Vorremmo ritornare, su questo recente documento della Conferenza dei Vescovi italiani, non tanto per delle precisazioni, dei rilievi critici, degli umori visceralmente diffidenti. Non che non ce ne sia l'occasione. Specie per un tono che si sforza di essere semplice e discorsivo, ma che traspare ancora tanto paternalisrno o meglio la disarmante disinvoltura di chi sembra sempre dimenticare che i problemi non nascono come i funghi ed hanno una storia con cui è necessario fare i conti se si vogliono veramente affrontare.
Sappiamo che è vecchio discorso questo e non possiamo che continuare a soffrirne anche se con serenità, in fondo, come vecchie ferite che ricordano antiche battaglie il cui fronte si è ormai dilatato agli orizzonti dell'umanità.
Vorremmo invece prendere le mosse dal documento per raccontare i fili di una storia. Picco-la, povera storia eppure ancora viva e, speriamo, vivace.
Abbiamo sempre accolto la comunione come dono misterioso di Dio. Prima e al di là di ogni merito, di ogni ricerca, di ogni nostra iniziativa. Cieli che si aprono e rendono luminosi e finalmente veri i rapporti con Dio, tra di noi, con la creazione tutta.
La consapevolezza di questo dono ci ha sempre guidato in questi ormai lunghissimi anni. E se abbiamo cambiato abitazione e lavoro; se abbiamo dato sterzate per cui gli amici non ci hanno più ritrovati ai consueti appuntamenti del quotidiano, ciò è sempre stato perché guidati (o forse ancora una volta sarebbe meglio dire provocati) dal dono della comunione che esigeva di essere allargato, approfondito, buttato all'aria come zolla buona nel cui abbraccio seminare le novità che lo Spirito continuamente effonde.
Non abbiamo coscienza di aver tradito questo dono se non per la nostra pochezza umana.
E sappiamo che sarebbe stato possibile molto di più perché l'infinito Amore di Dio non ha misura. A questa misura non misurata vorremmo disporci ogni giorno per essere resi a poco a poco quel nulla che può davvero accogliere tutto.
* * *
Abbiamo cercato di essere una comunità anche quando il numero dei membri era o è pro-prio... ridotto all'osso. Comunità e mai sistemazione, anche in questo tempo in cui il passare degli anni, le malattie, ecc., consiglierebbero di abbassare la cresta, di smussare gli angoli e di adattarsi alla vita comune come in una buona, simpatica, pensione familiare.
È rimasto - come all'inizio - un piccolo insieme di persone che ci tengono ad essere se stesse ed a questa «singolarità» non vogliono certo rinunziare. Per testardaggine, orgoglio, idealismo, fedeltà, accoglienza, sequela... fate voi! Però questa caparbietà, questa dimostrazione di autosufficienza, questa capacità di solitudine personale nelle proprie scelte e decisioni, negli impegni come nella testimonianza, ha reso e rende possibile per noi la vita comunitaria. E cioè il mettere insieme senza che questo significhi confusione; il sentirsi sostenuti a vicenda senza che questo significhi subalternità o divenga scaricabarile; un'autorità che nasce non intorno ad una persona, ma intorno a dei contenuti di cui volta volta ognuno può essere portatore.
Una vita comunitaria sempre poco «parlata» fino ad evidenziare una certa difficoltà nello scambio delle idee. Difficoltà certo ne abbiamo avute come tutti, ma forse gli strumenti della nostra comunicazione interna sono stati altri che non la parola. La sensazione comunque di un rispetto non solo formale, l'inutilità dell' averla vinta, la consapevolezza della assurdità nel voler ridurre tutto a problematiche interpersonali, la fiducia umana, l'affetto profondo, la disarmante capacità di disinnescare i momenti esplosivi con frizzanti autoironie... certo la convinzione che la comunità richiede notevole spirito di povertà. Povertà; ma non perché c'è da stare a sentire anche gli altri! Questo può al massimo far parte della buona educazione, del semplice buon senso. Spirito di povertà (e cioè condizione di ricerca, di sorpresa, di accoglienza... ) perché tutto quello che si può richiedere ad una comunità è - comunque e dovunque - sempre il rispetto per le decisioni e le scelte personali. E la comunità non può mai esigere «sacrifici» in questo senso. D'altro canto nessuno può imporre le proprie decisioni e scelte alla comunità e tutto deve avvenire attraverso una non sempre facile adesione nella libertà.
Da ciò si capisce che i tempi del vivere comunitario non sono i tempi dell'efficienza leaderistica, né quelli regolamentati dal democraticismo assemblare, né quelli determinati da pur ela-borati e sapienti progetti di esperienze comuni. Sono i tempi misteriosi del dono reciproco, della maturazione di sé, della libertà che fiorisce «obbedienza».
* * *
Non crediamo che questo nostro essere comunità, nella Chiesa abbia mai preso i connotati della disubbidienza. Nelle varie controversie che ci hanno via via visti in contrasto con le diverse gerarchie, abbiamo cercato di lottare come uomini e donne, con la parola anche forte, il sentimento scoperto e non frenato, l'inventiva di forme rinnovate, ma non vi abbiamo mai messo in mezzo Gesù Cristo, anche quando stanchezza e sfiducia sembravano sommergerci in modo implacabile. Abbiamo lasciato quindi alla gerarchia l'ultima parola senza che questo divenisse peraltro scarico della nostra coscienza e responsabilità. Nella libertà da servami economici, da condizionamenti di identità e di ruolo, è cresciuta a poco a poco l'obbedienza alle correnti misteriose dello Spirito di Dio dentro la storia dell'umanità fino a rendere quelle le grandi «leggi» cui aderire senza disprezzare né assolutizzare le «piccole» e tante volte veramente «anguste» leggi ecclesiastiche. Molte di quelle disposizioni le sentiamo semplicemente inadeguate. Regole dettate più dal dovere del ruolo magisteriale che dalle esigenze di un cammino effettivamente in atto. Regole troppo vere in sé per poter illuminare un percorso di vita e troppo poco «salate» per provocare il gusto della ricerca della verità. Ma non ce ne lamentiamo troppo perché non si dica che siamo i soliti bastian contrari! Del resto il documento episcopale ripete lodevoli intenzioni perché si arrivi «alla promulgazione di leggi e alle successive modificazioni attraverso un cammino di comunione, assicurando sia la partecipazione attiva della comunità, sia il servizio di guida e di governo dei pastori cui spetta deliberare» (n°55,2). La nostra esperienza ci dice che occorre seminare tanta fiducia perché si producano questi frutti. Fiducia nella forza e nella presenza amorosa del Signore della storia; fiducia nella capacità dell'uomo di saper trovare strade di vita e non di morte nei difficili crocevia delle complessità originate dall'uso del sapere; fiducia nei doni costituiti dalle diverse competenze e dai diversi cammini di vita. Una fiducia chiara, aperta, senza riserve. Fiducia prima che scontento o amara constatazione di evidenti scollature. Un clima di particolare calore umano. Questa sappiamo essere l'unica strada perché si generi la vera, autentica obbedienza figlia della libertà. Perché nella disciplina indicata ed accolta si realizzi quella adesione interiore della coscienza che rinnova un atto di fede: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (Giovanni 4,42).
La Redazione
Cari Amici d'Italia:
alla domanda rituale, quale impressione porto con me dall'ultimo viaggio in Italia, ho già pronta la risposta: ho fatto una profonda, inattesa esperienza della morte. Inattesa perché, nella morte di amici che sono molta parte della mia vita, è come se avessi fatto le prove generali della mia morte. L'esperienza non mi ha lasciato tristezza, ma piuttosto responsabilità: la responsabilità di ricevere nelle mie mani una torcia ora che gli amici non hanno mani. La generazione che va scomparendo non ha altre cose da dire, ma resta l'impegno di alimentare la misteriosa energia, senza corpo, senza apparenza eppure assolutamente necessaria alla trasmissione della vita, perché la vita sia accettata a occhi aperti dalle generazioni che succedono nel tempo. Quando, alla fine della liturgia pasquale, nello stadio di Spello, si ruppe la giara di coccio e si sparsero nell'aria i colori e i profumi dei fiori, il silenzio del mio fratello Carlo Carretto, metteva nelle mie mani questo «nulla» così importante. Me lo ritrovai davanti alla porta chiusa dietro la quale solevano accogliermi le braccia di Sirio Politi e stava lì, dietro la porta, incompiuta, la sua impresa di pace. Attraversando il cantiere risonante di colpi, vedendo emergere dai rumori violenti, le bianche sagome dei battelli impazienti di prendere il largo, pensavo a don Sirio costruttore, di pace, ma non pacifista, perché la sua pace era della qualità della pace di Cristo, perennemente crocifissa da tante violenze, dalla economica alla politica alla ecclesiastica. Quando arrivai al suo cantiere, seduto al grande tavolo, davanti ad uno dei suoi compagni restato fedele all'impegno di Sirio, ero ormai senza difese. Avrei ripreso le mie lettere, perché la pace continua agonizzando e forse resterà in agonia fino alla fine della storia.
Ho una buona notizia da darvi, amici italiani e sono tanto più contento di darvela, perché nei nostri incontri, ho forse manifestato sfiducia nel metodo democratico. Nelle elezioni del 15 novembre gran parte del popolo brasiliano ha dato prova di una maturità politica sorprendente perché non erano chiare le premesse di quelle lunghe campagne che chiamerei dottrinali, capaci di formare una coscienza politica, mantenuta addormentata per lunghissimo tempo. Era evidente che tutti quelli, nazionali o stranieri, che avevano interessi particolari, in queste elezioni, sapevano di rivolgersi a un popolo «ludico». Il popolo che non può rinunziare al carnevale, che vive appassionatamente le vicende del calcio, come l'entrata in guerra e l'armistizio, che sa incorniciare il culto in meravigliose coreografie. E come un popolo ludico andava trattato.
La campagna elettorale prese il tono della festa: gli operai sterminati davanti alle acciaierie di Volta Redonda, o i contadini assassinati davanti al filo spinato delle immense proprietà terriere, non avevano disarmato coloro che erano alla caccia di voti, ricorrendo a tutte le forme di anestesia che arrivano a getto continuo dagli esperti in tecnica pubblicitaria.
E il popolo nella sua grande maggioranza, ha scelto, guidato da una speranza di giustizia. Pensate un po', a modo di esempio, quale sarebbe la sorpresa degli italiani se il giorno dopo la consulta elettorale, scoprissero che in una grande città come Bologna o Firenze o Torino, la grande maggioranza non avesse scelto il candidato di Agnelli o di qualche grande partito; ma un oscuro calabrese unicamente perché «è uno di noi» che ha esperienza delle durezze della nostra vita. Non si griderebbe al miracolo? Eppure questo è avvenuto in una metropoli che si chiama San Paolo. Mi sento un po' triste nel pensare che queste notizie in Italia vengono assimilate immediatamente dal nostro ideario politico e culturale e saranno tradotte immediatamente in chiave ideologica. Per molti di noi che partecipiamo al faticoso cammino di questo popolo, il vero senso è che il popolo sa di esistere e di avere delle esigenze urgenti, che non sono esattamente le stesse di quelli che hanno ricoperto i muri della città del loro volto di persone soddisfatte, e comprato gli angoli più remoti per far rimbalzare il loro nome nella macchina della fantasia. Quale sarà il profitto politico di questo emergere del popolo, è difficile prevederlo. Mi appare in questo momento come una crescita di quel capitale di speranza che è l'occulta energia della pace.
Ho misurato in Italia la difficoltà del mio compito perché ogni volta scopro drammatica-mente la difficoltà del linguaggio. Il desiderio sincero di solidarietà, spesso non fa i conti col dislivello culturale che a me pare immenso. Eppure i morti mi chiedono di continuare a trasmettere il misterioso senso dei fatti. La storia è stata definita come storia della libertà, e quindi della pace: se si allontana da questo senso, la storia è inevitabilmente storia di guerra. Tutti gl'italiani sono convinti della necessità della pace; mancano due fattori importanti secondo me, perché questo desiderio di pace non resti inefficace: una capacità di rinunzia, di spogliamento che chiamerei povertà, e la volontà seria di scegliere le mediazioni che stanno al di là delle varie logiche. È su questo che le voci dei morti mi chiamano ad insistere: è come se passassero alle mie mani il filo sottile della vita. Ed è per questo che ritorno discretamente fra voi, cominciando con l'augurarvi buone feste.
F. Arturo
Non saprei dire perché mi è venuto in mente il titolo di un vecchio film di Bergman, che ho visto all' epoca in cui andava di moda il «cineforum»: francamente non ricordo con molta esattezza il suo contenuto, ma non è assolutamente di questo che intendo parlare. Le mie «luci d'inverno» non hanno niente a che vedere con la storia descritta nel film: ho voluto rimandare al titolo di quella sua profonda e provocatoria opera non per fare sfoggio di una cultura dell'immagine che non ho, ma semplicemente per rispetto di chi mi ha «prestato» le parole che fanno da titolo a queste mie riflessioni.
I pensieri che mi accompagnano da qualche tempo e che vorrei tentare di esprimere sono come il riflesso di quelle meravigliose «luci d'inverno» di cui abbiamo potuto godere nei primi mesi invernali di quest'anno. So benissimo che esse sono state (e lo sono tutt'ora) cariche di problemi per la siccità e molto probabilmente per le cause che possono averle determinate. Da questo punto di vista, esse richiamano alla mente la dura realtà della condizione umana, sottoposta di continuo alla necessità materiale, all'equilibrio ecologico, ai bisogni concreti per la sopravvivenza quotidiana.
Le mie luci d'inverno, però, riguardano lo spazio interiore, la realtà dello spirito, quel terreno nascosto nel quale scorre il fiume della vita, al di là di ogni condizionamento fisico: esse illuminano in modo difficilmente esprimibile il cammino del cuore, la ricerca di una fedeltà a ciò che è ragione profonda del proprio vivere, le radici che affondano nella storia passata e i giovani germogli che premono per aprirsi verso la nuova stagione.
Mi pare di essere vissuto per molti mesi in una specie di «inverno luminoso»: come se molte cose si fossero fermate, cadute in letargo, assopite in una condizione statica, immobile. Un po' come gli alberi dalle foglie «cadute», spogli e apparentemente senza vita: se però qualcuno ne spezza un ramo, la linfa vitale esce come a testimoniare la loro misteriosa e nascosta vitalità.
È trascorso un anno da quando Sirio è morto ed il suo corpo ha cominciato a riposare sotto le zolle della terra del cimitero dove è stato sepolto: ho pensato spesso - nel silenzio del cuore e dell'anima - al suo «sonno» dentro la terra. Ho sentito con molta forza questo mistero della morte, attesa e preparata insieme con lui lungo lo scorrere della sua faticosa malattia. E rivedo con molta chiarezza, come scritto sul nastro della mia memoria, il suo scendere nella terra per entrare in quello spazio di silenzio che la morte mi ha sempre comunicato. Certamente, io credo che quel «silenzio» è abitato dalla misteriosa presenza di Dio: Parola viva, Parola d'Amore, Parola di Resurrezione. Tuttavia, da quel momento, ho sentito con chiarezza di essere entrato in una dimensione nuova, diversa da prima. La stagione che mi ha sempre accompagnato, nel fondo dell' anima, nella profondità più profonda di me stesso, è stata sicuramente una strana «stagione invernale»: la sensazione precisa di essere vivo e attivo, ma nello stesso tempo in una dimensione come di attesa, di preparazione per qualcosa di nuovo, per una «primavera» di cui ancora non saprei definire assolutamente i contorni e le caratteristiche.
Il mio «inverno» è stato abitato da questa «luce»: proprio come l'inverno astronomico, la strana stagione che ha fatto discutere così tanto quest'anno.
Mi rendo conto benissimo che questi miei pensieri possono sembrare (e forse lo sono) assurdi e contraddittori: ma penso di farmi capire dagli amici con i quali da molti anni mi sono trovato a condividere il cammino, sia pure a distanza e in modo frammentario, attraverso le pagine di questo giornalino. Mi sento ancora dentro questo inverno carico di luminosità, povero di acqua vitale, assetato e bisognoso di energie che diano possibilità alle radici di attingere nuove forze per nuove fioriture. Ma un inverno carico di luce, e cioè di limpida e serena visione del cammino, di volontà umile ma tenace di non desistere nella ricerca di ciò che dà senso e valore alla vita. Sento che dentro 1'albero della mia esistenza la linfa continua a scorrere: la promessa di una strada che continua, di un sentiero che si muove in una direzione che ha un suo preciso significato, di un filo che misteriosamente segue una trama per una tessitura il cui disegno non è facilmente decifrabile, ma che esiste...
Luci di un inverno che non mi parla di morte e di gelo, ma che ha in se stesso come il respiro dolce della primavera che in esso è già come racchiusa e presente. Anche la Presenza di Dio la sento come nascosta in questa luce invernale così sovrabbandonata dalla presenza di un sole luminoso e costantemente presente nell'arco del cielo. Sono sicuro che, prima o poi, la pioggia verrà e questa mia terra (lo spero con tutte le mie forze) potrà fiorire e fruttificare ancora qualcosa di buono per la crescita del regno di Dio nel cuore della storia umana.
Don Beppe
Pochi mesi fa sulla cronaca dei nostri giornali la triste odissea di uomini e donne filippini imbarcati clandestinamente su di un peschereccio e fermati in Sicilia dalla Guardia di finanza.
Squallido ed indicativo episodio del vasto traffico di carne umana in Italia e nel mondo: La moderna schiavitù in guanti bianchi.
Le Filippine sono settemila isole sparse lungo il Pacifico, quasi come un punto di appoggio verso 1'Asia continentale.
Un paese abitato da cinquanta milioni di persone che rappresentano un arcobaleno di razze: Igorot, Cinesi, Mussulmani Tausug, Meticci, un paese dove si parlano più di ottanta lingue con usi e costumi in enorme contrasto coi modelli occidentali.
Manila è la capitale delle Filippine con sei milioni di abitanti e con il maggior raggruppamento di baraccati rispetto a qualsiasi città del mondo.
In queste catapecchie - i più poveri vivono all' addiaccio - vivono pescatori, autisti, schiavi al porto come scaricatori, muratori e manovali.
I Filippini sono la manodopera più economica di tutta 1'Asia grati ai padroni che li assumono e li usano fino al limite delle loro forze.
Molti imprenditori stranieri amano fare affari con loro dal momento che le paghe sono bassissime e i sindacati senza potere.
Venditori ambulanti, lavandaie, commesse, colf nelle case dei ricchi. Qualsiasi tipo di lavoro servile va bene pur di avere abbastanza cibo per sopravvivere. Qualcuno aumenta il suo bilancio rovistando nella spazzatura, altri sbucciano aglio, venditori di sigarette, spazzini, portatori di acqua, mendicanti. Gran parte sono disoccupati: terreno fertile per «essere in attesa» per ogni opportunità che potrebbe presentarsi.
La missione
Secondo un certo «Cristianesimo popolare» Gesù Cristo è presentato quasi esclusivamente in due ruoli o il Santo Nino cioè il Bambino Gesù oppure il Santo Entierro, cioè il Cristo Morto. Le immagini di Cristo costituiscono uno sfogo ai sentimenti repressi delle masse, che si possono facilmente identificare col bambino innocente o con la vittima abbandonata.
Ma il Cristo raffigurato non parla, è un Cristo che non ha un messaggio, il vangelo è in gran parte sconosciuto. Perciò ci sono molti Filippini (questo avviene anche in Italia!) che si dicono Cristiani ma non sanno bene che cosa sia la vita cristiana.
Il lavoro missionario: esprimere la testimonianza cristiana nella sua pienezza e proclamare e applicare a tutti gli aspetti della vita il liberante messaggio del Vangelo.
Peter sin dall'inizio della sua missione non voleva essere immobile come una statua posta all'interno di un'antica chiesa, oggetto di devozioni sincere o abitudinarie alla ricerca del magico. Tenta di andare incontro alla gente, sente una profonda compassione per i poveri, qualcosa di simile a quanto deve aver provato il Maestro quanto andava di villaggio in villaggio. Ha un interesse particolare per gli ammalati: I poveri sono spesso ammalati e molti passano rapidamente dalla malnutrizione alla TBC o a qualche altra malattia. Nel frattempo si domandava «perché la gente si trova in tali condizioni?» La religione non dovrebbe immischiarsi in simili cose, «l'uomo della religione» dovrebbe piuttosto insegnare ai poveri, ad essere pazienti e ad accettare ogni evento come volontà di Dio... «Ciò che Gesù Cristo fece a suo tempo può venire interpretato in molti modi differenti. Ma io continuo a chiedermi perché diventò povero tra i poveri. Mi chiedo perché mai denunciò l'ipocrisia dei potenti del suo tempo. Mi chiedo perché mai finì coll'essere crocifisso come un agitatore per avere introdotto un nuovo modo di vivere. Di solito dicono che fu crocifisso perché si dichiarò figlio di Dio; ma cosa capiterà se noi consideriamo anche i baraccati come figli di Dio?».
La Chiesa ufficiale non vuole fastidi: insegna loro ad essere figli di Dio per andare in Paradi-so ma mai suggerire loro che dovrebbero essere trattati come figli di Dio mentre sono ancora sulla terra. Devono imparare a soffrire ora per essere benedetti poi. E vi sono tanti buoni cristiani coi nomi scritti nelle chiese e nei conventi, così generosi da fare un po' di carità e vivono spremendo il sudore e il sangue dei poveri. Predichiamo la giustizia, raramente affrontiamo la situazione concreta della gente. Il Regno di Dio è solo per quanti osano essere liberi e sono pronti a pagarne il prezzo.
Organizzare la comunità
Nel 1973 i missionari con i cristiani del posto - impegnati nella azione sociale delle Filippine - introdussero un nuovo modo di essere presenti nella comunità dei baraccati: C.O. (Organizzare la Comunità) attività cristiana di animazione, riflessione, pianificazione. Spesso le persone si ritrovano per confrontare il loro modo di incarnare il messaggio cristiano. Partecipano alla preparazione delle celebrazioni liturgiche e riflettono sulla loro esperienza di vita, per chiarire quali sono i problemi e le aspettative e riaffermare la loro determinazione di unirsi come fratelli e sorelle.
Il programma catechistico si occupa anche di educare i bambini a riconoscere il piano di salvezza di Dio tra i baraccati. Il Gruppo teatrale rappresenta negli spettacoli la lotta per la sopravvivenza e la liberazione. Il centro di istruzione professionale coi suoi esperti insegna i mestieri ai giovani. Le suore con un gruppo di infermieri del luogo dirigono una clinica con un programma di nutrizione e un corso di istruzione per le madri. La comunità cristiana è un segno di speranza per gente che da tanto tempo è stata costretta a vivere senza speranza!
La vita di Peter come prete e missionario
Peter in questa sua straordinaria documentazione mette a nudo la sua personalità. A volte crede di essere sul punto di affogare, perché non sà cosa dire o cosa fare, gli sembra di essere una piccola isola sperduta nell' oceano, aspetta di venire trascinato da qualche forza misteriosa e spera che la misericordia di Dio lo tenga a galla. «Ieri una ragazza di 19 anni si è suicidata. Se non fossi un prete forse avrei già fatto la stessa cosa. Eppure dovrei essere un segno di salvezza!».
Il prete sembra un viaggiatore solitario, uno straniero nella notte. A volte specialmente il missionario - si sente sradicato, alla deriva in un mondo sconosciuto. È facilmente avvicinabile - anche perché disponibile - da coloro che si sentono persi, smarriti, solitari. Molti pensano e pretendono che il prete dovrebbe essere quell'individuo capace di condividere le sofferenze e le angosce della gente e infondere nuova speranza nei loro cuori. «Rispettato da tutti, amato da nessuno - così si sente Peter - Cerco di catturare i sentimenti della gente, di tirar fuori il loro spirito buono o cattivo, ma essi sembrano ancora distanti. Non posso avere un contatto umano con loro».
È vero tutti abbiamo delle lacerazioni dentro e forse è questa la ragione per cui avvertiamo un desiderio così forte di aiutare coloro che hanno bisogno. L'amore vero nasce da un cuore spezzato, la compassione nasce da sofferenze interiori, «coloro che vogliono dare luce sono destinati a bruciarsi».
Il Prezzo pagato
Il Aprile 1985. Padre Tullio, suo compagno in parrocchia, viene assassinato - Ucciso al posto di Peter - da un famigerato gruppo di «gorilla» protetto dalla dittatura. Fu mitragliato mentre cercava di soccorrere un ferito e strapparlo dalle mani di questi assassini. Il corpo fu calpestato e preso a calci. Padre Tullio (nato a Mantova 1946) era semplice e modesto. Un gentiluomo. Molti si preoccupavano per la sua disponibilità a soffrire con gli altri e per gli altri. Sempre aperto al dialogo e pronto ad adattarsi a qualsiasi situazione, cercava veramente di essere vicino alla gente, soprattutto ai poveri e agli indifesi. Con lui ecco la corona dei martiri negli anni 1985-1986: padre Magnifico Osorio, p. Mariano Beling, p. Alberto Romero, p. Pepita Bernardo, p. Potenziano Ejano, p. Valerio. Con i sacerdoti, tantissimi laici impegnati nel sindacato e nella pastorale delle comunità cristiane.
In queste pagine si delinea la storia avvincente di come un semplice cristiano e sacerdote vie-ne spinto dall'amore di Dio a lottare e soffrire con la gente in mezzo a sospetti e persecuzione, come il suo essere prete e la sua fede nel Dio con noi, che a volte sembra essere un Dio che abbandona, rimangono saldi in mezzo a tanti interrogativi.
Non dovrebbe essere solo la testimonianza di Peter e dei suoi amici, ma quella di ogni sacerdote, di ogni vescovo, di ogni cristiano che sinceramente si sforza, completamente aperto allo Spirito di Dio, di essere un discepolo del Maestro.
Rolando
Tra il 17 e il 19 di febbraio abbiamo vissuto il primo anniversario della morte di Sirio. Ci siamo ritrovati - tanti amici - insieme per tre giorni attraverso incontri diversi, non ripetitivi, segnati da una partecipazione intensa, sincera, affatto formale. Un anno è passato ed è stato tempo straordinariamente veloce. Noi della Chiesetta ci siamo dovuti sforzare per rendercene conto e per cercare di realizzare occasioni perché si compisse l'attesa di tanti di poter parlare di Sirio, ascoltare di nuovo le sue parole, poter affidare con lui nella fede e nella speranza i sogni di una vita rinnovata. E siamo anche molto riconoscenti verso chi ci ha aiutato con dolcezza ed amicizia delicatissima ad aprire la casa e il cuore perché insieme potessimo raccontarci di un cammino che non si è fermato.
E che non sia stato un anno vuoto, tempo perso, perversa volontà di appropriazione, incuria intollerabile, lo hanno dimostrato coloro che hanno preso la parola nei diversi incontri ed hanno detto cose semplici ed insieme profonde, testimonianze per niente celebrative, ma indicative di un filo vitale che non si è interrotto ma ha continuato ad operare miracolosamente e meravigliosamente fruttificazioni di Amore e di Vita.
L'albero non è stato davvero tagliato alla radice!
Venerdì ci siamo ritrovati dopo cena nella Chiesa della parrocchia della Darsena per una rilettura dei testi teatrali di Sirio.
Una liturgia rituale interrotta dall'ingresso di un piccolo gruppo di operai che portano il corpo di un loro compagno caduto da un'impalcatura lì vicina.
E questa irruzione della vita nella celebrazione perché sia possibile celebrare la vita ha costituito il sottofondo dell'incontro di sabato nella Sala Comunale aperto da don Gino e da Adriana e continuato dalle testimonianze di diversi amici.
E ancora nella Messa di domenica sempre nella Chiesa parrocchiale della Darsena.
Una Messa non scontata per la memoria di un prete, ma momento di un cammino di riflessio-ne che ci ha accompagnato per tutti e tre i giorni.
Non vorremmo ora attendere ancora un anno. Il tempo del silenzio, delle scelte personali operate nel segreto della coscienza, si è concluso. Anche se le parole spesso sono sussurrate nel contesto di un duro e poco appariscente lavoro quotidiano. Anche se le novità di vita hanno bisogno di questi spazi nascosti, dell' oscurità lievitante.
Ci rendiamo conto che in questi giorni si è come ripreso un cammino. E questo comporta 1'essere desti e attenti, operosi e fedeli, sapienti e costanti. Vorremmo che il filo della riflessione per una vita nuova da suscitare e condividere con Sirio, non si interrompesse, ma fosse alimentato dall'apporto di chiunque si sente di dare una mano. Apriamo uno spazio su «Lotta come Amore» per ogni contributo che voglia essere frutto meditato e articolato per la ricerca di una ricchezza che insieme abbiamo diviso.
Padre Dalmazio che ha vissuto con noi, in profonda amicizia con Sirio, tanti anni di sincera e serena comunicazione e confronto, inizia con questo suo scritto, un tentativo non facile, ma necessario, se vogliamo «celebrare» Sirio nella attualità di ogni giorno.
Altri contributi seguiranno e saremo lieti di riceverne da chiunque è interessato ad approfon-dire il discorso. Non sappiamo se ci sarà spazio per tutti su questo giornaletto, ma vogliamo prepararci ad una giornata da realizzare nell'autunno prossimo e per questo i contributi di tutti potranno arricchire questo nuovo incontro nel nome di Sirio.
Come sempre, non pura ricerca teorica o sensibilità puramente emotiva, ma confronto esi-stenziale sincero ed onesto, secondo modalità e stili da ricercare nella autenticità e nella novità della vita di ciascuno. Iniziamo perciò in questo numero una comunicazione specifica di cui ciascuno può essere insieme di volta in volta e il mittente e il destinatario. Con grande limpidezza, e, come sempre, a gran cuore!
In questi mesi ho spesso ascoltato, sempre con profonda emozione, la narrazione del «salto del muro» all'inizio della missione di don Sirio tra gli operai. Quell' evento mi ha rivelato il cammino della sua vita, la sua aspirazione ad un mondo in cui le «mura» non bloccassero la solidarietà, non isolassero popoli e persone. Egli ha patito divisioni e ipocrisie, non ne è diventato vittima; non ha pensato di non poterci far nulla; non ha permesso che paralizzassero la creatività amica.
Il suo «salto» senza ritorno, senza pentimenti, sostanziali, lo ha immesso nel mondo della condivisione inventiva con l'umanità anonima, affannata di pace. Dopo quel salto non si appartenne più, la sua lunga «corsa ad ostacoli» non si è più fermata. Le situazioni che stancano e scoraggiano le persone pavide e calcolatrici, hanno reso ardita, pensosa e audace la sua fedeltà orientata dal «sogno»: 1'elemento determinante della sua storia. L'invito a non tradirlo, neppure quando molesta, è stampato su una piastrella che, da che l'ho conosciuto, ho sempre visto a capo del suo letto. L'antico-sogno-nuovo è il titolo del suo ultimo libro; coloro che ne hanno condiviso la genesi sanno quanto l'ha sofferto. Il suo sogno, motivo dominante di articoli, lettere, discorsi, non è frutto di immaginazione liberata nel sonno; è la trama della storia poliedrica della sua persona inquieta e intimamente pacificata, sempre in ricerca e tenacemente convinta; laica e visceralmente religiosa; esuberante e pensosa; dinamica e contemplativa; intenta a lavorare le cose e sempre in ascolto del mistero. Tentare di «narrare» questo sogno e di tracciarne il vissuto, è vivere 1'esigenza di entrare nella sua eredità più bella, di discernere la meta verso la quale avanzare, anche se in situazioni diverse, con lui. È rischio da correre con serenità nonostante la sua complessità.
«Sognare» con Sirio è vivere la dinamica della fedeltà. È coltivare il consenso operativo alla verità: su Dio, sulla realtà, sulla condizione umana; assecondare la liberazione da tutto ciò che contrasta il bene umano; coltivarsi nell'ubbidienza alla vita; nella solidarietà con donne e uomini, assetati di giustizia e di pace; autenticare la fedeltà alle persone senza steccati anagrafici o religiosi; promuovere il rispetto per la natura, il creato, 1'acqua, 1'aria, il mare, la materia, il mondo animale ecc.; accompagnarsi ai tempi di crescita delle persone e delle comunità che, nel rispetto delle prerogative dei loro membri, si sentano unite, non per vincoli o impegni giuridici, ma per la condivisione sincera e vera della lotta-amore per un' esistenza solidale e perseverante ai segni dei tempi; vivere l'«ira monacale» per il farsi delle cose e dei rapporti; la nostalgia per una Chiesa, segno autentico e sincero di Cristo, libera dalle collusioni con il potere.
Sono altrettanti aspetti della sua storia: nessuno ne esaurisce le valenze e tutti ne svelano la concretezza.
Da quanto mi è dato sapere, il principale alimento della sua fedeltà al sogno è stata la perseveranza nella sua scelta di vita; il non essersi sottratto alle attese delle innumerevoli persone che hanno bussato alla sua porta; la resa senza condizioni al bene dell'umanità anonima e smarrita; la vulnerabilità nei confronti delle vittime dell'ingiustizia, della discriminazione; l'attenzione vigile alla salvaguardia dell' ambiente umano. Queste realtà, insieme al loro carico di sofferenza, inquietudine e malinconia, hanno veicolato per lui la forza di non venir meno. Il quotidiano affrontato con sincerità e vigilanza, senza vittimismi e senza fughe, è come il veicolo attraverso il quale la forza di Dio che riconcilia con sé il cosmo e l'umanità, rinvigorisce coloro che lavorano seriamente per rendere giusto e umano il vivere associato.
Sirio ha lavorato per trasformare il ferro e i rapporti, ma è andato oltre. Ha lottato perché la suprema trasformazione della realtà, quella che la porta a diventare Corpo e Sangue di Cristo, non è cessare di esser ciò che si è, ma consentire alla dimensione più radicale di sé di restare inseriti nella storia per promuovere la crescita orientata. Cristo non prende le nostre realtà per sottrarle a se stesse e a noi, ma per condividere con noi, attraverso esse, la sua stessa vita. Al contatto con Sirio si intuiva come la celebrazione vera si struttura in continuità con il quotidiano che in Cristo è Carne e Sangue.
Celebrare non è compiere riti; è assecondare e vivere il processo di trasformazione della realtà in Cristo; è partecipare ad esso e non ridursi a restarne spettatori.
Non si è credenti per fare riti ma per lasciare che in noi e nella storia si incarni Cristo in modo che noi e la storia siamo pienamente liberi in Lui e Egli sia presenza umanizzante in noi e nella storia.
È l'eredità più ardua e complessa di Sirio, quella che ci trova più sprovveduti ma anche quella che, disattesa, tradisce lo slancio intimo della sua «passione».
La Chiesa è nel mondo per svelare questo mistero, per renderlo credibile e per sostenere uomini e donne nel renderlo vivo e concreto.
Su questo nucleo della personalità di Sirio dovremo centrare l'attenzione per non falsarne la portata e per assumerlo nel processo di crescita della comunità umana.
Anche se in questo cammino, inizialmente, certi atteggiamenti contrastano con quelli dei tempi passati, poco alla volta evidenziano la loro ricchezza e la coerenza con le esigenze più pro-fonde del bene umano e con la coscienza della comunità credente e inducono a disattendere gli stili di vita caratterizzati da celebrare fine a se stesso per orientarsi sempre più decisamente verso un vissuto in cui lotta per il quotidiano e celebrazione siano momenti diversi dell'unica unione con Cristo che libera l'umanità e la creazione dal male.
In Lui quelli che celebrano assecondano, fino alle estreme conseguenze, la trasformazione del vissuto e quelli che lavorano si coltivano nell' atteggiamento celebrativo.
La solidarietà interumana tra le persone che hanno fame e sete di giustizia amica e di pace, è il frutto e il contesto della celebrazione del Corpo e del Sangue del Signore.
È la componente principale del sogno antico e nuovo che Sirio fa sognare e gliene siamo profondamente grati.
Cristo pane spezzato e sangue versato, nutre e vivifica i figli e le figlie di Dio che operano pace e liberazione perché la storia non resti nemica e ingiusta e perché cresca il numero di coloro che patiscono l'avvento della giustizia.
Le celebrazioni che non assumono e incarnano queste attese sono riti che proclamano ver-balmente la comunione con il Dio-con-noi e non riescono a mascherare le resistenze che la impediscono e la tradiscono.
Farsi sfidare dal mistero è rendere concreto, effettivo, il segno umano di colui che fa nuove le cose e che sostiene nel cammino verso la «compiutezza umana» la «grande innocenza».
Sirio non ha voluto prendere le distanze da uno stile religioso del vivere, ma ha cercato stili di vita che non distano da quelli che incarnano vera comunione; ha mangiato il pane e bevuto il vino che nutre l'umanità adottata in Dio, che ubbidisce a Lui, che rende giusto e umano il mondo che Egli riconcilia con Sé.
La sua coerenza, solitaria, vissuta fino alla fine, non è frutto di metodi o di scorciatoie, ma di compromissione e di affidamento.
Ci vuole ancora tanto per capire Sirio a questa dimensione.
Il suo vissuto è il dato che ci interpella; esso, però parla non a chi ne cerca letture teoriche, ma a chi lo vive con coinvolgimento esistenziale.
Egli non chiede imitatori che scimmiottano i suoi modi di fare o che si distinguono dagli altri per il fatto che ne criticano gli orientamenti.
Invita a vivere da creature nuove. Questa sua eredità ci sfida.
Padre Dalmazio
In una fredda mattinata di gennaio ci siamo mossi con tutti i ragazzi e siamo andati davanti ad un cantiere navale dove una piccola folla di operai manifestava perché fosse riassunto un compagno di lavoro portatore di non lievi handicap. Ci siamo sentiti provocati a manifestare la nostra solidarietà e a dare ragione della nostra presenza lì e, più in generale, nell'area produttiva del porto. Beppe ha Ietto, a nome di tutti, questo breve «documento» scritto ed «approvato» già da tutti noi. Non siamo stati presi troppo sul serio né, d'altra parte, lo pretendevamo. Sappiamo bene che un gruppo di gente come noi può solo chiedere di essere aiutata, ma, caschi il cielo, se pensa di poter «aiutare». Però siamo stati contenti di essere usciti, di aver salutato tanti nostri amici, di aver contribuito affinché il linguaggio della manifestazione uscisse un po' dai binari del rituale del funzionariato sindacale. Alla fine alcuni di noi hanno potuto parlare con l'operaio per cui si teneva la manifestazione ed una ragazza gli ha detto: «Se non ti vogliono più qui, vieni pure con noi; vedrai che ti troverai bene!».
Siamo un gruppo di persone (una piccola ARCA) che da anni lavora in Darsena. Facciamo lavori semplici con ritagli di legno, di ferro, con la carta, la pelle, la terra. Tra di noi sono molti quelli che vengono chiamati handicappati e sarebbero rimasti chiusi in casa se non ci fosse la possibilità di lavorare nel capannone di Via Virgilio. Non guadagniamo abbastanza per avere uno stipendio vero e proprio, ma cerchiamo di essere autonomi nelle spese collettive, nelle nostre attrezzature, nell'autofinanziarci momenti di svago e di conoscenza. Non ci sentiamo completamente inutili. E diamo esempio di operosità, di serenità, di gioia di vivere. Sono cose che non si comprano al mercato e non vengono quotate in borsa; ma non sono forse cose buone anche per voi? Eppure forse noi avremmo il diritto di lamentarci per come la vita ci ha trattati. Non ci lamentiamo: la vita è bella anche così e lo diciamo anche sapendo che per voi, forse, è difficile crederlo. Quello che ci dispiace è di essere giudicati disgraziati e, con questo, sistemati nelle braccia assai poco simpatiche dell'assistenza. Quella pubblica e quella privata. Quella che si rifà alle clientele politiche e quella che si rifà al dovere dell'elemosina. Abbiamo letto nella Costituzione che siamo cittadini di una repubblica di eguali: ma evidentemente noi non possiamo essere uguali come gli altri. Finché rimaniamo chiusi dentro e siamo oggetti di cure, lo Stato paga e sono molti quelli cosiddetti «sani» che vivono alle spalle di noi «handicappati». Ma se vogliamo uscire, camminare, lavorare, divertirci come gli altri, allora è un'altra cosa! Abbiamo provato il fastidio, l'insofferenza, la stanchezza di tanta gente che si rifiuta di prenderci sul serio e che crede a regole del gioco fatte di sopraffazioni, di furbizie, di servilismo e di semplice sudditanza verso ogni potere. È un gioco amaro quello di coloro che si considerano uguali. Sappiamo che quello che dovrebbe essere di fatto un diritto per ogni persona, nel nostro Paese diventa troppo spesso un «privilegio», una «concessione benevola» di alcune aziende messe alle strette che devono per forza «prendersi in casa» l'handicappato. Caro compagno che l'azienda Benetti Azimut non vuole assumere perché ti giudica inutile dentro il cantiere: noi non sappiamo se veramente è assoluta questa inutilità e se tu hai ancora voglia di lavorare e di sentirti «portatore di un diritto» (quello di essere un uomo uguale) prima che «portatore di handicap». Noi siamo solidali con te perché questa è anche la nostra battaglia: per questo ogni mattina si apre il portone del nostro capannone. Perché cambino le regole del gioco e i diritti dei cittadini - al di là di ogni discriminazione - non siano vuote parole, ma concreta opera di solidarietà collettiva, di intelligenza manageriale e di sostegno sindacale, di sensibilità sociale a misura di umanità. Noi sappiamo che la legge che disciplina l'accesso al lavoro delle cosiddette «categorie protette» (e cioè confinate ed etichettate) è sottoposta a grosse critiche e discussioni. Disattesa, svuotata nei contenuti, tradita, questa legge (la famosa «482») è stata oggetto di 4 progetti di riforma firmati rispettivamente da DC PSI PCI DP. Questi progetti si sono fermati nei cassetti nella Commissione Lavoro del Senato e la questione - dopo mesi - non è ancora all'ordine d.g. e non è stato nominato neppure un relatore. Non è certamente la nostra voce quella che ridarà vigore alla proposta. Eppure crediamo e speriamo che la sensibilità popolare e del mondo operaio possa realizzare quella forza di volontà nuova per una giustizia vera, concreta, calata nel quotidiano, espressa più che con le parole della legge, con quelle della vita e della vita solidale.
Questa lettera a Gorbaciov è nata dalla richiesta di alcuni membri del MIR ed ha avuto una preparazione collettiva: essa esprime molto semplicemente il desiderio di contribuire allo sforzo di pacificazione e di «disgelo» che attraversa da tempo le relazioni Est-Ovest. Essa è un piccolo segno di una volontà decisa a lavorare con amore tenace e fedele perché i semi della pace, della fraternità fra tutti i popoli della terra, della giustizia, del rispetto della creazione possano svilupparsi e crescere sempre di più. È una cosa molto piccola che però vuole essere indicazione di un grande sogno: che tutti gli uomini e donne del mondo, tutti i popoli, tutte le razze, tutte le culture siano sempre più «orientati» . a tutti i livelli . a rendere possibile una storia umana liberata dalle radici della guerra.
Carissimo sig. Presidente Mikhail Gorbaciov,
questa lettera potrebbe destare in lei una certa meraviglia, poiché le viene inviata a nome della sezione italiana di un movimento che pur avendo una dimensione internazionale in realtà non ha una grande rilevanza nello scenario politico.
Il Movimento Internazionale della Riconciliazione (MIR) raccoglie al suo interno uomini e donne che hanno a cuore il problema della pace, della fratellanza, della non violenza, dei valori della giustizia e della concordia fra tutti i popoli. La sezione italiana del MIR ha voluto inviar1e questa lettera come segno semplice, ma molto sentito, di un profondo sentimento di «ringraziamento» per tutto ciò che lei ha fatto in questi anni nel campo della pace, del disarmo, della distensione Est-Ovest, dell'attenzione ai problemi della convivenza giusta e pacifica fra i vari popoli della terra.
Il riferimento è soprattutto a ciò che lei sig. Gorbaciov ha detto nel suo «storico» discorso all'ONU il 7 Dicembre 1988: le proposte da lei avanzate ci hanno aperto il cuore alla speranza che sia possibile costruire, anche se gradualmente, rapporti umani non più basati sulle forze militari contrapposte, sugli equilibri della deterrenza, sulla sempre maggiore capacità aggressiva dei rispettivi arsenali militari. Noi vogliamo esprimere il nostro sincero sentimento di partecipazione e di condivisione negli sforzi che lei sta facendo fin dall'inizio della sua presidenza per far progredire il cammino della pacifica convivenza fra i popoli del mondo. Certo, sappiamo benissimo che questo cammino è molto lungo ed ha bisogno di uomini e donne di buona volontà, di coraggio, di fiducia in una storia umana che non sia più segnata dal sangue, dalla violenza della guerra, dalla morte.
Per questo ci ha riempito di grande gioia la sua decisione unilaterale di diminuire di mezzo milione di uomini l'esercito dell'Unione Sovietica (nell'arco di due anni). Ugualmente l'attenzione ai problemi del debito dei paesi del Sud del mondo; il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan, anche se rimane aperto l'enorme problema della pacificazione di questa martoriata nazione; la volontà precisa di una progressiva smi1itarizzazione degli eserciti del Patto di Varsavia, sia per quanto riguarda le armi cosiddette «convenzionali», sia per l'armamento missilistico atomico.
Così le decisioni manifestate riguardo all'abolizione totale delle armi chimiche ci ha dato grandi motivi di fiducia e di speranza verso il futuro. Ci sembra particolarmente vero ciò che ha detto il suo ministro degli Esteri nella recente Conferenza di Vienna (citando una frase di Tolstoj): «Occorre capire l'importanza non di dove ci troviamo, ma della direzione in cui ci si muove». Al MIR, movimento di pace e riconciliazione a livello mondiale, sta a cuore soprattutto questa «direzione» di cammino, la crescita e lo sviluppo sempre più coraggioso e deciso della strada della pace.
In questo spirito, noi vogliamo partecipare con tutte le nostre forze alla crescita di rapporti umani liberati dalla paura reciproca, dall'istinto della contrapposizione, dall'idea di «popoli storicamente nemici». Noi crediamo che tutti i popoli della terra sono chiamati a vivere senza odio, senza guerra, senza eserciti, senza ombre di sangue e di morte: per questo vogliamo interpretare la riduzione degli arsenali militari di ogni tipo come riduzione della militarizzazione degli Stati ed insieme delle coscienze. Pensiamo che sia molto importante che diminuisca la «cultura» del segreto e del sospetto reciproco, che alimenta sempre la cultura della guerra, e cresca nello stesso tempo quanto anche lei ha sottoscritto negli accordi di Helsinki: scambio di culture, di uomini, di rapporti fraterni. Noi siamo sicuri che con il suo gesto lei ha dato un segnale importante per liberare energie e risorse e consentire sempre più una libera crescita di culture, coscienze, popoli che oggi sono ancora schiacciati da iniqui rapporti economici, da pesanti situazioni di soggezione nazionale, culturale, morale, religiosa.
Intervenendo sugli arsenali militari lei ha offerto ai pacifisti, a tutti coloro che lottano e soffrono per il rispetto dei diritti umani e civili, per la sopravvivenza ecologica del pianeta, un segnale forte ed incoraggiante di cui siamo molto grati e che sentiamo essere una premessa per un percorso che i popoli da sempre attendono come necessità assoluta di vita nuova. Vogliamo congratularci per quanto lei ha proposto nello spirito del disarmo unilaterale, perché anche noi - come membri del MIR - abbiamo da tempo indicato questo cammino come assolutamente necessario per rompere la corsa al riarmo. Speriamo che questo segni una inversione di tendenza e apra «una corsa al disarmo» tra Occidente ed Oriente, tra Nord e Sud.
Per quanto ci riguarda, ci batteremo perché da parte italiana si risponda con qualche atto di disarmo, come ad esempio la rinuncia all'accoglimento degli F 16 nella base di Crotone. Riteniamo che non ci siano alternative ad una ricerca di rapporti non violenti fra i popoli e quindi ogni gesto che si muova in questa direzione ci riempie di gioia e di speranza. Noi vogliamo che cessi quanto più possibile la fabbricazione e il commercio delle armi e ci stiamo battendo da sempre perché non si uccida più con la produzione bellica degli operai italiani, russi, americani, francesi, tedeschi ecc...
Peniamo che la vera vocazione di ogni popolo della terra sia quella di produrre strumenti di vita e non di morte: crediamo che lei, sig. Gorbaciov, sia uomo sincero e quindi le siamo grati per tutto quello che ha fatto e che farà per far progredire la cultura del dialogo e del disarmo. Crediamo che questa «tendenza» abbia ricevuto nel 1988 un impulso molto forte. Certamente siamo convinti, come lo sarà lei, che questo impulso non sia divenuto ancora irreversibile: è necessario che la volontà di passare dalla contrapposizione al dialogo ed alla cooperazione diventi un elemento permanente nella pratica delle relazioni internazionali. Questa è La «Rivoluzione» incessante che pensiamo debba essere ricercata con tenace volontà ed illuminata saggezza politica. Speriamo che questa nostra lettera le giunga come segno di fraterna e solidale partecipazione nel cammino della «perestrojka»: parola che ormai è diventata un simbolo forte di questi nostri tempi che aprono il cuore alla speranza di cambiamenti decisivi nei rapporti nazionali ed internazionali. Di tutto cuore le auguriamo di poter svolgere il suo lavoro per la costruzione di una società mondiale sempre più illuminata dall'arcobaleno di pace. Per il suo popolo e per tutti i popoli della terra.
Con stima e sincera amicizia, a nome del MIR italiano la saluto cordialmente.
SOCCI GIUSEPPE Presidente del MIR
Cari amici qui dico
Nel vasto senso della parola:
moglie, sorella, sodali, parenti,
compagne e compagni di scuola;
persone viste una volta sola
o praticate per tutta la vita
purché a noi, per almeno un momento,
sia teso un segmento,
una corda ben definita.
Dico per voi, compagni di un cammino
Folto, non privo di fatica,
e per voi pure, che avete perduto
l'anima, l'animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse uno solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
prima che s'indurisse la cera,
quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l'impronta
Dell'amico incontrato per via;
in ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
che le imprese sono finite,
a voi tutti l'augurio sommesso
che l'autunno sia lungo e mite.
Primo Levi
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455