Queste paginette iniziato il loro terzo anno di vita da quando Sirio non scrive più. Ci ren-diamo conto, sempre di più, della sua assenza secondo i modi cui ci aveva abituati la sua dolce, irremovibile inquietudine. Ma - nello stesso tempo -, chiara e forte emerge la sua presenza nei modi nuovi della vita che continua e si dilata sempre oltre ogni orizzonte. La sua provocazione (una parola sempre a lui molto cara) continua per tutti coloro che non si voltano indietro nella nostalgia di un tempo che fu, ma guardano avanti nella prospettiva di un cammino che continua. Anche queste paginette vogliono essere fedeli a questo invito e proseguono il loro cammino di una lotta perché si ama e di un amore che non possiede ma lotta perché da libertà di amore nasca ancora amore.
Ci rendiamo conto dei limiti che ci appartengono e manca a noi, come a voi, il contatto fisico con l'irruenza, la creatività, l'affetto e la spinta continua di Sirio. Manca a questo giornaletto tutta la sua impronta. E non è cosa da poco visto che a comporlo ci pensava quasi del tutto da sé. Crediamo però - nel lavoro di questi due anni - di aver mantenuta viva una aspirazione e soprattutto la comunicazione di un sogno che ostinatamente si ripropone ogni giorno anche a noi. Con sincerità, anche se non con particolare sapienza o intelligenza o forse anche solo con giusto t( doveroso approfondimento.
E gioia per noi ricevere i vostri incoraggiamenti, i vostri auguri, i contributi mai anonimi, ma sempre accompagnati da espressioni semplici e belle. Vorremmo rispondere a ciascuno, ma sappiamo di non poter promettere più di tanto.
Per ora vi abbracciamo tutti insieme, amici carissimi, mentre lo sguardo ancora volge in avanti e le mani si sfiorano in questo nostro libero cammino comune.
L'incalzare degli avvenimenti nell'Est dell'Europa apre un nuovo capitolo di storia. E forse questa cui assistiamo ne è solo la prefazione. Non saremo certo noi a pretendere di affiancare la nostra analisi a quelle ben più profonde e corroborate da abbondante documentazione che troviamo su giornali, riviste e nei dibattiti aperti in campo sia culturale che politico. Ci è difficile andare oltre il dato emozionale che prende di fronte ad uno scenario in continua evoluzione.
Confessiamo, per esempio, di assistere all'attuale grosso e sofferto dibattito nel partito comu-nista, volgendo il capo ora alle ragioni dell'uno ora a quelle dell' altro senza riuscire a prendere posizione.
Ci sembrano le une, le altre e le rispettive obiezioni, dotate di una loro validità anche se istin-tivamente ci riesce difficile credere che nella situazione odierna non sia necessario qualcosa di veramente nuovo.
Ristrutturare la casa fino ad adesso abitata non serve se il terreno su cui si è fondata slitta e si assesta su sempre nuove posizioni. Tanto vale prendere sulle spalle le poche cose cui non si vuole rinunciare e ritornare a montare la tenda al termine di ogni giornata.
La politica partitica è sempre più stretta dalle sue contraddizioni fino al punto che la cosid-detta vittoria della democrazia (ma non è stata piuttosto la vittoria di un sistema economico su un altro? Lotta giocata tutta su un terreno di dissanguamento reciproco soprattutto negli anni terribili di un ciclopico riarmo... ), rischia di essere novello cavallo di Troia per nuove contrapposizioni utili solo ai veri padroni del mondo.
Forse era opportuno non tirarlo giù il muro di Berlino emblematicamente finito sul mercato libero con quotazioni borsistiche. E crollato un muro e sembra che la libertà abbia trionfato. Quale libertà? Noi occidentali abbiamo vinto: ma quale vittoria?
Metteremo in gioco noi stessi, il nostro sistema politico, le istanze partecipative perché avvenga un vero e proprio incontro di popoli? Allontaneremo lo sguardo dalla tentazione di con-siderarci parte vincente per convergere e dirigere i nostri passi verso obiettivi comuni? Quanti muri - non così facili da individuare sono sorti e stanno sorgendo nel frattempo?
Dovrebbe essere questo il tempo in cui la Pace crea e costruisce la Pace. Il tempo in cui il rompersi di muri dovrebbe ancora di più provocare il desiderio di scavalcarli, renderli inutili, passarvi sopra, giocarvi intorno.
Non ci sembra di vivere questo tempo creativo e rinnovato al di là degli entusiasmi e della fragile simpatia per il nuovo.
Ci viene il dubbio che nella frenesia di abbattere un muro ormai ridotto ad un ingombrante blocco di cemento non ci si sia resi conto che sotto ci può essere rimasta la Pace. Non vinta, né uccisa, ma imprigionata da un'immagine.
Perché è stata ancora una volta una dura e sfibrante guerra a realizzare e rendere possibile questa pacificazione. Le trincee insanguinate di questa guerra hanno attraversato tutta la terra e una esigenza di giustizia sale ancora più alta nel cielo di un mondo dove ancora di più si distingue e si allarga la forbice tra chi ha e chi non ha una speranza.
La Redazione
Miei cari amici italiani, stamattina stavo tornando a casa da una celebrazione presieduta dal nostro vescovo e attraversando la favela mi vengono incontro persone che gridano: un bambino è caduto nel pozzo, è stato salvato dalla mamma che ora è in preda a uno choc nervoso. Le «comadri» sono molto impressionate perché la giovane sta aspettando il quarto bambino. La baracca è piena zeppa di donne e di bambini: a stento riesco a imporre le mani sulla testa della giovane e a ottenere un pò di silenzio e fare una preghiera. Poi tutto torna calmo, io rientro alla fraternità e lascio le donne della favela a vivere la loro giornata.
AI tramonto rientra l'uomo, stanco irritato per aver faticato molto e guadagnato poco.
Si lava, e si siede sulla porta prendendo sulle ginocchia due o tre dei suoi piccoli.
Non è troppo raro il caso che non succeda quello che vi ho descritto, ma che l'uomo faccia una doccia e passi il resto della sera a un 'osteria. Le osterie fomite di biliardi sono numerosissime, e, quando l'uomo rientra mezzo o del tutto ubriaco, se la donna reclama e chiede soldi per il latte, non è raro il caso che riceva delle sberle. Mi è capitato di strappare una povera donna dalle mani dell'uomo infuriato.
In occasione del Natale potrei scegliere un quadro più color di rosa.
E nel nostro quartiere non mancano famiglie giovani dove è possibile cogliere una immagine molto più tenera. Ma vi scrivo in un momento in cui la mia meditazione mi concentra sulla sofferenza della donna «Partorirai nel dolore». E non è un riferimento limitato alle ore del parto, ma estensivo a tutta la storia della maternità. Non mi dispiace introdurre questa nota nel Natale consumistico sempre meno umano e sempre meno bello.
La poesia del Natale è stata congelata e servita nel cellofan a prezzi modici, e questa volgarità è una nota molto più triste dei drammi che vivo giornalmente, che finisco per fare più profonde e più vitali le nostre relazioni.
Mi sarebbe difficile vivere con gioia il mio sacerdozio, fuori di questo contesto umano che mi spoglia di false identità e mi fa sentire fratello, amico, membro della grande famiglia.
Fra poche ore (8 dicembre) il nostro vescovo ordinerà il primo sacerdote della nostra comunità, Carlos che alcuni di voi hanno avuto l'occasione di conoscere.
Tutta la diocesi è stata preparata all'avvenimento con preghiere, conferenze e dibattiti.
Tutti i membri della parrocchia hanno avuto l'opportunità e la libertà di esprimere «come vorrebbero il prete».
E stato molto utile per tutti. L'opinione comune è che il prete deve essere <povero e amico della gente».
Il fatto che io prete vada in città con il bus il mezzo comune, perché non ho macchina, è già un esempio importante.
Per me è un fatto normalissimo, ma qui dove le famiglie di classe media alta non monterebbero mai in un bus urbano, la cosa fa scalpore. Vi lascio perché cominciano ad arrivare a frotte gli amici che parteciperanno alla nostra festa. Vi auguro che il Natale ci porti la grazia di sentirvi sempre più parte di questo popolo di Dio e di assumere le sue vicende di dolori e di gioie, i suoi vuoti di giustizia e di solidarietà.
Che il Signore Gesù ci faccia partecipi di tutte le vibrazioni umane che accompagnano la sua convivenza con noi.
vostro
Arturo
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Luigi
Massafra 16/1/90
Cari amici,
nel clima della collaborazione che ci avete offerto negli anni precedenti, vi preghiamo anche quest'anno di pubblicare sulla vostra rivista l'annuncio dei nostri CAMPI.
«La COMUNITÀ DELL 'ARCA di Massafra organizza per il 1990 3 CAMPI di INTRODUZIONE ALLA NONVIOLENZA, guidati da TONINO DRAGO.
Le giornate saranno ritmate da momenti comunitari di preghiera, yoga, lavoro, canti, danze, scambi personali e si concluderanno con la FESTA.
APRILE:
dalla sera del 22 al mattino del 29 .
Il tempo del lavoro è dedicato al riconoscimento e all'utilizzazione di erbe commestibili e medicinali sotto la guida di Gunter Fleischman, farmacista.
LUGLIO:
dalla sera del 8 al mattino del 15 Lavori agricoli comunitari.
AGOSTO:
dalla sera del 19 al mattino del 26
Apicoltura biologica «Lotta biologica alla Varroa, con Michele Gaido, apicoltore.
La QUOTA di partecipare al Campo è di L. 100.000 di cui L. 10.000 da inviare, con VAGLIA POSTALE, come prenotazione o almeno 15 giorni prima dell'inizio del Campo a GIUGANINO GRAZIELLA, MONTE S.ELIA 74016 MASSAFRA - TA
La questione economica non è un impedimento per chi vuole partecipare. Scrivere per chiedere ulteriori informazioni.
Grati per la vostra disponibilità auguriamo Buon lavoro
COMUNITÀ DELL'ARCA
MASSERIA MONTE S. ELIA - 74016 MASSAFRA - TA
Comunità dell'Arca di Massafra
«È ancora molto quello che ci resta da fare. Solo attraverso l'utopia e la speranza si può credere e avere le armi per tentare, assieme a tutti i poveri e gli oppressi del mondo, di sovvertire la storia».
Queste sono affermazioni fatte in una pubblica conferenza da padre Ignacio Ellacuria, uno dei sei gesuiti uccisi nella residenza dell'Università Centroamericana in Salvador da un commando militare, il 16 novembre 1989. Con loro furono trucidate anche due donne, madre e figlia, che lavoravano all'interno dell'Università.
Da quella data sono accadute tante cose nel vasto e travagliato panorama del mondo; specialmente nei paesi ormai identificati con la sigla «Est Europeo». C'è stato il Natale di sangue e di ribellione in Romania, con la caduta del regime dittatoriale di Ceausescu. Nel muro di Berlino si sono aperte molte brecce ed è iniziata la sua totale demolizione: una strada nuova dentro i confini dell'Europa. Molti popoli associati con la forza al grande impero sovietico si sono messi in movimento, percorrendo strade dure, cariche di tensioni, di antiche paure, di enormi difficoltà all'intesa e all'incontro...
Volevo raccogliere dal fondo dell' anima tutta questa serie di avvenimenti, colmi di speranza e di tanta sofferenza: bisogna ascoltare con grandissimo amore questo gemito incessante che sale dal cuore dell'umanità, raccoglierlo con premurosa attenzione, custodirlo perché non si disperda come polvere sospinta dall'impeto del vento. E gemito che sicuramente richiama le doglie di un parto continuo che agita la storia e la sospinge per vie molto misteriose verso una «pienezza» che è oltre l'orizzonte che ci è dato di vedere.
Ho pensato che la morte «innocente» dei gesuiti salvadoregni e delle due donne del popolo poteva essere come un simbolo, un segno tutto speciale, pane e vino di una eucarestia che si celebra nel cuore stesso dell'intera umanità: poiché essi sono stati uccisi da uomini in armi, mandati per questo dai loro capi, e sono stati colpiti a morte unicamente perché con la parola e l'impegno coraggioso d'ogni giorno cercavano una via di liberazione e di giustizia insieme al loro popolo. Essi perciò sono indubbiamente un segno tragico e amaro, ma anche carico di immensa speranza. Rappresentano fisicamente, nei motivi della loro lotta nonviolenta, fondata unicamente sulla forza della ragione, della fraternità, del rispetto e del valore della dignità di ogni creatura, tutta quella parte di umanità schiacciata ed oppressa dai potenti di ogni specie che hanno come unica regola del vivere la ragion di stato, la convenienza economica, il tornaconto personale, la affermazione assolutistica dei propri diritti.
Umanità schiacciata ed oppressa in Salvador, come in Palestina o in Libano; in Armenia come in Romania; in Sudafrica come in Cambogia o in Cina.
Umanità senza voce, senza forza, senza eserciti che la difendano: la cui sola ricchezza sono le proprie braccia, il duro e precario lavoro d'ogni giorno e quella enorme e misteriosa carica di speranza che i poveri portano sempre in fondo all' anima e che permette loro di pensare che il domani possa essere migliore dell'oggi.
I sei gesuiti trucidati in Salvador lavoravano con passione e amore profondo proprio perché il domani del popolo salvadoregno, fosse diverso da quello dell'oggi segnato così duramente dalla miseria, dall'oppressione e dalla morte. Lavoravano con i poveri e per loro cercavano vie d'intesa
e di accordo fra le forze di governo e quelle della guerriglia. Speravano in un futuro migliore, f erano portatori di un'utopia di giustizia e di pace: certamente credevano in un «regno» per entrare nel quale i ricchi e i potenti devono fare più fatica di un cammello che intenda passare dalla cruna di un ago. Li hanno falciati a raffiche di mitra, hanno infierito sui loro corpi secondo uno stile di memoria nazista, senza pietà per le due donne che abitavano nella residenza universitaria per semplici motivi di lavoro.
E una storia carica di sofferenza e di dolore; ma essa porta in sè dei «segni» che credo sia giusto raccogliere con profonda partecipazione. Appartengono a quella «lotta come amore» che attraversa in tutta la sua vastità la storia di tutti i popoli della terra.
Mi è sembrato molto bello offrire agli amici ciò che ha scritto un gesuita che viveva nella stessa comunità di El Salvador e che, per caso, non si trovava in sede il 16 novembre.
don Beppe
Jon Sobrino s.j. 29 novembre 1989 (da «Il Regno» n. 2/1990)
«Spero anche che le generazioni future, quando pace e giustizia giungeranno nel paese, si ricordino che, fra coloro che resero possibile l'avvenimento, vi erano anche i miei fratelli gesuiti. Spero che le generazioni future ricordino e apprezzino il loro apporto alla costruzione di una fede e di una chiesa salvadoregna e cristiana, la loro dimostrazione che questi aspetti diversi non si oppongono, ma si rafforzano l'un l'altro e che, in questo modo, per quanto è possibile ai mortali, garantiscano che in El Salvador si trasmette la fede di Gesù. Spero che in futuro i salvadoregni cristiani siano loro riconoscenti perché il paese è giunto alla giustizia ed è cresciuto nella fede.
Il prezzo pagato è stato molto alto, ma non c'è altra via. Mentre oggi si parla di evange-lizzazione delle culture, occorre pensare a una evangelizzazione più profonda: l'evangelizzazione della realtà, che la realtà diventi buona notizia. Per ciò bisogna incarnarsi nella realtà, come ha detto mons. Romero con parole che mettono ancora i brividi: «Mi rallegro, fratelli che in questo paese abbiano assassinato dei sacerdoti... Sarebbe molto triste che in paese dove si sta massacrando orribilmente il popolo non potessimo contare sacerdoti fra le vittime. E segno che la chiesa si è incarnata veramente nei problemi del popolo».
A prima vista crudeli, queste parole sono chiaroveggenti. Senza incarnazione non c'è né fede né evangelizzazione. E in mezzo a un popolo crocifisso non c'è incarnazione senza croce. Quante volte Ignacio Ellacurìa ha detto che lo specifico cristiano è la lotta per sradicare il peccato, combattendolo. Il peccato genera la morte, ma affrontarlo dà credibilità.
Condividendo la croce dei salvadoregni la chiesa si fa salvadoregna e, così, si rende cre-dibile. Se a breve termine questo delitto è una grave perdita, a lungo termine è un grande guadagno. E in costruzione una chiesa veramente cristiana e veramente salvadoregni e i salvadoregni di poter essere veramente cristiani. Che la fede e la giustizia camminino unite per sempre non è un piccolo frutto per il tanto sangue salvadoregno e cristiano sparso in El Salvador.
Infine lasciano un clamore rivolto al mondo intero. Il mondo non vuole ascoltare i clamori, li ignora quando sono clamori di campesinos anonimi; questa volta, però non ha potuto fare a meno di ascoltarli. Il grido denuncia e esige la conversione. «Il sangue è più eloquente delle parole», affermava mons. Romero. Le reazioni a livello mondiale - anche se insufficienti ad arrestare la barbarie - hanno costretto molta gente a pensare. Mi dicono che anche uomini severi del Congresso degli Stati Uniti hanno versato lacrime. E una buona notizia, un vangelo. Su questa terra di peccato e priva di senso si può vivere da esseri umani e da cristiani.
In questa corrente si può partecipare alla storia onesta, portatrice di speranza e impegnata che incoraggia a camminare vivendo, lavorando, credendo. Ha i suoi costi, però offre senso e salvezza.
Credo sia questa l'eredità che i nuovi martiri ci lasciano e spero che ci accompagni nella storia. Bisogna camminare nella storia con umiltà, come ci dice il profeta Michea, fra tribolazioni e oscurità e bisogna camminare con Dio. Dove attingere la forza per continuare a camminare oggi, in El Salvador?
Da questi fratelli che hanno raggiunto il traguardo anche se la loro vita è finita in croce. E così, perché, in ultima analisi, la loro vita è stata una vita nell'amore e dove l'amore si fa presente nel mondo lì si rende presente anche la speranza. Tutto è contro la speranza, ma dove c'è un amore più grande la speranza cresce e si mantiene. E quando anche la speranza pare paralizzata si incontrano i volti dei poveri, nei quali è ben presente il Dio nascosto che ci chiede di continuare la nostra strada. Perché continuare a camminare nell' oscurità? - è la domanda che si pongono molti. Perché questo cammino ci è reso più facile dai poveri e dai martiri e lo dobbiamo ai poveri e ai martiri.
I miei sei fratelli gesuiti ora riposano nella cappella di mons. Romero, protetti da un suo grande ritratto.
Si saranno abbracciati, assieme a tanti altri, nella pace e nella gioia. Ci auguriamo che il Padre celeste conceda, presto, la stessa pace e la stessa gioia a tutto il popolo salvadoregno.
Che Ignacio Ellacurìa, Segundo Montes, Ignacio Martìn Barò, Amando Lopèz, Juàn Ramòn Moreno, Joaquìn Lòpez y Lopèz, compagni di Gesù riposino in pace. Che Elba e Celina, figlie carissime di Dio, riposino in pace.
Che la loro pace trasmetta a noi che siamo vivi la speranza e che non ci lascino riposare in pace.
Vogliamo offrire anche agli amici di Lotta come Amore alcuni piccoli documenti scritti di ciò che è stato l'incontro a Viareggio in occasione del secondo anniversario di Sirio. Non proviamo neppure a dare una descrizione dell' ambiente e del clima. Possiamo forse solo dire che mai prima d'ora il capannone dove lavoriamo ci è apparso così grande e i quattro «punti» posti all'attenzione, realizzati con essenziale semplicità, hanno offerto un ambiente diverso dal solito. L'incontro è iniziato in un silenzioso imbarazzo: poi, a poco a poco, il confluire della gente, il ritrovarsi di amici, ha permesso di lasciarsi trasportare dai segni, dall'ambiente, dal desiderio di comunicare emozioni prima che parole.
Ecco comunque il testo dell'Invito;
«Don Sirio e il mondo delle cose. E questo il tema dell'incontro che si terrà domenica 18 febbraio dalle l0 in poi presso il capannone dell' ARCA/CREA in Darsena, via Virgilio 222.
Un incontro in un luogo di lavoro che ha visto don Sirio creare - con la sensibilità di artigiano ricco di umanità - non solo piccole opere d' arte, ma anche un ambiente di rinnovamento e di costruzione di rapporti sociali improntati a dignità e uguaglianza.
Parleranno oratori in una commemorazione rivolta al passato. Parleranno le cose. I materiali, i lavori, i disegni, lo scrivere di Don Sirio che sono sempre stati espressione di un sincero coinvolgimento con la vita non separata tra il mondo delle cose e della materia e il mondo delle idee, dello spirito.
Un prete, sempre provocato dalla sua Fede, ed insieme sinceramente e scopertamente un uomo. Dal suo rapporto con il ferro, il rame, l'argilla, alla materia tutta, alla attenzione vigile per la salvaguardia del nostro ambiente, alle appassionate lotte antinucleari nonviolente.
Non solo negli anni raccontati in «Uno di loro», libro degli anni '60 ristampato e diffuso re-centemente nella città ad iniziativa del Comune, ma sempre, nella condivisione del lavoro manuale, don Sirio ha fortemente amato la capacità operaia di produrre con le proprie mani. Questa capacità fatta di mani e di cuore che ha connotato con forza la classe operaia e ne è forse una delle radici di identità più profonde.
L'amore per la bellezza, la visione di cieli nuovi e terre nuove, di rapporti diversi, di tempi dilatati, è stata la sua forza, la sua caratteristica, la fonte che gli ha permesso di essere pienamente uomo muovendosi liberamente fra realtà e desiderio interiore.
E la Messa che sarà celebrata nello stesso luogo alle 12 non vuole essere un rito doveroso, ma un invito a guardare sempre e comunque «oltre».
Beppe, Elena, Eleonora, Luigi, Maria Grazia e tutti gli amici che hanno collaborato e partecipato.
SIRIO E I MATERIALI
Dal rapporto con il ferro il rame l'argilla alla materia tutta l'acqua l'aria il mare gli alberi il mondo animale. L'attenzione vigile alla salvaguardia dell'ambiente
le grandi battaglie ecologiche
le appassionate lotte antinucleari, Capalbio, il processo per l'occupazione della ferrovia, Montalto di Castro...
OTTO ANNI E CINQUANTA
Vorrei ma non l'ho voluto che i bambini di oggi
avessero il mondo del primo giorno
il primo giorno di mille migliaia di anni.
Sole nuovo ad attraversare
cielo tersissimo
o velato di nubi
non caligine da fumaioli.
A me questo mondo nuovo
fu consegnato quand'ero bambino.
lo ho visto l'acqua dei fiumi.
le strade sterrate e bianche
i carri tirati dai buoi
il contadino a raccogliere lo sterco dietro il cavallo
per l'insalata del suo orticello
I! lavoro duro, quello della vanga e la creazione fatta dal fabbro
le tavole uscite dal tronco
la nave dall'ascia sapiente.
Porto adorabile l'odore nell'anima
del pane uscito dal forno
rotondo e caldo allineato
sulla lunga tavola coperta
tenuta a bilico dal cercine
sulla testa impettita della donna.
Gli operai a covare con gli occhi
il tubo colmo di vino di vite
a parlare anarchico
di circoli di mutua assistenza
e santamente ubriachi
la domenica sera.
I! sillabario sotto il braccio
il quadernetto e gli zoccoli in mano
ragazzi di scuola
e scazzottate sul sagrato.
Tu non sai bambino di oggi
com'era l'acqua dei fossi
cristallina e verde d'acquatiche
i ranocchi e le anguille.
Non conosci il tozzo di pane
e la bocca affondata nel ruscello
e il nido di fringuello
sull'incrocio del ramo d'ulivo.
Tu hai incredibilmente di più
e infinitamente di meno
i miei cinquant'anni
hanno ammazzato il tuo mondo.
I! sole, l'aria, l'acqua
e perfino le stelle
perché i lampioni accecanti
le hanno spente su in cielo.
Ti posso dare aerei a razzo
bombe nucleari nascoste
dagli imperi che dominano il mondo
e il progresso che conduce alla morte.
Ora respiri petrolio bruciato
la tua casa è periferia di città
e senza un filo d'erba e un raggio di sole
la piazza dove giuochi la tua ribellione.
Ho ucciso spietatamente il tuo domani
e fatta tramonto la tua aurora
ti ho costretto ad essere adulto
ragazzo, di appena otto anni.
Non ti chiedo perdono
perché non puoi perdonarmi
lo so che mi maledici e mi odi
non ti ho dato quello che ho avuto
ti ho rubato quello che ti saresti donato.
È per via di te che ho terrore
e vergogna d'essere adulto
ho inventato il mondo
e te lo lascio, ragazzo,
ma non è di più che un cimitero.
Dove i cipressi scheletriti
sono senza preghiera
la preghiera dei passeri la sera.
Sirio
SIRIO E I MANUFATTI
Sirio ha fortemente amato la capacità operaia e artigiana
di produrre con le proprie mani.
'la coscienza operaia', 'il mestiere che entra',
'le maestranze che fanno la ricchezza del cantiere',
'i vecchi carpentieri raffinati fino al miracolo'...
Questa capacità fatta di mani e di cuore
così tipicamente maschile
ha connotato con forza la classe operaia
ne è forse una delle radici di identità più profonde.
Riconosco ormai i diversi rumori. Sono come una fuga classica, i primi colpi di mazza.
Ve ne rispondono altri più lontani, colmati di eco profonde. Il martellare secco dei calafati. Le lamiere battute a suono metallico. Si accende qualche motore di peschereccio. E fanno coro, spesso, quelli dei grossi motoscafi in prova. E poi si alzano le voci delle seghe a nastro che cantano l'ultima pena del legno. E a un certo punto irrompe violento l'inno trionfale dei martelli pneumatici che ogni altro lavoro raccoglie ed unisce in un a solo potente. E rispondono gli operai nelle officine e nei cantieri e negli stabilimenti da cui mi arriva il fragore della loro fatica, o il suono della loro sirena e di cui so la dura storia di ogni giorno, legati a catena all' attrezzo di lavoro .
... Grazie, compagno operaio quando mi vedevi piegato dalla fatica e mi venivi a dare una mano. Una manata cordiale sulla spalla. Due parole soltanto, un minuto o poco più eppure mi hanno tanto aiutato. Non c'è gelosia nel mestiere che costa fatica. E è dono infinito insegnare agli altri a lavorare. E insegnare a guadagnare di più, col minor tempo possibile, e con la fatica ridotta al minimo come vuole la vecchia saggezza operaia. Ci scappava sempre una presa di bavero e fors'anche una parolaccia alla viareggina, ma intanto mi insegnavano a lavorare, a tenere la lima, a sistemare bene il pezzo, a prendere bene le misure, a usare la macchina come si deve.
Ero disoccupato da mesi ormai, dopo il licenziamento dal cantiere navale, e avevo deciso di passare l'estate fra gli scaricatori di porto. Ne conoscevo alcuni, ma troppo alla lontana. Questo gruppo di uomini rotti ad ogni fatica, mi incuteva un vero timore. Li guardavo a volte dalla porta della mia chiesetta, ritti sugli autotreni carichi di laterizi. E facevano catena, uno a due metri dall' altro, e si passavano i mattoni, gli embrici, i tabelloni, con gesto elegante e preciso e l'altro vicino raccoglieva con leggerezza, anche quando erano tanto pesanti, quei tabelloni di un metro e sessanta, a due per volta, o erano una mezza dozzina di embrici, che ci voleva una presa pronta e tenace da quanto è difficile tenerli insieme. E la catena si allungava su tavole in bilico fino alla muratura della nave, continuava sul ponte e si perdeva dentro - e non vedevo fin dove - l'enorme bocca spalancata del boccaporto. Avevo una voglia pazza di essere una maglia di quella catena. Di aprire le braccia ad accogliere ed immediatamente ridare.
Sirio da «Uno di loro»
SIRIO E I DISEGNI
La bellezza, la visione di cieli nuovi
e terre nuove, di rapporti diversi, di tempi dilatati,
è stata la sua forza.
Il sogno la sua caratteristica
la fonte che gli permette di essere pienamente uomo
muovendosi liberamente fra realtà e desiderio interiore.
L'abbandonarsi al movimento del desiderio
alimentato costantemente nel suo dilatarsi
inseguito come la chimera
custodito come l'amore geloso
fino a portare, come sempre
quando si è uniti profondamente con se stessi
a comunicare con la vita
nello stupore di una creazione sempre continua.
Ho sempre sognato un modo di vivere disperso nel mondo. Un abbandonarsi alla vastità della terra. Come l'acqua d'un fiume che scorre calma e serena e non sa dove va: l'aspetta l'immensità dell'oceano e si abbandona alla corrente lasciandosi portare. Poi il sole la solleverà in vapore trasparente, invisibile. Il vento la raccoglierà nell'azzurro del cielo. Correnti d'aria fredda ne faranno nuvole bianche, strati immensi e tornerà ad essere acqua, pioggia dolce e burrascosa sulla terra riarsa, neve candida sulle montagne e sorgenti freschissime e poi lungo altri fiumi verso il mare in un dono perpetuo come per misterioso Amore. Il vento che passa come qualcuno che non si ferma mai, come se fosse una schiera di angeli a volare dovunque sospinti dal desiderio di carezzare tutto di voli.
Così tutto quello che arriva dovunque e è per tutto e per tutti mi ha sempre aperto l'anima all'ammirazione e all'invidia. Mi piacciono gli uccelli migratori perché hanno bisogno istintivo di sconfinare, di volare via, di abitare sempre lontani, di arrivare e di partire sempre per gioia di perfetta libertà. Così i pesci nelle profondità del mare in banchi immensi navigando verso il mistero.
...Ho tanta nostalgia per gli antichi pellegrini. Dovevano avere la voglia di essere nell'universo intero. La gioia di camminare e camminare sperduti in perfetta libertà. Mi pare di sentire l'amore affettuoso, materno della terra verso questi suoi figli così interamente suoi.
E l'acqua che bevevano alle sorgenti doveva essere come offrire loro il suo petto gonfio di latte e il pane che mangiavano era raccolto nel suo grembo. Il loro dormire era abbandono fra le sue braccia, sul suo cuore misterioso di palpiti immensi.
Sirio (da «Una zolla di terra)
SIRIO E LO SCRIVERE
Scrivere è parlare nella solitudine. È raccogliere, ascoltare nel segreto profondissimo dell' anima e gridare quando nessuno ascolta. Soltanto un'eco si ricama sulla carta. Come sangue che fila giù dalla ferita e lascia segni dove passa.
Un cammino lungo e faticoso sulla distesa assolata, a perdita d'occhio di solitudine e uno cammina da solo e lascia segni dei suoi piedi e della sua fatica di vi andante sulla sabbia, non si volta indietro, a guardare il tracciato delle sue impronte. Perché scrivere è inondare il foglio di anima, lasciare dilagare lo spirito in una effusione di sé fino al dono totale.
E diventare filo di scrittura, un disegnare l'invisibile, lasciare cadere nell' abisso il lento li-quefarsi del proprio mistero e di quello del mondo.
E stringere tutte le mani. Un abbraccio a misure universali. Percepire la voce dell'umanità.
Quella silenziosa, timida, infinitamente paziente. La voce della moltitudine, a scroscio di ma-rosi a frangersi sugli scogli, o per lo straripare, finalmente, del fiume della storia .
...Questo scrivere le parole ascoltate nel terzo cielo che orecchio non ha mai ascoltato e parola non ha mai raccontato. Sono parole che possono essere scritte, se scrittura non è vocabolario, grammatica, sintassi, cultura e scienza, nemmeno teologia, ma profezia, cioè manifestazione del nascosto, rivelazione del segreto, visione dell'invisibile, racconto del Mistero dell'uomo e di Dio.
Sirio (da «Lotta come Amore»)
...Ormai più di dieci anni or sono, conobbi don Sirio e rimasi stupito e scosso dalla sua personalità. E a onore della sua memoria vi racconto perché.
Vissuto fin da giovane in seno alla Chiesa e nel mondo del lavoro come operaio prima e poi come studente lavoratore, ho attraversato dal vivo la storia degli anni '60 e '70. Ho vissuto la contestazione operaia e quella nella Chiesa. Ricordo don Mazzi, Franzoni e alcuni sacerdoti giovani di mia conoscenza che sentivano lo spostamento che operava in loro il vento della storia. Così avevo sentito parlare di don Sirio preteoperaio e, avendo vissuto anch'io l'esperienza operaia per lunghi anni, mi rendevo conto di quale coraggio avesse avuto quest'uomo nel fare certe scelte in quanto per me il prete era stato sempre quello con la tonaca, altolocato, nella riservatezza della sua canonica o, al più, in un campo sportivo a dar due calci al pallone con i ragazzi dell' oratorio, ma sempre con la tonaca.
Così da questo stereotipo nella mia mente, si può capire il perché del disagio che la conoscenza di don Sirio mi procurò.
Ricordo che facevo parte della lega antimilitarista di Carlo Cassola e partecipavo ad un convegno di questa lega presso il Palazzo dei Congressi a Firenze. Carlo Cassola salutava un po' tutti con il suo fare assai schivo, ma gentile e affettuoso. La signorina Pola, che poi sarà sua moglie, aiutava a intrattenere i primi arrivati al convegno.
Fu in questo contesto, in una grigia mattina d'inverno, che vidi don Sirio.
Stavo infatti parlando con Cassola e la signora Lucia (una fantastica signora che faceva parte del gruppo) quando la signorina Pola arrivò con un uomo di una certa età, con in testa un basco blu, capelli bianchi, una camicia di lana a scacchi chiari, dei pantaloni di velluto, con sulle spalle un giaccone blu impermeabile. Mi ricordo che aveva un bastone in mano e non sono certo se avesse un sigaro in bocca. Quando Pola me lo presentò come don Sirio io ne rimasi, ripeto, veramente sconvolto. Sì perché nonostante avessi vissuto tante cose, non sembrava proprio possibile alla mia mente stereotipata che quello fosse un prete.
Capii come sia determinante nella vita rimanere condizionati da schematismi imposti. Quanto in quel momento io fossi razzista perché proprio non lo riuscivo ad accettare quel prete con la camicia di flanella a scacchi e i pantaloni di velluto. Fra l'altro con scarpe alte di cuoio rossiccio. Non sarei mai andato da lui a confessare i miei peccati... ecc. ecc.
Compresi però da allora, da questo incontro, che cosa era veramente accaduto nella chiesa di quegli anni. Compresi come la Grazia Divina operasse tra noi poveri uomini e sconvolgesse le nostre abitudini e convenzioni.
Nella mia mente si aprirono porte ermeticamente chiuse, si stralciarono sipari di pesanti tessuti: si squarciarono veli che senza questo incontro sconvolgente per il mio animo sarebbero probabilmente rimasti a coprire sepolcri imbiancati.
Veramente io penso che tramite quell'incontro la mia mente fu totalmente sconvolta perché quella realtà delle cose, della religione, della Chiesa mi furono rivelate dal segno molto tangibile rappresentato da quell'uomo vestito in modo semplice e ordinario che aveva abbandonata la tonaca e aveva fatto 1'operaio, la vita dura dell' operaio, come avevo fatto anch'io.
L'amarezza di cui parlavo all'inizio è dovuta al fatto che tanti eventi seguirono subito dopo quel breve periodo e che nonostante avessi promesso a don Sirio di venirlo a trovare a Viareggio (proprio per ascoltarlo da solo, per capire meglio la sua forza, la sua straordinaria personalità, e come la Grazia scenda per le strade più impensate tra gli uomini), nonostante questi miei desideri, a Viareggio non venni mai.
Così quando un pomeriggio trovai tra la posta il giornale «Lotta come Amore» dove si annunciava la scomparsa di don Sirio, sentii che avevo perduto per sempre la possibilità di approfondire la sua conoscenza che tanto aveva influito e influisce tuttora nella mia vita. Non credo sia una debolezza dire che piansi amaramente mentre leggevo il giornale.
Riuscii di casa e andai alla messa delle ore 18 in parrocchia con nel cuore l'immagine di quell'uomo sconvolgente che ora mi sembrava di veder dilatato ad occupare tutta la grande chiesa dove un sacerdote, con la tonaca, lassù all' altare, celebrava i Divini Misteri.
Se pensa che questa esperienza possa dare un contributo alla santità di quest'uomo, che certamente era tale poiché ritengo non avrebbe potuto dire tanto al mio animo, al mio cuore...
S.G. Pontedera 6.1.1990
Mi ha fatto molto piacere ricevere una lettera un po' particolare, forse unica nel suo genere: un grande manifesto bianco ed al centro il testo della lettera che gli obiettori alle spese militari di Siena hanno scritto in occasione dell'ingresso in diocesi del nuovo vescovo mons. Gaetano Bonicelli, ex-ordinario miliare per l'Italia.
E' un documento molto semplice ed essenziale, che rivela una grossa capacità di accoglienza fraterna nei confronti di una persona molto compromessa col sistema politico-militare, anche se a seguito di un impegno di tipo pastorale. Nello stesso tempo la lettera-manifesto esprime la libertà della coscienza illuminata e sorretta dalla forza del Vangelo di pace e quindi propone una specie di «perestrojka» all'interno della mentalità ecclesiastica, il coraggio di portare a compimento le esigenze del messaggio di Cristo di fronte alla realtà delle strutture militari e delle logiche della guerra.
«E' contro la violenza che la chiesa è chiamata oggi a pronunciare per intero la parola della pace, esplicitamente tutte le esigenti conseguenze, se vuole essere fedele annunciatrice del Vangelo... A lei incombe l'obbligo di levare la voce per dire che ogni apparato di guerra, frutto car-noso di semi violenti, costituisce sempre una inversione di marcia sulla strada della solidarietà indicata da Gesù Cristo».
(don Tonino Bello, vescovo di Molfetta).
Gli obiettori alle spese militari di Siena esprimono chiaramente questa linea di ricerca evangelica che qua e là appare ogni tanto negli scritti di alcuni vescovi italiani.
Purtroppo il posto di mons. Bonicelli non è rimasto «vuoto»: un nuovo vescovo castrense è stato nominato e così la «diocesi militare» continua la sua esistenza.
Da ogni parte, nella Chiesa, si p1aude giustamente al coraggio e alla tenacia di chi lavora per la ormai famosa «perestrojka» nella realtà sovietica.
E la nostra «perestrojka» cristiana, nei confronti di tutta la realtà militare, della cultura della guerra, del significato autentico dell'amor di patria, del sistema di difesa armata dello stato e delle sue leggi (scuole di guerra, scuole di polizia), del valore morale della disobbedienza e della diserzione in caso di guerra dichiarata, quanto dovrà aspettare?
In questa fiduciosa ed operosa attesa, mi piace augurare al nuovo vescovo militare che ha sostituito mons. Bonicelli di avere il grande onore di essere l'ultimo della serie.
Don Beppe
Caro Mons. Bonicelli,
nel giorno del suo ingresso a Siena, gli obiettori di coscienza alle spese militari, le rivolgono il loro saluto.
Alcuni di noi la riconoscono come Pastore della Chiesa di Siena, altri come una delle varie autorità religiose, altri ancora come una semplice persona. Tutti noi siamo però convinti che lei può fare molto in questa città, per far crescere una cultura di non violenza, di giustizia e di pace.
Sappiamo che lei è stato un «GENERALE» dell'Esercito Italiano, in qualità di VESCOVO ordinario di tutti i cappellani militari.
Ma vogliamo credere che sia ormai una storia passata, e che oggi lei venga a Siena soltanto come portatore di valori evangelici non violenti.
NOI RITENIAMO CHE:
- quella del «VESCOVO-GENERALE» sia una contraddizione inconciliabile con il Vangelo;
- le cosidette «virtù militari» non abbiano un valore etico e religioso.
CI DOMANDIAMO:
- come facciano molti cristiani a tollerare tranquillamente il vergognoso commercio internazionale di armi;
- come mai la Chiesa sia incapace di pronunciare una condanna totale della guerra, della costruzione e del possesso di armi nucleari.
SIAMO TURBATI:
- quando la sentiamo affermare che: «l'obiezione di coscienza alle spese militari è moralmente improponibile».
Oggi lei viene a Siena e gli obiettori di coscienza alle spese militari le augurano perciò di essere una voce autentica e coerente, nelle parole e nei fatti, di quel Vangelo di Cristo di cui lei è chiamato ad essere Maestro e Testimone.
BENVENUTO FRA NOI E LA PACE SIA CON LEI!
Siena, 14 Gennaio 1990
GLI OBIETTORI DI COSCIENZA ALLE SPESE MILITARI
di Mc Kai
Numerosi episodi di gravissima e chiara intolleranza verso giovani negri si sono verificati recentemente nel nostro paese, in città diverse. Si tratta di razzismo? Le circostanze che hanno determinato certo comportamenti, molti dei quali delittuosi, e le modalità che hanno caratterizzato l'esecuzione lasciano ben poco spazio al dubbio, all'ipotesi di atti di comune delinquenza.
Si impone pertanto una riflessione sul clima culturale e sociale che stiamo vivendo: siamo ormai vicini al nuovo secolo, e paiono produzione recente talune composizioni poetiche i cui motivi ispiratori sono la grande tragedia del razzismo imperante negli anni '50, le conseguenze dr un colonialismo diffuso in tutto il continente africano, la Resistenza di giovani paesi che si affacciavano all'indipendenza e alla libertà.
Oggi, i versi della poesia negra tornano alla memoria e suscitano un forte senso di disagio, di rabbia, di vergogna soprattutto in chi, avendoli letti nei primi anni '60, accetta con molta fatica le ragioni di una loro attualità, non certo di tipo poetico...
La tua porta è chiusa sul mio volto teso,
mi sento irritato e scontento;
ma possiedo il coraggio e la grazia
di sopportare la mia rabbia orgoglioso e ostinato.
I salci del marciapiede ardono sotto i piedi,
un barbaro in collera marcia per la bella strada;
e la passione macera le mie viscere mentre passo
dove apertamente splende la tua porta a vetri chiusa.
Oh, devo cercare la saggezza ogni ora,
nel profondo del mio petto umiliato e offeso,
E trovarla nel potere sovrumano
per continuare ad onorare la tua legge!
da A. Frintino in VITA SOCIALE n. 6/89
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455