LOTTA COME AMORE: LcA settembre 1989

Faccia a faccia

Durante l'estate la Chiesetta riposa immersa nel verde dei platani che 1'abbracciano e la nascondono al chiassoso andirivieni turistico e vacanziero. Il coro dei pensionati che stazionano intorno esplode spesso in un urlio confuso alimentato dal caldo e aiutato da qualche bottiglia.
I rumori rimbalzano contro le finestre dischiuse, si arricciano come ondate di spuma biancastra e irrompono nelle stanzette con fragore inaudito. A volte con insistente crescendo, a volte come punte isolate di un più che gradevole e pacioso silenzio.
Quando il chiasso è continuo e snervante, oltre ogni incidenza del proprio stato d'animo, ci si sente come assediati e minacciati nella propria solitaria intimità. Come se non ci fosse angolo o rifugio dove fuggire, come se non esistesse più la casa e le mura non offrissero più protezione. È inutile chiudere porte e finestre. Le voci alterate dal discutere inutilmente di inutili cose acquistano timbri di una violenza inaudita.
A volte non se ne può proprio più! Eppure sappiamo quante ore di quiete e di pace autentica ci regala questo meraviglioso angolo di Darsena. E questa consapevolezza ci permette di guardare oltre questo nostro privilegio per rabbrividire di fronte alla disperazione di convivenze forzate, alla violenza di condomini ribollenti, di quartieri attraversati costantemente da tensioni sempre pronte ad esplodere... No, non è davvero per farci compiangere o per piagnucolismo cronico che scriviamo queste cose, quanto per avviare una riflessione che viene su da una esperienza semplice e quotidiana, un piccolo segno che nella sonnacchiosa calura estiva, apre, senza soverchio sforzo, ad altre riflessioni...
Succede infatti che basta semplicemente uscire di casa e starsene appena fuori, oppure andare sull'ampia terrazza perché questa sensazione fastidiosa e assordante si modifichi divenendo meno asfissiante e violenta. Può essere che realmente, in casa, certi rumori risultino amplificati; può essere tutto un fatto psicologico per cui l'uscire fuori comporta un diverso rapporto con il mondo esterno. Chissà? Sta di fatto che nasce comunque un rapporto meno negativo: non c'è amplificazione di effetti sgradevoli; ci si sente meno schiacciati; anche la nostra presenza ha uno spazio e si impone.
Uscire di casa; occupare spazi comuni; confrontare direttamente le differenze. Stare faccia a faccia. Non è certo una ricetta per stare tranquilli o una panacea per ritrovare semplificazioni di sogno. Eppure, a volte, si ha quasi l'impressione di stare percorrendo la via nella direzione opposta. Di fronte ai rumori, neppure tanto di sottofondo, di scontri storici nella attualità; di fronte allo stridere acuto della complessità nei rapporti personali e sociali, ai ritmi di vita diversi, sembra che si risponda crescendo lo spessore e la quantità dei muri divisori, creando doppi e tripli infissi, iso-landosi sempre di più in prigioni più o meno artificialmente procurate. Un mondo sempre più lot-tizzato per questi «rifugi» in grado di imbalsamarci perché sia possibile solo udire la nostra voce e contemplare solo il nostro volto. O tutto quello che comunque sia, sia tutto fuorché dissonanza.
Questa nostra società ci sta offrendo tutta una serie di «club» selezionati secondo le caratteristiche di ciascuno, per facilitare al massimo ogni pretesa integrazione ed evitare più che sia possibile - tramite quel formidabile anestetico che è l'uniformità - ogni temuto trauma da differenza. Anche la chiesa spesso, al di là delle parole, finisce per rispondere al mercato della domanda di «merce» religiosa per adepti invece di offrire stimoli autentici per la crescita di una coscienza personale e di popolo. Non tutto comunque fila liscio per chi ha potere e pilota le cose in questo senso. Nel frattempo esperienze concrete, di base, hanno svelenito molte paure tenute in piedi da steccati ideologici con fini strumentali. E c'è gente - più di quanto si immagini - che ha ripreso il gusto dell'avventura con e tra i suoi «simili». E così oggigiorno anche nella ufficialità civile e religiosa si parla molto di confronto, ma sempre strettamente unito all' aggettivo «costruttivo». Invece di rappresentare un elemento tendente a rafforzare il confronto, il «costruttivo» finisce per essere la scusa per non farne di nulla. Si può forse infatti costruire qualcosa senza fare spazio, affrontare nuove esigenze, «faticare» insomma perché si realizzino i presupposti per la costruzione? Ecco allora che per il «costruttivo» bisogna comunque - prima di tutto - uscire, uscire dal guscio, affrontare l'altro a viso aperto, di persona, a faccia a faccia. E questo rischio, questo campo aperto, è poco amato dall'ufficialità che per «costruttivo» spesso intende solamente quello che rafforza le proprie posizioni, che dà ragion di essere al muro e non lo abbatte o, tantomeno, lo scavalca.
Abbandonarsi alla dolce pigrizia può essere tentazione cui è pienamente concepibile concedere qualcosa, ma non più di tanto perché non risulti perdente una sempre sorprendente voglia di vivere.
Del resto, anche e soprattutto parlando di Dio questo confronto è necessario. Se rimaniamo chiusi dentro di noi - anche nei silenzi e nelle clausure più spirituali - di Dio avvertiamo solo rumori senza senso, parole opprimenti e coartanti. Il Dio che sovrintende alla nostra vita. Oppure il Dio silenzioassenza, quando le nostre difese sono tali da aver eliminato anche porte e finestre per rimanere soli con se stessi.
Solo il mio uscire nella storia e nella umanità, il mio «perdermi» nella quotidianità, fa sì che l'io non si perda in Dio o viceversa, e sia possibile quella lotta come amore da cui scaturisce profondo il desiderio della profezia paolina: «ci incontreremo con lui faccia a faccia e lo vedremo così come egli è».

La Redazione

Lettere di Amici

«Voglio ancora sperare»
Nostalgia di bene: che bella frase! Nostalgia di cose buone, di un cuore buono, puro, limpido, capace ancora di amare, di sognare, di trasparenza. Sembra impossibile: talvolta ho la sensazione che son parole che giungono da un pianeta molto lontano e attraverso immagini e forme musicali che irritano il nostro sistema nervoso. Oserei dire che servono quasi da spauracchio, da un qualche cosa da cui si fugge perché in realtà si tratta di setacciare la nostra coscienza, di grattar dentro di noi, di vedere senza veli che c'è nel più profondo del nostro essere «uomini e donne».
Visto che abitiamo in una cittadina di mare ci si potrebbe paragonare ad una barca... andare al largo, tirare i remi in barca, respirare profondamente a pieni polmoni e, dopo le prime resistenze, aver il coraggio di trovarci nudi con noi stessi di fronte a Quello Lassù. Chiederci, col cuore in mano, che cos'è questa bontà? Dov'è il bene? E noi 1'abbiamo cercato, tentato di costruire senza drogarci del nostro egoismo? Però se c'è la nostalgia di cose buone vuol dire che prima esisteva qualcosa di buono; se ce n'è un desiderio immenso, vuol dire che prima c'era qualcosa di simile! Ecco la continua ricerca, nonostante paure, svirgolamenti e pentimenti. Non sarà mica una parola vana dietro la quale si nasconde ipocrisia, approfitto, menzogna, egoismo e ingiustizia! Mi rifiuto di accettare questo essere al negativo anche se talvolta ho graffiato e sono stata graffiata nel profondo.
Io vorrei ancora sperare, immergermi nel sogno di bontà con limpidezza, con semplicità, con chiarezza. Basta con le ambiguità! Mi stanca, non ne ho più voglia! Non è anche più facile vivere con chiarezza piuttosto che fare il giocoliere o l'equilibrista tra le varie persone o situazioni? Uno più è chiaro e limpido con se stesso, più lo è con gli altri: è questa la prova del nove!
Nostalgia di bene, di amore quindi, nel profondo rispetto dei ricordi, delle persone e dei loro sentimenti, della loro fiducia. Milioni di persone sono rimaste colpite (e colpite è dir poco) dall'immagine trasmessa dalla TV del ragazzo cinese che avanza da solo, senz'armi, verso un carro armato. Perplessi, ne proviamo orrore, dolore, disperazione... perché ci è pervenuta l'immagine. Ma quando rifiutiamo una persona o trattiamo i nostri simili come «usa e getta», siamo forse diversi dai carri armati? Spesso mi pare assurdo parlare degli «altri» qualora siamo noi stessi la causa di queste apartheid. Se creiamo noi situazioni di emarginazione, è falso poi accalorarci «in difesa di».
Come si può continuare a credere? E in chi? In che cosa? Non vorrei masticar parole come chewing-gum: ne ho il sacrosanto timore: Ma vorrei sognare di avere un mondo migliore, nel quale ci si può fidare ad occhi chiusi dell' amico. Sognare che ci amiamo in una ricerca di bene vicendevole, con carezze e non con pizziccotti, come diceva Papa Giovanni. Ecco la mia nostalgia; e la mia speranza.
Mi sono ripetuta spesso, e forse son io la prima che devo essere convinta. Se desideriamo ve-ramente bene, pace, amore, proviamo a metterei insieme, convinti che solo in un insieme potremo costruire qualcosa (seppur piccolo, povero, non importante), ma che viene dal di dentro più profondo. Altrimenti viene ad essere una solenne mascherata! Nel libro «Il piccolo principe» c'è scritto che quello che è importante non è visibile agli occhi, ma si vede bene solo con il cuore. Amore, pace, bene, facciamo che non siano solo parole, ma prendano corpo! Non sia solo una no-stalgia di tipo ottocentesco con donna appesa alla tenda in languida attesa, ma una ricerca seria, senza intrallazzi.
Mi è stato detto ultimamente: «tu sei la pace»... Magari lo fossi! Però per un attimo mi sono illusa: allora provo a mettermi al lavoro. Spero di usare abbondantemente il setaccio soprattutto se verrò aiutata in umiltà e chiarezza. E anche voi aiutatemi e aiutiamoci. Forse non ce la faremo, ma almeno avremo cercato di non essere cattivi tra noi, di aver almeno tentato di creare armonia e amore.

«E rimane un sorriso»
La storia dell'ultimo anno di vita di un bambino che muore a dieci anni di tumore, raccontata dalla mamma. Un libro che non si lascia fino a quando non si è finito di leggere e che anche dopo resta a caratteri di fuoco, sferzata di speranza. Testimonianza limpida di una esperienza sconvolgente e tragica. Messaggio di amore e di vita. E bello che la mamma stessa di Paolo - questo stupendo bambino maturato troppo in fretta in un'unica stagione della sua vita - apra a chiunque le tremende angosce e la bellezza di quei momenti di rara intensità: «anche nel massimo dolore, in mezzo alle sofferenze più atroci, si può essere felici, e tutte le peggiori esperienze, anche le più dolorose, acquistano un valore impagabile, se sono esse stesse e soltanto esse ad averci portato ad assaporare quell' attimo di felicità che altrimenti non avremmo avuto».
E da Paolo, vivo in queste pagine prive di retorica, un esempio di maturità, un ammonimento severo e tremendo che scuote. Il giorno della sua prima comunione, quando ormai i dolori erano acutissimi, a poco più di un mese dalla morte, nella lucidità consapevole della sua reale situazione, dice: «Ringrazio Dio di avermi dato la vita».

«E rimane un sorriso» di Maria Pallini Chiandai è edito dalla ETS di Pisa. Il ricavato sarà interamente devoluto all'Associazione dei genitori di bambini affetti da leucemia o tumore (A. C.B.A.L. T.).

Una scelta di pace

È sicuramente vero che «pace» non può significare soltanto assenza di guerra, silenzio delle armi, disarmo, diminuzione degli effettivi degli eserciti...
Anche se è altrettanto vero che «pace» deve assolutamente significare tutto questo: cammino di conversione e riconversione di tutto un potenziale umano, di energie, mezzi tecnici ed economici, di orientamento politico che sempre più, anche se in modo inevitabilmente graduale, proceda verso una realtà di vita collettiva dominata sempre meno dagli strumenti della morte legalizzata e programmata.
In questa linea di cammino mi pare si collochi molto bene la scelta compiuta dalla maggioranza del nostro. parlamento italiano (anche se si tratta di una «maggioranza» estremamente risicata, 209 voti contro 205) che si è pronunciato per l'abolizione della pena di morte prevista dal codice militare di guerra, dell' ergastolo dal codice penale, delle sentenze di condanna a morte pronunciate da tribunali di tutto il mondo.
Si tratta indubbiamente di una scelta altamente «civile», di grande rilievo morale, sociale, po-litico.
È sicuramente una grande scelta di «pace»: appunto perché la «pace» deve significare un processo di idee e di fatti concreti, anche legislativi e quindi vincolanti a livello giuridico, che ci aiu-tino a stabilire rapporti umani sempre meno fondati sulla forza di una giustizia vendicativa, sulla violenza legalizzata che alla fine diventa soltanto «vendetta».
Liberare i rapporti sociali dalla tentazione sempre ricorrente di risolvere il problema della de-vianza usando la morte come ragione di giustizia mi sembra un impegno da portare avanti con sempre maggiore decisione; può essere un «programma» politico e sociale, profondamente umano e altrettanto profondamente evangelico che può stimolare la crescita di una storia umana sempre più illuminata dalle ragioni di una vita sottratta alle energie della distruzione, della giustizia vendicativa, del «potere della morte». Ricordo in maniera molto lucida la proposta fatta dal grande filosofo ebreo Martin Buber a proposito della condanna da infliggere ad uno dei più tristi criminali nazisti, Eichman.
Egli fu condannato a morte dal tribunale ebraico che ha dato la caccia per anni ai criminali nazisti rifugiatisi in vari paesi del mondo, e la sua condanna fu eseguita di conseguenza.
Ma Buber aveva proposto una condanna non a morte, ma a «vita»; egli propose di condannare Eichman a vivere il resto dei suoi giorni nello stato d'Israele, perché vedesse ogni giorno quelli che erano scampati alla tragedia dei campi di sterminio, vedesse i loro figli crescere sotto i suoi occhi e potesse «capire» lo spessore terribile del suo crimine, l'assurda follia del nazismo e quindi giungere ad una «condanna» del suo operato in forza della sua stessa esperienza di vita in mezzo al popolo che aveva oppresso in modo tanto crudele e spietato.
Ricordo che la proposta di Buber suscitò furiose polemiche; essa aveva certamente qualcosa di profetico, nasceva da una visione della devianza (anche la più atroce ed abbietta) che non poteva essere risolta in modo matematico, seguendo la vecchia legge del taglione: «occhio per occhio dente per dente».
Ho ritrovato lo spirito di Martin Buber nelle indicazioni coraggiose ed illuminanti di quella parte del nostro parlamento che ai primi di Agosto si è espressa contro la pena di morte e contro l'er-gastolo.
Queste indicazioni sono certamente cariche di profondi significati, possono innescare dei processi di revisione e di cambiamento in ordine al rapporto che deve esistere fra delitto e pena. Sono indicazioni che si muovono sulla linea di quel processo di pacificazione che deve abbracciare tutto il complesso tessuto della vita sociale di ogni popolo.
Dal mio punto di vista, l'abolizione della pena di morte prevista dal nostro codice militare di guerra potrebbe contribuire all'approfondimento delle ragioni stesse che hanno tenuto in piedi, per secoli, la necessità della guerra e quindi degli eserciti.
In fondo, la guerra nella sua sostanza è una grande «pena di morte» che è sempre stata legalizzata come ragione ultima per risolvere le controversie e i conflitti interni o esterni alla storia dei popoli.
Annientare il nemico, distruggerlo, piegarlo alle proprie ragioni con l'uso di mezzi sempre più potenti di distruzione.
Usare la morte per affermare ragioni e motivi della propria esistenza. Una vecchia frase latina dice: «mors tua, vita mea»; e cioè, la tua morte ha ragione di essere perché io abbia la vita; tu devi morire, perché io possa vivere. Che altro è la guerra, se non questo?
Se siamo disposti a scavare sotto la scorza di quella che potrebbe sembrare una evidente nor-malità di pensiero e di azione, potremmo scoprire la contraddizione presente in tutto l'ordinamento militare e procedere verso un orizzonte umano sempre meno offuscato dalle nubi delle armi e degli eserciti.
Si potrebbe scoprire il grande valore della «disobbedienza» in ordine ad un sistema fondato sul concetto di nemico, sul metodo della violenza armata, sulla distruzione preparata con tecniche sempre più precise e raffinate. Potrebbe venire alla luce !'istinto di morte racchiuso dietro la facciata della legittima difesa, del concetto di patria, dell'idea di nazione, di razza, di religione...
Il sentimento di sacro rispetto che circonda ancora i corpi militari che sfilano in occasione delle grandi parate nazionali mostrando con orgoglio la loro perfetta sincronia nel passo e i loro lucidi strumenti di guerra potrebbe mutarsi in sentimento di rifiuto, di respinta e di non condivisione. «Disertare la guerra» potrebbe apparirci l'unica cosa civile da fare, se vogliamo un mondo non più dilaniato dalle bombe, dal napalm, dalle armi chimiche, dalle bombe atomiche. Essere «disertori» da questo ingranaggio di morte potrebbe apparirci come l'unica via da percorrere, come una morale nuova da insegnare e trasmettere ai ragazzi e ai giovani perché non cadano nella illusione che uccidere il nemico possa costruire una umanità più giusta e più vera. I monumenti ai caduti, i cimiteri di guerra, potrebbero allora essere a buon diritto méta di pellegrinaggi ed oggetto di attenta considerazione: ma non per raccogliere chi sa quali «glorie» del passato, ma per acquistare una coscienza sempre più limpida di ciò che non deve accadere mai più.

don Beppe

La posta di Fratel Arturo

Cari Amici italiani,
fra le tante cose che vorrei raccontare, scelgo una che mi interessa particolarmente, sperando che contribuisca ad arricchirvi di ottimismo e di speranza, come è accaduto a me. È l'incontro delle comunità ecclesiali di base, avvenuto in Brasile nel mese di luglio nella diocesi di Duque de Caxias (periferia di Rio de Janeiro) il ritorno in Italia un mese dopo il congresso brasiliano, mi ha riportato a quella esperienza, facendomi apprezzare ancora di più i valori che si fanno palesi nelle assemblee cristiane dell'America latina.
Il congresso brasiliano aveva come tematica centrale riaffermare la coscienza ecclesiale delle comunità di base. La Chiesa è - come afferma il documento di Puebla - il popolo di Dio in cammino verso la libertà; ma il tempo che passa, le delusioni e le persecuzioni incidono negativamente sulla speranza di questo popolo in cammino. Riflettendo sulla relazione dei quarant'anni di viaggio, come è raccontato nella Bibbia, e specialmente nel libro dell'Esodo, ci convinciamo che la speranza è una virtù difficile, continuamente insidiata, che cresce in un contesto di «tentazioni». Una assemblea cristiana in Italia lascia un saldo di polemiche, mette a nudo intenzioni di bassa politica, fini scopertamente economici: la passione del Regno è contaminata dalla volontà di realizzare progetti che sono evidentemente estranei al Regno. Leggendo sui giornali gli strascichi di un incontro cristiano che ricorda molto le faide tra guelfi e ghibellini, ho ripensato con molta gioia all'incontro del Duque di Caxias. I novanta Vescovi che si mettevano nella loro fila come tutti, per ricevere la razione di cibo, e si sedevano dove capitava, per consumare la refezione, componevano veramente l'immagine della Chiesa-comunione. Nessun privilegio per nessuno. Nessuno spazio aperto per chi volesse inserirvi le sue ambizioni personali, o il suo risentimento verso un avversario politico. Era chiara sul volto dei Vescovi la soddisfazione di trovare la prossimità col popolo, non come risultato di teorie e di polemiche, ma per una reale necessità: nel deserto non esistono poltrone e tavoli. E que-sta assemblea riusciva a dare l'immagine del deserto. Nessun particolare estraneo che potesse essere pensato come contraddittorio a questa convocazione popolare. Era veramente il popolo di Dio, convocato da Lui che «ne aveva udito il clamore e il pianto». Quelli che hanno il cuore di ricco non c'erano. La tv ufficiale, la rete globo che entra in un pollaio dove hanno rubato galline, non c'era: il popolo lì non era il cliente passivo, imbambolato davanti al video, era il popolo in piedi per ascoltare quella promessa che discende come una corrente d'acqua perenne, di generazione in generazione: «Tu sei il mio popolo e io sono il tuo Dio, il tuo misericordioso e appassionato Dio».
Ciascuno, ogni notte, si ritirava in una casa povera dove trovava il suo posto semplicemente come fratello atteso da lungo tempo. «La diocesi ha fatto un grande sforzo - mi comunicava un amico - ma ci ha guadagnato molto più che con qualunque «missione». Ogni cristiano che ha il cuore di povero, e la fame e la sete del povero sentiva come era vero il canto di Maria: «Ha soccorso Israele (il popolo) suo servo ricordandosi della sua misericordia. L'amicizia che si viveva senza contrasti, non era il risultato di una riconciliazione, ma l'unità che nasceva dalla rivelazione di una misericordiosa e affettuosa paternità.
Per smentire coloro che affermano che la teologia della liberazione e la pastorale della liberazione ricoprono litigi politici e problemi esplicitamente economici e sociali, è sufficiente mettere a confronto il congresso delle comunità ecclesiali di base con il congresso parallelo di Cristiani in Italia. L'uno squisitamente biblico senza incrinature, riproduzione del discorso della montagna senza l'intervento di nessun regista: tutti in umile ascolto del messaggio di speranza. L'altro trasformato in arena di gladiatori con un saldo di vincitori e di vinti. La convocazione brasiliana era diretta a discepoli, tutti ugualmente discepoli per ascoltare la voce del Maestro. Quella italiana scopriva l'intenzione evidente di promuovere alcuni eliminare altri. E il Regno può attendere ancora.
Non perdiamoci di vista; manteniamoci uniti nel ricordo del nostro grande amico don Sirio. Vi abbraccio.

Arturo

Prete operaio

Da un anno e mezzo sono ritornato alla busta paga. Non al vero e proprio lavoro dipendente perché sono socio lavoratore in una piccola coop di servizi. Però il ricevere, dopo tanti anni, di nuovo una busta sulla quale sono segnate le ore, la paga oraria, le ritenute, ecc., mi ha fatto rientrare in un mondo, mi ha ridato di esser di nuovo dentro un meccanismo di lavoro che non stava più tutto nelle mie mani. Dopo la lunga parabola artigiana, per due anni avevo vissuto di quel lavoro nero (non solo africano!) che ti fa davvero guadagnare tanto di più.
Ma al lavoro della busta paga non ci sono arrivato per caso. Alla attuale modalità di lavoro forse si, ma prepotente era in me la voglia di misurarmi di nuovo all'interno di una situazione di lavoro che non dipendesse totalmente da me. Mi sembrava di non poter più approfondire il discorso di solidarietà del volontariato e della condivisione della realtà emarginate senza ripropormi anche personalmente il problema delle strutture in cui la vita collettiva è incanalata. Così il lavoro dipendente con tutte le sue regole e i suoi meccanismi.
In un momento in cui - me ne rendo conto benissimo - le speranze sembrano essere messe realmente a dura prova, io rientro nel vivo delle cose. Illusione, disperazione, nostalgie, o piuttosto lucidità e capacità rinnovata e più realistica di stare dentro il mondo del lavoro, nodo sempre essenziale del cambiamento sociale?
Mi accorgo solo di riuscire sempre più a chiamare le cose con il loro nome: e a non averne paura. Mi accorgo anche nella inadeguatezza della mia condizione di lavoro: realtà umile e povera. Ma capisco fin troppo bene che questo sistema non tollera sacche di resistenza. Al massimo palestre imbelli e disarmate, buone solo ad ammortizzare gli effetti dolorosi della ingiustizia sociale. Non voglio essere confinato in una riserva, sia pure ammantata di medaglie al merito della redenzione sociale. E se vado in Etiopia è perché mi è richiesta una «professionalità» e mi viene pagato lo stesso salario che avrei in Italia; con il vantaggio che là posso andare a dormire presto.
Capisco sempre di più che alla radice di ciò che mi ha portato vent' anni fa al lavoro in un modo che fu per me misteriosamente indolore, c'era il desiderio profondo di un confronto diretto e non mediato con una realtà. E un poter vivere in libertà la fede.
Non è molto invece che mi sono accorto di quanta fatica abbia fatto durante così tanti anni per vivere un sacerdozio ripulito, evangelicamente pastorizzato (il mio «acuto» fu forse. proprio la messa celebrata in occasione del Convegno dei P.O. a Viareggio), prima di capire che la libertà della fede esigeva un confronto più serio con questa mia identità.
Ho cercato - in questi ultimi anni - di andare oltre l'accoglienza serena ed equilibrata del doppio mandato (uno dalla vita e l'altro dalla fede) dopo i travagli schizoidi inevitabili negli anni ruggenti.
Ho cercato di far affiorare cose vecchie e nuove senza più nasconderle o rifiutarmi di af-frontarle: nel lavoro, nel socio-politico, nell'ecclesiale, nell'interpersonale.
Non sono più un prete laico. O meglio, non ne ho più la consapevolezza. Dopo aver cercato a lungo per la pista di un sacerdozio che chiamavo «feriale», per distinguerlo da quello «festivo» dedito alla sacramentalizzazione rituale, ho capito di dover andare oltre questa distinzione per cogliere il senso di un servizio ministeriale legato ad un segno di fede ancora di più innervato nella vita.
Mi ha reso pienamente cosciente - come un'illuminazione - un discorso di Padre Alessandro Zanottelli riportato su Testimonianze: «Mi ritornava allora alla mente la grande sfida che l'amico Padre Dalmazio Mongillo, di passaggio a Nairobi, mi aveva posto in un colloquio talmente intenso che mancava solo il pane perché fosse eucarestia: Quando sarai con loro nei bassifondi - mi disse - cerca di scoprire quell'invisibile sacramento che permette ai poveri di ricominciare da capo ogni giorno, NONOSTANTE TUTTO».
So che là, dove sta quest'invisibile sacramento, là c'è anche il mio sacerdozio.
Devo cercare ora, molto, assai molto di più che prima. Trasversalmente rispetto al mio vissuto fatto di tante pezze come il vestito di Arlecchino. Ora so dove posso diventare uno.
Un' altra illusione, un' altra meta che sfumerà come fata Morgana? Non so. So solo che devo cercare e approfittare anche di questo tempo nel quale stranamente la Chiesa, quella locale, mi concede rispetto e autonomia. So bene che questi spicchi di cielo sereno fanno presto - ohi, troppo presto! - a richiudersi. E spogliarsi, perché c'è il tepore della confidenza, delle difese può voler dire andare incontro a tristi e avvilenti tappate. È però condizione perché la lotta si faccia, limpida e chiara. Lotta che passa anche attraverso la cittadinanza nella Chiesa di mandati legati alla realtà del lavoro dipendente e delle realtà povere della vita. Discorso lungo da chiarire, ché di mandati per evangelizzare non parlo, quanto piuttosto di mandati per accogliere il Vangelo che sprigiona da questi luoghi privilegiati della Presenza del Cristo. E di mandati non so quanto diretti a noi o ad altre possibili figure. Lotta - dicevo - da portare avanti con quella pazienza impaziente che Paulo Freire pone tra le caratteristiche del promotore di cambiamento: pazienza impaziente che sa aspettare e nel frattempo provocare ardentemente ciò che si sta aspettando.
Mi auguro di poter raccontare questa ricerca e di poter continuare ad ascoltare quella pa-rabola da cui tutti noi siamo espressi.

Luigi

Uomo di lavoro, di fede, di preghiera

Io mi trovo un pò imbarazzata a parlare a voi di don Sirio perchè certamente siete stati molto più a contatto con lui di me. Noi eravamo piuttosto lontani secondo la geografia. Quante volte veniva a trovarmi, arrivava all'improvviso, senza avvertirmi. E io lo rimproveravo: «ma perché non me lo hai detto! Ah no, mi dispiaceva dirlo prima perché altrimenti tu mi preparavi chissà cosa e... mi piaceva venire così». Stavamo insieme, entrava nella mia cappella (io vivo una esperienza monastica quindi ho una cappella dove prego, tengo 1'eucarestia, e quindi c'è bisogno per questo di un servizio religioso). Nella mia cappella mancava un bel candelabro di ferro battuto, battuto appunto da don Sirio. È il candelabro che regge il cero pasquale, il cero della risurrezione che accenderò durante la veglia pasquale, durante questa veglia in cui si invocano, ad un certo momento della liturgia, tutti i santi. Si invocano un certo numero di rappresentanti di tutti i santi, si invocano solo i santi canonizzati. E io che ho poca simpatia per la canonizzazione che metto sotto critica, amo più i santi non canonizzati. E mi piace invocare i santi che non hanno la marca da bollo dei dicasteri vaticani, ma che non sono meno santi per questo. Durante queste cerimonie che faccio da sola, perché purtroppo non si fa la veglia pasquale nell'ora giusta facendola di notte. Si dovrebbe fare all'alba: se si legge il vangelo della risurrezione è «orto iam sole», cioè appena spuntato il sole. E invece si esce di chiesa e se va bene è appena spuntata la luna. Non mi piace questa collocazione liturgica scorretta. Essa è dovuta a comprensibili motivi pastorali, però... e allora la faccio da sola all'ora giusta, di notte, appena prima dell' alba. Allora io faccio una piccola processione con dietro tre gatti, ma credo che anche quelli abbiano significato nel dare lode a Dio. E invoco i santi canonizzati e gli altri. E tra gli altri infilo il Sirio, infilo il Giovanni Vannucci e qualche altro, meno noto ma che conosco e sulla cui santità non ho dubbi. Quando Sirio mi fece questo candelabro non pensava evidentemente a tutti questi sviluppi e neanche io pensavo che dovevo invocarlo tra i santi cioè tra i defunti. Però sapevamo bene che era il candelabro della risurrezione e lui me lo forgiò in quella prospettiva. E quando me lo dette, me lo portò qui e me lo consegnò proprio a Viareggio e io lo portai così pesante in treno fino a dove abito ed era certamente un collo molto voluminoso e pesante, ma lo feci ben volentieri ed era una cosa molto bella. E quando me lo consegnò gli dissi: ma è bellissimo! Non sapevo che tu fossi così bravo. E lui mi rispose: sì, sì il mio mestiere lo so fare. Lo disse con molta chiarezza e questo mi piacque molto perché non ci trovavo traccia di quell'umiltà un po' fumosa e pelosa che qualche volta è proprio vanità. Perché si dice: no, non sono brava, volendo che si risponda: ma no, invece sei brava. In lui non c'era nulla di queste piccole commedie: era consapevole di sapere fare il suo mestiere e lo diceva con la chiarezza del lavoro. E infatti se dovessi tratteggiare una figura di don Sirio - io non pensavo di farlo questa sera: non ne ho la capacità e appena ne tratteggerò qualche pennellata -, ma tra queste poche pennellate c'è proprio il lavoro. Direi che Sirio era un uomo di lavoro. Ed è importante questo. Ricordiamo tutti quando andò a fare il preteoperaio, il primo preteoperaio d'Italia, e cominciò allora la lotta come amore perché non erano molto ben visti i pretioperai, mai furono ben visti. Mi son chiesta tante volte il perché. Forse c'erano molti motivi che si incrociavano. Perché qualcuno diceva: non hanno tempo per il ministero. Però c'erano e ci sono ancora tanti preti che fanno gli insegnanti, per esempio, e hanno la stessa scarsità di tempo. Però nessuno fa obiezione per il prete che insegna nella scuola. Invece fanno obiezione per il prete che si sporca le mani con la materia. Credo che qui ci sia una delle spiegazioni: lo sporcarsi le mani. Noi siamo figli ancora della filosofia greca per la quale la materia è una cosa infetta, una cosa impura, ed era demandata agli schiavi. E da qui il nome di lavoro servile (demandato ai servi), perché gli uomini liberi non si dovevano contaminare. Questo ci dà la spiegazione del perché di tante cose strane tra cui, per esempio, nella disciplina festiva, del riposo festivo. I più anziani di noi ricorderanno tutte le casistiche che si facevano. Si poteva faticare moltissimo nel preparare un esame e quello non era peccato, si poteva fare, ma una donna non poteva, oltre uno spazio di poco tempo, lavorare a maglia che è un lavoro molto più rilassante che preparare un esame di fisica. Perché? Perché la maglia è la materia e la maglia sporcava. Forse c'era un poco di questa prevenzione e adesso sta cadendo questa prevenzione per il lavoro manuale. Infatti io ricordo che da bambina mi si diceva che cosa bisognava fare: una persona di un certo rango sociale doveva fare un lavoro decoroso e il decoro era appunto demandato alle attività mentali, insomma non materiali. E forse era questa una delle motivazioni della Chiesa nei confronti dei pretioperai. Non era decoroso che un prete si sporcasse le mani con le cose.

Lotta contro il privilegio della casta
E poi il lavoro del preteoperaio in fabbrica era un lavoro molto coinvolgente che strappava il prete a quella casta sacerdotale che è nata nella Chiesa - mentre non avrebbe mai dovuto nascere - e che ha reintrodotto nel Nuovo Testamento la casta della tribù di Levi che era nel popolo ebraico. Per cui i preti fanno proprio una categoria a sé, una corporazione a sé. Altri lavori meno coinvolgenti del lavoro in fabbrica non turbano 1'appartenenza a questa casta. Il prete resta sempre prete con solidarietà piena con i suoi confratelli. Non si confonde con l'altra gente, resta sempre un uomo speciale. Mentre il lavoro in fabbrica che stabilisce rapporti di strettissima consanguineità con gli altri operai, di strettissima solidarietà, molto facilmente e inevitabilmente e giustamente si politicizzano, e si politicizzano in aree partitiche non proprio molto affidabili secondo la mentalità della Chiesa, specialmente di un po' di tempo fa. Ma non c'è poi molta differenza anche con la Chiesa di oggi. Forse un po' tutti questi motivi messi insieme determinavano questa ostilità di Roma nei confronti dei pretioperai. Don Sirio era consapevole di questa ostilità ma seguitava a lottare e a lottare con amore, sempre nella speranza di una conversione di queste mentalità arcaiche e clericali, un po' settarie. Seguitava a lottare e per la Chiesa e per la classe operaia e per la giustizia, per la libertà, per un mondo migliore. Seguitava a lottare così da prete e da operaio. Uomo tra gli uomini senza volersene tirare fuori come molto spesso il prete molto convinto della sua appartenenza a questa classe speciale, a questa casta sacrale, più difficilmente fa. Era veramente un uomo tra gli uomini, un operaio tra gli operai, senza rivendicare privilegi. Quei privilegi ai quali noi, così astrattamente con dichiarazioni, rinunciamo. Diciamo che la Chiesa non vuole più privilegi e facciamo sempre il contrario e li chiediamo sempre. Non vogliono entrare adesso in casistiche molto attuali che ci coinvolgono profondamente e ci bruciano un poco, perché voglio tenere il discorso più su un piano di ricordo pacificante di un uomo più che della rissa. Perché alle volte la ricerca di privilegi e questa attesa di privilegi appoggiata al potere ci porta ad un atteggiamento veramente rissoso. Ma certamente la storia, 1'attualità è sotto i nostri occhi. Ai privilegi noi rinunciamo a parole, ma i privilegi li teniamo stretti e ben stretti molto fermamente. Sirio era l'uomo che non chiedeva privilegi, non li voleva, non per sé.

Per un autentica uguaglianza nella diversità
Ho detto era uomo tra gli uomini, operaio tra gli operai, vestito come tutti voi. lo ho mai visto don Sirio vestito da prete e non so se si sarà vestito mai. Spero di no, oppure per necessità qualche volta non lo so. Ma io non l'ho mai visto e sono ben contenta di non averlo visto così come non ho visto vestiti da prete questi due preti che sono qui con me. Anche questa è una lotta come amore. Questa di vestire come gli altri. Perché oggi è fortissima la pressione perché il prete vesta da prete cioè che metta in atto un altro degli elementi che lo qualificano come casta come persona speciale. Tra l'altro ci sarebbe da fare tutta un' antropologia sulla divisa. Che cosa vuol dire divisa. Veramente un' appartenenza conclamata, una manifestazione di potere attraverso l'abito e anche una massificazione perché non dimentichiamo che divisa ha un sinonimo allarmante che è uniforme. Tutti uguali. E la tentazione dell'uniformità è fortissima in tutte le caste. Fortissima tra i militari. Spadolini ha fatto - mi pare un anno fa - una critica ai militari che non amavano abbastanza la divisa. Lui li voleva ben massificati; e anche i nostri - con tutto il rispetto - i nostri Spadolini gerarchici manifestano le stesse preoccupazioni e fanno le stesse pressioni perché i preti siano massificati tra di loro attraverso l'uniforme. Ma il fatto che don Sirio non portasse la talare può apparire un fatto molto banale, può apparire che banalizzi tutto il discorso. Ma non lo è tanto, perché dietro questo aspetto molto particolare ci sta tutta un' ecclesiologia. C'è l'ecclesiologia proprio della casta clericale che vuole un prete diverso dagli altri, separato dagli altri e che veste in modo diverso purtroppo. E un'ecclesiologia più comunionale che afferma che il prete è un uomo fra gli uomini come tutti gli altri e quindi deve vestire come gli altri, deve vivere come gli altri, deve sentire come gli altri e mescolarsi alla gente. Tra l'altro, un ricordo storico. È evidente che nei primi tempi non c'erano divise, non c'erano talari, il Signore non portava un vestito speciale e neanche gli apostoli e neanche nei primi secoli della Chiesa. Quando cominciò l'uso di una veste speciale, il Papa di quei tempi che era Innocenzo III la proibì e disse: cos'è sta storia di un vestito speciale? Niente, voi dovete vestirvi come gli altri perché siete come gli altri. Però abbiamo perso le idee di questo papa e ne sono venuti degli altri. Il fatto di non portare la talare è uno degli elementi che sottolineava questo essere come tutti, questo volere essere come tutti, non volersi distinguere e non volersi uniformare agli altri confratelli in una casta diversa in cui tutti sono uguali tra loro. Dobbiamo essere eguali con tutti, tutto il popolo di Dio, ma eguali nella diversità ciascuno con la propria individualità e con il proprio vestito. Come tanti piccoli gesti, anche questo del vestire è segnato da una ecclesiologia e questo spiega certe resistenze che altrimenti non sarebbero spiegabili. lo non so come vadano le cose qui a Viareggio, nella vostra chiesa. Temo di non avere mai assistito ad una Messa di don Sirio. Sto pescando nella memoria, ma mi sembra di no. E quindi non so come dava la comunione don Sirio. Io spero che la desse nella mano, a meno che non abbiate un vescovo un po' autoritario, ma certamente anche questa insistenza nel non dare la comunione in mano, anche quella veicola un' ecclesiologia. È l'affermazione che il prete è padrone delle specie eucaristiche e può disporre quasi a suo talento del Corpo e del Sangue del Signore. Ed è un'ecclesiologia allarmante. Non va detto in questi termini perché sarebbe troppo impudico esprimermi in questi termini, però alle spalle di questa resistenza - nei confronti della comunione in mano che sarebbe tanto più logica -, c'è questa ecclesiologia. Altrimenti la cosa in sé si banalizzerebbe talmente non ci sarebbe motivo neanche di discuterne. Invece si fanno le lotte su queste cose proprio perché dietro c'è molto più del gesto in questione, e cioè la concezione della Chiesa. E don Sirio seguitava anche qui a lottare con amore e a portare avanti un discorso di una Chiesa diversa che è una Chiesa più umile, non divisa - laici da una parte, preti dall'altra - persone cosiddette consacrate. Cosa vuol dire questo discorso della consacrazione? La consacrazione è quella che riceviamo tutti nel battesimo. Poi ci sono diversi modi di vivere la consacrazione battesimale. Ma non ci sono consacrazioni ulteriori così significanti da giustificare divisioni in categorie diverse. Questa era un'altra delle doti di don Sirio e la Chiesa che don Sirio e tutti coloro che sentono come don Sirio auspicavano non era, come qualcuno adesso dice una Chiesa lassista, meno rigorosa. Anzi una Chiesa più evangelica, più povera, che non chiedeva privilegi, che non si appoggiava al potere civile - perché noi siamo tutti eredi di Costantino e di questa alleanza del trono con l'altare. Siamo tutti ancora legati a questo. Una Chiesa quindi non legata al potere, non legata ai particolari partiti, non legata a tutte le piccole beghe del potere alle quali noi assistiamo. Non c'è bisogno che ve lo ricordi: specialmente in questi giorni c'è molto da stupirsi che certi partiti seguitino ad avere l'aggettivo cristiano appiccicato quando danno degli esempi che non hanno proprio niente a che vedere con questo. Però molto spesso la Chiesa ufficiale ancora è legata a queste forme, forme spettacolari, forme di potere più o meno mascherate. Contro questa Chiesa lottava don Sirio e lottava la con amore perché non era un volere distruggere la Chiesa come qualcuno oggi dice. Era un volere riformare la Chiesa e la Chiesa - noi lo diciamo - «Ecclesia semper reformanda», la Chiesa è sempre da riformare, lo diciamo, lo spieghiamo, però in realtà se uno richiama la Chiesa a questa necessità di riforma uno viene emarginato come anche don Sirio credo che lo fosse abbastanza. E come tutti coloro che pensano questo lo sono. Un uomo di fede don Sirio, che faceva queste lotte per la vera fede contro quei surrogati di fede come il potere, sia pure con intenzioni così sacrali.

Attraverso la forza dirompente delle cose «inutili»
Un uomo di fede, ed io so che era anche un uomo di preghiera che portava la preghiera alla sua fonte originaria. Anche quella desacralizzata: la preghiera non era recitare preghiere, non era il moltiplicare forme, era vivere in un certo atteggiamento. E Sirio era un combattente anche nella preghiera perché sapeva bene che la preghiera ha una forte valenza rivoluzionaria. La preghiera è una sorta di controcultura che in un mondo come il nostro che è tutto centrato sul profitto, sull'utilitarismo, sulle cose che servono e sono monetizzabili e commerciabili, affermava la totale gratuità di questa sorta di innamoramento che non serve a niente, perché la preghiera non serve a niente a questi livelli monetizzati. Ha un grosso peso proprio perché è l'affermazione della libertà e della gratuità dell'uomo. E allora lottare contro queste forme mercificate della preghiera per cui pregare vuol dire chiedere cose, chiedere grazie - come noi diciamo - o chiedere favori. Andare ad accendere la candelina a Santa Rita o a Sant'Antonio perché dobbiamo passare un esame. Per passare l'esame serve studiare, non pregare. Ma la preghiera è importante per la sua inutilità. Le cose che sono più importanti nella vita: l'amore, l'arte, la poesia, non servono a niente a questo livello di compravendita. Sono quindi «inutili» e insieme sono le più necessarie perché fanno l'uomo uomo veramente. Si potrebbe dire che quello che distingue l'uomo dall' animale è proprio questo culto della gratuità perché l'animale fa tutto per uno scopo. Forse io che amo molto gli animali trovo qualche traccia di gratuità anche in loro. Avevo un gatto che quando gli davo da mangiare fiutava il cibo e poi veniva a strusciarsi nelle gambe, ed era un gesto di gratuità, di affetto che certamente tra gli animali è molto raro. Mentre l'uomo vive profondamente, se è uomo, questo senso di gratuità che è la contestazione più radicale che noi possiamo fare a questa civiltà del profitto, a questa civiltà utilitaristica. E allora Sirio viveva la preghiera ed era un uomo di preghiera in questo senso profetico e in questa lotta con amore. E è proprio vero questo suo motto - che è affermare attraverso la pre-ghiera questa cultura fatta di cose belle che non servono a niente ma che rendono piacevole e bello e vivibile il mondo. Sirio era questo. E credo che se noi vogliamo seguire le sue orme dobbiamo anche noi essere uomini di lavoro, di fede, di preghiera, di amore, ma di amore dialettico, di amore non dolciastro. Di amore con un certo piglio di lotta perché anche Gesù Cristo noi l'abbiamo molto edulcorato. Gli abbiamo cambiato il colore degli occhi, glieli abbiamo fatti celesti. Gli abbiamo cambiato il colore dei capelli e glieli abbiamo fatti biondi: i nostri «sacri cuori». Con tutta probabilità nostro Signore non aveva gli occhi celesti né i capelli biondi per ragioni proprio etniche. E l'abbiamo fatto molto dolciastro e ci siamo dimenticati le invettive del Signore: guai a voi, farisei, ipocriti, sepolcri imbiancati. Quante volte la nostra società, il nostro mondo politico e il nostro mondo ecclesiale è fatto di sepolcri imbiancati. Ecco allora che bisogna togliere la pietra tombale e fare vedere cosa c'è dentro. E fare della lotta. In questo momento credo che ci sia molto bisogno di questa lotta e credo che don Sirio non si onora con una celebrazione - anche se adesso cerchiamo di onorarIo ed è bella anche questa amichevole riunione - però certamente sarebbe sterile se fosse tutta qui. Don Sirio lo si onora soprattutto con lo stile di vita. Uno stile di vita fatto di operosità, di fede, di preghiera, di amore e di lotta. Contro tutte le tentazioni di regressione, di mortificazione, di livellamento che sono forti in questo momento storico e contro le quali dobbiamo veramente poter reagire con fierezza e con fermezza dicendo no, il vangelo è un' altra cosa.

Adriana Zarri

Servo di ogni uomo, sacerdote dell'umanità

Tutti quelli che hanno avuto la ventura di incontrare don Sirio sulla propria strada, interlocutori occasionali, amici fedeli e avversari irriducibili (avversari, perché la connotazione di nemico non è compatibile in alcun modo con Sirio e la sua vicenda umana), riconoscevano la ragione più immediata del suo fascino inquietante nell'estrema ricchezza e nell'apparente contraddittorietà del suo spirito e del suo approccio esistenziale.
In lui, dominato dal senso di mistero che va oltre il tempo eppure fervidamente radicato nel presente, l'incanto del deserto e il richiamo della folla, il silenzio come condizione di ascolto e la magia della parola, le convinzioni che vengono da lontano e l'urgenza delle verifiche, la capacità di non misurare i risultati senza mai perdere di vista l'obiettivo, erano momenti diversi e magari opposti di una stessa testimonianza, di un'unica cifra di vita, sempre sul filo del miracolo e del paradosso.
Per lui l'idea o l'ideale non fu mai alibi per una diversione od una diserzione dalla realtà, ma, semmai, movente e direttrice per riviverla, inverarla, trasformarla. Del resto, anche in un tempo come il nostro in cui la reificazione forsennata sembrerebbe suggerire come sole alternative possibili la regressione o la fuga, questa è la vera forza dell'utopia che non può scadere a mero esercizio autoconsolatorio: essa si fa seme che dalla terra nella terra germoglia, progetto finalizzato che si oggettiva nel fare e nel fatto.
Nel ricordarlo è necessario difendersi da alcune tentazioni.
Tutto questo è già stato detto e non metterebbe conto ripeterlo se, nel tentativo di scavare più a fondo, non dovessimo, preventivamente, difenderci da talune tentazioni, tanto più pericolose quanto più accattivanti.
La prima, di tipo agiografico, è quella di ridurre, intenzionalmente, o no, Sirio, ad un innocuo oggetto celebrativo, trasferendo ad una dimensione puramente evocativa, dunque essenzialmente improduttiva, la sua carica essenzialmente problematica. Ora io credo che guardare a Sirio come ad un prodigio in sé sacralizzato e conchiuso, come ad un modello da imitare in modo passivo, significherebbe sublimarlo e congelarlo in una pala d'altare o in un monumento alla memoria. Ciò equivarrebbe a tradire il significato più profondo del suo insegnamento che fu sempre di farsi carico delle proprie scelte in prima persona e con assunzione piena di responsabilità. Sarebbe rimuovere la sua attualità e la sua provocazione: farlo morire una seconda volta e per sempre. Quello della imbalsamazione retorica e rituale sarebbe il peggior servizio che potremmo fare a Sirio e a noi stessi che l'avevamo compagno e maestro, portato dalla sua stessa intransigenza morale e di pensiero a rimettersi continuamente in discussione. I veri santi, così dell'umanità come della chiesa sono quelli che non si lasciano imprigionare in una giaculatoria, ma diventano lievito e tribolo delle coscienze.
La seconda tentazione da combattere è quella, intrinsecamente intellettualistica, di cercare le risposte di Sirio e su Sirio lungo gli impervi itinerari della dialettica astratta, come se l'antinomia della vita e della morte, del temporale e dell'eterno, della paura ragionata e della speranza impossibile eppure vincente, potesse essere assunta in teorema da smontare e da rimontare. Il fatto è che se l'uomo, come improbabile cavia da laboratorio, può venir sezionato fino a trasmutarsi in una categoria ideologica, l'umanità, come spaccato storico, vissuto di cui Sirio era innamorato, può diventare soltanto oggetto di amore, cioè oggetto di identificazione secondo la metafora fascinosa e, per chi crede, secondo il mistero sconvolgente del Dio che si fa uomo.
Ed un'ultima tentazione rimane da esorcizzare, la più intrigante perché la più naturalmente funzionale al nostro istintivo bisogno di relativizzare l'assoluto. La tentazione di sottovalutare in una malintesa chiave laicista, il fattore di trascendenza che in Sirio fu sempre sorgente primaria di energie e di ispirazione, il fattore di trascendenza che rende produttivo il dubbio, salutare l'errore, e riscatta il calcolo delle probabilità nella donazione senza contropartita. L'impegno di Sirio al servizio della verità e della giustizia, - e non ultima della bellezza come criterio di giudizio per l'una e per l'altra -, nasceva, infatti, come atto di fede. Dunque come abbandono fiducioso, e al tempo stesso attivo, nel disegno misterioso eppure trasparente che è dovere di ciascuno concorrere a realizzare. Senza questa giustificazione superiore tutta la gioiosa fatica di Sirio .perderebbe molta della sua originalità; il suo imperativo a non arrendersi e a ricominciare, anche quando Dio sembra lontano e distratto, perderebbe molta della sua contagiosa capacità d'impatto.
Ciò che in definitiva voglio dire è che la lezione di Sirio, scritta, pensata e vissuta sempre senza rete, può essere accettata o rifiutata: non può essere aggirata per via di perifrasi, coartata in schemi che non le si addicono, impoverita in nome della pigrizia e delle scorciatoie.

Innocenza sapiente di chi, anche nella notte più oscura, non dubita che l'aurora sorgerà.
Sgombrato il discorso dalle semplificazioni mistificanti, è forse possibile azzardare, di quella lezione, una lettura d'insieme e, soprattutto, in positivo.
Ho conosciuto don Sirio relativamente tardi, ai tempi del presidio antinucleare di Montalto. Naturalmente, come chiunque in città, ne avevo sentito parlare anche prima, volta a volta con ammirazione, con scandalo o con sarcasmo: mai con sufficienza. Il personaggio, per la sua prorompente vitalità dove l'eccesso era la norma, per il tagliente disprezzo per il banale e l'ovvio, non si prestava alle mezze misure o alle concessioni. Ma l'incontro con lui fu ugualmente uno choc.
Da allora, e durante tutti gli anni in cui siamo stati amici, l'immediatezza dell'accoglienza, la totalità dell' offerta, il fiammeggiante spirito profetico di Sirio non hanno mai cessato di incantarmi e di esasperarmi. Devo dire, tuttavia, che il primo aspetto della sua personalità a conquistarmi fu la suprema innocenza di quest'uomo tormentato e tormentatore. E non era l'innocenza sprovveduta e imbelle di chi non guarda perché non vuole vedere; ma quella sapiente di chi, anche nella notte più oscura, non dubita che l'aurora sorgerà. O, meglio, di chi, al di là del male e della follia, avverte con assoluta certezza l'esistenza di un disegno provvidenziale che, criticamente assunto, tutto illumina e rende sopportabile, anche se non accettabile.
Era questo respiro più disteso e più libero che gli consentivano, proprio quando la battaglia si faceva più dura, o l'amarezza per la sordità minacciava la progressione dello sforzo, di ritagliarsi improvvise, vivificanti oasi di raccoglimento e di poesia che, insieme all'incrollabile fede nella giustezza della causa, gli permettevano di fronteggiare gli eventi senza lasciarsene sommergere.
In questi momenti preziosi e non gratuiti, ma organici alla sua corsa ad ostacoli, Sirio sapeva accostarsi alle cose ed alle persone con la tenerezza dei bambini o con la vertigine intuitiva dei poeti. Penso a certe pagine più intime del suo teatro o dei suoi libri, o ai nostri ultimi incontri sulla terrazza della Chiesetta del Porto, quando mi parlava della morte ormai vicina come di un' amica fidata o come del ritorno del fiume al mare. Tutto questo senza nessun margine decadente, senza nessuna no-stalgia «intimista», ma nella serena consapevolezza del giusto armonizzarsi delle parti nel tutto.

Cultura della pace, cultura della coralità.
Già, perché per Sirio i fatti quanto più apparentemente refrattari alla luce e lontani dalla possibilità di perdono (mai pietistica indulgenza), tanto più diventavano materia di riflessione, o, piuttosto, di meditazione, non importa se segreta o ad alta voce, magari ad altissima voce «fino a rompere l'anima e i timpani». E la meditazione cercava il suo sbocco e la sua verifica nell' azione. Azione sia mirata, perché non dettata dalle circostanze ma dalla volontà di padroneggiarle, che corale, perché a dispetto della tempra di protagonista Sirio respinse sempre come indegno e paralizzante ogni prurito individualistico.
Se è vero che, oggi più che mai, la violenza nasce dalla chiusura, dalla ristrettezza mentale e morale, non sorprende che per un combattente per la pace come Sirio, la cultura della pace fosse innanzitutto cultura della partecipazione, cioè dell' apertura, o, come si diceva, della coralità. Ed ancora, in un' epoca in cui il cavernicolo postindustriale, braccato dalla massificazione e incapace di tenersi compagnia, tende a consumare, ad ammazzare il tempo, piuttosto che a viverlo, non sorprende che per Sirio, cultore dei valori dell' essere, il tempo fosse un dono prezioso da far fiorire e fruttificare.
Ecco come, sul terreno della responsabilità collettiva e della storicità del tempo, Sirio poteva diventare un accusatore ed un giudice implacabile che chiedeva il massimo da sè, e dagli altri, non permettendo a nessuno di chiamarsi fuori, di dichiararsi neutrale vuoi con l'alibi del privato che con quello dell' anonimato del mucchio.
Infinitamente paziente di fronte alle grigie resistenze del quotidiano, egli diventa divina-mente impaziente di fronte ai grandi nodi dell'esistenza e della storia, irrigidendosi via via che le contraddizioni si facevano più laceranti, richiedendo non il bulino, ma la scure. L'opulenza costruita sulla miseria, la sazietà nutrita sulla fame, la falsa sicurezza che nasce dal negare la disperazione, il cinismo grondante di luoghi comuni e di buone intenzioni, trasformavano Sirio, per vocazione e per scelta tollerante, in una furia scatenata.
Allora i dubbi e i 'distinguo' lasciavano il posto alle certezze tanto più ferme quanto più non derivavano dalla letteratura o dalla filosofia da caffè, ma da una scelta di campo prioritaria e irrevocabile. Quella compiuta quando, sulla via che da Gerico scende a Gerusalemme, aveva identificato, una volta per tutte, il suo prossimo nel figlio dell'uomo calpestato e dimenticato che sale ogni giorno con Cristo sulla croce.


Profezia di Dio e del popolo
L'eterno e il temporale; Dio e l'umanità: due facce, due poli di un'unica scommessa. E, come Dio non si trova nei trattati di teologia, l'umanità non si trova in quelli di sociologia, essendo l'uno e l'altra oggetto di una folgorazione e, al contempo, frutto di una scoperta, di una conquista continua.
Il Dio di Sirio non ha mai messo casa in una cattedrale, né ha parlato con voce di tuono: è un Dio povero e probabilmente di pelle scura che si trascina nel sudore e nella polvere insieme alla moltitudine di tutti coloro che sono stati espropriati dell' oggi, ed ai quali, per diritto, appartiene il domani. Perciò l'amore per Dio, o, che è lo stesso, per l'umanità che fa notizia solo quando viene crocifissa, non si nutre di lacrime e di sospiri, ma si fa lotta - lotta come amore -, per ridurre, alla maniera del maglio con il ferro e con il fuoco, la materia informe ad opera d'arte, cioè, di nuovo, ad immagine di Dio.
Dunque non l'arroganza della ragione che scambia l'essere con il dover essere, nè il pa-ternalismo di chi stempera i termini del contrasto per non essere costretto a prender parte e partito. E neppure il moralismo di chi non vuole sporcarsi le mani, ma un rischioso sforzo di incarnazione nelle cose per umanizzarle o divinizzarle dall'interno.
Per questo Sirio non predicava alla gente, ma era la voce della gente convinto, com'era, che nella gente - nel popolo di Dio, al di sopra delle chiese e delle ideologie, non come annullamento ma come sublimazione dell'individuo nel collettivo -, stesse la fonte della forza e della verità. Perciò egli volle vivere tutta la sua vita tra i suoi simili, compagno tra compagni, preteoperaio che ricavava dal vangelo e dalla esperienza della fatica e delle solidarietà quei tratti che in lui abbiamo amato ed insieme, a volte, ci hanno fatto disperare: il candore francescano e la determinazione del rivoluzionario, la prontezza della risata e l'asprezza della denuncia, il senso della concretezza e la capacità di sognare in grande.
Tra questi estremi, tutti da esplorare e sviluppare sulla nostra pelle se vogliamo rimanere nella storia, va cercata l'eredità che Sirio consegna ad un tempo che tanto più ha paura dei profeti quanto più ne ha bisogno.

Alfonso Raffaelli

Fucina

C'è in questa città una fucina.
C'è in questa notte una fucina.
I fabbri sono appena ombre,
nell'ora tarda degli incontri.

Trattenere la parola quando il gesto è possibile.
Scendere nella strada come bruma sul mare.
Il guardiano non percepisca che il vento,
un sereno più intenso.

C'è in questo paese una fucina.
C'è una fucina in America.
Sentiamo da qui il martellare degli ordini:
incidere nell'acciaio il volto dei fabbri,

la mano silenziosa dei fabbri,
lavorare nel ferro la volontà
dei prescelti, l'anima forgiata
nel dolore, la fede che ha resistito purificata.

C'è nell'alba una fucina.
C'è nel sangue del popolo una fucina
di riserve infinite,
che si rigenera ogni minuto.

Tu, compagno, avvicina gli uomini
Che lottano alla forgia
E dì loro da parte mia:
non battere l'incudine senza tenerezza.

Pedro Tierra

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