto esperto dei cammini d'acqua.
Vi confido che il vecchio ha i suoi momenti di crisi: si ricorda in certi momenti di essere stato un buon remato re. E allora cerca i remi con un certo affanno e la barchetta comincia ad oscillare paurosamente. Poi si calma, si siede sulla traversa di legno e si dà dello stupido, ride di sé e qualche volta piange perché scopre che non si è fidato fino in fondo dell'AMICO. Altro momento della crisi è quando si vede solo: è strano che questo fiume immenso non sia popolato di altre barche, che ad altri non sia venuto in mente di scegliere questo cammino per arrivare alla grande città sulla foce. È possibile che questo guscio di noce non regga fino in fondo, si rovesci, e il passeggero sia inghiottito dalle acque senza scampo. Allora prova la durezza delle parole «uomo di poca fede, perché hai paura?». Veramente - dice a se stesso - «la Parola di Dio è più tagliente di qualunque spada a doppio taglio» (Ebr. 4,12).
Capite, amici, come è difficile in queste condizioni organizzare una festa? Certo, voi avete il diritto di chiedergli che cosa ha fatto in questi cinquant'anni! Ma lui non lo sa: tutto è stato investito nella relazione. Guardatelo dalla riva: avete tempo, potete dialogare con lui perché l'acqua scorre molto lentamente. Vi accorgerete che sta bene, che è molto tranquillo. Se vedete la barca agitarsi ora sapete la causa: l'AMICO lo tiene per mano o soavemente o con energia: non lo farà precipitare nell'acqua. Se non vi interessa lui, ma quello che ha lasciato sulla terra ferma, abbandonate la riva del fiume, tornate indietro, frugate quanto volete, dove volete: lui è già tutto nella gioia del prossimo arrivo.
Vi abbraccio con tutto l'affetto.
Arturo


Cari Amici d'Italia,
sto per lasciare l'Italia: forse, quando mi leggerete, sarò già lontano. Questi spostamenti di luogo non hanno molta importanza; vivo una storia unica che è la storia dell' amicizia. Anche voi avete incontrato degli amici nuovi su uno sfondo musicale costante.
La stagione italiana è stata caratterizzata da avvenimenti che mi hanno commosso profondamente. I tre giovani che hanno aperto la catena tragica dei suicidi mi hanno scosso tanto da togliermi il sonno. Nella mia meditazione notturna, ho pensato quanto sia negativo che avvenimenti di tanta importanza siano inghiottiti nella girandola di immagini, di notizie, di emozioni: travolti nelle novità che rovescia sul mercato la velocissima macchina che produce 'informazione'. Non c'è tempo di cogliere il senso simbolico delle azioni e dei fatti, per cui i nostri giudizi sono sempre sbagliati, perché vediamo il segno e non la realtà. Un fatto come questo suicidio viene presentato dai mass media come un pezzo emozionante che ci lascia spettatori. La nostra responsabilità svanisce addossata ad un essere anonimo in attingibile che continuerà a esigere vittime che saranno immolate sotto lo sguardo di noi spettatori impotenti. Eppure i tre giovani ci hanno trasmesso un messaggio che non è quello che hanno lasciato su un pezzo di carta: è quello chiuso nel senso simbolico del loro gesto.
Erano amici perché si trovarono d'accordo in una decisione: quella di morire. Vollero morire l'uno accanto all' altro perché non volevano che la morte li separasse. Avevano dei desideri comuni, desiderio di sesso, di... , di... molte cose. Forse si stimavano perché ognuno era economicamente autonomo; non avevano il gusto del lavoro, non amavano quello che facevano; ma il loro lavoro permetteva di soddisfare le voglie.
Non erano amici perché nessuno dei tre si sentì «altro» per il suo vicino. Nessuno di loro si sentì necessario per l'altro. Nessuno riesce a far sentire all' altro necessaria l'esistenza perché nessuno dei tre ha assolutamente bisogno che il suo vicino esista. L'esistenza è inutile quando nessuno ha bisogno che tu esista...
I tre guardano avanti e vedono solo il vuoto: non sono abituati a guardare di fianco. Hanno raggiunto l'autonomia economica, l'indipendenza della famiglia: non la libertà.
Questi tre giovani ci hanno lasciato una chiarissima apologia dell' amicizia. Paradossalmente hanno praticato il consiglio del Vangelo 'morire per gli amici'. Direi che sono morti proprio a causa dell' amicizia, «per una amicizia mancata». La vicinanza fisica senza comunicazione sottolinea profondamente la necessità dell'amicizia. Non si può vivere da soli, ma non basta accostare una pelle ad un'altra pelle per essere amici.
Perché non sono amici? Perché li unisce un incontro nei desideri: si trovano per soddisfare dei desideri comuni; ognuno è proiettato sul suo desiderio. E fuori di sé, non è più capace di abitare in sè, e quindi l'uno non può bussare alla porta dell' altro, al cuore dell' altro. Perché l'altro non c'è, è fuori. Ognuno è incapace di amare l'esistenza perché non esiste. Hanno rotto il cordone della dipendenza familiare non per salvare la loro esistenza, ma perché i desideri li hanno risucchiati fuori. La separazione non è stata una scelta, ma una frattura. Forse non hanno mai vissuto la dipendenza dell'amore e hanno dovuto attendere una indipendenza che si affidasse totalmente ai desideri.
Ho riflettuto lungamente sulla meccanica dei desideri e sulla pedagogia dell' amicizia che può essere fondata solamente sull'identità. Il suicidio dei tre giovani non è in fondo un suicidio, ma un assassinio. E il killer è questa nostra cultura. Il consumismo ha bisogno di rendere efficiente la meccanica dei desideri. Impossibile trovare la propria identità perché l'io non torna più a casa. E incatenato e deve obbedire ai desideri e all'idolo che invia questi spiri ti folletti sulla terra. Un corpo tocca l'altro, ma il corpo è disabitato.
Non parto triste, anche se questa meditazione mi ha tolto il sonno: questa veglia non ha niente a che vedere con l'insonnia di cui non ho mai sofferto: è un aspetto della mia relazione con l'Amico e della partecipazione al suo progetto. I fornai non lavorano forse di notte?
Ci troveremo ancora insieme, cercando di capire l'enigma del mondo. Non esistono situazioni che ci permettano di disertare la storia. Alcuni momenti esigono più pazienza, più preghiera, più disposizione alla povertà e cioè a rinunziare a certe ricchezze economiche e non economiche per vedere con chiarezza come e perché e con quale senso dobbiamo continuare ad esistere.
Vi saluto, e continueremo a sentirei scambiandoci dei messaggi.

Arturo

Chiedete pace per Gerusalemme

Mi piacerebbe riuscire a comunicare agli «amici lettori» qualcosa di ciò che ho vissuto nella profondità dell' anima nel periodo assai lungo che mi è stato possibile vivere in quel piccolo pezzo di terra stretto tra il mare Mediterraneo, il lago di Tiberiade, il Mar Rosso, che porta nel suo stesso nome il segno concreto, storico, della divisione e della lotta: Terra Santa per i cristiani, Palestina per gli arabi, Israele per gli ebrei che lì sono ritornati con la forza delle armi.
Non mi voglio soffermare più di tanto sulla questione del «nome»: è solo per raccogliere una realtà molto significativa di una storia faticosa, dura, piena di sofferenza e di angoscia ed anche di tanti sogni.
In questo mio scrivere vorrei invece tentare di esprimere una serie di sentimenti, pensieri, memorie, emozioni profondissime e meravigliose che mi hanno attraversato l'anima e che non mi è facile riuscire a tradurre in parole scritte, anche se sono chiarissime e limpide dentro di me.
È stato un periodo troppo «speciale», vissuto con tanta intensità di partecipazione, di accoglienza, di condivisione a livello di vita quotidiana, di uno «stare li» a vivere camminando su quella Terra misteriosa che ha raccolto in se stessa i segni della Presenza di Dio attraverso i secoli di una storia che si è dipanata all'interno di un cammino umano unico nel suo genere.
Così mi sono ritrovato a camminare per le strade del monte degli olivi, per i vicoli affascinanti della Gerusalemme vecchia, per i sentieri pietrosi delle prime colline dorate del deserto di Giuda, per le stradine strettissime dei piccoli villaggi palestinesi colmi di vita, di ragazzini vivacissimi, di mansueti asinelli, di capre, di montagne di barattoli di ogni genere... Ho camminato a piedi più che ho potuto, rifacendo tante volte le stesse strade e gli stessi percorsi: tutto mi è apparso sempre nuovo, diverso, ricco di sapore e di stupore.
Ho voluto un gran bene a tutta la gente che ho incontrato: è una cosa tutta mia, che non ho potuto comunicare se non in pochissime occasioni, in qualche raro incontro; ma ho «guardato» tutto con tanto amore, con profonda accoglienza, nel tentativo sereno di lasciarmi andare al fiume della vita di ogni giorno, senza programmi né pretese di «vedere» chissà che cosa ...
Sono stato molto felice di poter vivere un piccolo pezzo della mia vita su questo lembo di Terra che mi ha preso in profondità nell' anima e mi ha dato l'impressione di entrare di più «dentro» il mistero stesso dell'esistenza umana universale. Mi è sembrato anche di vedere più chiaramente il misterioso rapporto fra l'umanità e Dio, che qui ha preso carne e sangue nella vita e nella storia di Gesù. Le pagine del vangelo mi sono rifiorite piano piano nel fondo del cuore e tutto mi è sembrato come nuovo, limpido, stupendo. Ci sono stati momenti davvero straordinari. La pace di un mattino dolcissimo sul lago di Tiberiade è difficile da svanire dalla memoria del cuore: e non per chissà quale emozione romantica, ma proprio per lo splendore delle cose, la chiarezza e la pienezza di quella luce del vangelo che mi è sembrata così vera e così concreta. Non era difficile ripensare a Gesù risorto che preparava la colazione di pesce arrostito sulla riva del «suo» lago, nelle prime brume del giorno, mentre i suoi amici rientravano da una notte «a vuoto». Sono rimasto un giorno intero seduto sopra un enorme masso di basalto come «affascinato» da una Presenza che era immediata e semplice.
Sono state tantissime le «cose» vissute in grande intensità di partecipazione e di amore: ecco, questo mi pare essere stato un tempo in cui non ho fatto altro che vivere con grandissimo amore ogni istante ed ogni avvenimento.
Sono sicuro che piano piano tutto il groviglio di sentimenti che si è deposto nel fondo dell'anima si scioglierà e troverò il modo di «raccontare» almeno una parte di ciò che è diventato esperienza viva della mia vita.
Ora, però, mi preme riuscire a comunicare la sensazione più forte, più facile da esprimere, più urgente e necessaria da realizzare, anche se non so davvero immaginare come sia possibile che ciò diventi realtà.
«Chiedete pace per Gerusalemme!»: questa preghiera che appartiene ad un Salmo della Bibbia, l'ho sentita salire da ogni angolo di quella Terra lacerata dalla visione e dalla lotta, dall' odio e da una violenza così mescolata alla vita quotidiana da diventare quasi «indispensabile».
I soldati israeliani armati di tutto punto sono dappertutto: te li trovi accanto, ragazzi e ragazze di leva, uomini della riserva già avanti negli anni, quando compri il giornale, sali sull' autobus, mangi un panino o semplicemente cammini. Mi è capitato parecchie volte in autobus, di viaggiare in compagnia di una robusta canna di un mitra di tutto rispetto. Le porte principali della Gerusalemme vecchia le ho viste sempre presidiate da soldati in assetto di guerra. Lungo le strade più importanti si incontrano spesso i campi militari, i posti di blocco.
Gerusalemme porta nel suo nome il suo destino di «città della pace»: oggi essa è un segno di contraddizione, una città ferita, lacerata, divisa, frantumata, carica di enormi possibilità di distru-zione e di morte. Eppure è bellissima, affascinante, colma di segni di speranza, piena di colori, di profumi, di preghiera, di vita.
Gerusalemme è un fiore calpestato dall' assurdità, dalla follia, dall'impazzimento di chi non ha nè orecchi per sentire nè occhi per vedere nè cuore per amare. Basta camminare per quelle vecchie stradine, sotto gli archi carichi di storia, per sentire le pietre gridare il desiderio della pace. «Se essi taceranno, grideranno le pietre». Le parole di Gesù sono vere, esprimono una realtà che ac-compagnerà sempre il misterioso cammino dell'umanità.
Mi sono mescolato tante volte alla folla che come un fiume la attraversa in lungo e in largo, specialmente dentro le viuzze del mercato; sono passato davanti alla «guardia israeliana» che controlla i punti strategici: a tutti ho regalato il mio saluto di «pace». So benissimo di non aver fatto «niente»: il grido, però, che sale da ogni pietra l'ho raccolto con immenso amore e intensissima partecipazione.
Bisogna ascoltare questo grido, questa richiesta che preme da tutte le parti della vecchia Città ferita e piegata: essa è davvero il segno di tutta l'umanità che ha sete di riposo e di pace. «Sia pace sulle tua mura, sicurezza alle tue porte». E difficile immaginare come tutto questo sogno millenario possa diventare realtà concreta e storica.
Eppure bisogna che ciò avvenga. Bisogna fare qualcosa tutti perché Gerusalemme diventi ciò che non è, perché il suo destino si avveri e dal suo seno esca un fiume che riesca a far fiorire il deserto di una storia umana bruciata ed inaridita dalle ragioni del potere e della forza.
\ Don Beppe



Artigiani di pace
65. La storia dell'umanità, in tutti i tempi e in tutte le civiltà, è piena di guerre e di ricorsi alla violenza. Oggi, malgrado la pace apparente che ha incominciato a farsi tra i grandi di questo mondo, le guerre non sono cessate in numerosi luoghi del terzo mondo. Tutte queste guerre hanno una relazione con questi grandi della terra e con i commercianti di armi. Le grandi potenze hanno il loro ruolo in queste guerre e nella loro conclusione. Non possono sottrarsi alle loro responsabilità.
Le guerre sono un male da cui l'umanità deve potersi liberare. La pace è un rischio che devono accettare tanto le due parti in conflitto quanto i commercianti di armi e le grandi potenze di questo mondo.
In tutte le epoche e in tutte le civiltà, ci sono pure uomini di pace. D'altronde ogni conflitto e ogni guerra ha dovuto finire, presto o tardi, con un trattato di pace. Bisogna dunque sperare che anche qui un giorno si costruisca la pace.
Bisogna sperare, bisogna aiutare la speranza a nascere, con un appello fermo alla giustizia, e con una condanna ferma di ogni ingiustizia, da qualunque lato venga.

Gerusalemme, segno di speranza
66. Gerusalemme, attualmente segno di contraddizione e di conflitto, resta, grazie a tutti i messaggi divini trasmessi, tramite essa all'umanità credente, un segno di speranza. Tutti i credenti di tutti i popoli dovranno incontrarsi per ascoltare qui la voce di Dio. Se arriveranno a intenderla, potranno restituire a Gerusalemme, con il suo carattere sacro, il suo potere di pacificazione e di umanizzazione.
Nessuno ha il diritto di appropriarsi esclusivamente Gerusalemme, un 'appropriazione che faccia nascere l'odio e la disputa. Ogni credente ha il diritto di fare di Gerusalemme la patria della sua anima, della sua giustizia e dell'amore nel quale chiama tutti gli uomini alla pace di Dio. «Domandate pace per Gerusalemme ...
Per i miei fratelli e i miei amici io dirò:
«Su di te sia pace!»
Per la casa del Signore nostro Dio, Chiederò per te il bene» (Sal 122, 6.8-9).

Preghiera
67. All'inizio della storia umana, la torre di Babele era simbolo della confusione delle idee e delle lingue. Il giorno di Pentecoste, lo Spirito ha donato ai credenti presenti a Gerusalemme di comprendersi malgrado la differenza delle loro lingue. Domandiamo al Signore di inviare sopra di noi il suo Spirito e di rinnovare, in mezzo a noi, la sua Pentecoste, perché ogni uomo e ogni donna cominci a comprendere suo fratello e sua sorella, nell'amore e nella giustizia, e che tutti diventino capaci di amore, invece dell'odio, di pace, invece dell'oppressione e dell'ingiustizia.
Signore, in questo giorno e in questa terra, tu hai inviato il tuo Spirito, per rinnovare la faccia della terra, per riconciliare l'uomo con te e con il suo fratello. In questo giorno, in questa terra, noi abbiamo bisogno di riconciliazione. Invia il tuo Spirito oggi per rinnovarci e per riconciliarci.
Micheal Sabbah, Patriarca
Gerusalemme, Pentecoste 3 giugno 1990


don Beppe

Nottata di preghiera

Un prete, che aveva occasione di andare a Bargecchia quando Sirio vi era parroco, mi ha già raccontato, almeno due o tre volte, che, passando la notte nella canonica gli era capitato di notare il letto di Sirio ancora fatto al mattino dopo che la sera precedente l'aveva lasciato a pregare in chiesa. E la perpetua interrogata a proposito diceva che non era un'eccezione questo suo passare l'intera notte in chiesa pregando.
Non solo in quegli anni, ma anche in seguito, Sirio ha vissuto queste notti:

«Che vado cercando stanotte?
la porta non è chiusa
la casa è senza tetto
senza volta di stelle il cielo
tutto è aperto e scoperto
è qui e è dovunque
non occorre ricerca
è assurdo chiamare.

È come essere salito
sulla cima di un monte
sul soffice volo di nubi
penetrate le stelle
e sopra ancora ancora
tutto lo spazio
ma mi volgo intorno
e la presenza è qui
io sono nella presenza
e contiene tutto l'universo
e non si disperde
è tutta raccolta.

E ora raccolgo il mondo intero
tutta la storia di tutti i millenni
l'umanità che dorme
o che si agita su tutta la terra
la sento e la vivo
come una sola parola
non ho paura che sia falsa
o semplicemente assurda.
È vera perché la mia Fede
è questa chiarezza
adorazione è questa parola
e poi Amore e poi ancora
Tu Dio sei l'unico tutto in tutti
Tu Dio
Tu

io so che mi ascolti
non sono pazzo
anche se sono posseduto
e stranito stanotte
e come svuotato di vita
eppure mai come in questo momento
mi sento vivente
e segno e realtà di tutta la vita
sì che potrei morire
perché ho vissuto assai
avendo vissuto stanotte».

('Nottata di preghiera', Sirio)

Nel numero precedente di Lotta come Amore, mi chiedevo da quale radice Sirio traeva quel suo approccio con gli altri e la vita che non è apparso mai né ovvio né banale. E, non solo da questo suo pregare a nottate intere, credo sia fin troppo ovvio trovare quella radice in Dio. Troppo ovvio, perché con questa risposta si dice tutto e, nello stesso tempo, si rischia di non dire niente. Il nostro rapporto con Dio è sempre così originale ed unico per ciascuno di noi da non poter essere sem-plificato ed uniformato ad esperienza uguale per tutti ed anche se ci rifacciamo allo stesso Dio come motivo della nostra vita, Egli è per noi infinitamente diversificato nel Dono della Sua vita.
Così dire che alla radice della vita di Sirio c'è Dio, non mi serve a molto se non cerco di entrare in rapporto con il Volto che in questa vita si manifesta. È così nei confronti di ogni uomo e di ogni donna che la vita mi offre di incontrare. E così anche nei suoi confronti.
Il fatto che Sirio, nei suoi scritti per esempio, parli spesso scopertamente di Dio può non essere di per sé un aiuto alla comprensione e all'incontro. Dico questo non perché creda che sia veramente un ostacolo, ma in quanto non è dalla quantità di volte in cui uno nomina Dio che si misura la profondità e la qualità di una Presenza.
Mi sembra più interessante notare come per Sirio Dio sia soprattutto l'ALTRO con i cui pensieri e le cui vie egli si pone in confronto e in ascolto. L'altro non come sconosciuto e temibile, ma come ben conosciuto e amabile. E non da solo, ma come uomo nell'umanità e come creatura nella creazione. Fino al punto che anche gli altri, come ciò che è altro (le cose... ), vengono sempre presi «terribilmente» sul serio! Ciò non vuol dire che venissero, gli altri o le cose, sempre presi per il verso giusto e può essere che fosse preferibile a volte non fare così sul serio, ma certamente non possiamo dire che Sirio non giocasse tutto se stesso, nel bene e nel male, nella relazione.
Il saltare il muro, così emblematico nella sua vita.
E la preghiera non è altro che una dimensione della sua 'lotta come amore', nella ostinata volontà di tener sempre presente 1'Altro, qualsiasi altro. Quell' «altro-da-noi» che è spesso il proprio corpo, il se stesso nella sua spesso trascurata dignità.

Luigi

Il quotidiano e la fede

Si tratta di riflessioni personali e quindi vanno tenute di conto in misura molto relativa. Sono provocate da una constatazione: la fatica della Fede si aggrava e si fa sempre più pesante, quasi ad ogni giorno che passa. I motivi che determinano - e hanno tutti il segno dell'inevitabilità, sembra cioè che siano irrimediabili - questa svalutazione della Fede fino al convincimento della sua inutilità, sono ovviamente innumerevoli e non è qui il caso di farne un' analisi.
Ne raccolgo uno di questi motivi, anche perchè lo riscontro nella mia fatica di Fede, ma poi mi succede spessissimo di consta" tarlo quando c'incontriamo tra amici e parliamo di problemi di Fede, di ricerca di Dio, di preghiera. Succedono un pò a tutti momenti di crisi, di difficoltà, quando ci capitano situazioni pesanti, vicende dolorose, incomprensioni, colpi duri, nello svolgersi della vicenda della nostra vita.
Ma difficoltà alla Fede spesso non è tanto l'eccezionale, il momento d'emergenza, quanto l'aria che respiriamo, il tran-tran di tutti i giorni, il grigiore per non dire lo squallore delle ventiquattr'ore... il problema cioè del quotidiano. E ormai questa è parola estremamente significativa in questi nostri tempi. Sempre più l'impegno del quotidiano che va vissuto inevitabilmente (il vivere di ogni giorno è spesso una spietata prigione, dove si può avere anche l'impressione di soffocare, ma dalla quale è impossibile liberarci) diventa fatica, come portare pesi insopportabili, come respirare dove non c'è aria respirabile.
L'oppressione del giorno per giorno ci allontana da Dio. Rende Dio lontano, un' altra cosa, troppo diversa dalla realtà che tocchiamo con mano, dura, aspra, terribilmente concreta. E soffocante.
Non ci soccorre e ci consola il pensiero che stiamo facendo la volontà di Dio: perchè questa sbriciola tura di se stessi, questo sbocconcellamento del nostro vivere, appare senza significato possibile. Al massimo riusciamo a sopportare, ci riduciamo alla passività, alla rassegnazione: di più è proprio impossibile, ci sembra.
E' pauroso che questa gran parte della nostra vita sia vissuta in un vuoto di Dio: una realtà nella quale Dio non conta niente, fino al punto che quasi nemmeno ci aspettiamo o pretendiamo che Lui possa contare qualcosa.
L'infinito cosa può significare per un granello di sabbia? E separiamo la nostra vita pratica, quella di ogni giorno, riempita e spesso sopraffatta da mille cose e da innumerevoli pensieri, sensazioni, problemi, dalla presenza di Dio, da una realtà di rapporto con Lui.
La Fede non è luce in una stanza, nella strada, in una fabbrica, in un campo... nel quotidiano della vita. Dio non è Amore fra me e te, con le persone di casa, con la gente con cui parlo e tratto i problemi di ogni giorno.
Quindi Dio non esiste sempre, certamente non esiste tutti i giorni, qualsiasi cosa possa succedere, ma anche se non succede niente perché le cose sono sempre le stesse, ogni giorno sempre quelle.
È impressionante quanto la monotonia quindi la noia e quindi l'asfissia dell' anima, sia malattia di questo nostro tempo.
E è malessere che provoca una strana rabbia, un risentimento misterioso, un nervosismo nascosto, maligno sempre sul punto di esplodere.
Cioè una scontentezza irrimediabile, fino all'intristimento. Fino alla non più volontà di vivere.
Dio ci deve guardare con profonda, infinita pena.
Come una sorgente d'acqua che va a perdersi in un deserto dove si muore di sete.
Come luce di sole, ma le imposte della casa si ostinano a rimanere chiuse.
La materialità del quotidiano con l'oppressione del suo grigiore, del suo non senso, della sua inevitabilità, è un terribile ostacolo alla Fede e a un progressivo annebbiarsi dell'idea di Dio.
Come tutto anche la Fede ha bisogno dell'eccezionalità, lo straordinario la provoca e l'accende, i grossi contrasti l'animano e la sostengono.
Mentre rimane esposta al logoramento quando il silenzio l'avvolge perché la solitudine la svanisce e i tempi lunghi la stancano.
Nella monotonia, nel grigiore di ogni giorno, nel tritume della banalità quotidiana, è possibile ritrovare un respiro di valori essenziali, spaziosità interiori dilatate all'infinito, apertura per rapporti profondi e presenze seriamente, concretamente creatrici? È possibile dare significato al niente, rendere abitata la solitudine, ricchezza sovrabbondante la povertà e potenza di vita dove sembra che tutto sia ormai morte?
Penso che spesso il nostro senso di vuoto dipenda da una nostra non conoscenza di Dio.
Non sappiamo chi è Dio e quindi non avvertiamo la sua presenza. Cioè che non siamo immersi in Lui e quindi colmati. In fondo è vero che la nostra vita non è il nostro vivere ma è il suo vivere: è Lui che vive la nostra vita, non siamo noi e tanto meno gli altri e le realtà e i valori che ci circondano e le vicende che ci avvolgono ad essere la nostra vita.
Allora chiaramente tutto è diverso e niente è inutile, a vuoto, senza senso, scolorito, assurdo ...
E poi è giusto anche riprendere la considerazione di quello che siamo. Chiunque siamo, ciascuno di noi è un essere umano.
E il nostro corpo è un'infinita preziosità, per se stesso, indipendentemente dalla considerazione di chiunque e dalla svalutazione di attività insignificanti.
E il nostro spirito è vastità di valori: portiamo misteriose possibilità di gioia nel profondo dell' anima, se appena permettiamo che possano liberarsi, sorgenti inesauribili di ideali se consentiamo loro di sprigionarsi, lasciandoci andare con piena e serena fiducia, ad un sognare a cuore aperto.
Perché spesso non abbiamo coscienza della nostra dignità e quindi delle nostre capacità a realizzare ciò che di buono e di valido e di estremamente importante è in ciascuno di noi.
Chissà perché così tanto spesso diventiamo prigione del noi stesso migliore, cioè del nostro vero noi stessi e di questa prigione ne siamo i carcerieri spietati e assurdi.
È poi semplicemente onesto e giusto dare, cioè riconoscere, a questa sbriciolatura del quotidiano i suoi precisi valori.
Non esiste niente che sia niente. Ciò che è dell'uomo ha sempre valore infinito: riassume il mistero dell'universo e ne diventa il segno.
Una stretta di mano vale più dell' accordo che regna fra le galassie. Un sorriso o una lacrima sono più assai del sole al mattino della cascata di un torrente.
È perdita irrimediabile lasciar cadere la poesia nascosta nelle cose, la radiosità del sentimento che può illuminare anche l'inutile, il saper dare importanza anche ad un filo d'erba.
La banalità non è misurabile dal vuoto di cose importanti, ma dal vuoto di valori dello spirito umano.
Tutto è adorabile, diceva una vecchia frase che mi è sempre rimasta a memoria.
Perché ciò che è dell'uomo è anche di Dio.
Allora anche il quotidiano, qualsiasi quotidiano, è adorabile.
È assurdo che abbia a slavare e a spengere la Fede ma anzi la deve coraggiosamente impegnare fino alle misure dell' adorazione.
E comunicare al personale di chiunque valori di universalità.
Perché ciò che viene sussurrato all' orecchio nel segreto della propria interiorità viene sicuramente gridato sui tetti, si dilata cioè nello spazio di Dio.
Sarà sempre vero che «chi lotta e soffre su una zolla di terra, lotta e soffre su tutta la terra».

(don Sirio)

...dagli amici

Carissimi,
nel nostro ashram, Swarga Dwar, tentiamo di fare il dialogo delle religioni, poiché abbiamo persone di diverse religioni e leggiamo insieme le differenti Sacre Scritture.
Sappiamo dalla nostra rivelazione che «Dio illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv. 1,9). Ogni uomo potrebbe accontentarsi della propria illuminazione, ma, comunicandoci le nostre esperienze interne, possiamo arricchirci vicendevolmente. Questo è quello che hanno fatto alcuni uomini che hanno avuto illuminazioni speciali. Così Abramo, Mosè, Gesù, Maometto, Zoroastro, Confucio, Krishna, Buddha ed altri che sono all'inizio delle grandi religioni. Nessuno si meravigli se abbiamo messo Gesù in linea con gli altri. Per dialogare bisogna sempre partire da un minimo comun denominatore: sono tutti uomini straordinari che han visto la realtà da un punto di vista particolare, originale, e che hanno comunicato la loro esperienza interna a quelli che hanno creduto in loro. Ognuno ha una sua particolarità, una sua unicità. Ma uno è sicuramente fuori serie. Voi forse pensate che mi riferisca a Gesù. No. Do' per scontato che tutti voi sappiate dell'unicità di Gesù: Figlio di Dio. Io vi voglio parlare di Buddha. Buddha è fuori serie poiché tutti gli iniziatori di grandi religioni hanno parlato in modi differenti di Dio, mentre Buddha, da cui prende il nome buddismo, non ha mai parlato di Dio. Capite allora che qui il nostro minimo comune denominatore per iniziare un dialogo, casca. Come fare un dialogo religioso senza parlare di Dio? Recentemente ho avuto occasione di fare un viaggio in Sri Lanka dove la maggioranza della gente segue il buddismo ed ho avuto la possibilità di confrontarmi con questa realtà. Come è possibile per un cristiano fare posto per il Buddha? Sarebbe troppo semplice evitare il problema dicendo che il buddismo non è una religione ma una filosofia. Ma milioni di persone con il buddismo risolvono quei problemi esistenziali che noi risolviamo con la nostra religione. Da ormai 25 anni ripetiamo con il Vaticano II che «la Chiesa Cattolica non rifiuta nulla di quello che c'è di buono in queste religioni»; ma penso che sia il tempo di fare un passo avanti e cercare di definire quello che c'è di buono, altrimenti rimaniamo sempre nel generico. Ora è facile riconoscere il monoteismo e la fede profonda dei musulmani, il senso storico della salvezza degli ebrei, il misticismo e la devozione degli hindu e tanti altri aspetti positivi di altre religioni teistiche. Ma che cosa si può salvare di una religione ateistica?
È mia opinione personale che la Chiesa Cattolica, se vuole iniziare un dialogo serio con le altre religioni, deve almeno riconoscere i fondatori di queste religioni e la loro ispirazione basilare. Per i fondatori bisognerebbe forse creare una nuova categoria di santi a fianco dei martiri, confessori e vergini. Quanto a riconoscere le ispirazioni originali, la difficoltà maggiore viene forse dal buddismo: come accettare l'ateismo di Buddha? Come astenersi dal parlare di Dio? Forse questo sforzo di legittimare l'ateismo dei buddisti potrebbe servire a purificare il nostro teismo eliminando quello che è immaginazione e sentimento nel descrivere Dio, da quello che è esperienza e rivelazione. Buddha nacque in un periodo in cui la religione bramica era ridotta a ritualismo, casteismo e sacrifici cruenti. Un dio, che divideva gli uomini in caste e si dilettava del sangue degli animali, non interessava a Buddha. Evidentemente era un dio creato al 99% dalla fantasia umana. L'altro uno per cento Buddha lo trovò in se stesso. Noi cristiani diciamo: ma il nostro Dio è quello che si è rivelato in Gesù. La sfida del buddismo sta proprio nel farci esaminare quanto c'è di rivelato e quanto c'è di immaginato. Un concetto tipicamente buddista è quello di togliere la scorza della cipolla per vedere via via cosa c'è dentro. Ognuno deve farlo per sé.
Carlo Torriani
Swarga Dwar, Rohinjan, TALOJA 410208



In questo clima così asettico, falso e qualunquista di Referendum (siamo al 2 giugno dell' anno in corso), provo un grande disagio e dolore nel constatare come tanti amici di cammino di estrazione cattolica, molto aperti socialmente e politicamente non si sentano coinvolti di fronte ai problemi della Natura, della Vita fisica. Mi domando se può essere una Rimozione alla Corporeità della Natura e Nostra.
Di fronte a questi Referendum, come del resto a quelli del Nucleare, forse molto ambigui e limitati, esce un grande desiderio di purezza e assolutezza, anche giusta, ma perché su altri problemi politici e sociali si accetta di andare a patti, di fare compromessi con l'idealità. Sembrerebbe che su questi problemi anche pratici, non essendoci abbastanza idealità e ideologia, diventi normale omologarsi al Potere e alla Cultura corrente.
Sui problemi sociali, politici, etici, forse perché rispecchiano aspetti più spirituali e «umani (P)», ci si coinvolge, ci si mette più in attivo, invece sui problemi della Natura e della Sua e della Nostra vita non ci si coinvolge, sembra non ci riguardi. E come se non fosse un Nostro problema primario, essenziale come il Corpo. Non ci riguarda in prima persona, è un problema degli altri, si delega. Come si delega sul Corpo.
Senza voler vedere o capire che stiamo giocando la possibilità di vita sulla Terra per le prossime generazioni. Ed allora rimoviamo, non vediamo, non pensiamo.
Sembra che non si riesca ad assumere l'uno e l'altro. Il politico, il sociale, l'etico e non l'ecologico che permea tutto. Lo si distacca, è Altro, è diverso. Come il Corpo è diverso, è altro dallo Spirito e dall'Intelligenza.
Ma questo mi sembra un totale imbarbarimento dell'Umano.
Non posso non pensare con estrema e profonda nostalgia e gratitudine a Sirio, alle sue lotte contro il Nucleare, alle sue sofferenze per l'incomprensione e l'indifferenza generale e per la sua condanna. E ricordare la «corporeità» delle sue scelte...
G.



Statuti dell'Uomo

A Carlo Hector Cony
Art. 1
È decretato che adesso vale la verità
che adesso vale la vita
e che, la mano nella mano,
lavoreremo tutti per la vita vera.

Art. 2
È decretato che tutti i giorni della settimana
anche i mercoledi delle ceneri più tristi
hanno diritto di diventare mattini di domenica.

Art. 3
È decretato che a partire da questo momento
su tutte le finestre ci saranno i girasoli,
che i girasoli avranno diritto
di sbocciare all'ombra;
e che le finestre dovranno restare tutto il giorno
aperte sul verde dove cresce la speranza.

Art. 4
È decretato che l'uomo
non avrà più bisogno
di dubitare di un altro uomo.
Che l'uomo avrà fiducia nell'uomo
come la palma si affida al vento,
come il vento si affida all'aria,
come l'aria si affida allo spazio azzurro del cielo.

Paragrafo unico
L'uomo avrà fiducia nell'uomo
come un bambino ha fiducia in un altro bambino.

Art. 5
È decretato che gli uomini
sono liberi dal giogo della bugia.
Non dovranno più usare la corazza del silenzio
né l'armatura delle parole.
L'uomo si siederà a tavola
con lo sguardo semplice
perché la verità verrà servita
prima del dolore.

Art. 6
È decretata per dieci secoli
la pratica sognata dal profeta Isaia,
e il lupo e l'agnello pascoleranno insieme
e il cibo di ambedue avrà lo stesso gusto di prima.

Art. 7
Con decreto irrevocabile è stabilito
il segno permanente della giustizia e della chiarezza,
e la gioia sarà una grande bandiera
che sventola sempre nell'anima del popolo.
Art. 8
È decretato che il più grande dolore
è stato e sempre sarà
non poter dare amore a chi si ama
e sapere che solo l'acqua
dà alla pianta il miracolo del fiore.

Art. 9
È permesso che il pane di ogni giorno
abbia per l'uomo il marchio del suo sudore.
Ma che soprattutto abbia sempre
il caldo sapore della tenerezza.

Art. 10
È permesso a chicchessia,
a qualunque ora della vita,
l'uso del vestito bianco.

Art. 11
È decretato per definizione,
che l'uomo è un animale che ama
e perciò è bello,
molto più bello della stella del mattino.

Art. 12
Si decreta che niente sarà obbligato né proibito.
Tutto sarà permesso,
perfino giocare coi rinoceronti
e passeggiare di pomeriggio .
con un'immensa begonia all'occhiello.

Paragrafo unico:
Una cosa sola è proibita: amare senza amore.

Art. 13
È decretato che il denaro
non potrà mai più comprare
il sole delle aurore che verranno.
Espulso dal grande baule della paura,
il denaro si trasformerà in una spada fraterna
per difendere il diritto di cantare
e la festa del giorno che è spuntato.

Articolo finale
È proibito l'uso della parola libertà
che sarà soppressa dal dizionario
e dal pantano traditore della bocca.
Da questo momento
la libertà avrà qualcosa di vivo e trasparente
come un fuoco o un fiume,
o come il seme del grano,
e la sua casa sarà per sempre
il cuore dell'uomo.

Th. De Mello, «A Cancon de amor amado»

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