LOTTA COME AMORE: LcA luglio 1990

Non chiediamo

Abbiamo un amico tipicamente viareggino, e cioè quel carattere pronto al rabbuffo, ruvido e scagliato come una pigna quando la prendi in mano anche se custodisce al suo interno la dolce delicatezza del pinolo. Anima impulsiva, ma saporita di tanto affetto.
Ne abbiamo tanti - che fortuna! - di questi amici che nel silenzio della vita quotidiana sono per noi un prezioso tesoro di umanità.
E ci diceva - questo amico - poco tempo fa, scuotendo la grande testa bianca a mo' di rim-provero, ma sorridendo con gli occhi: «voi siete troppo poco chiedoni... !». E cioè, tanto. per dirla in lingua,: «voi non cercate aiuti, sostegni, quattrini; non bussate alla porta di chi, o per interesse o per togliersi un fastidio, può dare sostanziosi contributi per tutte le cose che tirate avanti. Un po' di misura va bene, ma voi siete esagerati all'opposto!».
Non sappiamo se siamo veramente così. O meglio, sappiamo di non batter cassa, del non spingere per avere contributi comunque sia, ma crediamo che la frase del nostro amico vada interpretata oltre il suo senso più immediato. Non sappiamo cioè dove sia esattamente il confine tra una testimonianza di sobrietà, di rispetto, di povertà e la manifestazione di una pigrizia che esprime la voglia di stare tranquilli, di pilotare personalmente e con personali criteri ed interessi tutto quello di cui ci stiamo occupando, di evitare di compromettersi con gli altri in imprese comuni. Non sappiamo sinceramente se riusciamo ad evitare tutta quella puntigliosa liturgia dell'impegno quotidiano che riempie sì la pagina dell'agenda, ma solo per non dover affrontare i segni di novità e di coinvolgimento che Dio semina nella storia e nel tempo.
E ci dispiacerebbe se le cose stessero veramente così; come se le nostre, ancorché povere, iniziative non si manifestassero come un amichevole invito a dare se stessi in un cammino di umanità.
Certo non possiamo illuderci di essere inattaccabili, oltre che sicuramente dalle paure e dai tremori personali capaci di provocare penosi ripiegamenti, anche da tutta un' aria che si respira intorno e che continua a proporci avvenimenti e discorsi di tutti i colori fino a farci girare la testa e desiderare unicamente un punto fermo comunque sia. E i colori - sia pure assai diversi -, sempre più raramente finiscono per distendersi in arcobaleni sorridenti al futuro, ma al contrario, sempre più si definiscono e si controllano a vicenda nella propria improduttività specificità. Non solo il bianco e il nero fanno emergere reciproche chiusure razziali, ma quest'aria di corporativismo ad oltranza soffia sulle scelte e le decisioni politiche, le rivendicazioni sindacali, le polemiche di quartiere e di condominio, le dichiarazioni dei redditi per la piccola, ma non disprezzabile torta dell' otto per mille, il diritto dell'uomo cacciatore, il verde che più verde non si può...
In quest'aria che si respira si capisce di più perché certe scelte, anche se conseguenti da tem-po, risultano ad un certo punto incomprensibili: in un mondo così frammentato e complesso perché ostinarsi a non dare risalto, a non favorire facili aggregazioni intorno a degli sforzi concreti di bontà che comunque vanno a vantaggio di chi ha bisogno? Perché non chiedere?
Si può sospettare che non tanto la pigrizia o la stanchezza, ma una vera e propria difesa «corporativa» del proprio orticello sia all' origine di questo nostro silenzio.
***
Non ce la sentiamo di escludere del tutto questi motivi, ma neppure ci riconosciamo in questa spirale di avvitamento su se stessi.
Ci sembra più giusto esprimere quello che per noi è luce che orienta il faticoso cammino di ogni giorno. Faticoso ed oscuro, a volte, sin quasi a nascondere a noi stessi ciò che stiamo seguendo. Cammino in cui giochiamo pazienza e serena solitudine; dove accettiamo di non vedere bene, ma di affidarci ugualmente perché abbiamo sperimentato essere questa concreta condizione di ricerca.
Il «non chiedere» (e l'assumiamo con pacifica constatazione) ci sembra derivi a noi non solo e non tanto da inquietudini spente, quanto da una condizione di silenzio per poter dire altre parole che, evidentemente, giudichiamo più importanti - decisive - rispetto alle mete cui ci si sforza di convergere.
A volte viene in mente che sia solo ridicola pazzia, una tendenza alla complicazione per lo meno eccentrica, ma non ci rassegniamo ad essere descritti (tantomeno circoscritti) dalle opere che facciamo. Non sono per noi un assoluto né il lavoro, né l'accoglienza, né la presenza pastorale, né la condivisione solidale di idealità umane. Per queste cose noi «non chiediamo», ma «offriamo» spazi di collaborazione, spunti di iniziativa, inquietudini, ricerche.., tutto quello che può costituire motivo per camminare spalla a spalla o anche a distanza considerevole, dove quello che importa è camminare con le proprie gambe e con il proprio cuore. La strada allora può essere veramente comune.
È solo all'interno di questa dimensione aperta e libera di «offerta» che si stabiliscono delle «richieste». Ma esse non derivano innanzitutto da ciò che chiediamo o non chiediamo, ma dalla specificità, dalla natura e dalla storia di ogni singola realtà. Così per la cooperativa C.RE.A. nella quale lavoriamo, 1'A.R.C.A. che si appresta - come Associazione - a crescere la sua presenza nel tessuto della vita della città, lo stesso Campo della Pace la cui nascita è ancora in pieno travaglio, le due parrocchie... Non c'è per nessuna di queste iniziative una convocazione, una «richiesta» di impegno e di partecipazione, di contributo e di interessamento tale da privilegiare alcuni invece di altri; coloro ai quali è chiesto e quelli ai quali sembra che non ci degniamo neppure di concedere un po' di considerazione. È sulla strada aperta della vita concreta che può accadere di incontrarci e di rispondere liberamente insieme alle «richieste» che non derivano da prese di possesso, ma da responsabilità serenamente accolte e condivise. Questo prima di ogni altra cosa! L'incontro, la riunione, la manifestazione anche quella più sentita e più riuscita, non possono sostituire questo primo passo che ognuno compie - vien da dire - in piena autonomia: non perché è stato chiesto, ma perché offerto, donato, nella gratuità. Può succedere allora che per varie ragioni scritte nel quotidiano accadimento, non ci si incontri per un po', ci si perda un po' di vista, prevalga la solitaria attrazione del proprio cammino, il coinvolgersi in altri destini... può essere allora sufficiente quel solo passo (senza che nessuno se ne senta richiesto) perché di nuovo si riscopra di aver comunque camminato assieme.
Non sappiamo se tutto questo può accadere invece quando ci si sente sollecitati solo all'interno di ciò che è stato o non è stato chiesto.
C'è qualcosa, però, che non chiediamo ai nostri amici e alle persone che per diversi motivi si incontrano con noi. Non è semplice esprimere questa nostra richiesta, ma forse perché fino ad ora non abbiamo trovato le parole adatte. Solo il prolungato silenzio, interrotto a tratti, sembra riuscire a trasmettere comunque un messaggio.
Questa nostra vita di piccola, minuscola comunità chiediamo sia rispettata, in questa sua -possiamo dire così? - fragile inutilità.
Sappiamo che tante volte il telefono squilla senza risposta o che mani più o meno timide bus-sano invano alla porta scortecciata della Chiesetta. Ci dispiace sinceramente che questo accada, ma d'altra parte, altrettanto sinceramente bisogna dire che noi non ci sentiamo in colpa. È vero; siamo spesso fuori, ma questo non vuol dire che sentiamo la Chiesetta come un' abitazione anonima e provvisoria. Vetri sporchi, polvere, ragnatele, fiori provati dall'arsione stanno a significare solo una nostra imperdonabile illusione di viver da giovanotti. E poi non è sempre così! A volte ci vestiamo a festa e le luci e i colori della casa sono vivi e bellissimi. Non abbiamo la consapevolezza, né ci sfiora l'idea di vivere in una casa abbandonata.
È la nostra casa. Lo è stata durante vent' anni e continua ad esserlo. Angolo del porto che d'estate si nasconde nel verde dei platani e continua a riservarci teneri momenti di silenzio e a custodire le nostre stanchezze e i nostri sogni.
La abitiamo con il cuore anche se spesso siamo lontani, e così riusciamo a viverla come quat-tro mura che misteriosamente acquistano le dimensioni del mondo.
A volte, risucchiati dalle cose di cui più o meno insensatamente ci carichiamo, sembra di es-sere come assediati se non addirittura sommersi dall'invadenza e dall'urgenza della realtà. E viene voglia di fuggire in un altro luogo che sia protetto e difeso. E le mura della Chiesetta allora sembrano di fragile vetro.
Altre volte ci prende l'insana agitazione di significare qualcosa per gli altri, per la gente, gli amici, la città e allora vorremmo rendere la nostra vita nella Chiesetta pregnante di programmi, presenze, organizzazione. E le sue mura ci sembrano quelle di un fortilizio inavvicinabile.
Per fortuna la piccola campana del campanile a vela lassù sul tetto continua a parlare con voce intima e persuasiva. Parla di pace, di una pace cui non si resiste, ma ci si arrende oltre ogni gratitudine, ogni riconoscimento, ogni possibile e plausibile ragionevolezza.
Una piccola comunità senza che ci sia il capo, senza che ci sia una regola, capace di così grande diversità fin da conciliare gli opposti nei suoi membri, accoglienza di rapporti intessuti nel quotidiano ed ugualmente vissuti durante lunghe separazioni, piccolo gruppo dai confini mai definiti eppure custodito da una lunga sempre nuova sorprendente quotidiana sotterranea vivida storia.
Ricerca silenziosa, libera da esigenze anche se pienamente giustificate di gratificazioni, desiderosa unicamente di misurarsi con quella realtà e quel compimento ultimo dell'esistenza umana che chiamiamo Dio.
Sempre più, durante questi ultimi anni, la Chiesetta è luogo di silenzio. Non dice parole che possano essere udite, non intreccia dialoghi, non cerca interlocutori.
Sono altri i luoghi dell'incontro, della partecipazione entusiasta o critica, della costruzione di rapporti umani, della lotta solidale, dell'impegno. Giusto il campo della pace, proprio qui fuori la porta, la cooperativa e il capannone, la dimensione associativa dell' arca, quella religiosa delle parrocchie...
La Chiesetta rimane segno poco decifrabile forse, ma non equivoco. Segno di una libertà incondizionata, segno di un'umanità che semplicemente è, segno di quella Grazia che rinnova continuamente tutte le cose.
Per noi che nel silenzio la abitiamo, ma anche per chiunque sente di non essere estraneo nella propria solitudine, ma abbracciato da questo antico sogno nuovo.

La Redazione

La posta di fratel Arturo

NOTIZIE DAL BRASILE - AGLI AMICI DI ARTURO PAOLI E DELLA FRATERNITÀ DI FOZ IGUACU BRASILE

Care amiche, cari amici,
terminato il Convegno di Rimini che ha visto una numerosissima partecipazione di persone (eravamo 800) e di testimonianze, da Paulo Freire (che ha sostituito il card. Silva Henrique, improvvisamente ammalatosi, alla giovane palestinese leader dell'INFADA, giunta grazie alle forti pressioni esercitate dal Ministero degli Esteri, affinché le fosse dato il visto di uscita, a Zé Paulo Pietrafesa, brasiliano, a padre Balducci, a Mariella Tornago, volontaria italiana in El Salvador, arrestata e torturata nel novembre scorso, al padre gesuita salvadoregno DAVID LOPEZ, all'indimenticabile PAUL GAUTHIER e molti altri; ho trovato nella posta una lettera di Arturo, ancora una riflessione fatta di carne, fatta di uomini e donne con i quali vive le paure e le speranze. Nella breve lettera di accompagnamento, una buona notizia, ci chiede di poter essere il «suo centro redazionale», per noi è una gioia.
Fraternamente, Antonio e Mariella

Carissimi,
oggi l'ultima a venire alla fraternità è dona Faustina: sessant'anni, due figlie gravemente ammalate, quattro nipotini da tirar su; con che? Dalla sua bocca scendevano sommessamente, soavemente parole crudeli: il bambino si è abituato a non protestare; che si sia da mangiare o non ci sia, per lui è lo stesso; non piange, non grida non abbiamo nulla in casa, e così è. In questo barrio - come dice un amico italiano arrivato da poco - bisogna abituarci a vivere e convivere con il dolore. La frase mi ha colpito ed è calata nella mia preghiera; pensavo che ogni uomo deve abituarsi a convivere col dolore; ma qui il dolore viene in visita ogni giorno, non ha stagioni di letargo, come il dolore che ciascuno porta con sè. Si può convivere col dolore, ho detto al mio amico, quando il dolore è legato alla speranza e non annega mai nell'amarissimo mare della disperazione.
L'apprendistato che il nuovo arrivato fa del dolore ci ha offerto l'occasione di dialogare sul tema: non credo di aver fatto più luce sul mistero del dolore; ma abbiamo visto il perché di quegli squarci di gioia e di quello sfondo permanente di felicità che accompagna la nostra vita di immigrati su una terra apparentemente disertata dalla felicità. Ci sono tanti motivi di sofferenza, episodi che senza retorica si possono definire drammatici, eppure c'è nell'aria una felicità diffusa, come delle variazioni continue che non si sentono nella lussuosa immobilità dei quartieri ricchi. Credo che il vero rimedio contro il dolore sia quello di sprivatizzarlo. La sofferenza senza orizzonti di dona Faustina e di altri che oggi sono venuti alla fraternità, si stende come una nube leggera nel cielo, è il grande dolore della storia; è quel gemito che Paolo sentiva in tutta la creazione come aspirazione ad una fraternità costantemente ostacolata da un gettito permanente di progetti umani ispirati dall'intento di proteggere ostinatamente una privacità egoistica. Di questo dolore ci ha trasmesso una figurazione pittoresca il Vangelo di Giovanni: «La donna, quando partorisce, ha tristezza perché è venuta la sua ora. Ma quando ha partorito il bambino non si ricorda più della sofferenza per la gioia che è nato un uomo al mondo» (Gv. 16,21). La vita con i poveri in America Latina ci offre questo tipo di sapienza per convivere col dolore e perché il dolore non intristisca la nostra vita, ma le dia rigoglio, forza, fecondità: scoprirlo come gemito, aspirazione, energia motrice della storia. E da questa esperienza interiore si scopre una sola immagine del Dio unico, il Dio dell'alleanza. Il dolore di dona Faustina ci apre a uno spazio politico, perché non esisterebbe questa periferia dissanguata anemica se non esistesse un centro che beve avidamente sangue e alimenta la propria vita della distribuzione dei miei vicini di casa che oso chiamare fratelli. In questa tappa della mia vita, la pre-ghiera che gestivo con una certa sicurezza e forze con un pizzico di orgoglio, mi ha abbandonato e ha ceduto il posto alla relazione: mi dirigo meno a Gesù; ma partecipo più intimamente al suo progetto. Il tipo di preghiera cui ero abituato rassomigliava ad una telefonata che si apriva e si chiudeva; la relazione è una comunicazione perrnanente è una partecipazione ad un progetto che faticosamente si sta realizzando nella storia.
Da questo mio stato esistenziale vedo con ottimismo e speranza il momento storico che mi è stato concesso di vivere.
Il centro di potere economico e politico celebra trionfalmente l'annessione di nuove provincie mentre la periferia si fa sempre più anemica. Il sistema economico-politico e l'ecclesiastico funzionano con una simmetria eccezionale. La partecipazione popolare, esigenza affiorata nella evo-luzione delle ideologie dell'epoca moderna, è illusa con la distribuzione di cariche senza potere, perché il centro possa decidere senza disturbi e pensare il suo progetto senza interventi estranei. Il potere si è condensato in un centro imperialistico senza curare la periferia languente. Eppure il sistema della lontananza è una decisione dove vedo splendere la sapienza dello Spirito Santo. Né il sistema economico-politico né il sistema ecclesiastico possono intuire il mondo nuovo e le nuove identità che nascono in periferia. Mi sento nell'epoca della venuta di Cristo: quando il centro, Gerusalemme pullulava di dottori della legge e di servitori di un potere unico che aveva il suo centro in Roma. Alla periferia, sulle rive del Giordano un profeta scarno convocava la gente a prepararsi a un grande avvenimento visibile per loro sconosciuto al centro: quelli del centro non avrebbero mai potuto capirlo perché l'interesse della legge e la preoccupazione di difendere il potere, li aveva distratti dalla persona e resi incapaci di leggere i segni dei tempi. Le decisioni che vengono dal centro sono assolutamente vuote di popolo, non sanno nulla delle sue necessità, della sua cultura, delle sue aspirazioni e in fondo della sua relazione concreta col Dio dell'Alleanza. Questa estraneità mi ha fatto disperare molto tempo; ora mi da gioia perché vedo che questa distanza è necessaria perché rispunti una cultura e una identità che parevano distrutte dalle invasioni del quindicesimo secolo; ma non è vero, hanno resistito al tempo, sono rimaste intatte sotto la cenere degli incendi. Bisogna attendere che donna Faustina asciughi le lacrime per vedere balzare davanti a noi la splendida vergine, la speranza. Forse non vedrò cambi rivoluzionari ne le relazioni dentro la Chiesa e dentro la società politica; ma so che nella storia è rinchiusa una energia indistruttibile che aumenta progressivamente: "Quando queste cose cominceranno ad accadere, drizzatevi e alzate la testa perché la vostra liberazione è vicina (Le 21,28)".
Vostro
Arturo

Nonviolenza come resistenza

Per questo numero «estivo» del nostro giornalino mi piaceva tentare di esprimere qualche riflessione sul tema della nonviolenza che spesso ha accompagnato il mio scrivere su queste pagine. Anche Sirio ha scritto diverse volte e in modo tutto «speciale»: con grande passione, profonde intuizioni, ricchezza di novità. I miei pensieri emergono da un insieme di frammenti raccolti un po' a braccio, come gusci di conchiglia scelti qua e là sulla spiaggia di giornate tirate forse troppo col fiato corto. Anche questo vivere sbriciolato può essere un modo di vivere la nonviolenza nel quotidiano (o forse è tutto sbagliato?).
Comunque, questi sono tempi in cui non è facile e semplice raccogliere il pensiero intorno a tutto ciò che si può ricollegare alla realtà della pace, soprattutto vista nella dimensione della nonviolenza. È sicuramente vero, come ha scritto Gandhi, che la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne: valori e principi che stanno all' origine stessa della creazione, perché sono realtà costitutive dell' essere stesso di Dio Creatore.
Non è, però, molto semplice e facile, in questo nostro tempo carico di enormi difficoltà di rapporto fra tante diverse realtà umane, riuscire ad avere un'idea precisa su cosa voglia dire «oggi» la nonviolenza. Certamente questa può essere benissimo - e mi pare normale che lo sia - un'impressione ed una sensazione del tutto personale.
Ma in questo nostro «Lotta come Amore» sono le realtà personali, i pensieri del cuore, le vibrazioni del proprio spirito, il sapore e l'intuizione di alcuni frammenti del vivere che vengono espressi e messi in comunione con gli amici. Già questa maniera di scrivere nei pochi attimi di «silenzio» e di solitudine strappati ai piccoli ma tenaci impegni del quotidiano mi pare una dimensione di nonviolenza attiva. Un modo estremamente povero di offrire qualche briciola di vita, di comunione, di condivisione di un cammino di ricerca della verità delle cose, da quelle che nascono nella semplice terra di una giornata fino a quelle di dimensioni più vaste ed universali. Nonviolenza come dono di qualche parola scritta, che non presume davvero di sciogliere chissà quali nodi e problemi, ma raccontare a cuore aperto qualcosa di ciò che passa per la propria anima, deporre nel cuore degli amici qualche barlume di speranza, di fiducia, di stupore, di attesa a volte faticosa, a volte dolcissima di un compiersi di tutto quel misterioso mondo di cose belle che Gesù chiamava «regno di Dio».
Ma soprattutto, per me, lo scrivere su queste pagine esprime una dimensione che mi appare sempre più fondamentale per quanto riguarda un atteggiamento di vita che si voglia ispirare ai valori della nonviolenza: la resistenza.
Questa parola, quando è con la maiuscola, ricorda un tempo storico molto duro, amaro, do-loroso, certamente carico di valori e di significati grandi. Ma non è di questo, ovviamente, che intendo parlare né a questo mi voglio assolutamente riferire. Scrivo «resistenza» con la lettera minuscola, proprio perchè mi pare che questa realtà di tenace fedeltà ai valori più veri nei quali si è creduto e si continua a credere dà un particolare significato alla nonviolenza come atteggiamento essenziale della vita.
Nonviolenti e quindi «resistenti»: nel senso proprio di rimanere fortemente abbracciati alle radici, in mezzo al vento e alla tempesta, scrollati dalla violenza dei problemi, dalla fatica, dagli interrogativi della vita, dalla solitudine di tante creature, dalle sconfitte e dai fallimenti, dal tuono e dal fulmine. Come quegli alberi di montagna che mi hanno sempre impressionato per quel loro «stare»; a volte totalmente soli, sul crinale di un roccione, tutti esposti e indifesi, nel vento e nel sole. Non mi hanno mai parlato di superbia o di chissà quale forza particolare: sono stati sempre un richiamo ad un vivere coraggioso e fedele, là dove sono spuntati nel seno della poca terra, fra rocce dure e pericoli, come cosa del tutto normale e naturale. Resistenti nella semplice verità del loro essere, e quindi nonviolenti.
La dimensione della resistenza per una concezione nonviolenta della vita mi pare sempre più irrinunciabile e del tutto costruttiva di un atteggiamento nonviolento che non sia solo moda o cultura, anche raffinate. Mi viene in mente la resistenza del contadino che ad ogni autunno, fedelmente, come cosa del tutto naturale, compie di nuovo il gesto di seminare la terra anche dopo un'annata magra e tribolata. Certo, si tratta della dura necessità della sopravvivenza. Se al posto della «necessità» si è capaci di mettere l'amore e la tenerezza per ogni creatura credo che si possa comprendere cosa vuol dire «resistenza».
Sento molto chiaramente che nonviolenza e resistenza sono come due facce di una stessa me-daglia: resistere, magari in silenzio, in solitudine, dolcemente, quasi come se si lasciasse andare e invece rimanere saldi, tenacemente abbracciati al sogno che ci ha portato avanti lungo la strada. Uno ha visto una stella e continua ad andargli dietro, anche se nessuno muove un passo in quella direzione. Continua a camminare, anche se tutti dicono che è meglio fermarsi e fare un po' di sosta. Continua a credere che i miracoli li fa solo il Signore e che quindi non c'è bisogno di niente per vivere ed annunciare il suo Vangelo al mondo, se non di un cuore che bruci d'amore e di passione per il suo regno.
Resistere, e quindi continuare a pensare che neppure il re Salomone o chissà quale personaggio «bene» era vestito in modo più elegante di un filo d'erba, di un fiore di campo, di una primula sperduta chissà dove. Che una spiga di grano o di riso vale più di centinaia di carri armati, di missili, di aerei superdotati. Resistere, e quindi continuare a credere che la vita si difende solo con l'amore, con la bontà, con la giustizia e la verità. Che la vita di una creatura ha lo stesso peso e importanza dell'universo, che il male si vince solo col bene, perchè il deserto fiorisce solo con l'energia vitale della pioggia o con la potenza prorompente dell' acqua sorgiva. Che la notte può essere lunga e buia, ma nessuno può fermare lo splendore del mattino.

don Beppe

Le vie di Dio che percorrono il mondo

Vorrei comunicare una direzione di ricerca che mi si riflette partendo dalla constatazione di come Sirio abbia incontrato uomini e donne che vivono su un terreno di idee e di motivazioni non religiose e di come tra loro sia spesso nato un rispetto, una stima, una confidenza, una amicizia così profondamente segnata di umanità. Eppure Sirio non ha mai nascosto né diluito la sua fede, il suo essere sacerdote, la radicazione in Dio della sua vita non solo nelle espressioni essenziali, ma anche nella quotidianeità.
Credo che la testimonianza di Leonardo, uno degli amici viareggini a lui più vicini dagli anni della militanza per il disarmo unilaterale, possa essere - a questo proposito - assai eloquente. Leonardo, coetaneo di Sirio, comunista, eppure di libero pensiero...

«Sono un vecchio amico di Sirio Politi. Ci ha uniti una lunga militanza di anni nella Lega per il Disarmo fondata da Carlo Cassola. .
Io ateo, lui religioso. Senza mai fare un'obiezione: io perché lui era religioso o lui perché io ero ateo.
Il rispetto reciproco.
Uniti in una lotta che ci ha visto sempre a fianco a fianco: per l'autonomia dei popoli, per il disarmo. E ci ha visto anche, negli ultimi tempi, insieme. lo uscivo dall'ospedale di Pisa il 17 settembre dell'87. Il 18, sempre dallo stesso ospedale mi venne una lettera di Siria, una lettera affettuosissima. lo ritenni mio dovere di farmi accompagnare, malgrado le mie condizioni, a trovarlo. Quando arrivai era già colpito fortemente dalla malattia. Mi abbracciò e cominciò a piangere disperatamente. C'era tanto affetto in quel pianto. E c'era un ricordo di tutte le nostre battaglie.
L'amica che ha parlato prima ha detto di non aver mai visto Sirio dire la messa. Io l'ho visto dirla in occasione della morte di un compagno comunista, il compagno Edo.
"Quest'uomo - non fece nomi Sirio, non disse questo è lo Zoppi, disse soltanto: - ricordatelo, voi che siete qua, quest'uomo donava il suo sangue per dare parte della sua vita ed essere partecipe della vita di tutti"».

Ed ancora vorrei riprendere le parole di Mario, uomo di una generazione più giovane eppure anche lui legato a Sirio da affettuosa amicizia fiorita negli ultimi anni. Sono parole pronunciate nella stessa occasione:
« ...ed era un progetto di pace il progetto di Sirio. E mi piaceva tanto perché quella non era una pace nell'astensione come un ritirarsi, un allontanarsi dai problemi e dalle difficoltà.
Era una pace fatta di presenza nelle cose, una pace di lotta, una pace fatta in tribunale, in cantiere, nel porto, fatta di fronte alla centrale nucleare, fatta di presenza e di partecipazione. Una pace dura, quindi.
E questo progetto di pace era portato avanti da Sirio con una tenacia, con una forza nel rifuggire il compromesso che - direi - non aveva uguali. Ma in questo - ed è il lato che ricordo con tanto amore - non ho mai sentito l'assenza, ma anzi drammatica presenza di ricca umanità.
L'ideologia, l'inseguire la contrapposizione netta in assenza di compromessi, non mascherava, ma al contrario, faceva venir fuori l'uomo. E quest'uomo che io amo molto; quest'uomo che sapeva godere delle cose e non si lasciava sfuggire la bellezza, il vivere; quest'uomo che sapeva commuoversi e piangere.
Devo dire ancora un'altra cosa importante: questa pace era una pace totalmente nonviolenta.
Anch'io sono ateo, sono non credente, ma mai Sirio ha avuto con me un rapporto di catechiz-zazione, mai ha cercato di farmi condividere le sue idee.
Siamo sempre stati per questo profondamente amici.
Io, mai, per niente, ho cercato di calpestare le sue convinzioni e la cosa che più amo di lui è di avermi dato un progetto di umanità».

Ascoltando ancora una volta queste testimonianze, sono andato alla ricerca - tra gli scritti di Sirio - di quale radice poteva aver avuto questo suo atteggiamento che non gli derivava da un semplice senso della misura e del rispetto, né certo da istanze dettate da proselitismo o ricerca del consenso. Sirio godeva nell' avere una platea, ma con tale gioiosa e scoperta teatralità da coinvolgere sempre e comunque anche gli altri in questo suo gioco.
Non è pensabile quindi che questi due amici, con tanti altri, si siano lasciati trascinare da emozioni e risonanze di superficie nel momento in cui raccolgono in loro stessi i segni di un rapporto profondo. E l'intuizione implicita di una dimensione giocata nella solitudine della sua fede. E Dio, che per lui era veramente tutto, non era Dio di una religione e di una chiesa, ma Dio che si avventura sulla via della umanità e nell'uomo rivela Se stesso.
Con questa idea, mi sono ritrovato davanti l'ultimo capitoletto di «Antico sogno nuovo» e la figura di un vescovo che entra nell'eremo dell'utopia cristiana. È il completamento, il sigillo, la pienezza della Chiesa che con il vescovo si affaccia alle vie di Dio che percorrono il mondo.

«Un Vescovo è alla porta dell'eremo, rozza per antiche assi, consunte e inaridite, con la cordicella in mano. Nemmeno un attimo di incertezza perché forse sono secoli il tempo che aveva maturato questa decisione. Un rimbalzare di vicende storiche, come di onde provenienti e sospinte da un mare quasi senza orizzonti e mosse implacabilmente da fondali misteriosi, da venti che non è possibile sapere di dove vengono e dove vanno e anche dagli influssi delle stelle che scendono dalle profondità dei cieli.
Si sentiva obbediente con serena docilità alla spinta interiore che a poco a poco si era dilatata in tutto se stesso. Non era per stanchezza o delusione e tanto meno perché gli si era spento nell'anima il convincimento di una utilità umana e pastorale nel suo essere Vescovo. Nemmeno minimamente gli si era annebbiata la chiarezza della sua identità personale...
... Gli era chiarissimo che l'aver salito la strada stretta e tortuosa che porta al cancello dell'eremo non era una fuga. Era semplicemente dare continuità ad una scelta, spazio ad un donarsi, possibilità più concrete per un coinvolgersi nel Mistero di Dio e cioè dell'Amore per Lui e per l'umanità.
Era un liberarsi per compromettersi più liberamente e più totalmente nel regno di Dio. Perché l'istituzione la sentiva non soltanto palla al piede ma, più che tutto, spazio ristretto, spesso soffocante. E gli era andata crescendo nell'anima la necessità sempre più urgente e pressante che la sua scelta di Fede, fino al suo essere Vescovo, potesse respirare gli spazi di Dio e perdersi dove sono assurdità i confini e perfino gli orizzonti.
Anche se un po' confusamente ma con sempre maggior chiarezza aveva avvertito che il suo episcopato poteva trovare la sua diocesi soltanto se a dimensioni universali. Di qui il bisogno della solitudine, perché unica possibilità di universalità, la libertà di essere di nessuno per poter appartenere a tutti, di scomparire per una presenza più viva e intensa. E non soltanto misticamente, nella preghiera, nell'immolazione quotidiana della vita monastica, ma camminando nelle vie di Dio che percorrono il mondo, acqua corrente del fiume della storia, carne e sangue di umanità.
E l'idea dell'eremo si è affacciata e, piano piano, è andata convincendolo, come quando un venticello e poi un vento gagliardo spazza via le nubi, apre squarci di azzurro che si allargano fino a tutto il cielo, da orizzonte a orizzonte, inondato di sole e gremito di stelle la notte.
Si sentiva al portone dell'eremo, con la cordicella in mano, come chi sta per salire sulla nave, un'occhiata intorno, insieme nostalgia e liberazione, e poi il piede e tutta la speranza è sulla nave, perché i mari e gli oceani sono già nell'anima, distesi e aperti ad ogni avventura». (Da «Antico sogno nuovo» pagg. 209-211).

Leggere queste pagine mi provoca una serena nostalgia di Sirio, della sua umanità. E mi sento liberato da ogni tentazione di imitarlo pedissequamente nei suoi pensieri o nelle sue azioni. Capisco che l'unica cosa da fare è prendere la bisaccia, il sacco, e percorrere la propria avventura interiore avendo l'anima colma di mari e di oceani.
Rileggendo anche quest'ultima pagina di «Antico sogno nuovo» si potrebbe pensare che i momenti di silenzio che Sirio stesso cercava fossero anticipazioni o sostituzioni di fuga. Si potrebbe pensare che egli ci indichi questa strada, come al Vescovo sembra che indichi l'eremo quale spazio di libertà universale al di fuori dell'istituzione.
Ma in effetti il Vescovo, entrando nell' eremo, si libera per compromettersi più liberamente ed entra in una regola ancora più regola. E il silenzio può essere ricerca di acclimatazione al mistero di Dio-Uomo inseparabilmente unito nella Creazione.
Questo Vescovo cerca la libertà, non nel chiostro, nell'eremo, ma nel mondo, nel saltare il muro delle strutture soffocanti: «corrente del fiume della storia, carne e sangue di umanità».
È un punto essenziale per capire da quale radice Sirio traeva quel suo approccio con gli altri e la vita che non è apparso mai né ovvio né banale. Poteva essere di grosso contrasto, capace anche di suscitare sofferenza e disagio e inquietudine. Un approccio spesso scomodo. Ma coloro che a lui consentivano come quelli che anche fortemente dissentivano si sono sempre sentiti ugualmente presi sul serio. Coinvolti sempre in una dimensione di rapporto non chiusa nella personalizzazione, ma dilatata nell'universale .
...«Sirio univa Dio - Umanità - Creazione - Storia e questo gli dava un'universalità di approccio alla realtà, di attesa di speranza in e con e per tutti: portava un po' più avanti la via di ciascuno percorrendola insieme, apriva al non ancora valorizzando il già fatto, offriva condivisione di orizzonti da scoprire e verso i quali aprirsi e così dava slanci e apertura nuova alla nostalgia di coloro che hanno fame e sete e cercano sorgenti, vino, carne... ».
La porta di quest'eremo dell'utopia - descritto come spesso accade a coloro che scrivono dell'utopico e cioè con immagini fortemente ancorate al tradizionale più scontato... - non si apre su un chiostro abitato dal silenzio di figure in preghiera, ma apre di nuovo sul mondo reale visto e vissuto in una dimensione rovesciata che contrasta con quel che di manicheo e di illuminista c'è nel comportamento di molti di noi, quello che ci fa sentire separati e non incarnati, lontani e senza terra e storia.
L'eredità di Sirio non sta in azioni e opere, in qualcosa da conservare e da crescere. È qual-cosa di ben più prezioso e che ciascuno può accogliere nella propria realtà. Egli continua ad invitarci «al portone dell'eremo, con la cordicella in mano, come chi sta per salire sulla nave, un'occhiata intorno, insieme nostalgia e liberazione, e poi il piede e tutta la speranza è sulla nave, perché i mari e gli oceani sono già nell' anima, distesi e aperti ad ogni avventura».
È l'invito per ognuno di noi a riprendere in mano la propria esistenza e a cercare - con quell'energia che in ciascuno può assumere misteriosamente forme diverse - di alimentare un senso profondo di unità che ci permetta di aprire la porta della vita e di comunicare realmente con essa.

Luigi

Campane d'avvento

Eravamo insieme, Sirio,
quando i rintocchi delle campane
uscendo a gran voce
da ogni lato del campanile antico
ci hanno travolto all'improvviso
nella sera d'avvento.

Impetuoso è arrivato
l'eco di quel paradiso
che è all'origine dell'anima.

Poi, dilatandosi, l'impeto dei suoni
ci ha spalancato un altro paradiso,
quello che attende
oltre la linea dell' orizzonte estremo
dove la fine diventa principio
e il mistero si farà trasparenza.

Grazia Maggi

Poetare di donna

Ci è pervenuto questo piccolo libro di versi quando ormai il numero precedente del giornalino era ormai in tipografia: Grazia Maggi, amica carissima, ce lo spediva con affettuose parole.
È la storia (interiore, esteriore?) di questi ultimi 12 anni della sua vita (la raccolta comprende poesie scritte tra il '78 e il '90), ed è dedicata a Sirio.
È difficile collocare queste poesie che raccontano - lievi, luminose - l'interezza del vivere. Quando l'ho avuto tra le mani irresistibili sono emersi i ricordi: il nostro primo parlarci una calda estate di tanti anni fa accanto all'ingresso di quella casa giallo oro, colma di quiete, di viva libertà e di amici, dove vissi i miei 20 anni insieme a Sirio. Lei, da Fiesole ove abita tutt' ora, era venuta al Bicchio per trovare la comunità e così ci conoscemmo. Parlando ci stupì sapere come ambedue avevamo conosciuto Sirio attraverso la lettura di «Una zolla di terra» - edito da La Locusta - e tenere fra le mani, ora, il nuovo libro di Grazia (stesso editore, stessa collana) ha suscitato un' onda di sensazioni tattili ed impressioni ancora intatte.
Due aspetti del mondo di essere e di fare poesia di Grazia amo sottolineare, forse perché in essi mi riconosco immediatamente.
L'uno riguarda la sensazione che non vi sia frattura fra il dentro e il fuori, l'anima e il corpo, la fede e la natura che vive. Sembra addirittura che in questo continuum ove «l'anima stormisce / nel vento creatore di Dio» non vi sia differenza fra creatura e Creatore (non siamo la sua espressione?). I dualismi si placano nella molteplicità degli aspetti della vita che ciclicamente (le poesie per la nascita dei nipoti!) si rinnova.
Il secondo aspetto - collegato e simile -parla del legame esistente fra coloro che sono in comunione: né tempo, né spazio, né l'intervallo della morte ci separa: semplicemente siamo.
È un modo di vivere al femminile: la percezione della vita non frammentata in categorie introduce in una dimensione ove si sperimenta la libertà del movimento, e chi lo ha provato lo riconosce immediatamente.
Mi ricordo che nell'ultimo periodo della vita di Sirio - pausa sacra nel vivido andare dei suoi giorni - le forze affievolite gli impedirono di vedere gli amici. Si instaurò allora il tempo della comunione e chi riuscì a mettersi in sintonia ebbe la gioia di vivere da lui non separato. Anche per noi che gli fummo sempre vicini il rapporto quotidiano si trasformò in osmosi di vita, tanto che la morte non ci separò. Forte è stata allora, e dura tuttora, l'esperienza di cosa sia la vita oltre quella che generalmente percepiamo.
Rivedo le poche volte che Grazia poté venirlo a trovare col marito (amico affettuoso e suo medico di fiducia nel penoso periodo fiorentino)... so ora leggendo le sue poesie, ma lo sapevo anche allora, quanto anche in lei tutto sia stato, fra cielo e terra, specchio del mistero.

MG

Noi donne dell'America Latina

Il secondo incontro delle donne di Servicio Paz y Justicia dell' America Latina ha avuto luogo nel contesto di 500 anni di dominio sul continente. Le donne in particolare, hanno vissuto questa situazione di dominazione e violenza.
Nell' America Latina adesso abbiamo 500 anni di conquista, dominazione, distruzione culturale e politica, contrapposti ad una storia di lotta, di resistenza che si è fatta carico di scrivere in questi anni le caratteristiche predominanti del suo popolo.
Siamo nere; siamo indiane; siamo meticcie; siamo quello che siamo.
Il decennio degli anni '80 segna l'inizio di un periodo di deterioramento dei sistemi politici in vigore, la instabilità dei sistemi economici e la lotta della maggioranza del popolo dell' America Latina per sopravvivere. I debiti con l'estero ipotecano il nostro futuro. Si possono udire le grida di 600 milioni di latino-americani in lungo e largo tutto il continente, come se stesse per esplodere.
Il passaggio alla democrazia avviene in un equilibrio precario che convive con il sistema consolidato nella Dottrina della Sicurezza Nazionale e nel sistema economico che controlla i mezzi di produzione e l'accentramento della ricchezza. Noi ci troviamo tra la lotta per la sopravvivenza e l'incertezza di un nuovo risveglio.
Noi donne di Serpaj - America Latina ci siamo incontrate ad Antofagasta in Cile per il 2° Incontro delle Donne dell' America Latina per riflettere sulla situazione socio-politica del nostro popolo e sulla partecipazione delle donne a questa realtà.
Abbiamo voluto incontrarci in questo paese per manifestare il nostro sostegno alla lotta del popolo cileno per riconquistare la democrazia e portare a termine una delle più lunghe dittature sul continente.
Stiamo tentando di ricuperare la storia non scritta della lotta delle donne nell' America La-tina. Dobbiamo apprezzare la storia di colei che genera la vita da quando esistono compagne indigene, nere, contadine e povere. Abbiamo cercato i loro contributi per creare una nuova società a partire dalla giustizia, la solidarietà e l'amore.
Abbiamo scoperto che come donne impegnate nel lavoro «nel popolo», contribuiamo all'organizzazione del nostro popolo, ed è un passo essenziale per il cambiamento delle strutture.
Vogliamo affermare la nostra convinzione nella forza dei poveri, la organizzazione e l'unità dell' America Latina come anima del processo di liberazione del nostro popolo.
Riaffermiamo i contributi delle donne che sanno unire la ragione alla tenerezza per costruire una nuova società dove l'individuo recupera la sua dignità.
Crediamo che come popolo dobbiamo apprezzare la nostra storia ricuperando i valori della nostra cultura che illuminano il presente e ci aiutano a costruire il futuro.
Riconosciamo nella NOVA un' alternativa per creare questa società perchè crediamo nella capacità e forza di un popolo organizzato e perché l'amore è più rivoluzionario dell'odio.
Questo incontro tra donne che provengono da sei paesi dell' America Latina ci dice che siamo un unico popolo con un'unica lotta per un'unica causa che ci impegna a lavorare per la giustizia con libertà, pace e dignità.

"Non amo le città a piano terra"

Tutte le volte che un termine è inflazionato desta sospetti, e significa allora che è arrivato il momento di «rovesciare i calzoni». Termini come handicap, barriere architettoniche, suonano oramai come la parola «democrazia», vocabolo svuotato dell'originario intendimento e, come la moneta inflazionata, con scarsa capacità d'acquisto sul mercato della comunicazione.
Innanzitutto le «barriere» non sono più solo «architettoniche», come del resto l'handicap non ha più solo le classiche connotazioni «fisiche o psichiche»; e inoltre le barriere, quelle che separano, che interpongono «barre» tra l'io e il proprio agire ma anche tra l'io e gli altri, queste barriere possono essere superabili o difficili da superare o insormontabili secondo il soggetto e secondo il contesto in cui il soggetto agisce e comunica.
Cosicché, come per l'handicap (e non solo rispetto all'handicap) le barriere si presentano sotto quattro aspetti:
1) insormontabili sia per il soggetto che per la comunità; 2) superabili sia per il soggetto che per la comunità; 3) insuperabili per il soggetto e superabili o inesistenti per gli altri; 4) superabili per il soggetto e ostacolanti per gli altri.
D'altronde anche l'handicap può essere «grave» oppure «leggero» per chi ne è soggetto e/o in rapporto agli altri, e così può essere quasi inesistente per sé e reso grave per il contesto (si pensi per es. all'handicappato in classe) o, viceversa, può essere soggettivamente «grave» e «alleggerito» da un ricco contesto socializzante.
Voglio dire che è arrivato il momento di sostituire «barriere architettoniche» con «barriere della comunicazione», perché tutto sommato la «barra» più terribile è quella che impedisce i rapporti interpersonali.
Non amo le città a piano terra, né vorrei che le Piramidi adottassero l'ascensore, anche se vado matto per l'archeologia; diffido grandemente della tecnologia di cattivo gusto, quella supplente l'uomo e la sua pigrizia; e temo altresì quelle efficienze nordiche (chi non ricorda Hetdorp, la città olandese di soli handicappati?) le quali ti assicurano ogni assistenza possibile a scapito però del dialogo, separando così mansioni, competenze e linguaggi. Invece sono d'accordo quando la tecnologia, la modifica architettonica, l'accorgimento infrastrutturale sono a supporto della convivenza: diventano allora, con efficace gioco di parole, protesi alle protasi dei dialoghi, degli incontri, alle occasioni della comunicazione. Per quanto mi riguarda, preferisco un braccio amico per salire le scale dell'Arengo o di Re Enzo che un ascensore «tutto per me», preferisco un autobus affollato dove la gente mi aiuta a salire che un «bus speciale» per soli handicappati magari con l'autista in camice bianco, preferisco persino il mare inquinato dove sguazzare con la gente che una piscina appositamente riservata con l'istruttore pagato dalla USL.
Ma credo che alla fin fine tutto questo diventi vantaggioso per tutti.

Cesare Padovani (consulente culturale Repubblica S. Marino)


Lago di Braies

a Luciano

Il lago è una coppa
di liquefatto chiarore
su cui in un brivido
passa il vento.

L'oro delle rocce riflesse
ondulando rimuove
ricchezze sepolte.

Solo nei golfi
che il bosco protegge
quieto si specchia il verde.

La liquida conca
danza tutti i moti del cuore.

Bevo a questa coppa fino al fondo
la segreta armonia della vita.

Grazia Maggi

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