LOTTA COME AMORE: LcA luglio 1989

Piazza Tienanmen

Vogliamo titolare così questo numero di Lotta come Amore perché, come un piccolo segno, conservi la memoria di un avvenimento sorprendentemente nuovo che il potere, svuotato dal consenso, ha affogato nel solo modo che conosce per potersi perpetuare: nel sangue.
Abbiamo vissuto l'orrore di quei giorni quasi immobilizzati dall'angoscia che ci ha preso quando è stata diffusa la notizia dell'intervento cruento dell' esercito contro i giovani cinesi.
«Non si uccide così la speranza»: il titolo su di un quotidiano ha sintetizzato uno stato d'animo diffuso.
Ma la parola speranza rischia di diluire ed appiattire in un indistinto orizzonte la ricchezza, la varietà di motivi e valori, la vitalità espressa da più di un mese di occupazione della Piazza principale di Pechino.
Ciò che ci disorienta ora - oltre i sentimenti di più ferma condanna per quanto è accaduto e per quanto dal potere mondiale è stato lasciato accadere - è il non avere capito quale potenziale di vita si stava esprimendo in Cina. Come abbiamo potuto seguire passo passo ciò che stava accadendo senza prendere coscienza di un dovere di solidarietà da esprimere prima che la tragedia si compisse. Perché fosse protetta la vita, quella vita nascente.
Perché ciò che è nato a Pechino è un patrimonio che appartiene a tutti: prima e più di una protesta è stato un laboratorio di forme nuove di socialità e di confronto. Crediamo ci sia ancora molto da scoprire e da raccogliere di quello che è avvenuto. E da riflettere sulla nostra capacità di saper gioire per ogni seme di rinascita che anima l'umanità. Stanchezza, delusione, incredulità possono solo in parte spiegare una tardiva presa di coscienza. Ma sicuramente c'entra anche l'aver disattivato delle sensibilità, giustificando questo fatto con il lavoro, la fatica, la semina quotidiana. Con la complessità della storia attuale che non permette di individuare facilmente il nemico, ma neppure l'amico. Con le tante lotte che sembrano non potersi coagulare per cambiare veramente il mondo.
Piazza Tienenman ci richiama, con la violenza di una frustata, a prendere veramente sul serio questo nostro tempo e a viverlo con pienezza, a fronte alta. A misura di umanità. Con cuore universale.
Si tratta di reagire alla saggia misura del buon senso per allargare le braccia alla misura colma e traboccante della parola evangelica. Accettare di riprendere la strada sofferta e difficile di questo mondo in ebollizione andando a capire ciò che sta avvenendo ai quattro angoli di un mondo sempre più piccolo e vicino.
E si tratta anche di vivere con molta più intensità il «qui e ora». Cercare di proteggere, di custodire e sviluppare all'interno di questa nostra civiltà ogni forma di vita che inviti concretamente al cambiamento.
Spezzoni di cambiamento qualitativo che ci riportano ad una riappropriazione delle forme di convivenza, di confronto, di collettività. A lavorare sulle diversità perché emergano sempre di più, per poter costruire su di esse l'idealità di un mondo veramente abitabile.
Una piazza ci ha riproposto di uscire dalle nostre case per avventurarci di nuovo in spazi comuni dilatati alla misura di popolo.
Dei giovani ci hanno invitato a lottare contro la rassegnazione senile di un mondo vecchio che crede di aver assorbito le tensioni affogandole nel gioco delle parti. Compresa la coscienza buona del privilegio che lenisce le piaghe e le ferite di chi rimane fuori da un sistema spietato.
Dei giovani, una piazza per stupirei di nuovo che si possa credere e lottare per rinnovare la storia.

La Redazione

Campo della pace

Sabato 10 giugno di è svolta nel giardinetto intorno alla Chiesetta una manifestazione di solidarietà con il popolo cinese. Questo piccolo pezzo di terra appartenente al demanio marittimo è stato concesso in uso al Comune di Viareggio: dovrebbe sorgervi il Campo della Pace, luogo simbolico della volontà e dell'opera di pace nella e della città. Ne abbiamo già parlato su queste pagine e con tanti amici.
Il luogo non è stato ancora sistemato, ma abbiamo deciso ugualmente di utilizzarlo in questa occasione. Inizialmente per raccogliere in modo poverissimo l'angoscia che ci andavamo comunicando l'un l'altro. Poi, piano piano, per esprimere i segni della pietà, della memoria, della con-danna e della lotta.
Ci dispiace che non abbia espresso ciò che nella città si è andato manifestando in modo sbriciolato, talvolta assurdamente vuoto, di parte.
Abbiamo cercato di riprendere qualcosa di ciò che è stato fatto e di esprimere, attraverso la pluralità dei segni, una coralità popolare.
Un gruppetto di persone ha lavorato per una settimana, raccogliendo materiale, componendo-lo e preparandolo per quella che è poi stata la veglia di sabato sera. Altra gente si è aggiunta man mano con i contributi più diversi. E il pomeriggio di sabato il campetto, già ripulito da mani vo-lontarie, è fiorito di luci, di colori, di suoni.
E di gente; non tanta, ma sufficiente perché una piccola folla al calar della notte si radunasse intorno a dei canti, dei testi - elaborati dagli studenti cinesi - proclamati, un piccolo schermo dove scorrevano le immagini crude e terribili.
Il piccolo campo ha raccolto e protetto la concentrazione e il silenzio; quasi da stupirsi perché di fronte - di là dal canale - si compiva il rito chiassoso e consumista del sabato sera.
La gente era la «solita»: quella che si muove in occasioni simili. Ma apparteneva a raggruppamenti diversi che di solito si trovano divisi. Ed è stato sorprendente quando un coro - quasi tutto parrocchiale - ha intonato l'Internazionale. Le stesse parole, la stessa musica fiorita sulle labbra dei coetanei cinesi. È stato un momento cui il rispetto ha vinto antichi e mai sopiti timori. Ed insieme ai segni diversi che le persone potevano compiere scrivendo su grandi fogli, accendendo lampioncini, mettendo fiori, firmando appelli, ecc.; anche il microfono, e quindi gli interventi, sono stati semplici, intensi, misura comprensibili: di gente che parla alla gente. Ed è apparsa in tutto il suo spessore umano la tragicità della storia ed il mistero del piccolo gregge.
Il piccolo campo ha ridato ad una piccola folla la nostalgia di essere popolo.


Luigi

Madre Cina non ci tradire

Nei giorni migliori della giovinezza
dobbiamo lasciare tutte le cose belle e buone
e dio solo sa quanto malvolentieri
e con quanta riluttanza lo facciamo.

Ma il nostro paese è arrivato a un punto cruciale
il potere politico domina, su tutto,
i burocrati sono corrotti, molte buone persone
con grandi ideali sono costrette all'esilio.
È un momento di vita o di morte per la nazione.

Tutti voi compatrioti, tutti voi che avete una coscienza,
ascoltate le nostre grida.
Non vogliamo morire, vogliamo vivere.
Non vogliamo morire, vogliamo studiare.


Caro padre, cara madre, per favore non siate tristi.
Cari zii, care zie che non vi si spezzi il cuore
mentre diciamo addio alla vita.
Abbiamo una sola speranza: che questo permetta a tutti
di vivere in modo migliore.

Abbiamo una sola preghiera: non dimenticate che non è
assolutamente la morte quello per cui stiamo lottando.

La democrazia non è un affare che riguarda poche persone.
La battaglia democratica non può essere vinta
da una singola generazione.

Questo paese è il nostro paese
questa gente è la nostra gente
questo governo è il nostro governo.

Se non facciamo qualcosa chi lo farà per noi?

Benché le nostre spalle siano ancora giovani ed esili,
benché la morte sia per noi un fardello troppo pesante
noi dobbiamo andare perché la storia ce lo chiede.

Il nostro entusiasmo patriottico, il nostro spirito
totalmente innocente vengono descritti come elementi
che creano tumulto. Si dice che abbiamo motivi nascosti
e che veniamo usati da un manipolo di persone.

Vorremmo rivolgere una preghiera a tutti i cittadini onesti,
una preghiera a ogni operaio, contadino, soldato,
cittadino comune o intellettuale, funzionario di governo,
al poliziotto e a tutti quelli che ci accusano
di commettere crimini.

Mettetevi una mano sul cuore, sulla coscienza,
quale sorta di crimine stiamo commettendo?
Stiamo provocando un tumulto?

Cerchiamo solo la verità, ma veniamo picchiati dalla polizia.
I rappresentanti degli studenti si sono messi in ginocchio
per implorare la democrazia, ma sono stati totalmente ignorati.
Le risposte alle richieste di un dialogo paritario
sono state rinviate e ancora rinviate.

Che altro dobbiamo fare?
La democrazia è un ideale della vita umana
come libertà e il diritto.
Ora per ottenerli dobbiamo sacrificare le nostre giovani vite.
È questo l'orgoglio della nazione cinese?

Lo sciopero della fame è la scelta di chi non ha scelta.
Stiamo combattendo per la vita con il coraggio di morire.
Ma siamo ancora ragazzi.

Madre Cina, per favore, guarda i tuoi fii,li e le tue figlie.
Quando lo sciopero della fame rovina totalmente la loro giovinezza,
quando la morte si avvicina puoi rimanere indifferente?


Queste riflessioni non sono «attuali», nel senso che sono state scritte in occasione dell'assemblea nazionale del Movimento Internazionale della Riconciliazione (MIR) che si è svolto a Grottaglie (Taranto) alla fine del mese di aprile '89. Qualche giorno prima ho partecipato al convegno nazionale dei pretioperai italiani a Salsomaggiore. Tutti e due gli «incontri» avevano in comune la caratteristica di esprimere dei movimenti di persone che appartengono a «minoranze» che sul piano quantitativo fanno «poco rumore». Sono passati appena due mesi, ma ci sono «distanze interiori» che non seguono i tempi del calendario. Ci sono avvenimenti quotidiani ed internazionali (come la tragedia del movimento degli studenti cinesi) che potrebbero spegnere la forza della speranza. Nonostante tutto, credo nella validità di un cammino segnato dall'umile gesto del seminatore che non si arrende di fronte alla durezza della realtà perché crede con tutte le forze nella fecondità perenne della terra a cui osa ogni volta affidare il seme che gli è stato consegnato.


Seminatori di speranza

Questi pensieri sono un fraterno e semplice contributo alla ricerca che tutti i gruppi e le singole persone che lavorano nel MIR portano avanti con appassionata ed umile fatica nella direzione di una umanità «riconciliata» per la forza dell' amore di Dio che si fa concreta realizzazione nella fraternità di tutti gli uomini e di tutte le donne disposti ad accoglierlo. Contributo che non ha alcuna pretesa programmatica né tanto meno può essere un documento di natura «politica», anche nel senso più autentico del termine.
Il «genere letterario» con cui deve essere accolto e con cui io l'ho scritto è quello della PARABOLA. «Parabola» intesa nel senso dei racconti di Gesù che i Vangeli hanno conservato e che sicuramente rappresentano un tesoro prezioso, semplice e profondo al quale attingere come sorgente sempre fresca e zampillante. Gesù stesso può essere visto ed accolto come meravigliosa e straordinaria «parabola di Dio» offerta a tutti gli uomini e donne di ogni generazione, perché in Lui è possibile scoprire la Presenza adorabile dell'Amore, della Verità, della Pace, della Giustizia, del Perdono, della Vita piena. Ed anche di quelle radici profonde della Nonviolenza che in Lui acquista i tratti inconfondibili di un Amore alla Verità di Dio e della Umanità che davvero «è antico come le montagne» (Gandhi).
È ad una delle parabole evangeliche che mi è venuto in mente di fare riferimento per aiutarci a scavare un po' in profondità in quelle radici nascoste sotto terra, che non si vedono, non sono per niente appariscenti, vivono e muoiono nel nascondimento, ma senza le quali né il filo d'erba né le sequoie gigantesche possono mantenersi in vita.
La parabola è quella del seminatore: «Il seminatore uscì a seminare... ». La conosciamo tutti. Anche se ormai da tanto tempo non si vedono più i contadini lanciare a piene mani, con gesto largo e ritmato sulla cadenza dei passi, il seme del grano, dell'orzo e dell'avena fra le zolle spianate dei campi, mi piace pensare (e non per superficiale spirito poetico) a tutti i membri del MIR come a seminatori pazienti che in modo ancora artigianale vanno lanciando «con le proprie mani» il seme della riconciliazione, della pace, della fraternità, della comunione fra tutte le creature, senza la pretesa che tutti i semi possano sopravvivere, ma con la profonda speranza che qua o là, fra le zolle del grande campo che è la vita, la storia quotidiana, il cuore, la mente, la coscienza, qualche buon seme trovi il terreno adatto a mettere radici, a crescere, a svilupparsi fino alla completa maturazione. Mi piace pensare che noi possiamo essere questi «seminatori di speranza»: speranza intesa come possibilità sempre rinnovata che i rapporti fra le persone, i gruppi, i popoli, riescano a trovare vie nuove di incontro, di comprensione, di aperture, di cambiamento. Mi pare che questo compito-impegno di seminare con fiducia, pur nella fatica e nella stanchezza del cammino, rappresenti ciò che ciascuno di noi e il nostro piccolo «insieme» può realmente significare ed essere.


* * *
Non credo che noi possiamo essere altro da questo: e non per un rifiuto di chissà quali progettualità, organizzazioni, realizzazioni, ecc., ma per una positiva assunzione di un ruolo che pro-babilmente rimarrà sempre come elemento costitutivo di tutte le minoranze che coscientemente si assumono in prima persona l'impegno di testimoniare e proclamare nell'arco della propria vita i valori del regno di Dio, dell' amore e della pace fra le creature, della riconciliazione e del perdono, del superamento dei conflitti, della scoperta e dell' appropriazione di una cultura basata sui principi della nonviolenza, del dialogo, della reciproca comprensione anziché su quelli della forza, della contrapposizione, della violenza.
L'assunzione cosciente di questo compito, evidentemente, non ci dispensa dallo sforzo necessario e doveroso di capire i segni dei tempi, anche se a volte essi non sono facilmente decifrabili.
Ugualmente la consapevolezza di essere «minoranza» - se pure collegata e allargata a dimensione universale con tutte le minoranze sparse lungo il fronte della storia umana - non ci deve dare un senso di frustrazione o di impotenza di fronte al «muro di separazione» che a volte può darci l'impressione della impossibilità a cambiare la storia. Il seminatore ha un compito preciso, che po-trebbe a prima vista sembrare enormemente limitato: egli deve semplicemente SEMINARE. Fra le pietre, lungo i bordi del campo, fra le spine: dovunque. Senza stancarsi, senza arrendersi, senza sgomentarsi: nella certezza che la «buona terra» c'è; che il cuore di pietra può sempre trasformarsi in cuore di carne, in capacità rinnovata di aprirsi alla novità; che gli occhi dei ciechi possano vedere, i sordi udire, gli zoppi camminare e danzare, i morti risorgere a vita nuova.
Portando nel profondo dell' anima questa parabola che può significare molto della nostra vita e del nostro umile ma fedele impegno quotidiano a servizio dell' amore, della verità, della nonviolen-za, noi possiamo cercare di individuare insieme i campi che sicuramente attendono il passo fiducioso di qualche «seminatore folle» che osi rischiare di perdere il suo seme, lanciandolo a piene mani fra le zolle solo apparentemente sterili. Campi vuoti, vergini, forse non ce ne sono; è più facile pensare che si tratti di seminare, magari «di notte», del buon grano fra grandi praterie di gramigna, di «erbacce», rovesciando così un' altra bella parabola di Gesù.
Strappare tutta la «zizzania» (secondo l'antica traduzione dei Vangeli) non solo non è materialmente possibile, ma neppure è compito di cui qualcuno si possa sentire investito. Anche se la storia cristiana è, purtroppo, piena di questi fuorvianti tentativi.
La speranza che invece ci è chiesto di alimentare senza stanchezze è quella del seminatore fedele che continua, nonostante tutto, a spargere il buon seme.
La ragione di questa caparbietà, che potrebbe sembrare sciocchezza, stoltezza o pura follia, sta nella certezza che il seme sparso crescerà, anche quando il seminatore stanco dorme il giusto riposo nella notte. C'è il Padrone del campo che misteriosamente veglia sempre e alimenta le energie che fanno sbocciare la vita nuova.

Don Beppe

Dalle Ande agli Appennini

Forse avrei potuto riferirmi ad un «titolo» più recente, ma la memoria è subito andata un po' più lontano nel tempo per raccontare l'incontro con un giovane «campesino» dell'Ecuador che è passato da Viareggio alla fine di maggio.
Un incontro molto semplice, con un «amigo» venuto da molto lontano: non solo per la distanza geografica, ma soprattutto per una storia di popolo così distante dalla nostra realtà, dai nostri problemi quotidiani.
Dalfìn Tenesaca è arrivato in Italia come «inviato speciale» del SERPAJ dell'Ecuador, una organizzazione di base che svolge un lavoro di promozione umana, culturale, sociale del popolo campesino in molti paesi dell' America del Sud. Il «Servicio Paz y justicia» (SERPAJ) ci ha fatto il dono molto bello di incontrare nella persona di Delfìn, campesino della Diocesi di Riobamba, un popolo carico di una storia secolare di umiliazioni e sofferenze, ma anche tenace e coraggioso, che ha resistito alla colonizzazione ed alla conquista europea mantenendo la propria identità culturale ed i valori profondi della propria tradizione. Cultura e tradizione «antiche come le montagne» della Sier-ra andina, bruciata dal sole e spezzata dal vento e dalle piogge torrenziali. Una terra povera di acqua, rallegrata con fatica dal verde dell'erba ma soprattutto sfruttata al massimo dal grande latifondo terriero che per secoli ha preteso un assoluto dominio su di essa e sui suoi stessi abitanti indigeni. E soprattutto intorno al problema della distribuzione delle terre che si concentra lo sforzo di molte comunità cristiane: partendo da un metodo di lotta popolare nonviolenta, si tende a fare pressione sulle autorità governative perché il popolo campesino ottenga il diritto di lavorare quella «tierra madre» che rappresenta la sostanza stessa della vita.
Eravamo un piccolo gruppo di amici riuniti per vedere qualche diapositiva che Delfìn ha illu-strato in modo estremamente essenziale, ma sufficiente a farci «comprendere e condividere» (se pure per pochi momenti) un cammino di liberazione, di affermazione limpida della propria dignità da parte di un popolo oppresso dal dominio della «civiltà bianca», mai interamente piegato. La parola di Dio ha trovato cuori e menti disposte ad accoglierla con trasparenza e pienezza di significato: il Vangelo appariva nelle parole di Delfìn come lievito capace di forzare una massa secolare di umiliazioni e soprusi, grazie anche ad uomini coraggiosi (come mons. Proano, vescovo di Riobamba) cha hanno cercato di tessere con molta pazienza e tenace fedeltà la trama di una rete di rapporti nuovi fra le varie popolazioni indigene aiutandole a prendere coscienza, in nome del Dio Liberatore, dei propri diritti e dei valori della propria storia millenaria.
Questo incontro è stato davvero ricco di significato e di profonda amicizia: una vera comuni-cazione di vita, di speranza, di fiducia nel domani, di utopie e di segni che possono diventare realtà concreta e storicamente sperimentabile.
Mi ha rallegrato ed impressionato il fatto di aver potuto intravvedere l'enorme forza liberatrice del Vangelo annunciato ai poveri e da essi coraggiosamente raccolto. Quasi una «riscoperta» di ciò che da tanti anni ho creduto dal profondo del cuore e dell' anima, ma che in questo nostro mondo occidentale è davvero difficile, a volte, riuscire a percepire in modo evidente e immediato.
La sorgente d'acqua viva che emerge con forza da cammini sotterranei chissà quanto lunghi e tormentati; il fuoco che all'improvviso scaturisce dalla pietra; un fiore che spunta come per inaspettato miracolo fra la sabbia del deserto.
L'incontro di poche ore con l'amico dell'Ecuador ha avuto per me come un «sapere biblico»: nelle sue parole semplici ho raccolto il grido di giustizia che ogni povero porta con sé da sempre ed insieme una enorme apertura alla speranza che il fiore della pace e della fraternità vera possa fiorire fra le zolle pietrose della terra andina.
Certamente il cammino verso una piena liberazione è molto lungo: non bisogna stancarsi, né arrendersi né lasciarsi sopraffare dalle mille ragioni dell' evidenza. Il viaggio dei popoli poveri ed oppressi per intere generazioni è sicuramente posto sotto il segno della benedizione di Dio che non può far mancare né il pane né l'acqua necessari per giungere al traguardo.

Don Beppe

Io, peccatore e vescovo...

Io, peccatore e vescovo, confesso:
a Roma giunsi con il bordone agreste;
in mezzo ai papaveri
ho raggiunto Assisi.

Io, peccatore e vescovo, confesso:
sogno la chiesa
con solo i sandali e il Vangelo addosso;
credo la chiesa
negata dalla chiesa, certe volte;
in ogni caso credo nel Regno,
camminando nella chiesa

Io, peccatore e vescovo, confesso:
ho visto Gesù di Nazareth
annunciare la Buona Notizia
anche ai poveri d'America latina;
"Salve, comadre nostra!" ho detto a Maria;
di chi è stato fedele ho celebrato il sangue;
sono andato pellegrino..

Io, peccatore e vescovo, confesso:
amo Nicaragua, figlia della fionda.

Io, peccatore e vescovo, confesso:
apro ad ogni alba la finestra del Tempo;
parlo come da fratello a fratello;
non perdo il sogno, né il canto né il riso;
coltivo il fiore della Speranza
dentro alle piaghe di Gesù risorto.

Pedro Casaldaliga,
vescovo di Sao Félix de Araguaia

La posta di fratel Arturo

Non abbiamo ricevuto questi mesi nessuna lettera da Arturo tramite il solito servizio di amici comuni. Può darsi che ci siano dei ritardi dovuti anche a traversie postali.
In ogni caso sappiamo - e ne diamo volentieri notizia - che Arturo Paoli sarà in Italia agli inizi di settembre. Viene organizzata, infatti, presso la Casa di Soggiorno di Bagni di Nocera Umbra (PG), dal l al5 settembre prossimo, la prima settimana di «Spiritualità profetica per il quotidiano».
«Questa prima settimana nasce per rispondere all'esigenza di avere, dopo anni di impegno cristiano e sociale, un riferimento spirituale che permetta di interpretare profeticamente, cioè evangelicamente, la propria esistenza e la realtà che ci circonda. L'altra necessità cui si vuole dare una risposta è quella di conoscere gli strumenti che la storia cristiana e le altre tradizioni spirituali possono offrire per dare un significato profondo alla propria quotidianità.
Il tema scelto da Arturo Paoli, Carlo Molari e Giuseppe Florio per la prima settimana di questo itinerario di ricerca, che si svilupperà negli anni, è preso dagli Atti degli Apostoli: «Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini», e vuole riproporre la riflessione sulle scelte fondamentali della propria vita di fede».
(dalla presentazione)
per informazioni rivolgersi a:
don Mario De Maio - viale Vaticano 67 00165 ROMA - tel. 06/6371243


Radici e Ali

Nel prepararmi a questo incontro ho detto ad un caro amico qui presente: «Mario, fammi un disegno che rappresenti due cose: radici e ali». Perché io parlo volentieri per metafora e le radici e le ali per me hanno un grande significato nella vita di un uomo. Il passato - guai se lo distruggiamo - ma anche il futuro, il sogno, è altrettanto importante.
Ecco che allora ritengo davvero che misconoscere, dimenticare, addirittura distruggere il passato sia un rischio terribile per ciascuno di noi. Sarà solo una sensazione mia personale - non siete mica obbligati a credere a tutto ciò che diciamo - ma trascurare il passato vuol dire non aver la possibilità di cominciare il presente. Vuol dire qualche volta cadere in prostrazioni grandi e sfiducia e vuole dire trovare molte difficoltà a progettare il futuro.
Ecco perché allora queste radici che, per me, in questo momento, ricordano che Sirio ha funzionato come radice, radice di una scelta, radice di un cammino, radice di una posizione da tenere nella vita.
Una delle radici grosse, una delle realtà grandi che da lui ho appreso, è l'amore. Sirio era un innamorato.
Mi spiace di dover usare questa parola perché è diventata talmente ambigua, talmente carica di banalità, ma d'altra parte non ce n'è un'altra.
Sirio era un innamorato di Dio.
Nella preghiera, quest'uomo aveva delle genialità, delle trovate, degli slanci altissimi. Ed era un innamorato delle persone.
Sono, credo, le vene più profonde che l'hanno alimentato.
Ritengo, peraltro, che sarebbe un guaio profondo per noi cadere in un'ora sola della vita in cui dentro nasce la certezza di non poter più amare, o che non si è più amati. Perciò l'insignificanza, perciò la pazzia, perciò la voglia del suicidio. Innamorarci è una cosa grande! Ecco perché mi pare di aver captato in Sirio questo: ha visto un problema, da giovane, e si è tuffato dentro: è il problema della Chiesa, della Fede, dell'uomo, della sua impostazione di vita nuova, del credere in un mondo che cambia... Non sto a dire quali sono state tutte le cose. Io ho captato questo da lui.
E si è buttato dentro queste cose perché un conto è guardare e un conto è vedere, un conto è leggere e un conto è sperimentare. Oserei dire, un conto è guardare i poveri e chi lavora, chi soffre, chi lotta, dai vetri della Chiesa e un conto è guardare la Chiesa stando dalla parte dei poveri e ma-sticando la vita come la vita si presenta. Sono cose ben diverse. E credo che queste realtà assunte da lui, assunte da chi le assume, e confrontate nella fede, credo che l'abbiano fatto prendere coscienza delle sue radici. Cioè di ciò che l'alimentava e lo spingeva, di ciò che non lo lasciava in pace, per fortuna.
Con l'amore e con il problema assunto, ho captato un'altra cosa: la resistenza sua. O se volete, con un'altra immagine, la testardaggine di un uomo. Crapa più dura di un mulo di pace, perché mulo di guerra non posso dirlo a Sirio! Un testone davvero con le sue idee, per fortuna!
È ciò che qualifica gli uomini che credono in un cammino da intraprendere. Dico ora dei nomi, ma così, giusto perché rotolano sul tavolo. Qualcuno lo conosco meglio perché vengo dal Piemonte, qualcun altro di meno, ma non importa. L'altro giorno ero in un paesino del Monferrato dove è nato un collegio di salesiani. Non faccio questioni critiche; niente. Sapete perché don Bosco era stato sospeso, cioè preso a calci dietro dal suo Arcivescovo, e aveva dovuto andarsene. Non sono a far delle disquisizioni se era bene o se era male; parlo della cocciutaggine! Per esempio, sono a poca distanza dal Cottolengo: questo povero meschinetto preso in giro da tutti e che resisteva nella strada che aveva intrapreso. Ricordo un fatto stranissimo - ma non voglio far credere che esisteva un'unica rotaia! - di don Orione che chiamato dal suo Vescovo che gli disse: «tu devi far questo»:
E quest'uomo grintoso che dice: «io oggi obbedirò, ma domani mattina sarò qua davanti all'altare dove Lei dice la Messa perché Lei è in peccato mortale»: Bisogna pensare a questo tipo di linguaggio usato una cinquantina d'anni fa.
Ma insieme a questi, io potrei aggiungere cento nomi, e, comunque, io l'ho conosciuto così nella sua cocciutaggine di uomo che ha scelto una strada e nonostante tutto va avanti. Con delle rilevanze liete o meno, ma nonostante tutto tira avanti. L'ho conosciuto così e questo mi ha dato la gioia, credetemi, o meglio, coraggio in certi momenti ed altri stati d'animo che sono utili per vivere.

Questo per quanto riguarda le radici. Ho detto poi di aver chiesto al mio amico di disegnare delle ali. Che significato hanno per me? Son convinto che voi conoscete il mondo in cui vivete. Allora pongo una domanda: chi tra voi, nonostante tutto, crede ancora e spera ancora di poter cambiare se stesso e di poter cambiare il mondo nell' ampio spettro della politica, dell' economia, della storia?
Questo è un uomo che ha osato. Un uomo che imposta la lotta ogni giorno, che non si ferma, che, nonostante tutto, le prende, ricomincia e avanti.
Non so se conoscete - io l'ho imparato in Francia -, ecco, è un gioco.
Lo chiamano «spingi-spingi»: un giochetto molto strano e con significanza molto chiara. Si tratta di un grande rettangolo suddiviso in tanti piccoli quadrati tanti quanti le lettere dell' alfabeto più uno. Le lettere dell' alfabeto sono in quadretti movibili: un quadretto rimane vuoto, ed è possibile giocare perché quel quadretto rimane vuoto. Diversamente non giochi. Com'è possibile comporre una lettera se manca il vuoto? Ma tutte le volte che sposto una lettera e riempio quel vuoto, ne creo un altro. E il gioco non è mai finito perché c'è sempre un vuoto, c'è sempre un oltre, c'è sempre qualcosa che ci chiama, una lacuna che ci provoca, che ci spinge, che ci lascia inquieti.
Penso davvero che Sirio era un uomo inquieto. Era un uomo che aveva una grande pace dentro ed insieme un grande tormento. Sembrano contrastanti le due cose, ma non lo credo, assolutamente. Questo vuoto lo chiamo bisogno, lo chiamo desiderio, lo chiamo sogno, lo chiamo «ali». E un portare avanti il palo dove abbiamo posto l'alt dell'esistenza. C'è un oltre al quale bisogna arrivare. Sicché io e voi abbiamo bisogno di essere accolti, dell' amicizia, del comunicare, di tante cose abbiam bisogno. Quando abbiamo tutto questo c'è ancor bisogno, c'è ancora un vuoto da riempire!
Perché mi sono fermato a questo esempio? Perché qualche volta io temo che, per evitare lo sforzo della creatività, scegliamo la ripetitività. Essa ci lascia più tranquilli perché ormai ha la firma di qualche persona che ci ha gratificato, delle leggi e decreti che ci dicono che viaggiamo sul sicuro. Qualche volta anziché le parole autentiche preferiamo chiacchierare molto e in realtà dire niente.
Allora, se i desideri e i sogni non son mai appagabili, io ho visto il Sirio sognante, e non una volta sola. Con lui ho condiviso, in certi momenti, determinati lavori, e diviso il sogno, le ali, il desiderio. Lui sentiva il vuoto, questa lacuna davanti, ed era un uomo che non aveva timore di fare il passo, di fare un tentativo. Specialmente quando, ritengo, questa lacuna assume questa significanza: il richiamo dell'infinito - interpretatelo come volete - o il richiamo della persona umana. Perché l'energia sulla quale quest'uomo giocava, mi par d'aver capito, era questa.
Allora si è stimolati ad andare sempre più lontano. Io credo che ad una certa ora della vita siam tutti figliol prodighi, perché di ciò che abbiamo non abbiamo abbastanza, perché desideriamo altro, perché - mi ha lasciato capire molte volte - quello che ha avuto nella vita, le promesse che gli han fatto, le sicurezze sulle quali poteva contare, non gli erano sufficienti. E questo grazie a... non lo dico nemmanco... né a lui, né a Dio, né a voi, né a me. Mi pare di aver capito questo da lui che è stato per me una violenza nello spirito, ma una violenza salutare.
Io credo per questo Sirio ha lottato, ha lottato perché gli occhi dei fratelli lo provocavano e il cielo stellato, il mare, o altre cose lo provocavano. Per lui avevano una significanza che andava oltre l'acqua o allo scintillar delle stelle.
Ed uno dei tesori che io ho raccolto e che tento di tenere dentro non per custodirlo come una perla, - a me le perle servono niente. Lavoro nei campi per cui seminandole so che non nascono nemmanco -, ma tento di tenerla dentro perché serve e che oggi, senza nessuna presunzione, credo, ho proposto. (Testo registrato, non corretto)

don Gino Piccio

Persone impigliate nella storia

Nel febbraio scorso, a Viareggio, in occasione del I° anniversario della morte di Sirio, tra le altre cose c'è stata una assemblea intensamente partecipata e carica di commozione.
Le persone raccontavano frammenti di vita, episodi, ricordi, interpretazioni. Erano narrazioni, fatte dalla gente più varia, di quella parabola che è stata la vita di Sirio. E nelle parabole, anche in quelle di chi si dichiarava ateo, c'era come uno squarcio di trascendenza, un riferirsi a qualcosa di grande, di indicibile, che superava la vita e la morte di Sirio, ma proprio nella sua vicenda umana aveva in qualche modo preso corpo per svelarsi.
Perché tanta gente eterogenea, ricreando attraverso il linguaggio e la comunicazione quella parabola storicamente conclusa, percepiva ed annunciava un «quid» di incondizionato, di assolutamente giusto? E questo, si badi, proprio richiamando le cose più semplici, più quotidiane, legate a frammenti di vita: il lavoro, la tenerezza, il significato della divisa, una donna gravida come stimolo positivo della pace...
Forse la connessione di questi eventi (quello di Sirio e quello linguistico di chi raccontando e ascoltando ricrea la parabola) enuncia qualcosa di profondo, la cui valenza può essere meglio percepita accostandoci al vangelo.
Sappiamo che il messaggio centrale di Gesù si concentra sull'evento del Regno di Dio.
«Regno di Dio è un' espressione per Dio stesso, più precisamente: per l'essere di Dio che è attivo nell'orizzonte del mondo che cambia radicalmente il mondo. Il regno di Dio è l'atto di maestà di Dio, con cui questi si impone di fronte al mondo» (Jungel E., Dio mistero del mondo, Brescia 1972, p. 459).
Nella vicenda di Gesù, oltre che ai gesti di liberazione, la comunicazione di questa lieta no-tizia viene affidata alla narrazione delle parabole. Ora ciò che stupisce in questi racconti è il loro carattere terreno, mondano. Il seme gettato, il lievito e la farina, la costruzione della casa sulla sabbia o sulla roccia, la vendita di tutto perché si è trovato un tesoro nel campo... La forza della comunicazione è affidata ad una ovvietà interna, mondana.
È ovvio a tutti che un pugno di lievito fermenta una più grande quantità di farina, come pure che il seme cresce anche di notte...
Insomma, questo è il punto, l'annuncio del regno di Dio, cioè quella signoria sulla storia e sul mondo che per Gesù è realtà assolutamente ovvia, ottiene uno svelamento proprio attraverso una ovvietà di carattere mondano: viene così stabilita una importante connessione e corrispondenza.
Così «la parabola, benché parli il linguaggio del mondo, parla al contempo in verità e propriamente di Dio» (Jungel, p. 385). Ma c'è di più: è la stessa umanità di Gesù che è parabola di Dio, manifestandolo con il suo venire a noi incondizionato e definitivo.
La sua vita e la sua morte raccontano l'umanità di Dio la quale, esprimendosi come piena dipendenza dalla signoria di Dio quale potere di vita, entra in contraddizione con le dominazioni di morte presenti nel mondo.
In quest'uomo ucciso viene a stabilirsi una singolare connessione e corrispondenza con quella umanità che è vittima dei poteri di morte presenti nella storia. Inoltre «Dio si è identificato con la vita vissuta da questo morto» (Jungel, p. 471). Il kerigma della risurrezione è la narrazione che il risorto è quel crocifisso.
Così si può dire che «l'umanità di Dio si introduce nel mondo narrando. Gesù narrava con parabola di Dio, prima di essere egli stesso annunciato come parabola di Dio» (p. 394).
Ci sembra che in questi spunti, appena accennati, ci siano delle profonde provocazioni che è doveroso cogliere: la parabola come evidenza mondana che lascia trasparire l'evento del regno; Gesù che narra parabole è lui stesso parabola di Dio che deve venir narrata; la mondanità delle parabole e l'umanità di Dio come vie di accesso al mistero del suo venire; la contraddizione interna al mondo ed alla storia umana 'messa in luce dal risorto in quanto crocifisso.
Il nostro inserimento nella condizione laica e mondana del lavoro ci ha particolarmente sen-sibilizzati su un interrogativo che, almeno per il mondo occidentale, mantiene una sua forza: come è possibile parlare di Dio? Se è vero che «dove si parla, a parlare sono persone impigliate nella storia» (Shapp), non abbiamo un potenziale di vita compromessa, e quindi di esperienza preziosa, per esprimere narrazioni?
dalla RELAZIONE INTRODUTTIVA
al Convegno dei Pretioperai 1989
Gianni Alessandria e Roberto Fiorini

Il potere e la gloria

«Resta esperienza di eccezionale valore l'avere imparato a guardare i grandi eventi della storia dal basso, nella prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti» (Bonheffer).
Sabato 10 giugno ore 21, al campo della pace in Darsena presso la chiesetta del porto, circa 250 persone tentavano di sostenere con la povertà della voce e del canto le ancora giovani ed esili spalle degli studenti Cinesi coraggiosi e consapevoli «benché la morte sia per noi un fardello troppo pesante, noi dobbiamo andare perché la storia ce lo chiede».
Al di qua e al di là del molo le auto stanno smottando la noia verso un mare inquinato e una passeggiata spocchiosa. Nella Burlamacca la luna tenta di ricoprire amorosamente con il suo splendore l'abbuffata quotidiana di inquinamento di un'umanità assatanata di benessere e di comodità.
Fra i platani si stagliano i tre del monumento delle «paure» (intuizione di un popolo: l'esercito e la guerra sono sempre paure) che freneticamente e angosciosamente tendono le mani verso la fiaccola della libertà. Seguivo i canti dell'internazionale, la lettura del testamento degli studenti cinesi, la cronaca dell' agonia. Sullo schermo si susseguivano come ferite al cuore le immagini di una fraternità mancata: quei giovani soldati mal si adattavano ad un servizio militare che dicono dovrebbe essere «per una sua natura, una cosa molto degna, molto bella, molto gentile». Pensavo che l'autentica guida di ogni uomo è la propria coscienza, la propria personalità la possibilità di vivere i propri ideali... ieri come oggi.
Nella vita di ognuno vi sono delle scelte decisive e categoriche, amore e disamore, in cui tutto di se stesso deve essere compromesso. Noi europei rimaniamo scandalizzati per quello che avviene oggi nell' Asia, in Africa, nell' America Latina ma cosa vi abbiamo fatto noi al tempo del colonialismo? Eppure in quegli anni bui e terribili - autentici massacri per una sete di potere e di ricchezza - vi furono degli uomini che dissero no con la parola e con la vita, ostinati non «piegarono costa» e scelsero la via della solitudine.
I giovani studenti cinesi in questa notte hanno risvegliato le nostre coscienze assonnolite ed hanno riacceso questa fiaccola della libertà zavorrata e affossata da troppe retoriche da inutili ghirlande e da vuoti discorsi celebrativi.
1889-1989... Un centenario, due uomini, due scelte di vita.

Reale filibustiere
E.D. Morel un uomo da non dimenticare per la sua purezza di cuore, nel suo lavoro di impiegato in una società di Liverpool apprese gli orrori commessi da re Leopoldo nel Congo: per renderli pubblici dovette sacrificare il posto e la tranquillità. Solo e testardo... a poco a poco sollevò l'opinione pubblica mondiale, a dispetto di tutti i governi europei, e riuscì ad imporre una riforma in Africa. Tutto il rispetto che si era guadagnato nel corso della sua azione umanitaria a favore degli indigeni congolesi lo sacrificò al pacifismo durante la prima guerra mondiale. Fu messo in prigione. Visse fino a poco dopo la formazione del primo governo laburista, dal quale Mac Donald lo escluse nella speranza di far dimenticare il proprio passato pacifista. Questo modesto e tenace campione dei diritti umani attirò l'attenzione dello scrittore M. Twain sulla questione del Congo: per l'umorista americano, innamorato della libertà ribelle contro la tirannia e ingiustizia, la santità delle capanne di una razza primitiva è, agli occhi di Dio, altrettanto inviolabile quanto quella di un palazzo principesco, anzi forse di più perché più debole.
Re Leopoldo II, personalmente e lui soltanto, è stato ed è l'amministratore del territorio congolese fin dal 1885. Sue tutte le facoltà legislative giudiziarie esecutive e finanziarie. Non ha controlli, non ha freni di alcun genere. Il suo governo è complice, il popolo belga ingannato gode di un benessere strappato dalla pelle dei poveri africani. Il personale coloniale è belga, burattini e ruffiani pagati dal re: obbedire o andarsene. Colpevoli e conniventi per molti anni di un vasto e criminale sistema di oppressione tutti hanno paura e approvano... fra questi un certo numero di sacerdoti cattolici ed il cardinal Gibbons. Il più alto indice di spopolamento provato direttamente o indirettamente dall' amministrazione di re Leopoldo ammonta a tre milioni di persone (su 15 milioni di abitanti) negli ultimi 10 anni. Gli indigeni ai missionari - considerati i soli amici che hanno - raccontano i propri guai, mostrano le cicatrici e le ferite inflitte dalla polizia coloniale. Uomini donne bambini alzano i moncherini e si lamentano di aver avuto le mani mozzate come punizione per non aver raccolto abbastanza gomma nella foresta. Villaggi bruciati, donne violentate o crocifisse, bambini uccisi col calcio del fucile per non sprecare munizioni. Tutto doveva essere fatto per spillare denaro, sempre più denaro... in cambio fame, terrore, disperazione, schiavitù massacro. Gli affari sono affari per questo re = dio senza spina dorsale pregato da milioni di sciocchi! «In fondo è proprio la razza umana che ci sostiene e ci protegge, a noi re. Essi sono il nostro amico sincero, baluardo, la fortezza nostra e per questo io sono loro profondamente grato... ma non li rispetto».
Questo re assetato d'oro disgusta, suscita disprezzo: la sua sete è assurda e oscena, fa vergogna. Ecco perché non fa cessare il cupo dramma di un popolo, non solo non restituisce agli indigeni i diritti sulla propria terra e sui prodotti della terra ma calpesta i loro diritti umani e la loro dignità umana ed intanto posa, re Leopoldo, da benefattore della chiesa, colonna della fede cristiana, mecenate delle arti e delle scienze. Lui ha solennemente dichiarato che la spinta principale alla sua impresa africana è stato il desiderio di promuovere la rigenerazione morale e materiale dell'indigeno congolese! Da questi enormi profitti segreti che egli trae dalla indicibile miseria dei negri sono costruite costose cappelle private, grosse somme di denaro vengono date ad alcuni ordini religiosi o devolute all'arte e alle lettere! Da un libro di testo scolastico:
«Durante la guerra del '70 seppe far rispettare la neutralità belga. Nel 1895 non si oppose alla riforma democratica della costituzione. Fu suo merito aver finanziato la spedizione e la colonizzazione del bacino del Congo (1884) e aver fondato il regno del Congo, prima sua proprietà privata, poi da lui ceduto allo stato belga come colonia nel 1889».

Sporco e ostinato
Contemporaneo e suddito di re Leopoldo lo era Damiano de Veuster nato a Tremeloo: ragazzo comune, religioso comune, un prete comune. Ma si assunse un compito che nessun' altro voleva: la cura di una colonia - prigione di malati di lebbra nell'isola di Molokai, nell' arcipelago delle Hawaii. Padre Damiano, missionario «un'anima ardente, una grande volontà, due occhi aperti e sereni, due braccia spalancate, due mani pronte, due orecchie attente, due piedi solleciti, ma specialmente un grande cuore; sì un cuore immenso, universale, umile, comprensivo ed amoroso, che si muove in un mare di sincerità; un cuore che piange, ride soffre e canta, una voce, una strada, un incontro un dono di Dio per l'umanità» (P. Celio).
100 anni fa a Molokai chi era colpito dalla lebbra, la malattia più terribile e infettiva del mondo, vi veniva inviato come forzato e vi viveva solitario e disperato. L'unico modo per bloccare la diffusione della malattia era quello di tenere i malati lontani dalla gente sana. Nessuno si interessava di ciò che accadeva ai malati, portati sull'isola: «lontano dagli occhi lontano dal cuore». I malati, strappati dalle loro case dalle loro famiglie e dai loro amici, si abbandonavano spesso al dolore e alla disperazione al punto che opponevano resistenza per non essere scaricati nelle barche che li traghettavano dalla nave all'attracco. Allora venivano lanciati fuoribordo perché raggiungessero la riva come potevano o annegassero.
Chi sbarcava trovava un mondo dominato dal principio satanico «in questo posto vale la legge del più forte» e non ci sarebbe stata una via d'uscita... se non la morte!
L'l1 maggio 1873 padre Damiano sbarca a Molokai. Aveva 33 anni, quello che vide lo riempì di terrore. Le persone erano sporche e sfigurate: in molti casi la malattia era avanzata e le mani e i piedi erano ridotti a monconi. Assomigliavano più a orribili fantasmi che a uomini e donne. Vi-sitando il villaggio il più difficile da sopportare era il terribile odore che emanava dalle capanne. Tutto era sporco e mal ridotto. La gente aveva perduto ogni amor proprio ed ogni speranza che le cose potessero un giorno cambiare. Padre Damiano non aveva niente. Non c'erano medicinali e non c'erano cure: aveva bisogno di tutto e diede inizio ad una lunga battaglia per cui sarà chiamato «l'uomo di Molokai che vuole sempre qualcosa e continua a scocciare finché non la ottiene». Mentre aspettava le risposte, faceva ciò che poteva con ciò che aveva a disposizione. Lavorava al doppio degli altri assisteva i fratelli e le sorelle li teneva per mano li confortava, li faceva sentire nuovamente esseri umani. Tutto questo per 16 anni... da solo. «Ci circonda delle sue sollecite e virili cure e costruisce da solo le nostre case. Quando qualcuno di noi è malato gli porta tè, biscotti e zucchero, e dà ai poveri di che vestirsi. Non fa distinzioni di religione».

Colpito dalla lebbra camminò su questo calvario per quattro anni... rifiutò fino all'ultimo di mettersi a letto, si faceva portare in giro per il villaggio su un carretto ma dava sempre consigli e incoraggiamenti col filo di voce che gli era rimasto, felice di vedere i suoi amici e i progressi che ve-nivano fatti. La sua morte il 15 aprile 1889 a 49 anni, fu silenziosa e tranquilla come di un uomo molto stanco e contento di sprofondare in un lungo pacifico sonno. Lo seppellirono sotto l'albero di pàndano dove aveva dormito la prima notte, quando ancora tutta la battaglia era davanti a sé. Uno sciograto ministro del culto, reverendo Hyde, scrisse su p. Damiano «la verità è questa; era un uomo rozzo, sporco, ostinato e bigotto». Così gli rispose L. Stevenson, il famoso poeta-autore dell'Isola del tesoro: «Sporco? Lo era, ma il pulito Dott. Hyde se ne stava ben pasciuto nella sua bella casa. Ostinato? Damiano era ostinato, credo che lei abbia nuovamente ragione; e io ringrazio Dio della sua ostinazione di testa e di cuore» .
...a due passi dal monumento delle paure, si proietta nel fosso della Burlamacca una lapide, non so se a onore e gloria del popolo viareggino, una lapide che dice:
«Il popolo a Guglielmo Oberdan morto santamente per l'Italia terrore e ammonimento rimprovero ai tiranni di fuori e ai vigliacchi di dentro. 1882»
100 anni fa: è tutto così attuale!

Rolando

Lettera ai cristiani di teologi, filosofi, storici

cattolici italiani

La lettera dei 63 teologi italiani, uscita sulla rivista «Il regno», quando ancora non si era spenta l'eco in Europa e nel mondo del dibattito sul documento di Colonia firmato da 163 teologi dell'Europa Centrale contro l'autoritarismo e il centralismo vaticano, ha suscitato reazioni più o meno sfumate nelle dichiarazioni della CEI, dei Vescovi interessati, dei settimanali diocesani, ecc.
Tra i firmatari del documento ci sono nostri carissimi amici di cui è nota la seria e rispettosa capacità di studio e di ricerca e l'autentica sete di Verità.
Nell'ultimo numero di questo nostro giornaletto ci auguravamo che la disciplina ecclesiastica fosse animata da tanta fiducia per poter esprimere un autentico spirito di comunione.
Dispiace dover dire che ancora siano tanto lontani da un atteggiamento simile. Non è tanto la reazione ufficiale negativa, i tentativi di vescovi «ben piazzati» nelle quotazioni CEI di utilizzare il loro carisma per «proteggere» i propri teologi senza peraltro prender posizione nel merito del contenuto della lettera.
Ancora di più dispiace dover constatare un giudizio che si fissa sui modi: «ah, se avessero colloquiato senza uscire sulla stampa!», senza entrare nel merito dello scritto.
Ed ancora, ancora di più dispiace che altri non abbiano firmato non per paura di perdere il posto, ma di rimanere isolati!
Di essere, cioè, evitati, non salutati, non più chiamati al servizio della parola nella realtà formativa pastorale.
Di avere il «vuoto» intorno.
Comprendiamo questa paura e condanniamo fermamente il clima irrespirabile che la produce.
Noi sappiamo per esperienza quanto sia dura questa solitudine, questo isolamento, questa "scomunica" sdegnosa e vigliacca perché non proclamata, ma semplicemente comminata spesso per ignoranza e pei piaggeria: solo perché hai osato essere te stesso.
Sappiamo quanto sia dura una vita che desidera il confronto e per risposta ha il deserto intorno: sole perché affronta con diritto cuore i problemi.
E mentre ci ripromettiamo di riflettere e di comunicare riflessioni sulle tematiche della lettera ai cristiani dei 63 teologi, manifestiamo la nostra solidarietà con tutti coloro che sono costretti a subire l'incomunicabilità di chi, per rimanere fermo nella «verità», rifiuta ogni dialogo.


Incontro con Ernesto Cardenal

Una sera ci ha telefonato un caro amico chiedendoci se eravamo disposti ad incontrare il giorno dopo Ernesto Cardenal. La sorpresa e la gioia fu grande. Conoscevamo la sua vita, avevamo pregato con i «suoi» salmi, cantato e recitato le sue poesie. Simbolo - per noi - di una rivoluzione di popolo infiammato di poesia.
Al mattino è venuto alla Chiesetta con un compagno ed una comune amica che lo stava accompagnando fuori del circuito delle manifestazioni ufficiali: come una piccola parentesi prima di ripartire per Managua.
Abbiamo trascorso una giornata insieme, passando qualche ora anche a Lucca, visitando antiche chiese, camminando lungo antiche e quiete strade.
Non abbiamo scambiato lunghi discorsi o riflessioni profonde. Poche parole semplici legate ai suoni, ai colori, alle forme, alle tecniche artigianali che permettono di render viva la materia.
Occhiate intense ed un abbraccio silenzioso e prolungato.
Ha voluto indicarci una poesia per «Lotta come Amore». La riportiamo nella pagina seguente come di consueto. E premettiamo parte della introduzione di Padre David M. Turoldo al poema che Ernesto era venuto a presentare nella sua versione italiana.
«Quetzalcoal è il mitico uccello della America Centrale, il principe dei volatili per sontuosità di colori e preziosità di piume, e occhio lucente e pensoso: appunto il dio degli uccelli, un'iride in volo.
Un dio che è veramente Dio per loro, il segno di Dio; il «Serpente piumato»: la terra che si alza verso il cielo; il segno della Dualità e dell'Unità insieme. «Terra che vola. Terra/era il Serpente/ divoratore di vitale datore di vita: Serpente/divino volatile uguale/a materia alata, sintesi/di cielo e terra... »
Tutto questo e altro. Quasi che lo stesso poema scaturisca dal bisogno di rispondere alla domanda posta nella prima stanza: «Ma quale Quetzalcoal? E ancora quale? Per quale/Quetzalcoal ci accorderemo/in così nodoso groviglio?»
Quetzalcoal chiamato «Stella Radiosa del Mattino» (appunto, come il Cristo dell'Apocalisse); e paragonato anche a Venere che arde nel cielo della sera; e appare e dispare. «E poi torna a riapparire a Oriente» (altra allusione a Cristo che deve tornare, lui stesso «Oriente», Sole che sorge ... ). Per fare solo qualche accenno alla ricchezza simbolica del poema.
E ancora Quetzalcoal è il «Dio del Vento»: Quetzalcoal «Il Duplice lddio:/Il Dio vero e la vera Sposa». Come la fede cristiana proclama: Dio, il padre e Dio, la divina Colomba. «E il figlio?» È a questo punto - uno dei molti momenti arditi - che Cardenal risponde: «È l'uomo!». Davvero: si può dire che è l'uomo, l'Ecce Homo, il vero uomo, la proiezione divina. Cioè si continuano le allusioni, dal mistero trinitario a tutta la creazione. Così di arditezza in arditezza, e sempre gioiosamente folgorati».

"E' stata la contemplazione a portarmi alla rivoluzione" E. Cardenal

Quetzalcoal

Quetzalcoal, il Serpente piumato.
Il Serpente dalle piume di quetzal
Serpente-quetzal:
Terra che vola. Terra
era il Serpente
divoratore di vita
e datore di vita: Serpente
divino volatile uguale
a materia alata, sintesi
di cielo e terra. Terra
che ascende, e cielo
che discende e s'interra
(Fusi insieme in vetta
alla piramide). Il rettile
che si erge astato
e uccello che plana: materia
che si inquarza di luce.
E luce che lotta: per novanta
giorni Venere non splende!
E poi duecentocinquanta
giorni arde nel cielo
della sera.
E poi per otto altri
lunghi giorni
che dispare!
Poi torna e riappare a Oriente
Stella del Mattino!
(E' forse la discesa
agli inferi?)
Quetzalcoal che scende
per otto giorni
nel regno dei morti.

Ernesto Cardenal

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