LOTTA COME AMORE: LcA dicembre 1989

Dalla solitudine alla comunione

Diverse volte e in tempi diversi, queste paginette hanno ospitato riflessioni sulla solitudine.
Quasi mai ne abbiamo parlato in senso totalmente negativo, come se l'esperienza della solitudine, in qualche modo fosse parte integrante della ricerca di una nuova e diversa umanità. Eppure non è certamente sfuggito a noi - lungo un arco di oltre vent'anni di vita comunitaria - il volto terribile e lacerante della solitudine intesa come forzata condizione di prigionia al di là di ogni contatto umano, di ogni piccolo gesto di comprensione. La impossibilità di comunicare ansie e giustificazioni della vita quotidiana fino a mendicare un sorriso, una parola, uno sguardo, proprio per non impazzire.
La paura spesso genera solitudine. Una paura invisibile e silenziosa che prende alla gola e impedisce - a poco a poco - quel respiro di piccole, quotidiane relazioni che sono come il pane per lo spirito. Una troppo attenta e timorosa parsimonia nei rapporti con gli altri ed una eccessiva pratica di quelle reazioni stupidamente sdegnose cui anche il sale dell'amarezza non riesce a dare sapore.
Ed è la perdita di una autonomia (fosse solo una semplice vivacità affettiva o una silenziosa, benevola accoglienza degli altri) sottile come la rete di riferimenti e di significati che la sostiene. Di qui il rifugiarsi negli affetti doverosi della familiarità e della abitudine che, se vengono a mancare, disvelano il pozzo senza fondo della solitudine.
Solitudine fatta bozzolo; da cui mai voleranno le ali leggere della serenità.
Ma la paura combina altri scherzi. Invece di una solitudine che si ripiega su se stessa, a volte provoca un processo di aggressività, di ricerca spasmodica del tutto o niente, di incapricciamento testardo ed assoluto. Allora si è soli perché si vuole quello che non c'è, si pretende ciò che può essere solo dono, si contratta ciò che è fuori di ogni mercato. Si è soli perché l'«oggetto» della pretesa comunione è, a sua volta, «soggetto» di altre storie, relazioni dinamiche.
L'umanità è abbondata di questi monumenti alla solitudine di chi non si sente amato e non si lascia andare nella vita con leggerezza agli eventi e non emana segnali di serena e libera disponibilità all'incontro.
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Comunque sia, la solitudine che conduce alla rassegnazione e al ripiegamento su di sé e quella che porta all'isolamento perché si batte la testa contro il muro della impossibilità di esigere ciò che è solo gratuità, tutte e due le forme e quante altre racchiudono il volto freddo della solitudine, manifestano il dramma di una dimensione umana carente, scissa e divisa in sé.
La solitudine come la malattia e la morte, non è accettabile in sé. Soprattutto quando essa è, come in molti casi, il risultato di una vita sociale incapace di produrre le condizioni di rapporti gratuiti e gratificanti. E la paura che porta alla solitudine è cresciuta dalla complessità del vivere di oggi, dalla estraneazione da qualsiasi momento decisionale, dalla sensazione continuamente convalidata di essere una nullità nelle mani di altri, sconosciuti, senza volto come il cieco destino.
Anche la religione (così come viene usualmente insegnata e praticata) non aiuta molto a rendersi conto delle trappole di un vivere che ci sbriciola e ci divide; ci scompone come tessere che non si ritrovano mai nella unità di un mosaico. La chiesa cerca di proporre un disegno, ma, troppe volte, esso non tiene conto di come ciascuno di noi è fatto.
E, molto spesso, ci costringe - come gli altri centri di potere - a snaturare noi stessi per poter collimare con gli altri e spegnere la solitudine bruciante nell'anonimo gregariato.
Non è possibile, infatti, appellarsi in modo serio e credibile ad una coscienza che non viene mai chiamata in campo se non per scelte predeterminate. Una coscienza raramente costretta (o forse meglio: finalmente esaltata nella sua dignità) a misurarsi con i problemi concreti, a render conto puntualmente, ad acquisire fiducia ed insieme consapevolezza del limite della propria unicità.
Ma dov'è questo prendersi sul serio e non ignorarsi o rispettarsi formalmente solo perché ci si considera al sicuro sull'altra sponda?
Dov'è questo amore che per essere autentico amore che vince la solitudine, ha bisogno di lot-tare per non perdersi e non divenire insipido e ripetitivo ritornello?

***
È necessario fare i conti con la solitudine, così come non possiamo illuderci di rimuovere la malattia e la morte. Esse fanno parte della cornice, e assai più della cornice della vita che stiamo vivendo. Esse non ci appartengono, ma sono nella nostra vita. Ed è necessario per lottarci contro, lottarci dentro.
Assumere su di se la propria misura di solitudine, come di malattia e di morte, può far parte del bagaglio di chi ha coscienza della realtà e senso della giustizia. Ma non aiuta ad uscire fuori dalla loro tremenda costrizione.
Ma assumere su di sé per lottare e schiodare le inevitabilità e il senso di fatalità che emana da chi sembra il più forte: questo può davvero significare una novità, un cambiamento, una trasformazione, una rivoluzione.
E la solitudine può essere un terreno di lotta.
Chi ne vince la paura, non è perché è più forte o fortunato, ma solo perché ne ha una conoscenza reale e concreta e non sfugge scosso da tremiti incontrollati e incontrollabili.
E vincere la paura vuol dire appunto non accettare che sia la solitudine a dettare le condizioni di rapporto tra gli uomini. Essa c'è - d'accordo -; ma non domina. Essa c'è, ma la sua morsa non riesce a chiudere completamente la finestra della mia comunicazione con le cose, il mondo, l'umanità, l'universo. Di essa accetto di vivere la misura quotidiana per scalzare via la pietra che opprime l'amore e lo obbliga a voler essere ricambiato, riconosciuto, ripagato.
La solitudine diviene il terreno dove può fruttificare la gratuità dell'amore.

Solitudine, tu sei terribile.
Erodi la mia dimensione come acido velenoso
e mi spaventi a morte.
Limi ogni giorno la mia individualità
e mi consegni, stanco e confuso, nelle braccia della massa.
Mi privi del sale della mia coscienza
per alienarmi nello stucchevole dolciume dello stare insieme, non importa come.

Di te ho paura.
La sana paura che richiama la saggezza
e non il folle timore che apre la porta alla tua vittoria.
È allora che accetto di lottare
perché ho misurato le forze.
So che posso farcela
se non sono così sciocco da crederti un fantasma.

Mi abbandono alla fluidità.
Le mie dimensioni non sono più rigide: cambiano continuamente.
Tu non puoi più portarmele via per confondermi ed annullarmi.
In esse ritrovo, continuamente donata, la mia identità.

Mi lascio sovrabbondare dalla vita.
I miei contorni trovano rispondenze,
combaciano con altre piccole tessere di un mosaico quotidiano.
Le sue sfumature acquistano senso; i suoi colori, armonia.
Sorpreso, l'amore non chiede
e scopre la sua libertà.
Non muore, ma vive - finalmente - di sé.
Come la croce,
la solitudine fiorisce incontro e vita e comunione risorta.

La Redazione

Quando la misura è piena

In questo nostro tempo di talpe e di ruminanti, gli spiriti più illuminati e lungimiranti - da Schweitzer a Gandhi, da Russel a M.L. King, a Madre Teresa di Calcutta - hanno ostinatamente cercato di aprirci gli occhi e il cuore; ma la crosta dell'interesse e della pigrizia mentale è sempre stata troppo dura.
Oggi, però, la forza stessa delle cose ci fa toccare con mano che la vera mina vagante di questo nostro navigare a vista, il problema cruciale dalla cui soluzione o mancata soluzione dipenderanno in un futuro oramai prossimo la pace o la guerra, la fioritura o la morte del pianeta non è, o non è più, quello del confronto-scontro tra i diversi modelli ideologici o di sviluppo, bensì quello del divario devastante ed una continua crescita tra un'area dello sviluppo ed un'area del sottosvilup-po, tra nord e sud.
Ancora nell'anno di grazia 1989 il sei per cento della popolazione mondiale consuma oltre il cinquanta per cento delle risorse complessive; il sessanta per cento vive nelle baracche; il settanta per cento è analfabeta.
.Come sfuggire all'oggettivo atto di accusa rappresentato da cifre così eloquenti? Come sottrarsi alla sensazione - ma è piuttosto una realtà fondata su incontrovertibili dati di fatto - che i due fenomeni, quello dell'arricchimento dei ricchi e quello dell'impoverimento dei poveri, siano tra loro speculari, ovvero si alimentino a vicenda?
Per secoli il nord, si fa per dire civilizzato, si è nutrito del saccheggio indiscriminato e perverso delle risorse umane e materiali del sud; ed il saccheggio, magari in forme meno esplicite ma non per questo meno violente e generalizzate, continua come è provato, tra l'altro, dal risorgere del razzismo che del vecchio come del nuovo colonialismo ha sempre costituito la copertura ideologica.
Un saccheggio, dicevamo, indiscriminato, perché non guidato da altra logica che non sia quella del consumo e del profitto immediato la quale ha come effetto non secondario la trasformazione del paradiso terrestre in una trappola irrespirabile e invivibile ma anche perverso perché mentre, da un lato, innesca tra razziatori e vittime, tra uomo e ambiente la spirale selvaggia della paura e della rivalsa, dall'altro insinua tra le stesse file dei presunti beneficiari il senso di colpa, la sazietà, l'istinto della precarietà, dell'evasione, della fuga. Se tutto ciò non basta a turbare la nostra coscienza dovrebbe quanto meno bastare a mettere in allarme il nostro spirito di autoconservazione. Non è necessario essere profeti o futurologi per prevedere che se non saranno la giustizia e la saggezza a trionfare, sarà l'enormità stessa dello squilibrio a provocare un ribaltamento che, in questo caso, non potrà non essere distruttivo.
Al problema dello sterminio per fame, dello sfruttamento e dell'emarginazione di due terzi dell'umanità sono possibili, in linea di principio, approcci molto diversificati: da quello paternalista e falsamente pietista che pretende di curare i sintomi del male senza aggredirne le cause, a quello mercantile ed ottusamente difensivistico disposto a concedere il minimo solo per evitare il peggio, a quello più propriamente etico e politico che si fa carico dei termini reali del problema che è, essenzialmente, problema di riequilibrio complessivo e di risarcimento.
C'è, tuttavia, almeno un atteggiamento che non possiamo più permetterci ed è quello dell'ignoranza che sarebbe ignoranza colpevole, dell'indifferenza che sarebbe indifferenza suicida.
Credo anche e soprattutto per i cristiani, sia come individui nel privato che come collettività istituzionale e come chiesa, la scelta sia ormai improcrastinabile.

Alfonso

Lettura biblica

Cari amici, non potevo mancare anche quest'anno ad un appuntamento con voi. Nonostante la distanza fisica che ci separa, c'è tutta una stima e una fiducia che ci rende vicini. Inoltre la nostra comune lettura biblica è un sentiero sul quale camminiamo insieme con semplicità e umiltà, ma anche con la speranza di illuminare il senso della nostra vita personale e collettiva con la luce interiore dello Spirito di Dio.
Il libro di Esdra, la prima lettera di Pietro e, soprattutto, la lettura continua del Vangelo costituiscono il filo sottile eppure prezioso che ci porta alla contemplazione della fonte della gioia e della speranza.
È questo il «tema» al quale ci siamo voluti accostare quest'anno con la chiara consapevolezza che il nostro sforzo (il riunirci, il cercare delle spiegazioni per interpretare il testo, il leggere a volte cose che non si capiscono subito o che sembrano lontanissime dai nostri problemi e bisogni... ) è essenzialmente povera e balbettante preghiera di essere sovrabbondati dalla luminosa presenza di Dio e immessi per grazia sulla soglia della conoscenza del Suo Mistero.
Non facciamo questo con lo scopo assoluto di una nostra personale soddisfazione e santificazione. Certo, ciascuno di noi ha i propri motivi personali indispensabili sempre e comunque.
Ma lo scopo principale è quello di essere una piccola fiammella di fede della presenza nel mondo della Parola Creatrice.
Di fede, e cioè di consapevole visione dei segni di questa Presenza ed insieme di gioia contemplante il Suo Mistero di Amore.
Non leggiamo cioè la Bibbia con lo scopo principale di esserne istruiti conoscitori, ma per essere aiutati dalla Parola Scritta a «leggere» quello che la Parola di Vita ogni giorno realizza con sorprendente novità e ricchezza.
Nel libro di Neemia, che si interseca con quello di Esdra, si può leggere questa frase: «La gioia che il Signore / È questa, la nostra forza».
E il Signore certo È nella celebrazione liturgica, nella preghiera comune, nel cuore e nell'anima di ogni fedele, ma È anche, ed in pienezza, nell'universo sconfinato, nella ribollente umanità sulla terra, nella complessa vicenda della vita collettiva, dei rapporti sociali, del quotidiano comunque e dovunque.
Il popolo cristiano non è chiamato a costituire una chiesa più potente e più vera di tutte le altre; ma ad essere piccolo seme di un albero cresciuto da Dio, secondo la libera espressione del Suo Spirito.
E se anche dalle pietre Egli può avere figli, perché non ammirare con gioia la Sua Presenza nella umanità; quando Egli rende un uomo più uomo, una donna più donna nella concreta realtà della vita qualunque sia l'espressione religiosa o ideale?
Allora la comunità cristiana non è tanto un gruppo che cerca una importanza in forza delle adesioni e delle azioni che compie, quanto il gruppo dei credenti (e cioè di coloro che sono «coscienti») che avverte con gioia l'azione dello Spirito nel mondo e solidarizza in termini umani con tutti coloro che verso l'umanità sono sospinti da ideali e motivazioni sia pure diverse.
La comunità cristiana, come i salvati dell'Apocalisse, non gioisce tanto per la propria salvezza, quanto perché è testimone della salvezza.
Leggere allora il libro di Esdra, l'epopea di un capo e del suo popolo, applicando immediatamente quella storia alla nostra storia di una Chiesa che cerca di recuperare un volto preciso in questi anni dove un costume religioso si è sgretolato per il cambiare dei tempi, può essere operazione molto ambigua e pericolosa. Perché l'ottica dell'Antico Testamento è tutta centrata sulla elezione e sulla conservazione delle caratteristiche del popolo eletto, delle mura della città santa e del suo tempio.
Leggere quelle cose con rimpianto e desiderio di rinnovare una comunità cristiana costituita in antagonismo con coloro che ne sono fuori, organizzata per rispondere ai bisogni religiosi dei singoli presi in se stessi, ispiratrice di una norma oggettiva che esternamente e ufficialmente va osservata, lasciando poi che nel privato ognuno si arrangi come meglio può, tutto questo può essere solo segno di invecchiamento incapace di generare gioventù di cuore.
Ma leggerle attraverso Cristo non riporta certo indietro. Anzi, proietta in avanti verso sogni da accarezzare e coltivare nel cuore.
Il tempio è Gesù, il suo corpo é l'intera umanità; la città è l'universo che si scopre ogni giorno nel dinamismo dilatato di sempre nuove dimensioni; la legge, quella scritta nei cuori, la coscienza; il popolo, tutti quelli che in buona volontà prendono sul serio la vita.
Siamo allora proiettati davanti a noi, oltre noi stessi. E la comunità cristiana non è più la riedizione dell'antica chiesa, ma il segno povero, semplice, fedele e credente dell'antico sogno nuovo di Dio in Gesù Cristo.
È qui che la storia di Esdra e del suo popolo acquista la dimensione vera e anticipa ciò che viene liberato e completato dall'Amore di Dio.
Possiamo allora abbandonarci alla sua lettura con occhi nuovi e sentire che l'esempio e l'invito non ci vengono da Esdra, ma da Colui che Esdra sta seguendo. L'Antico non richiama la nostra attenzione altro che per proiettarla verso il Nuovo. Umile grandiosità del servizio e dell'amore di Giovanni Battista.
È qui anche che la nostra povera preghiera domenicale (così bistrattata da chi la vorrebbe servizio inappuntabile e irreprensibile) acquista una precisa dignità in quanto preghiera animata dalla speranza radicale della salvezza di tutti. Che bello incontrarci e riconoscerci, scambiarci un saluto e sentire che il peso della vita diviene leggero perché il pane e il vino che offriamo è frutto della terra e del lavoro di ogni uomo, ogni donna, e per tutti si rinnova il mistero dell'Amore che non riguarda i nostri meriti, ma solo la sua assoluta libertà.
Pregare insieme con la dolce e amichevole complicità di chi guarda la vita con gli occhi limpidi e puri e gioisce della sovrabbondanza di Dio che ha fatto buone tutte le cose.
Lasciare insieme la chiesa con rinnovata speranza perché l'incontro di Dio con l'umanità apre la storia di infinita luce.

Luigi

Il cristiano dice sempre di "NO"

Mi ha fatto molto piacere vedere in un programma televisivo una piccola inchiesta sulla vicenda davvero particolare di Franz Jagerstàtter, un contadino austriaco ghigliottinato dal regime nazista nel 1944 per la sua totale ed irremovibile opposizione alla guerra. Dopo 45 anni dalla sua coraggiosa testimonianza di «martire della pace» impressiona sempre più la limpidezza della sua scelta, il valore schiettamente evangelico del suo «NO» alla guerra, il suo rifiuto - pagato a prezzo della vita - di collaborare in qualunque modo con la macchina di morte messa in moto dalla follia nazista.
C'è un particolare nella storia di Franz Jagerstatter che può fare da collegamento tra la realtà di ieri e quella nostra di oggi, messa in evidenza dalla cronaca di questi nostri tempi. Franz rifiutò perfino di entrare a far parte dell'esercito come aiutante di campo dei cappellani militari, con la chiara coscienza di non poter in alcun modo essere partecipe - neppure all'ombra della croce di Cristo - dello sterminio di milioni di uomini.
***
Mi è venuto spontaneo - non per antica e cocciuta voglia di polemica ma per semplice e normale costatazione di una lotta che non può essere tralasciata - mettere in relazione questa «memoria televisiva» di Jagerstàtter con il raduno nazionale dei cappellani militari italiani che si è svolto a Firenze nei primi giorni di Novembre.
Essi hanno voluto ritrovarsi nella Chiesa parrocchiale di S. Stefano in Pane per ricordare don Giulio Facibeni e Giorgio La Pira. La scelta era indubbiamente molto contraddittoria. Così mi è sembrato giusto raccogliere la cronaca di una doverosa e più che necessaria «contestazione» a questa loro scelta ed allo stesso «stile di presenza» all'interno della struttura militare. L'atteggiamento di rifiuto di questa presenza cristiana nelle file dell'esercito mi pare perfettamente coerente con lo stesso spirito evangelico che animò la durissima scelta di Jagerstàtter. Il cristiano di tutti i tempi non può che continuare a dire di «NO» ad ogni apparato di guerra, ad ogni cultura di violenza e di morte, a qualsiasi struttura militare che organizza e mantiene in piedi una macchina che non può produrre altro che distruzione.
«Cappellani militari, ricordatevi di don Lorenzo Milani», ammoniva un cartello e mentre i dimostranti distribuivano la loro lettera di protesta ai sacerdoti che entravano in chiesa per la messa, un cappellano militare ha invitato i colleghi a rifiutare il volantino della protesta.
«Quello che dà noia a noi, gente di Rifredi - ha spiegato Piero Baldassini, responsabile dell'Agesci - è che sia stata presa a pretesto del raduno fiorentino la figura di don Facibeni. È vero che durante la grande guerra fu interventista ma poi, grazie alla sua esperienza di cappellano militare, cambiò radicalmente posizione e divenne non violento e contrario ad ogni esercito e ad ogni guerra».
Così prosegue la lettera dei cristiani pacifisti: «Voi venite a fare convegno in questa città in cammino sinodale, dove col nostro vescovo cerchiamo di capire e maturare, fra le altre cose, anche una scelta evangelica di nonviolenza. Come fate a convivere con una struttura che ponendo al vertice dei propri valori l'obbedienza acritica ai superiori e alle leggi diventa di fatto altamente diseducativa? Come mai invece di vestire la semplice tonaca senza simboli militari di potere e di comando, accettate di portare il grado di ufficiali e, come tali, ricevete uno stipendio? Come mai, in coscienza, vi prestate a giuramenti che mettono al primo posto la patria, sia pure insieme a Dio?»
(da «Il Tirreno» del 9/11/89).

don Beppe

La lunga marcia della nonviolenza

Non ricordo nessuna opera che Gandhi abbia inaugurato, però ricordo bene altri suoi gesti come il lungo cammino verso il mare quando aveva già 61 anni: 24 giorni, 18 chilometri al giorno per l'abolizione della legge del sale, che proibiva agli indù di ottenere qualsiasi sale che non fosse venduto dal monopolio governativo inglese.
Gesto minimo, debole, che non sarebbe stato commemorato da nessun monumento: andare fino alla spiaggia e lì trasgredire la volontà del dominatore; prendere in mano il sale che il mare e il sole avevano lasciato sulla pietra. Lui avrebbe potuto andare a dorso di animale o in treno. Sarebbe stato più veloce. I politici hanno terrore della lentezza. È per questo che tentano di darsi attributi divini di onnipresenza: adesso sono qui però in un batter di ciglia sono là... Però Ghandi pensava diversamente. Sapeva che la vita cresce lentamente. Ad una maternità non si può far fretta. Lui non voleva inaugurare niente, voleva guadagnare un popolo. Il popolo è qualche cosa che cresce dal di dentro. Era necessario che la marcia andasse a rilento perché le persone camminassero al suo fianco. Nella misura in cui avanzava lentamente verso il mare, nell'immaginario del non-popolo andava crescendo qualche cosa di nuovo; un senso di dignità, un desiderio di libertà. E il non-popolo andava convertendosi in popolo. La larva si trasforma in farfalla.
È molto più facile inaugurare un'opera che inaugurare un popolo.
Le inaugurazioni delle opere sono sempre festive, quella di un popolo è dolorosa come un parto, che non poche volte termina con la morte.
Chi vuole avere un figlio corre il rischio di soffrire e morire. Come successe a Ghandi.
Non ricordo neanche che Martin Luther King abbia inaugurato opere. Però mi ricordo molto bene il suo volto sereno, malgrado l'odio carico di minaccia di morte da parte dei bianchi. Lui marciava con le mani vuote, mani donate, indicando un cammino. Mi ricordo il suo memorabile discorso, nel quale già prevedeva la fine, una sorta di testamento con cui raccontava al suo popolo il sogno che lo animava. E come in un poema, il ritornello si ripeteva: «Io ho un sogno... »: era il sogno di un popolo che si formava, di un larva che si trasformava in farfalla. Parole magiche che evocavano speranze dimenticate e utopie non ancora pensate».
Ruben Alves (da «SIAL» n. 13/14 1989)

Piazza Grande

Una mattinata di sole primaverile. A Viareggio mattinate come queste allagano di luce in darsena il bosco di alberi e reti delle barche, a specchio sul cristallo lucente dell'acqua.
Il gridìo allegro delle sirene qui è il canto degli uccelli al mattino. E riempie di festa mattutina questo inondare di luce violenta. Al momento giusto, timidamente, anch'io suono la mia piccola campana sul tetto della mia chiesetta: è quasi nascosta dai pini e è di tra il verde, come se sal-tassero di sui rami neri, che sbucano fuori i rintocchi a distendersi nel bosco degli alberi delle barche, assiepate tutt'intorno, quasi accovacciate sull'acqua, a dormire ancora, nonostante lo splendore del sole.
È l'ora della Messa. È l'ora del lavoro. E mi accompagna all'altare l'orchestrale di una musica vera. È fatta di lavoro, di fatica, di speranza.
Riconosco ormai i diversi rumori. A volte sono come una fuga classica, i primi colpi di mazza.
Ve ne rispondono altri più lontani, colmati di eco profonde. Il martellare secco dei calafati. Le lamiere battute a suono metallico. Si accende qualche motore di peschereccio. E fanno coro, spesso, quelli dei grossi motoscafi in prova. E poi si alzano le voci delle seghe a nastro che cantano l'ultima pena del legno. E a un certo punto irrompe violento l'inno trionfale dei martelli pneumatici che ogni altro rumore raccoglie ed unisce in un a solo potente.
Io celebro la mia Messa, quasi solo nella mia chiesetta, piena soltanto di ombra raccolta per la porta socchiusa.
Ho soltanto a rispondermi il gridare dei portuali là fuori, il confuso urlìo dei pescatori, qua di fianco, oltre la lama d'acqua dell'ingresso della Darsena, che fanno il mercato del pesce azzurro appena arrivato dalla notte fresca del mare.
E mi rispondono gli operai nelle officine e nei cantieri e negli stabilimenti di cui mi arriva il fragore della loro fatica, o il suono della loro sirena e di cui so la dura storia di ogni giorno, legati a catena all'attrezzo di lavoro.
La mia chiesetta allora è come se fosse senza mura. È vasta come la darsena. Come tutta la zona di lavoro nella quale sto vivendo. È aperta a tutto il mondo perché è perfino senza confini e anche senza orizzonti.
La mia chiesa è tutta la terra. E vi è un altare. E sopra vi si compie il sacrificio di Gesù, Dio fatto Uomo. E per l'umanità intera. lo, povero uomo, sono questa umanità: li porto tutti con me gli uomini. Sono qui con me, quelli che sono là fuori, più lontano, agli estremi confini del mondo. Siamo una cosa sola ormai: su questo blocco di pietra è l'umanità intera e il suo Dio.
lo sono qui per dire «sì, a Dio» a nome di tutti. Lo faccio ogni mattina e dal più profondo della ragione del mio esistere. Dopo, tutto il resto, ogni cosa, fino al vivere o al morire, è secondo questa logica. E non può che essere così.
Sono uscito alle l0. A poco a poco, tutt'intorno ogni rumore di lavoro è cominciato a tacere e gli operai li vedevo passare in fretta per la strada.
Sciopero generale. Comizio in piazza grande. È per protestare per la serrata di un Cantiere.
È una debolezza che si unisce per essere una forza. È la speranza di far valere la sicurezza del proprio diritto. Sono fratelli che lasciano il loro lavoro per stringersi intorno ai fratelli che sono rimasti privati ingiustamente del loro lavoro.
Ora la mia chiesetta è una piazza grande, veramente senza muri, sotto la volta del cielo az-zurro, con la gran lampada accesa del sole. I fedeli di questa mia chiesa sono tanti stamani, centinaia e centinaia. Sono i fedeli della sofferenza, della fatica, della povertà, dell'oppressione, dello sfruttamento. Sono i fedeli di un Cristianesimo di cui parla così chiaramente il Vangelo. Sono i fedeli della «Chiesa dei poveri».
Sento che è un'unica Chiesa la mia chiesetta e questa chiesa dei poveri, senza muri, a cielo aperto, colmata di fedeli al lavoro per il pane quotidiano e un pò di dignità umana. Mi ci trovo bene mescolato fra questa folla di uomini, che ha tutta l'aria di essere gregge di pecore senza pastore, come diceva Gesù, una moltitudine sulla quale non può non essere la dolce bontà della Sua Misericordia, come su quella folla che lo aveva seguito in cerca di Parole vere e rimasta senza pane, nel deserto.
Non sono io, là al centro, come nella mia chiesetta, a raccogliere la sofferenza di questa gente, a rispondere a questa sofferenza con parole di fiducia e speranza. Ma non importa. Penso e credo che il posto del sacerdote è, sì, all'altare e sul pulpito, ma è forse ancora di più mescolato fra la gente, a raccogliere tutto il problema di ciascuno e di tutti per essere portato a Dio.
Se io non prendo nelle mie mani il pane e il vino e non lo offro e non lo consacro, non diventa il Corpo di Gesù Cristo, a salvezza del mondo.
Sono qui a raccogliere nelle mie mani (nel mio sacerdozio) questo problema di sofferenza umana, questa realtà di esistenza fatta di uomini schiacciati dall'ingiustizia, questa solidarietà saldata da una coscienza di nullità individuale, nella ricerca di valori fondamentali, nell'affermazione di diritti inalienabili... questo problema fatto di uomini vivi, di fratelli di Gesù Cristo, di Figli di Dio...
È una Messa senza candele, senza paramenti sacri e non suona il campanello nei momenti importanti. È una Messa invisibile sotto le apparenze più sconcertanti.
Ma è così anche nella Messa che ho celebrato nella mia chiesetta stamani. Fu così - ma infinitamente di più - anche sul Calvario.
Sento su questa piazza colmata di sofferenza umana spaventosamente bisognosa di redenzio-ne, la presenza invisibile, ma reale e concreta, del Sacrificio di Cristo.
E io ne sono il sacerdote.
Mi dispiace dal più profondo dell'anima di essere l'unico prete qui. Perché sarebbe stato meraviglioso essere in tanti sacerdoti per una concelebrazione stupenda o come quando il Vescovo fa la Messa pontificale nelle grandi solennità liturgiche.
Non sono io a parlare a questa folla come la domenica al Vangelo, ma non importa nemmeno questo. lo credo che ogni uomo, se lo vuole, può dire meravigliose verità. Stamani poi parlano in diversi, ma la lingua è una sola stamani, e quindi anche il cuore è uno solo. Vi è unità di motivi perché è unica la sofferenza: è bellissimo vedere questa massa di uomini che non fa differenze nell'applaudire, portano sul volto indurito dal lavoro i segni di un solo pensiero e di un unico sentimento.
Ora, in questo momento, li vedo e li sento tutti fratelli: dunque non può mancare il fratello maggiore, Gesù Cristo, e non può mancare la dolce presenza del Padre di tutti, Dio.
D'accordo: può essere questo un sogno di visione religiosa a tutti i costi.
Ma chi deve e può vedere il Cristianesimo dovunque e la ricerca umana di Dio e Dio presente fra gli uomini, se non il sacerdote?
E se non vedessi Mistero religioso dovunque e se non servissi questo Mistero con il mio sacerdozio, che cosa ci starei a fare, come prete, al mondo?
Poi la lunga processione di centinaia e centinaia di uomini per le vie della città. Un momento del lungo e faticoso camminare dell'umanità a mendicare un po' di pace, un'ombra di giustizia, briciole di Amore.
Un giorno in questa umanità in cammino faticoso e penante, è venuto Dio e si è messo a camminare anche Lui portando la Sua Croce, cioè la Croce di tutti: è per essere forza, per sostenere la fatica, è perché gli uomini non si sentano soli, è perché il camminare non smarrisca la strada.
Mi sono trovato quasi in testa alla lunga processione e camminavo portando, insieme a tutti, la croce di quella umiliazione, di quella povertà umana, ma anche la croce dell'unica speranza per il destino umano sulla terra e per il Cielo.
Che non vi fossero immagini religiose e crocifissi di legno e lanternoni pittoreschi e stendardi variopinti e canti e inni e recitar di preghiere, non credo che abbia grande importanza. Vi era la realtà di umanità bisognosa di Dio, amata da Gesù Cristo, quella per cui è, in modo particolare, la Chiesa.
Peccato che i sacerdoti non vengano a queste processioni, ma preferiscano andare alle altre, quelle in cui, molte volte vi è tutto, meno che questa realtà di esistenza umana oppressa e schiacciata da tutta una sopraffazione che ha infinito bisogno di liberazione e di redenzione. Penso che sono queste le processioni dove si cammina la terribile strada della vita e dove Dio è venuto a camminare, mescolato con noi, perché sa bene che da soli, nemmeno un passo saremmo capaci di fare.

don Sirio (da Uno di loro)

Uno di loro

È ormai un mese che con un gruppo di amici stiamo preparando la presentazione in città del libro di Sirio «Uno di loro», la cui ristampa l'Amministrazione Comunale di Viareggio ha voluto sostenere come atto di pubblico riconoscimento ai valori di giustizia, di amore, di libertà e di pace che Sirio ha vissuto con passione in tutto il suo cammino.
Abbiamo voluto tentare di far conoscere meglio, soprattutto ai giovani, il contesto storico, sociale, umano del quale sono maturate le riflessioni, i pensieri, la ricerca colma di sofferenza e di amore di cui sono piene le pagine di questo piccolo libro che abbraccia un arco di circa l0 anni e nel quale Sirio ci offre alcune delle ragioni profonde, delle «radici» alle quali era ancorata profondamente la sua ricerca di cristiano, di prete, di uomo tra gli altri uomini. Soprattutto il suo grande, appassionato amore alla realtà povera, umile, semplice del mondo operaio al quale si è sentito sempre legato da un rapporto indistruttibile. Se pure attraverso racconti di esperienze e si-tuazioni molto diverse tra loro, il libro è come la storia di un cammino al quale Siri o voleva essere fedele ad ogni costo.
«Sono, è vero, come un povero viandante che oggi è qui e domani è là e tendo la mano a mendicare il tozzo di pane e il bicchiere di acqua fresca offrendo a mia volta non più di una stretta di mano o di una parola di fiducia, ho bisogno però di seguire una strada, di sapere dove passa il mio cammino, dove vuole arrivare la fatica e spesso la stanchezza del mio camminare. E allora mi nasce nell'anima un dovere semplice e profondo, quello della fedeltà... Il libro che offro ai miei compagni di lavoro dei tempi della mia vita operaia, agli amici che hanno vissuto e sofferto con me una ricerca d'impegno umano e cristiano in condizioni spesso soltanto di rischio e d'angoscia, vuole essere semplicemente questa fedeltà». (dalla «Introduzione»).
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Questo tempo che ho dedicato a ripensare i tempi e i momenti nei quali sono maturate le pagine di «Uno di loro» mi hanno riaperto nell'anima come delle vene d'acqua nascoste nel profondo e mi sono ritrovato quasi costretto a riprendere anch'io il filo di un cammino che penso non si sia mai interrotto, ma che a volte poteva sembrare come sepolto sotto la spinta della quotidianità del vivere.
È stato per me come un riandare alla ricerca di tracce antiche, di pezzi di vecchie strade sepolte sotto la terra, di sentieri di montagna tracciati da chissà quanto tempo e da quali mani, che sono sempre alloro posto anche se nascosti sotto strati di terriccio e di foglie. Tra le pagine di «Uno di loro» ho avuto la gioia di ritrovare freschissima la sorgente che mi ha dissetato, il pane buono che mi ha nutrito, i sogni nei quali ho creduto con passione profonda e che ho ritrovato intatti ancora oggi nel fondo del cuore e dell'anima.
Anch'io ho voluto essere «uno di loro»: con umiltà, con gioia, con sofferenza, con innamoramento giovanile. Mi sono ritrovato a constatare che nonostante i tempi tanto cambiati, il progetto di fondo rimane, per me, sempre e quello di un tempo. E non per un voler rimanere ancorato a tutti costi al passato: ma per una limpida volontà di appartenenza serena e semplice - per la vita - a quella realtà umile, piccola, senza potere, formata dall'immensa moltitudine che abbraccia tutta la terra e attraversa in lungo e in largo l'intera umanità. L'immensa moltitudine degli uomini e delle donne che ogni giorno lottano e soffrono sulla loro piccola zolla di terra, che si guadagnano il loro pane con il sudore della fronte, che non hanno particolari poteri o privilegi se non quelli di continuare con tenacia una lotta per amore di una realtà umana più giusta, più libera, più fraterna.
Certo sono lontani i tempi in cui mi alzavo al mattino e mi piegavo sulla terra o nei filari di viti come bracciante agricolo. È ormai molto tempo che non timbro più il «cartellino» all'ingresso del cantiere navale, quasi sempre di corsa. Non sono più imbarcato sul peschereccio, di notte o di giorno, con i miei amici pescatori siciliani o viareggini, con lo stomaco sempre un po' in subbuglio e l'odore di pesce eternamente addosso.
Vivo una realtà molto meno faticosa e meno esposta al vento, al sole o alla pioggia; non sono più dentro la conflittualità operaia, come ai tempi del cantiere. Ma «dentro» mi ritrovo con assoluta semplicità «uno di loro»: lo dico senza orgoglio e senza falsi pudori, senza ostentazione, ma con semplice sicurezza di una appartenenza che si è maturata piano piano ed è diventata un normale modo di vivere, di sentire, di camminare il sentiero della vita.
Di questo ne sono felice, perché credo che tutto sia stato dono ricevuto dalla mano di Dio che mi ha fatto incontrare Gesù Cristo, il suo Amore, la sua Parola, il suo essere Uomo tra gli uomini, Fratello tra fratelli, Compagno di viaggio tra compagni di destino.
E sono ugualmente sicuro che è la stessa mano di Dio che mi ha fatto entrare piano piano in questa condivisione e comunione di esistenza cristiana e sacerdotale con la realtà semplice e quotidiana della vita di questo grande popolo di lavoratori che in ogni angolo del mondo, da millenni, soffrono, lottano, gemono cercando il volto di una umanità liberata dall'oppressione, dallo sfruttamento, dall'ingiustizia, dalla sopraffazione del denaro e della ricchezza, dall'emarginazione e dal disprezzo dei potenti. Certamente la strada è lunga e si perde sulla linea dell'orizzonte: so bene di averne percorso un piccolissimo tratto, con passo spesso incerto e forse con molti ritorni all'indietro. Ma mi sento «uno di loro» e «uno di loro» voglio rimanere sino in fondo, anche dentro la realtà della mia Chiesa che oggi non mi pone più ostacoli su questa strada, anche se non so quanto essa abbia realmente accolto di questo appassionato cercare una fedeltà concreta, storica, visibile, sperimentale ai piccoli, ai poveri, ai senza potere, alla condizione dei lavoratori, alle mani indurite dal vento, dalla fatica, dallo sforzo di modellare la materia, dallo sfruttamento del capitale privato o collettivo... So bene, però, che la Chiesa di Gesù Cristo è abitata dalla luce dello Spirito perché sempre sia sospinta a cercare e vivere questa fedeltà: perché il Vangelo è annuncio di liberazione, di amore, di pace, di fraternità per tutti, ma specialmente per i poveri, gli sfruttati, gli oppressi e gli emarginati da ogni potere.
«Uno di loro» è stato in modo unico e straordinario il Signore Gesù, Lui che da ricco che era si fece povero, Lui che annientò se stesso prendendo la condizione di servo di tutti, di ultimo fra gli ultimi, per poter essere il primo di una nuova umanità.
Mi pare in tutta sincerità di non desiderare altro che una fedeltà semplice, quotidiana, piena anche di momenti di stanchezza e di nebbia, a questo cammino vissuto con gioiosa e sofferta tenacia anche con Sirio e con molti altri compagni di strada. Questa fedeltà mi interessa e mi appassiona ancora e spero che essa sia sempre ragione profonda di ricerca, di accoglienza, di condivisione, di incarnazione sincera e totale dentro la pasta della vita.

don Beppe

Un campo di pace

Abbiamo già scritto diverse volte riguardo al «campo della pace» che dovrebbe essere realizzato nel piccolo pezzo di terra che circonda la chiesetta del porto: un semplicissimo fazzoletto ai margini del canale che congiunge le acque del padule di Massaciuccoli con l'ampia distesa del mare.
Ormai questo ritaglio di terra, dato in concessione dalla Capitaneria al Comune di Viareggio, si avvia a diventare «il campo della pace». È il nome di battesimo che ha ricevuto da tempo: con Sirio ed alcuni carissimi amici abbiamo studiato a fondo la questione, i progetti, i significati, i simboli.
Proprio in questi giorni dovrebbero essere dati i primi colpi di piccone per raccogliere il piccolo spazio entro muretti molto semplici che ne delimitino bene il confine e soprattutto indichino a chiunque vi passi accanto che quella fetta di terra ha avuto una specie di «destino», una forma di «consacrazione» che la sottragga a qualunque altro uso che non sia quello di suggerire ragioni, motivi, speranze, pensieri di pace.
Questo è il sogno, la piccola-grande utopia che osiamo sperare possa fiorire in questo angolo ombroso della darsena di Viareggio.
Di là dal canale, proprio di fronte al piccolo campo della pace c'è una grande piazza alberata che il popolo viareggino ha chiamato «la piazza delle paure»: un potente monumento in bronzo del Viani fa memoria dei caduti della Grande Guerra. La speranza è che il campo della pace possa essere riconosciuto dalla gente come uno spazio in cui la memoria trovi stimoli e suggerimenti di fiducia e di allegria, di gioia di vivere.
***
Giovedì 23 Novembre, ore 1l: nel «campo» c'era una piccola folla festosa, fatta in gran parte di ragazzi delle scuole elementari e medie. C'era anche una squadretta di piccolissimi dell'asilo. C'erano alcuni amici più «importanti», fra cui anche il sindaco.
Tutto si è svolto in modo semplicissimo: non era né una cerimonia né una inaugurazione ufficiale. Era semplicemente l'espressione di un desiderio sincero ed autentico, perché questo pezzetto di terra possa diventare ciò che il suo destino lo chiama ad essere: punto d'incontro, motivo di apertura, accoglienza, partecipazione, fraternità, promessa di serenità, superamento dei conflitti, capacità di comprensione della diversità... «Campo della pace», appunto. Quando la ditta che ha appaltato i lavori avrà terminato la sua opera, comincerà l'impegno vero e proprio perché il campo possa germogliare e dare frutto, raccolga entro i suoi nuovi confini i segni visibili e chiari di una rappresentazione della pace che non sia l'assenza della guerra e dello scontro, ma qualcosa di assolutamente positivo e limpido che è difficile da immaginare. Bisognerà fare uno sforzo di fantasia, di poesia, di intelligenza aperta al sogno e alla verità. Bisognerà darsi da fare - in pace - perché il campo diventi un «laboratorio», un vero campo dove chiunque ama e sogna la pace possa venire a seminare il suo seme, a piantare la sua speranza, a raccontare al vento, al sole, alla pioggia e soprattutto alla gente i propri progetti per una vita umana segnata ed illuminata dall'amore e dalla fraternità più schietta e sincera. Terra come pagina bianca di un diario sul quale descrivere con i colori, con i simboli, con le parole, con le immagini e ragioni di fiducia, di coraggio, di incontro, di apertura e di comunicazione, di pacificazione con se stessi e con il mondo intero.
Ho pensato, appunto, al grande «campo» che è il mondo intero: proprio in questi tempi così ribollenti di movimenti popolari nei paesi dell'est europeo, di muri che aprono brecce e passaggi, di incontri fra i «grandi» che promettono un avvenire meno carico di sospetti e di paure, ma anche di uomini e donne che muoiono schiacciati dalle bombe in Salvador, in Palestina, nel Libano, in tante parti di questa nostra terra senza pace e senza giustizia.
Ho pensato al «campo» delle grandi città dove la gente spesso è schiacciata dalla droga, dalla troppa ricchezza, dal vuoto del cuore, dalla violenza. Ho pensato a tutto questo... e mi sono accorto che non ho pensato alla pace; ma alla sua assenza, al suo non essere pane quotidiano, sole che illumina e riscalda, dolcezza della sera, gioia di incontro, scoperta dell'amicizia, poesia e sogno del vivere, dello stare insieme come umanità, come uomini e donne che conoscono il senso del proprio andare, la ragione del proprio esistere e che si riconoscono uguali e degni tutti di rispetto, di fiducia, di amore.
Allora sono felice che questo piccolo ritaglio di terra che Sirio ha amato profondamente possa diventare oggetto di amore sempre più allargato e diffuso: è bello pensare che quello che in darsena, una volta, veniva chiamato «il cantaccìo» (luogo di abbandono, di sterpaglia, di desola-zione) diventi spazio disponibile a tentare di mettere in movimento qualcosa che sia solo realtà, desiderio di pace.
So benissimo che non sarà cosa facile, perchè siamo tutti figli di una cultura profondamente segnata da una storia secolare di lotte violente, di scontri mortali, di guerre fratricide contrabbandate per necessità storiche e amore di patria.
Sarebbe certamente cosa molto più facile se il piccolo campo fosse un bel giardinetto rasato e pulito per farci delle buone merende o starsene a godere il fresco d'estate e lasciarsi accarezzare dalla brezza del maestrale ...
La nostra scommessa è che questo campetto di pochi metri quadrati riesca a racchiudere dei «segni», dei simboli che aiutino a pensare al grande sogno che vive certamente nel piccolo campo che è il cuore di ogni creatura e che all'ombra dolce degli alberi la gente si incontri con la Pace.

don Beppe

La stella di Natale

Ora sono a mani vuote. Il futuro è più incerto che mai... Sento però che quella stella che mi ha guidato a Soweto, mi precede ora sulle strade dell'Africa. Quella stella che mi ha portato in baraccopoli mi ha dato la «grandissima gioia» di adorare quel Bambino nel volto luminoso di un povero artigiano: Ngugi.
Lo avevo incontrato una sera, quasi per caso... Bastarono pochi minuti per capirci: «Karibu!» e mi spinse nella sua baracca. Eravamo confinanti. Mi presentò Anna, la moglie, e i suoi due bam-bini. Mi sembrava quasi impossibile che lì dentro, in una stanza di tre metri per tre, potesse viverci una famiglia! «Condividi la cena con noi», mi disse con quel suo volto raggiante. Condivisi, ugali e fagioli... Parlammo a lungo nel cuore della notte: ero davvero affascinato dalla sapienza, dallo spirito critico di questo lavoratore kikuyu; anche lui, però, pur professandosi «ateo», era sconvolto da questo strano prete bianco che aveva deciso di condividere la vita dei poveri di Soweto. Il volto di quel povero lavoratore («Se sono in questa baracca è perché con il salario che ricevo non posso permettermi altro!») che a tratti si illuminava con un'espressività incredibile, affiancato dal volto sereno, ma velato di tristezza, della moglie Anna e dai visi splendidi di due bambini addormentati nelle di lei braccia, illuminavano per me quella notte fonda di Soweto. Prima di lasciarmi mi abbracciò dicendo: «Vieni quando vuoi, condivideremo della nostra povertà».
Ritornai spesso in quella baracca... e l'amicizia crebbe... Ngugi, affascinato di come parlavo di quel povero Cristo, mi chiese di aiutarlo a capire meglio il vangelo... Fu così che ci ritrovammo nella baracca, allume di candela, a riflettere sul vangelo, filtrato dalla realtà di Soweto. Una sera mi chiese di spiegargli il testo dei Magi (Matteo 2). «I detentori della verità - spiegai - quelli che hanno «Dio in tasca (Gerusalemme, preti, teologi...) non vedono la Stella, non riconoscono quel Bimbo, nella casetta di un lavoratore... sulle ginocchia di una povera donna, la moglie di un artigiano». Il volto di Ngugi si illuminò: aveva capito. Ma in quella baracca anch'io avevo visto la luce: i poveri mi avevano fatto scoprire quella Stella, quel Bimbo eternamente crocifisso nella carne dei poveri.
Anche oggi, infatti l'ultima novità è che entro il 6 gennaio (il giorno dell'Epifania, dei Magi), tutti dovranno abbandonare Soweto e ricostruire la baracca su un'altra collina vicina. Un'altro esodo forzato. I militari vogliono il terreno di Soweto per costruirvi un loro enorme complesso... E così continua la Via Crucis dei poveri... la Via Crucis di quel Bimbo che deve fuggire in Egitto... il Natale di Soweto, di tutte le Soweto. Su questa «via dolorosa» continuerò a camminare anch'io, nonostante tutto... So che quella Stella che ho visto a Soweto mi precede.
Unico segno davanti ai miei occhi in questo momento: la giacaranda e l'ibisco in fiore, in questa Nairobi primaverile!
Con l'augurio natalizio che anche il vostro inverno abbia la sua giacaranda, il suo ibisco!
Allenaci, Signore, a lanciarci nell'impossibile - è la preghiera, che faccio mia, del gesuita boliviano Luis Espinal assassinato per la sua difesa dei poveri - perché dietro l'impossibile ci sono la tua grazia e la tua presenza: non possiamo cadere nel vuoto. Il futuro è un enigma, il nostro cammino si inoltra nella nebbia, ma vogliamo continuare a donarci, perché tu stai aspettando nella notte, con mille occhi umani traboccanti di lacrime».
Alessandro Zanotelli (da «Testimonianze» Gennaio 1989)

A te che vieni da fuori

Aiutaci ad apprezzare
le nostre ricchezze
e non voler crederci poveri,
solo perché non abbiamo
quello che tu hai.

Aiutaci a scoprire
le nostre catene
e vedendo le tue,
non crederci schiavi.

Sii paziente
con il nostro popolo,
e non crederci arretrati
perché non sappiamo
scrivere la tua lingua.

Sii paziente
con il nostro modo
di camminare
e non crederci pigri
perché abbiamo
un ritmo diverso dal tuo.

Accetta con pazienza
i nostri simboli
e non crederci ignoranti
perché non sappiamo
leggere le tue parole.

Resta con noi
e canta la bellezza
della vita
che con noi condividi.

Resta con noi e accetta
che ti possiamo donare
qualche cosa.

Accompagnaci
nel cammino:
né davanti né dietro
cerca con noi
di vivere
e di attendere Dio.

Un vescovo africano

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