C'è un tempo per vivere e un tempo per morire
Don Primo Mazzolari (Cremona, 13 gennaio 1890 - Bozzolo (MN), 12 aprile 1959) è stato un prete, scrittore e partigiano italiano.
Le sue idee anticipano alcune delle grandi svolte dottrinarie e pastorali del Concilio Vaticano II. Sul piano politico i suoi atteggiamenti e la sua predicazione espressero una decisa opposizione all'ideologia fascista e ad ogni forma di ingiustizia e di violenza.
Dopo 1'8 settembre 1943, partecipò attivamente alla lotta di liberazione, incoraggiando i giovani a partecipare, fu arrestato e rilasciato. Dovette vivere in clandestinità fino al 25 aprile del 1945, per sottrarsi ai fascisti.
Nel 1949 fonda il quindicinale Adesso del quale sarà direttore. I suoi scritti attireranno le sanzioni dell'autorità ecclesiastica che porterà a chiudere il giornale nel 1951.
Se l'istituzione lo reprimeva con durezza, non per questo il messaggio di Mazzolari si spense. Gli echi della riflessione di Mazzolari sull'obiezione di coscienza si ritroveranno così nel mondo fiorentino di Ernesto Balducci, sino ai livelli politici di Giorgio La Pira e di Nicola Pistelli, e fino al punto più noto della "germinazione fiorentina", rappresentato nel 1965 dal don Lorenzo Milani di L'obbedienza non è più una virtù. Anche don Milani aveva collaborato con Mazzolari scrivendo articoli per Adesso.
Con la pubblicazione anonima di Tu non uccidere, nel 1955, Mazzolari attaccava a fondo la dottrina della guerra giusta e l'ideologia della vittoria, il tutto in nome di un'opzione preferenziale per la non violenza, da sostenere con un forte «movimento di resistenza cristiana contro la guerra» e per la giustizia, vista come l'altra faccia della pace. Al fondo c'era la nuova consapevolezza del significato dirompente della bomba atomica, che aveva cambiato il campo razionale entro il quale il realismo aveva potuto muoversi per giustificare l'extrema ratio della guerra.
"Voi inizierete con il rispetto." - scrive, in una parafrasi dei dieci comandamenti, Maurice Bellet in 'Passare attraverso il fuoco', editrice Servitium, pag. 147ss - "Non vi butterete di qui o di là, a seconda dell'umore, del potere che vi spinge, della moda, delle convenienze, della comodità. Resterete saldi, sulla roccia, inflessibili quanto alla verità e alla giustizia. Ma sarete coscienti che verità come giustizia non vi appartengono e che niente mi fa orrore quanto il fanatismo, l'odiosa confisca dei beni senza prezzo".
Il rispetto per una scelta di vita nell'accoglienza della morte mi ha portato a riprendere in mano scritti e documenti riguardanti Eluana, la sua morte e la difficile sofferta decisione di suo padre, E a riproporli qui, sul giornalino, scegliendone alcuni e offrendoli ai lettori come filo rosso di una riflessione che dovrebbe portarci, se non altro, ad una maggiore attenzione nei confronti di coloro (e sono tanti!) che sostengono che quando ci si trova di fronte a temi così importanti è la persona che deve decidere da sola o accompagnata dalle persone care e più vicine, dalla famiglia e non dallo Stato o da un medico.
Relativismo etico? Ma non c'è una sola etica giusta e le altre che sono prodotti di scarto. C'è piuttosto una pluralità di etiche e se vogliamo individuare una comune direzione di senso, non abbiamo altra scelta che quella del confronto e del discernimento condiviso: "Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale" (Gaudium et Spes n. 17). Chiediamoci piuttosto dove abbiamo sepolto quello spirito che dettò al Concilio Vaticano II le righe di apertura della Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo: "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore... Perciò essa (la Chiesa) si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia" (G. et S. n.l).
Un tentativo di lettura, diverso da quello imperante della Chiesa dei No di questo tempo così avaro di autentica spinta vitale, mi par che sia venuto, prima dall'incontro dei preti operai a Bergamo, intorno al 1° maggio, e dalla giornata dedicata al tema dell'idolatria: "L'idolo è nudo - Metamorfosi del capitalismo". Rimando per questo alla rivista "Pretioperai" (www.pretioperai.it) suggerendo di leggere la bella lettura teologica del momento storico attuale di Padre Felice Scalia.
A seguire, il 16 maggio, l'incontro a Firenze "Il Vangelo che abbiamo ricevuto". Componenti ecclesiali diverse hanno prodotto oltre 40 contributi diversi, leggibili per intero nel sito www.statusecclesiae.net insieme alla relazione di Pino Ruggieri sulla chiesa della fraternità e della sororità, che nella comunione e nella corresponsabilità attiva di tutti, eguali in dignità, si impegna in una lettura credente dei segni dei tempi, nell'ascolto della Parola viene introdotta dallo Spirito a tutta la verità e, dalla presenza del Signore nelle sue celebrazioni, trae forza per farsi compagna di tutti, a cominciare dai piccoli e dagli ultimi.
Chiudo questo numero nella seconda metà del mese di maggio: un tempo di gestazione fin troppo lungo, ma intrecciato a tanti gesti e incontri nel quotidiano che rendono viva la traccia degli interessi e della ricerca partecipata ad amici vecchi e nuovi. Dagli amici raccogliamo i contributi che troverete nell'ultima parte del giornale. Si tratta di libri. Il primo, di Franco Brogi è recensito da Maria Grazia Galimberti che lo ha ricevuto personalmente e ne dà conto.
Il secondo libro l'ho ricevuto da Tonino Drago: "Atti di vita interiore ovvero L'approfondimento nonviolento del nostro patrimonio di fede" (ed. Qualevita - Torre dei Nolfi, L'Aquila - dicembre 2008). Essendo centrato sull'insegnamento di Lanza del Vasto, ho ripreso da Wikipedia la "voce" che lo riguarda, per riproporre all'attenzione dei lettori quest'uomo che può darci una mano decisiva per "navigare" nelle acque disperanti della storia attuale. In ultima pagina un "ricordo" di don Primo Mazzolari. Gli anniversari (la sua morte 50 anni fa) sono occasioni per una memoria viva di una coscienza cristiana di un testimone scomodo. E che continui a scomodare le nostre coscienze irretite dai "serpenti" di oggi.
Un augurio a tutti quanti e un ringraziamento sincero a chi ha voluto aiutare questa semplice e povera pubblicazione.
Luigi
Ora che le luci impietose della polemica ad ogni costo sulla vicenda umana di Eluana e della sua famiglia si sono abbassate, possiamo ritornare sulla vicenda con rispetto e sincero desiderio di riflessione e di confronto. Che non vuol dire a cuore morto, ma con ancora tutta la passione che il tema della vita e della morte merita. Fino a cercare di entrare in quel canale oscuro che si può chiamare non vita: "Io lavoro in ospedale," - testimonianza di un infermiere riportata da M. Maraviglia in Koinonia 3/2009 - "e vedo queste persone di fatto morte, ma tenute artificialmente in una situazione di non vita. C'è qualcuno che non accetta l'inevitabilità della morte, eppure la cultura della vita comprende anche la serena accettazione della morte".
Per giorni e giorni abbiamo ascoltato parole urlate per confondere, imbrogliare, terrorizzare emotivamente perché si voleva far morire di fame e di sete una giovane donna inerme. Senza che fosse dato di capire quale sia la reale condizione di nutrimento di persone in quelle condizioni. Lo scrive, in una testimonianza sulla Gazzetta di Mantova don Roberto Fiorini, prete operaio: "Da oltre sette anni a casa mia assisto mio padre con sondino a permanenza e so bene che cosa questo signi-fica. lo stesso, che sono infermiere, dipendo dal buon cuore di un mio amico medico che viene da Verona quando occorre sostituire il sondino invecchiato. E so bene la fibrillazione che ti prende quando il sondino si ostruisce e devi ad ogni costo farlo diventare pervio, perché è l'unica via, una via artificiale, per introdurre le sostanze". E questa sarebbe una somministrazione "naturale", com'è naturale mangiare e bere?
Questa palese forzatura cerca di rivestire la "nudità" del tentativo di poter sconfiggere la morte attraverso le meraviglie di una tecnica sempre più invasiva per cui anche il solo prolungare la "non vita" può costituire, almeno in parte, una tappa decisiva verso questo traguardo.
Ma che significato possono avere vite ridotte a pura biologia è la domanda incombente su questa odierna tentazione. E a questa domanda non abbiamo risposte ultimative e convincenti e neppure "nessuna Chiesa, nessuna religione, spogliate da precomprensioni ideologiche, ha risposte ultimative e convincenti. Credo davvero che dobbiamo recuperare il senso del limite. Il limite della tecnica che non ci può costringere, se non vogliamo, a vivere vite artificiali"
(M. Meraviglia op. cit.).
In questa direzione tra gli scritti più chiari sulla vita e la morte, apparsi negli scorsi mesi sui quotidiani, abbiamo scelto quello di Enzo Bianchi in "La Stampa" del 15 febbraio 2009:
La vita è un dono e non una preda
«C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare» ammoniva Qohe1et, così come «c'è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per guarire... ». Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana - prima ancora che biblica - è parsa dimenticata.
Anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v'era chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano diversamente da lui. Da parte mia confesso che, anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare silenzio, anzi, soffrire in silenzio aspettando l'ora in cui fosse forse possibile - ma non è certo - dire una parola udibile.
Attorno all'agonia lunga 17 anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all'umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida - «assassini», «boia», «lasciatela a noi»... - senza pensare a Gesù che quando gli hanno portato una donna gridando «adultera» ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: «Donna \ neppure io ti condanno: va' e non peccare più»; non riuscivo ad ascoltare quelle urla minacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla «ladro, assassino!» al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristiano recitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con uno stile da manifestazione politica o sindacale?
Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione politica dell'agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio - offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili - e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un'etica superiore, l'etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile. L'abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore.
E avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va detto, anche nella Chiesa.
Da questi «giorni cattivi» usciamo più divisi. Da un lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall'altro un nichilismo che rigetta ogni etica condivisa fanno sì che cessi l'ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla barbarie.
Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi inascoltate.
L'Osservatore Romano ha coraggiosamente chiesto - tramite le parole del suo direttore, il tono e la frequenza degli interventi - di evitare strumentalizzazioni da ogni parte, di scongiurare lo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine. Eppure, di vita e di morte si trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o all'altro, a una cultura o a un'altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da viversi perciò soprattutto nell'amore: amore per chi resta e accettazione dell'amore che si riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso. Infatti la morte non è sempre quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmente come candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è «agonia», lotta dolorosa, perfino abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi è sempre più spesso consegnata alla scienza medica, alla tecnica, alle strutture e ai macchinari...
Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se stesso né può conquistarla con la forza. Nello spazio della fede i credenti, accanto alla speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a volte anche a fatica, di ringraziare Dio: «Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato... », Ma il credente sa che molti cristiani di fronte a quell'incontro finale con Dio hanno deciso di pronunciare un «sì» che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell' eucarestia, quanti hanno recitato il Nunc dimittis, il «lascia andare, o Signore, il tuo servo» come ultima preghiera nell'attesa dell'incontro con colui che hanno tanto cercato... In anni più vicini a noi, pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni Paolo II: due cristiani, due vescovi, due capi di Chiese che hanno voluto e saputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di Dio, facendo della morte l'estremo atto di obbedienza nell'amore alloro Signore.
Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la Chiesa può offrire anche a chi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull'ultimo nemico del genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno. La Chiesa cattolica e tutte le Chiese cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale, essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza deve mostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente.
Allora, da una millenaria tradizione di amore per la vita, di accettazione della morte e di fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli inediti interrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in cui vita e morte si incontrano. Così le riassumeva la lettera pontificale di Paolo VI indirizzata ai medici cattolici nel 1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un'inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piutto-sto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l'ora ineluttabile e sacra dell'incontro dell'anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita».
Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti non condividono la loro fede, affinché la società ritrovi un 'etica condivisa e ciascuno possa vivere e morire nell'amore e nella libertà.
La società italiana può ritrovare un'etica condivisa perché ciascuno possa vivere e morire nell'amore e nella libertà? Ci sembra che intorno all'appello che vede come primo firmatario il senatore Ignazio Marino, si possa manifestare un ampio consenso da parte di tutti coloro che hanno a cuore il tema del diritto alla libertà di cura:
Appello per il diritto alla libertà di cura (Rispettiamo l'Articolo 32 della Costituzione)
Il Parlamento, con molti anni di ritardo e sull'onda emotiva legata alla drammatica vicenda di Eluana Englaro, si prepara a discutere e votare una legge sul testamento biologico.
Dopo quasi 15 anni di discussioni, chiediamo che il Parlamento approvi questo importantissimo provvedimento che riguarda la vita di ciascun cittadino. Il Parlamento, dove siedono i rappresentanti del popolo, deve infatti tenere conto dell'orientamento generale degli italiani.
Rivendichiamo l'indipendenza dei cittadini nella scelta delle terapie, come scritto nella Costituzione.
Rivendichiamo tale diritto per tutte le persone, per coloro che possono parlare e decidere, e anche per chi ha perso l'integrità intellettiva e non può più comunicare, ma ha lasciato precise indicazioni sulle proprie volontà.
Chiediamo che la legge sul testamento biologico rispetti il diritto di ogni persona a poter scegliere.
Chiediamo una legge che dia a chi lo vuole, e solo a chi lo vuole, la possibilità di indicare, quando si è pienamente consapevoli e informati, le terapie alle quali si vuole essere sottoposti, così come quelle che si intendono rifiutare, se un giorno si perderà la coscienza e con essa la possibilità di esprimersi.
Chiediamo una legge che anche nel nostro Paese dia le giuste regole in questa materia, ma rifiutiamo che una qualunque terapia o trattamento medico siano imposti dallo Stato contro la volontà espressa del cittadino.
Vogliamo una legge che confermi il diritto alla salute ma non il dovere alle terapie.
Vogliamo una legge di libertà, che confermi ciò che è indicato nella Costituzione.
L'impostazione del problema sul testamento biologico come in questi ultimi tempi viene presentato in Italia dai vertici vaticani e della Cei è ampiamente divergente dalla posizione sopra sostenuta, ma è falso farne motivo di contrapposizione tra fronte laico e fronte religioso irri-mediabilmente divisi pro e contro la vita. Basta considerare quanto è stato elaborato nella vicina Germania. Le chiese cattolica e protestanti insieme, nei loro vertici istituzionali (card. Karl Lehman, Presidente della Conferenza episcopale tedesca, cattolico, e Manfred Kock, presidente delle Chiese Evangeliche in Germania) nel 2003 hanno pubblicato un secondo documento che rivedeva il precedente del 1999, nel quale tra l'altro si dice:
"Le vostre Chiese offrono a voi, loro membri, e a tutti coloro che sono attivi nel campo della sanità, un'assistenza pastorale. Questo vale in modo particolare per decisioni gravi sul finire della vita. Nulla deve rimanere intentato per rendere possibili alle persone una vita in pace, dignità e autodeterminazione fino al giungere della morte".
Perché, anche da parte cattolica in Italia, non guardare con fiducia e attenzione a quanto formulato in Germania attraverso un confronto e un consenso tra le diverse confessioni cristiane compresa la chiesa cattolica?
Disposizioni assistenziali-sanitarie del paziente cristiano con procura preventiva e istruzioni vincolanti per assistenza e cure mediche seconda edizione
L Disposizioni assistenziali-sanitarie del paziente cristiano
Per il caso in cui io non possa dare forma o esternare la mia volontà, dispongo quanto segue:
_ Non mi possono essere messe in atto misure intese a prolungare la vita se viene constatato, secondo scienza e coscienza medica, che ogni provvedimento per il prolungamento della mia vita è privo di prospettiva di miglioramento clinico e solamente ritarderebbe la mia morte.
_ In questo caso assistenza e trattamenti medici, come anche cure premurose, devono essere diretti al lenimento delle conseguenze del male, come p. es. dolori, agitazione, ansia, insufficienza respiratoria o nausea, anche se la necessaria terapia del dolore non esclude un accorciamento della vita.
_ Io voglio morire con dignità e in pace, per quanto possibile vicino e a contatto dei miei congiunti e delle persone che mi sono prossime e nel mio ambiente familiare.
_ Desidero assistenza spirituale. La mia confessione è.................
Spazio per disposizioni aggiuntive:
II. Procura preventiva
La procura preventiva riguarda esclusivamente il campo della salute. Altre disposizioni per questioni private, economiche e finanziarie in situazione di vecchiaia, malattia e morte non vengono trattate qui. .
Per il caso in cui io non possa più dare forma o esprimere la mia volontà do qui procura a rappresentarmi, quale persona di mia particolare fiducia, a:
Nome - Data di nascita - Via - Città - Telefono/Cellulare
La persona titolare della procura deve prendere in mia vece tutte le decisioni necessarie circa il mio trattamento sanitario e accordarsi con il medico curante. Di conseguenza ella deve tenere conto prima di tutto dei miei desideri e delle mie idee, come li ho esposti nelle Disposizioni assistenziali-sanitarie del paziente. Il procuratore/trice può esaminare la documentazione sanitaria e autorizzare la sua consegna a terzi. A questo scopo dispenso tutti i medici che mi assistono e l'altro personale non medico dall'obbligo del segreto professionale nei confronti della persona mia procuratrice.
Il mio procuratore/trice può rifiutare o fissare l'interruzione di singole misure mediche dirette all'analisi dello stato di salute, di interventi [chirurgici] e del trattamento terapeutico, anche se da queste risoluzioni dovessero seguire la mia morte o danni gravi o durevoli alla mia salute (§ 1904 Bùrgerliches Bundesgesetz - Codice Civile della Repubblica Federale Tedesca).
Il procuratore/trice può decidere sulla mia sistemazione in una Casa-ospizio o in un'altra istituzione con effetto privativo della mia libertà e circa misure [sanitarie] che mi privino della libertà (p.es,applicazione di cinghie toraciche e grate per il letto e somministrazione di medicinali), finché è indispensabile per il mio bene (§1906 Bùrgerliches Bundesgesetz - Codice Civile della Repubblica Federale Tedesca).
Procura suppletiva
Se la persona sopra nominata fosse impedita nell'esercizio del mandato, nomino al suo posto procuratore/trice:
Nome - Data di nascita - Via ~ Città - Telefono/Cellulare III. Istruzioni vincolanti per assistenza e cure mediche
Se fossero necessarie Istruzioni vincolanti per assistenza e cure mediche le Disposizioni assistenziali-sanitarie del paziente valgono in loro vece. Nelle Disposizioni ho definito ciò che desidero per il mio trattamento e assistenza. Per il Giudice tutelare esse sono vincolanti come espressione della mia volontà.
Come assistente deve essere nominato/a: Nome - Data di nascita - Via - Città - Telefono/Cellulare
Desidero che la seguente persona NON sia nominata: Nome - Data di nascita - Via - Città - Telefono/Cellulare
IV. Firme
Non sono pochi i credenti che hanno manifestato il loro disagio nei confronti delle posizioni vaticane e dei vertici dei vescovi italiani. A tutti coloro che si trovano stretti tra un rispetto formale e una posizione divergente della loro coscienza, ci pare possa essere di aiuto l'intervista concessa da mons. Casale, vescovo emerito di Foggia. Ci possiamo chiedere come mai su argomenti scottanti si discostino dalle posizioni ufficiali della Cei in genere solo vescovi emeriti, cioè vescovi che hanno rassegnato le dimissioni per raggiunti limiti di età (75 anni). Coraggio, frutto maturo della vita episcopale o disciplina "di partito" tra i vescovi che reggono una diocesi che si allenta quando arriva la pensione?
Ecco il testo dell'intervista pubblicata a cura di Roberto Monforte:
Non è assolutamente eutanasia
È lineare il ragionamento di monsignor Giuseppe Casale, vescovo emerito di Foggia. Con serenità ribadisce il suo punto di vista sul caso Englaro. Un punto di vista molto diverso da quello di altre voci anche autorevoli della Chiesa, per le quali non vi sarebbe dubbio, quello di Eluana è stato omicidio, eutanasia.
Eppure nella Chiesa c'è chi si dice sicuro che la sospensione di alimentazione e idratazione sia eutanasia...
«Molti medici ritengono che l'idratazione e l'alimentazione forzata siano un medicamento. Non si tratta di un dar da magiare o ." da bere, ma di nutrire medicalmente con un sondino, con una miscela o altro che servono a tenere il corpo in vita. È alimentazione artificiale. Se uno la rifiuta, lasciando che la propria vita vada avanti secondo quello che è il pensiero di Dio, la sua volontà e la natura, allora quello che rifiuta è l'accanimento terapeutico. Nel caso in cui non ci siano più prospettive o possibilità di una vita nuova, perché ormai la lunga degenza esclude questa ipotesi, si tratta di affidarsi al corso della natura. Non è assolutamente eutanasia. Affermarlo è forzare le cose. E dare seguito ad interpretazioni politiche esasperate e unilaterali, forzate con questo vizio d'origine. Ci rifacciamo tanto alla natura e alle sue leggi e in questo caso riteniamo che le sue leggi debbano essere violate? Diciamo che ci vogliono gli interventi tecnologici o biotecnici?».
Eppure la polemica monta nel paese. Non le pare che ci sia il rischio di una lacerazione profonda nella società?
«Dobbiamo lavorare perché si crei una nuova mentalità. Davanti alla morte di questa giovane creatura dobbiamo essere indotti a riflettere. A liberarci dai pregiudizi e dagli interessi di parte. Se dovessi dire il mio pensiero chiederei al Signore di tenermi in vita finché è possibile. Mi affiderei alla sua bontà. Aspettando che mi chiami. Non rinuncerei a seguire le cure che i medici mi consigliano, ma non vorrei trovarmi nella condizione di essere affidato a delle tecniche che prolungano artificiosamente la vita. Vorrei viverla ricca almeno di un rapporto con gli altri. Ho assistito molti ammalati terminali. Sino al momento in cui vi è possibilità di comunicazione con lo sguardo, con un canto, con un tocco della mano allora sì che c'è una comunicazione, che c'è la vita. Ma non è questo il caso che stiamo esaminando... ».
Il mondo cattolico protesta vivacemente...
«C'è stata tutta questa mobilitazione. lo che sono uomo libero rifiuto di farmi mobilitare».
Lei è una voce fuori dal coro...
«No. Sono nel coro che è la Chiesa cattolica. Sarò forse un solista. E i solisti mettono in evidenza alcuni aspetti della partitura. In questo coro io ho voluto mettere in evidenza un aspetto: quello della libertà della persona, quello della vita che è vita quando è fatta di relazioni, quello del rispetto della volontà anche quando non è espressa con un atto formale, come è stato per questa giovane donna che lunedì sera ha concluso il suo cammino. Rifiuto qualsiasi forma di "intruppamento", di mobilitazione, di crociata. Perché le crociate hanno lasciato brutti segni nella storia della Chiesa».
Come costruire il "dopo Eluana"?
«Evitando di cadere nel tranello dei marpioni della politica sempre pronti a tirare l'acqua alloro mulino. Non è giusto usare strumentalmente un caso così drammatico per fini che non sono neanche politici, ma di rivincita di un gruppo sull'altro. Dobbiamo avere la dignità di uno sguardo nuovo della politica che rispetti le persone, che vada nella direzione della "polis", la città al cui servizio noi siamo».
Come arrivare ad una legge sul testamento biologico che aiuti a definire il ''fine vita"?
«Attraverso un confronto che rispetti le etiche diverse e la libertà delle opinioni. In un regime democratico la libertà va costruita nel rispetto reciproco e nell'accoglienza delle varie esperienze. Soprattutto nel rispetto delle persone che soffrono. E non credo che Bettino Englaro abbia fatto quello che ha fatto senza passare attraverso una grossa sofferenza. Abbiamo il dovere di rispettarlo e lui ha il diritto al nostro rispetto e alla nostra amicizia».
11 febbraio 2009
"La vita è un dono, non una preda" Enzo Bianchi su La Stampa 15 febbraio 2009
"Appello per il diritto alla libertà di cura" sen. Ignazio Marino, primo firmatario.
"Disposizioni assistenziali-sanitarie del paziente cristiano con procura preventiva e istruzioni vincolanti per assistenza e cure mediche" (seconda edizione).
Intervista a mons. Casale, vescovo emerito di Foggia, a cura di Roberto Monforte.
Lessi la mia condanna - con fermezza -
La controllai con gli occhi,
per essere sicura di non aver fatto sbagli
nella clausola finale -
La data, il modo, della vergogna -
e poi la formula devota
"Dio abbia pietà" dell'anima
Fu il verdetto della Giuria -
Resi l'anima familiare - con la sua sorte -
perché non fosse, alla fine, un'agonia sconosciuta -
Ma così che lei e la morte, familiari l'una all'altra -
si incontrassero, con serenità, come due amici -
si salutassero, passassero, senza un cenno -
E a quel punto, la faccenda sarebbe stata conclusa.
Emily Dickinson "Silenzi"
Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (San Vito dei Normanni, 29 settembre 190 l - Elche de la Sierra, 5 gennaio 1981) è stato un filosofo, poeta e scrittore italiano. Nacque in un piccolo paese salentino, San Vito dei Normanni, nella masseria "Specchia di Mare", da famiglia nobile e molto antica. Lanza studiò al liceo Condorcet a Parigi, poi filosofia a Firenze e Pisa.
« La guerra di Abissinia già iniziava ed il mio rifiuto a parteciparvì era la cosa più evidente. E poi questa guerra non era che l'inizio: in seguito forse sarei stato ad uccidere inglesi, tedeschi e un giorno avrei avuto dinanzi alla mia baionetta Rainer Maria Rilke. No, la mia risposta era no.
"Ma che cosa è che rende la guerra inevitabile?", mi domandavo. Benché giovane avevo capito la puerilità delle risposte ordinarie, quelle che si rifanno alla nostra cattiveria, al nostro odio e al pregiudizio. Sapevo che la guerra non aveva a che fare con tutto ciò. "Certo, una dottrina esiste per opporsi alla guerra e la vedo nel Vangelo", dicevo, "ma com'è che i cristiani non la vedono? Manca quindi un metodo, un metodo per difendersi senza offendere. Un modo nuovo, diverso, umano di risolvere i conflitti umani".
Solo in Gandhi vedevo colui che avrebbe potuto darmi una risposta ed il metodo. »
(Pagni R., Ultimi dialoghi con Lanza del Vasto, p.50-5i)
L'incontro con Gandhi
In India, Lanza conobbe il Mahatma Gandhi, con il quale stette qualche mese, per poi recarsi in Himalaya. Durante il viaggio «conobbi le inquietudini sociali dell'India ed il suo metodo di liberazione, la non violenza, che era molto contraria al mio carattere (come del resto credo sia contraria al carattere di tutti). Nessuno è non violento per natura: siamo violenti e non proviamo vergogna a dirlo, anzi lo diciamo con un certo orgoglio. Ma ciò che non diciamo è che la vigliaccheria e la violenza fanno la forza delle nazioni e degli eserciti e la non violenza consiste nel superare questi due grandi motivi della storia umana» (Pagni, cit., p.5i).
In India trova «un'umanità simile alla nostra quanto opposta: qualche cosa come un altro sesso» (Lanza del Vasto, Pellegrinaggio alle sorgenti, p.82).
Il ritorno in Europa
Tornato dall'India dopo ulteriori peregrinazioni in Terra Santa, Lanza comprende che la sua vocazione è di fondare una comunità rurale non violenta, sul modello del gandhiano ashram, la comunità autarchica ed egualitaria che per il Mahatma doveva essere la cellula della società. Gli ci volle del tempo prima di riuscire a concretizzarla attraverso la fondazione della comunità dell'Arca. Tra le poche persone a cui gli riesce di esporre il suo progetto c'è Simone Weil, che incontra a Marsiglia, nel 1941. Nonostante il suo pacifismo, la Weil non nutriva molta fiducia nella nonviolenza gandhiana. Lanza gliene parlò e lei sembrò comprendere meglio. Poi parlarono della visione dell'Arca, che allora non si chiamava ancora così, ed era la prima volta che Lanza ne parlava con qualcuno: «Lei capì subito! "E un diamante bellissimo", disse. "Sì," risposi "è vero. Ha solo un minuscolo difetto: che non esiste". E lei: "Ma esisterà, esisterà, perché Dio lo vuole"» (Pagni, cit., p.58-59).
Negli anni successivi numerosissime iniziative nonviolente videro protagonista Lanza e i suoi compagni, che seppero attirare l'attenzione dell'opinione pubblica francese e non solo. La prima azione pubblica nonviolenta è del 1957, contro le torture e i massacri compiuti dai francesi in Algeria. Poi vennero le lotte contro il nucleare, la prima delle quali nel 1958: Lanza con i suoi compagni penetrano nel cancello di una centrale nucleare e vengono poi trascinati via dai poliziotti. Poi ancora la campagna contro i "campi di assegnazione per residenza", sorta di campi di concentramento per gli algerini "sospetti", e quella in favore degli obiettori di coscienza. Durante la Quaresima del 1963, tra due sessioni del Concilio Vaticano Il Lanza fece un digiuno di quaranta giorni compiuto nell'attesa di una parola forte sulla pace da parte della Chiesa. Poco dopo il trentesimo giorno, il Segretario di Stato consegnò a Chanterelle, la moglie di Lanza, il testo dell'enciclica Pacem in Terris: «Dentro ci sono cose che non sono mai state dette, pagine che potrebbero essere firmate da suo marito!» (ivi, p.99).
Franco Brogi, un caro amico diacono a Firenze, ci ha spedito un suo breve romanzo "Vae victis" di Aletti Editore.
Varie volte, in questi anni, Franco è venuto alla Chiesetta del Porto a passare una giornata con noi: quando per accompagnare una storica amica fiorentìna, Grazia Maggi, quando in compagnia della propria famiglia. Sempre ci raccontava del suo impegno nella Caritas, della pena di non riuscire a risolvere situazioni difficili, nel vedere ciclicamente riaffacciarsi tipologie di problematiche, come se non potessero essere sanabili.
In questo libro l'ho ritrovato in pieno: penso che decidere di scrivere per chi non è del mestiere, significa volere fortemente condividere idee ed impressioni. Ne scaturisce un racconto autobiografico nel quale alla trama si alternano una serie di riflessioni.
Il filo conduttore è la descrizione di una situazione universale: quella dell'eterno tentativo di rendere concreto il dono dell'amore che nasce in noi, "dono che deve fare i conti con le esigenze insopprimibili della natura umana" perché nell'uomo "l'unico bene che esiste è insediato e talvolta coperto dal male".
Le pagine sono la coraggiosa e umile descrizione del mondo del volontariato nel quale, spesso, ci si prende cura degli altri per prendersi cura di noi; si vuole dare amore e dedizione, mentre si è alla ricerca proprio di questi sentimenti per se stessi.
La storia di Marco, il protagonista, è quella di un uomo sposato e padre che a un certo punto della vita avverte un grande senso di vuoto. E consapevole di non avere mai avuto quella storia di amore e di intesa profonda alla quale anelava fin da bambino.
Per guarirlo dalla depressione, un anziano sacerdote gli suggerisce di fare del volontariato, trasformando in senso oblativo la sua inquietudine.
Ha inizio per lui una nuova vita, entra a contatto con il problema della marginalità degli immigrati, con le persone, i loro problemi, le organizzazioni piccole e grandi che se ne occupano.
Si interesserà soprattutto di giovani ragazze, con le quali intreccia rapporti molto intensi, riconoscendo in loro, in un gioco di rispecchiamento, "il medesimo bisogno insopprimibile a ricevere affetto ed accoglienza".
In questa nuova stagione della sua vita, accanto alle ore spese in vari compiti e al denaro offerto per fare fronte alle situazioni più disparate, Marco passa attraverso quella educazione sentimentale che gli era mancata.
Il cuore batte e lui si deve misurare con la propria realtà di uomo fatto e sposato che avverte una forte attrazione per le giovani ragazze che la vita gli fa incontrare. Qualcosa, per lui, sembra costantemente fuori tempo e fuori luogo, eppure, anche se sono briciole di esistenza strappate, quei rapporti, quegli innamoramenti danno finalmente un senso alla sua vita.
Ma accanto a questa particolare esperienza, prende forma in lui un'altra esperienza amorosa, questa volta legata all'avventura di un Amore che si affina, allontanandosi dal possesso per approdare alla terra del servizio.
Col tempo la pena per l'altrui vivere diventa più importante dei sentimenti da eterno ragazzo che gli agitavano il cuore ed alla fine prevale su tutto un senso profondo di pietas, un afflato profondo che lo spinge a donare senza più il bisogno di trattenere, fino all'ultimo respiro.
Maria Grazia Galimberti
Luigi Sonnenfeld
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