Questo secondo numero del giornalino del 2008 è interamente dedicato a "Una zolla di terra", libro che don Sirio scrisse nel 1962 e che è stato ristampato quest'anno - nel 20° anniversario della morte - per una nuova diffusione. Una "vecchia" idea, questa della ristampa di Una zolla di terra. Tant'è vero che il consenso di Rienzo Colla - editore del libro nel segno de La Locusta - che ha permesso questa ristampa, fu chiesto da don Beppe, quando, morto Sirio, cercavamo di rimettere in circolo i suoi libri ormai introvabili.
Ma avevamo già allora ben chiara l'intenzione di ristampare il libro, non solo per un atto celebrativo di omaggio, ma per un tentativo di diffusione di un "messaggio" che ci aveva colpiti e coinvolti in gioventù: la traccia di un lasciarsi mangiare dalla vita, perdendovisi dentro per un viaggio al centro di se stessi, e insieme dell'universo, nella dimensione e nell'infinita energia di Dio. Raccontato nei tratti antichi e sempre nuovi della contemplazione del mistero. Le pagine seguenti sono state curate da Maria Grazia Galimberti che ha condiviso con Sirio la vita nella Comunità di Bicchio e alla Chiesetta del Porto. Si deve a lei anche la pubblicazione di "Paso doble per la pace" (ed. Servitium), un commento sapiente a tre articoli scritti da Sirio sul tema della Pace con una introduzione che è il racconto caldo e appassionato di come lei lo ricorda. Ed è lei la curatrice di "Una zolla di terra", ed. Dehoniane. Con questo numero concludiamo un anno di memorie ancora intensamente vive e insieme facciamo i conti con la realtà: dal prossimo anno l'amministrazione postale impone nuove norme per l'invio in abbonamento postale, e non so se potremo garantirne il rispetto. Il proseguire questa piccola pubblicazione a volte appare velleità tale da non giustificare l'impegno di soldi e di energie.
In ogni caso ve ne daremo cenno e ci salutiamo, quindi, con la fiduciosa speranza di incontrarci di nuovo prossimamente.
Vi auguro ogni bene.
Luigi
Vogliamo dedicare questo numero del giornalino, il secondo ed ultimo del 2008, a «Una zolla di terra»: si tratta del primo libro scritto da don Sirio Politi che è stato ripubblicato quest'anno dalla Dehoniane, su iniziativa della diocesi di Lucca.
Pensiamo valga la pena parlarne per tratteggiare, seppure a volo d'uccello, il profilo storico dell'epoca, ricordare cosa si muoveva nel mondo cattolico preconciliare e indicare alcune tematiche che don Sirio sviluppa nel testo, per fare almeno un primo punto in questo 2008, a venti anni dalla sua morte, sulla sua vita e sul suo pensiero.
L'occasione c'è già stata l'anno passato, quando è uscito «Paso doble per la pace» una raccolta di suoi scritti sulla pace che ho scelto e curato per l'editore Servitium. Ma adesso, che a pochi mesi di distanza viene riproposto un altro suo testo - questa «Zolla di terra» che ho molto cara perché ha dato modo a me e a molte altre persone di incontrarlo -, rinnoviamo l'impegno.
Il testo si inserisce fra i molti contributi che dalla fine della guerra all'inizio degli anni '60 arricchiscono il mondo cattolico e preparano il terreno al Concilio Vaticano II. Eppure, è unico nel suo genere perché, come scrive Luisito Bianchi nella prefazione, «mi domando se Una zolla di terra non sia la prima opera di una cosiddetta "spiritualità di prete operaio" in tutta la storia dei preti operai, non dico italiani, ché questo è evidente, ma anche francesi. La mia è un'affermazione paradossale perché il libro si caratterizza per un avvenimento [la vita di cantiere, ndr l che non viene mai nominato in tutto il succedersi delle sue fitte e dense pagine. Come è paradossale parlare di spiritualità dei preti operai alla stessa stregua ad esempio, di spiritualità benedettina, o francescana [ ... l. Ma sono convinto che un prete, appassionato come don Sirio, per resistere in cantiere nell'assoluta fedeltà alla chiesa, aveva bisogno di immergersi nei gorghi di pensieri che hanno del mistico di fronte all'ineffabile, seppure appartengono a un contesto di carne e di sangue.».
A proposito della sua esperienza di prete operaio e di quanto essa costituisca la materia fondamentale del libro, don Sirio annota nella prefazione: non so se sarà possibile e utile farne anche un racconto di avvenimenti, di fatti, di cose e di persone. Adesso mi è sembrato più vero e sincero scriverne la storia interiore, quella che sta avanti ai fatti e alle cose, prima della vicenda umana, perché già tutta chiusa e nascosta dentro il Mistero di Amore di Dio.
Inizia a scrivere nel '58, in un ritiro a Camaldoli. Sono appunti nei quali riversa la gioia di vedere la verità aperta e distesa in tutta la sua magnificenza e, accanto, il buio della storia umana dove la luce nasceva come l'alba al di là dal crinale dei monti. Spesso gli pareva che scrivere fosse come un cantare, con una voce fatta di esistenza. E sul filo conduttore della «voce»e del «suono» che formano un tutt'uno con un esistere ancora indifferenziato, torneremo più avanti.
Un'avventura editoriale
Finito di scrivere il testo, parla dell'intenzione di pubblicarlo con il suo vescovo, Mons. Bartoletti, che lo consiglia di farlo leggere al professore di dogmatica del seminario. Pochi giorni più tardi hanno un incontro durante il quale il professore gli dà alcuni suggerimenti. Annota: se il libro verrà stampato sarò felice di vedere pubblicato qualcosa che è un mio sogno e spero, almeno in parte, contenga qualcosa del sogno di Dio.
Siamo nell'ottobre del 1960, don Sirio invia il dattiloscritto all'editore Rienzo Colla che a Vicenza aveva creato La Locusta1, una casa editrice coraggiosa e aperta che pubblicava libri di spiritualità, saggistica e poesia dalla grafica essenziale ed elegante. L'editore accolse volentieri la proposta di pubblicare il libro. D'altronde, proprio quell'anno, edita il testo più completo uscito in Italia sull'esperienza dei preti operai francesi, con contributi di tutto rilievo: basti citare il cardinale Suhard, padre Voillaume, Michel Favreau - prete operaio poi morto in un incidente sul lavoro - e Primo Mazzolari.
Pochi anni più tardi, siamo nel 1965, Colla pubblicherà sullo stesso argomento un testo «Preti operai al Concilio» che raccoglie due testimonianze: la lettera di 15 preti operai al Concilio - sono gli insoumis, coloro che decisero di rimanere operai ed abbandonare il sacerdozio di fronte al diktat della Chiesa o preti o operai - e alcune pagine di diario di un prete operaio italiano che racconta la sua sofferenza nel lasciare il lavoro per potere rimanere prete. Il testo non è firmato, ma l'autore è don Sirio.
Il filo del tempo
Lo sfondo storico sul quale si colloca la storia personale di don Sirio Politi e di questo piccolo libro è di poco antecedente gli anni '50: siamo nell'immediato dopo guerra, un crogiuolo incandescente nel quale la vita, libera finalmente di espandersi e costruire, prendeva forza, mentre in parallelo si consolidava l'impegno di uomini ed istituzioni perché quanto era avvenuto non si ripetesse2. Eppure, la forza dell'istinto vitale e quella della Ragione non bastavano a sanare le ferite sofferte. Maria Zambrano, la grande filosofa spagnola costretta all'esilio, affermava proprio in quegli anni, siamo nel '49, che per avvicinare l'uomo, per guarire il suo cuore occorre la Pietà. La definiva il più gigantesco dei sentimenti, «il più ampio e profondo, quasi la patria di tutti gli altri.» 3.
E da questo sentimento che in Italia fioriscono un certo numero di realtà, preziose perché del male patito riescono a fare occasione di bene, generando nuove dinamiche che intendono attraversare la storia, sanando la. Si assiste alla nascita di un amore capace di riparare, di riempire i vuoti, di essere presente nelle tante situazioni che sembrano essere ormai sfuggite al controllo degli uomini.
Nel '45, un dinamico prete irlandese che abitava a Roma, padre Carroll- Abbing, fonda la «Repubblica dei ragazzi di Civitavecchia», alla quale seguirono molte altre opere simili, sempre progettate da lui; nel '46 don Gnocchi decide di occuparsi dei mutilatini (14.000 minori, danni collaterali del conflitto... ) sostituendo lo Stato, troppo impegnato su altri fronti; nel '47 Don Milani viene ordinato sacerdote e si preoccupa subito di fondare una scuola per operai e contadini, nel '52 pubblica «Esperienze pastorali»; nel '48 nasce l'avventura di Nomadelfia, "dove la fraternità è legge", nella quale don Zeno Saltini raccoglie giovani abbandonati e piccoli orfani; nei primi anni anche Padre David Turoldo si unisce a lui.
Accanto a queste iniziative che si assumevano la piena responsabilità di un sentire paterno e materno concreto e allargato, una brezza nuova soffiava lieve e vivace nel mondo cattolico.
Gli anni della germinazione
Nel mondo dell'Azione cattolica e della Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Giac) vi è fermento: nel 1946 Carlo Carretto ne diviene presidente e porta la ricchezza della sua straordinaria energia, nel 1949 chiama accanto a sé Arturo Paoli che arriva a Roma da Lucca, nominato vice assistente della Giac. I successi dell'associazione aprono la strada a vivi contrasti con la gerarchia cattolica sul tema dei rapporti con la vita politica, soprattutto dopo la inaspettata vittoria della DC alle prime elezioni. Seguono anni tesi, di contrasto e insieme di ricerca, Carlo Carretto nel 1953 si dimette in polemica con chi cerca di imbrigliare la sua azione; l'anno seguente, insieme al gruppo dirigente, Arturo Paoli viene destituito. Ambedue, per cammini diversi, entreranno a fare parte dei Piccoli Fratelli di Gesù.
A Genova, Nando Fabro e Katy Canevaro avevano dato vita nel 1946 a un movimento «Il Gallo», dal quale si originerà l'omonimo mensile aperto ai lontani. Nello stesso anno a Firenze esce la rivista «L'Ultima», contraria a contaminazioni fra fede e politica, mentre a Milano Padre Turoldo e Padre Camillo Piaz danno vita al vivace, prezioso spazio della «Corsia dei Servi». Fra le nuove testate impegnate nella cultura del dialogo, spicca il quindicinale «Adesso» di don Mazzolari, fondato nel '49.
A Firenze, nel 1951, la Pira inaugura un nuovo modo di amministrare la città, partendo dal Vangelo; ha il coraggio, nel '52, di invitare i rappresentanti culturali di 49 nazioni a partecipare a Firenze a un convegno sulla pace e la civiltà cristiana, gli incontri, che ebbero una vasta eco, si ripeteranno ogni anno fino al '56; ad essi si affiancheranno i "Colloqui mediterranei". Nella stagione della ricca germinazione fiorentina, troviamo anche padre Balducci, lo scolopio che nel '50 fonda l'associazione "Il Cenacolo", dove accanto all'assistenza ci si occupa di problemi politici, sociali e spirituali. Molti dei collaboratori passeranno a formare la redazione di "Testimonianze", la rivista fiorentina che Balducci fonda nel '59 e che sarà punto di ispirazione per la crescita di un dibattito in seno alla Chiesa.
Attraversare i confini
In parallelo a queste novità, cresce nella società civile la sensazione che i rapporti umani non debbano più essere chiusi fra confini che separano; che la vita può rinnovarsi solo a patto di esprimere a pieno titolo la propria complessità. Riprendono vigore gli ideali socialisti di una fratellanza che intende superare le divisioni di classe.
In campo cattolico si accentua sempre più l'esigenza di una maggiore attenzione ai problemi sociali e, per i più sensibili, di un ritorno alle origini del cristianesimo. In Francia, Père Voillaume4 dà vita nel '47 a un'esperienza di religiosi che vanno a vivere «poveri fra i poveri», prendendo il nome di Piccoli Fratelli di Gesù.
Ma già in piena guerra, nel 1941, il cardinale Suhard di Parigi, consapevole della scristianizzazione del Paese, aveva dichiarato la Francia «terra di missione», da convertire attraverso l'opera di sacerdoti e laici che, scavalcando i muri che separano, andassero ad operare nei quartieri popolari, condividendo con gli abitanti vita e lavoro.
Nel frattempo, la pesante esperienza dei campi di lavoro e di quelli di prigionia in Germania induce una parte del clero francese a riflettere sulla nuda realtà umana che tutti accomuna e che appare evidente quando spariscono le sovrastrutture.
Essere «come loro»5 diventa un'esigenza irrinunciabile, dove loro significa gli umili, i poveri, coloro che non contano. Da qui prende vita l'esperienza coraggiosa dei preti operai che salda la realtà della Chiesa alla classe operaia, quel proletariato che da più di un secolo tenta di emergere e definire la propria identità.
Dalla Francia il movimento passa in Italia con don Borghi6 a Firenze e don Sirio Politi7 a Viareggio. Siamo nel 1954 quando don Sirio si reca a Marsiglia per prendere contatto con Père Voillaume e con i preti operai che lavoravano nel porto della città come scaricatori. Più tardi si recherà anche in Provenza, a Bollène, per conoscere il gandhiano Lanza del Vasto8, che di ritorno dall'India aveva fondato l'Arca, una comunità agricola non violenta.
Storia di un viaggio interiore
Si tratta di un periodo ricco di incontri e di fervore: è ormai passato un decennio dalla fine della guerra e quella forza di amore alla quale abbiamo accennato, continua a lottare per esprimersi ed essere espressa. Chiama a gran voce uomini e donne, offrendo loro la possibilità di consentire. Le storie più ricche e varie si intrecciano e portano nuove sfaccettature di vita in un mondo già in movimento. Fra esse, fra le tante, vi è quella di don Sirio.
Giovane parroco a Bargecchia, un paese delle colline versiliesi, è aperto a quanto si muove al di là del suo stretto orizzonte. Viene attirato da coloro che parlano un linguaggio nuovo, che hanno attraversato confini geografici e sociologici e posto la loro tenda fra i più bisognosi. Da qui comincia la recherche di don Sirio. E un viaggio reale: un andare che ha il suo fulcro nel movimento dall'Italia verso la Francia, compiuto più volte; ma anche Roma è luogo di incontri: lì nella borgata Prenestina si apre nel '53 la prima fraternità delle Piccole Sorelle di Gesù9, destinata ad essere per lui spazio di confronto serrato su come trasformare la sua vocazione. Altro luogo presso il quale si reca di frequente è la Domus Pacis, dove si incontra con Carlo Carretto e altri amici per leggere insieme «Come loro» fresco di stampa. In seguito, si sposta dalla collina verso il mare di Viareggio.
Ma vogliamo precisare che il suo è soprattutto un viaggio interiore: la risposta a quell'invito a lasciarsi invadere e cambiare, per diventare espressione di una Forma amorosa che in lui non ha ancora mostrato intero il suo volto.
Il tema dell'andare
«Una zolla di terra» narra la trasformazione che accade in lui in quegli anni: non i fatti esteriori, ma la visione che andava acquistando forma, il suo bisogno di lasciarsi prendere da Dio mentre cammina gomito a gomito con gli umili che affollano le strade.
Una zolla di terra significa il luogo dove vivere, la stabilità, la radice, il paradigma dell'intero universo. A questo titolo don Sirio era molto affezionato, al punto da cercare con cura una frase da mettere all'inizio, che lo riecheggiasse: alla fine sceglie le parole di un autore greco contemporaneo Nikos Kazantzakis «Chi lotta e soffre su una zolla di terra, lotta e soffre su tutta la terra»...
Eppure... questo libro non parla di stabilità, narra un movimento, un andare alla ricerca. Lungo le pagine, il tema dell'andare si sussegue come un'onda: ho tanta nostalgia per gli antichi pellegrini, dovevano avere la voglia di essere nell'universo intero. La gioia del camminare e camminare sperduti in perfetta libertà. Il bisogno di abbandonarsi, lo spinge a sentire ogni angolo della terra come un confine e oltrepassarlo con la gioia della libertà che dal particolare entra nell'universale, dal finito si perde nell'infinito. Finché, tornato piccolo e animato dalla gioia dell'Amore del cuore, scopre che se il camminare e camminare alla ricerca del mistero, in superficie e negli abissi è fatto in serena libertà, si arriva alla porta misteriosa delle novelle antiche che si apre solo al suono di magiche parole. Allora, la fatica si tramuta in gioia di entrare lungo un filo irreale, dove realtà diverse si sfiorano e le sentiamo accanto. Lungo questa linea considera perfino la morte come conclusione, come punta estrema, come attuazione del camminare verso il compimento completo, perfetto di sé. E salire la vita, salirla ad ogni passo, fin sulla cima, seguendo ogni giorno richiami scoperti nell'intimo del cuore, ascoltati nelle profondità dell'anima.
La voce degli uomini
Il bisogno incessante di un andare che lo ha portato a perdersi nel mondo di Dio, lo spinge anche verso quello degli uomini, altra tematica sempre presente. Occorre camminare in silenzio, facendo il vuoto in noi perché un'altra parola sia possibile. Bisogna abituare il cuore ad udire le voci del filo d'erba, ma in modo speciale il richiamo della solitudine e della pena degli uomini. Vi è un mistero di smarrimento e di paura inesprimibile che agita sordamente i cuori, fino a somigliare alle correnti nelle profondità del mare che con cupo brontolio vanno a frangersi sugli scogli.
In quegli anni, emerge in lui una capacità di sintonia singolare, quasi originaria e fuori dal tempo. Le voci e i richiami che il suo cuore impara a distinguere, paiono riconnettersi a quel mondo pre-verbale descritto dalla Cavarero10, abitato da suoni che «formano un intrigo di esseri unici che si rivolgono l'uno all'altro, che si espongono reciprocamente, stanno in prossimità, si invocano, comunicando non dei contenuti, ma semplicemente la radicale prossimità del proprio comunicarsi», perché appartengono a una dimensione dove prevale il bisogno di relazione, quello di ascoltare e di rispondere alla chiamata pressante. Fra quei suoni, don Sirio distingue chiaramente - tanto da sentirli risuonare dentro di sé - i richiami che vengono dal deserto, dai lati di una strada asfaltata, dentro il tormento delle fabbriche, nella buia disperazione delle miniere, sulle distese del mare, nella solitudine dei campi, negli alveari delle città, dove tutti cercano qualcosa. Allora sente il bisogno di aprirsi alla voce di ognuno per comprenderne il mistero, di raccogliere ogni parola capace di narrare, ma soprattutto quelle rivolte a Dio, mormorate o gridate per Lui. Non le preghiere... ma le parole inespresse, quelle che rimangono nascoste nel cuore. La parola della carne e del sangue. Dell'anima esiliata e schiacciata dal peso della terra e del tempo, dalla stanchezza e dal vuoto di ogni speranza. La parola della gioia in pena perché è troppo poco un momento. Chi potrebbe dire: tu non hai niente a che fare con me?
Ricorrono spesso, nel primo capitolo, i termini "voci, suoni, parole": sono di carne e di sangue, indistinti, appartengono a un mondo di relazioni, di prossimità fisica, di pluralità al quale si accede mettendosi in ascolto profondo, rinunciando a se stesso. Il mondo materiale che ha scoperto, quello del duro lavoro, della fatica, dei corpi stanchi, lo sollecita ad aprire i cinque sensi, ma qui soprattutto l'udito. E il suono più che il concetto che sembra muoverlo, è la dimensione del con-fuso, dove coesistono perfettamente l'unicità e la comunione. Emmanuel Lévinas nei suoi Saggi sul giudaismo, affrontando la critica alla centralità del Logos, annota che non dobbiamo più insistere sul che cosa del Detto, ma interrogarci sul chi del Dire. Allora, scrive, nasce «un contatto, un dovere senza fine, una reciproca responsabilità - un dire ancora indifferente al detto, che dice se stesso nel dare»; d'altronde non scriveva don Sirio, mentre a Camaldoli stendeva le prime pagine di questo libro, che voleva cantare, con una voce fatta di esistenza?
.. e quella del creato
Nuovamente è la voce a fargli da filo conduttore alla scoperta di un senso di fratellanza universale. O meglio, come sempre, ancor prima della voce, il suono: e le pietre e gli alberi e l'acqua dei fiumi e le nuvole del cielo e il vento impetuoso e la distesa del mare e le stelle che tremano lassù... mi parlano sommessamente, con dolcezza. Nel silenzio che ha fatto dentro di sé, è possibile lasciarsi raggiungere da tutte le forme di vita. La materia intorno a don Sirio sembra animarsi, spinta a rivelare la sua anima, quell'intima essenza che gli artisti, gli innamorati e i santi di ogni tempo hanno saputo cogliere.
Inizia un nuovo Cantico delle creature che vogliono tutto comunicargli, mentre lui si lascia coinvolgere dal loro effondersi. Fra loro l'intendersi è quello dell'anima: avverte la vibrazione dell'universo che non sa come esprimere in parole l'armonia delle sfere celesti: loro non conoscono le parole di amore e mi chiedono di colmarle del mio, infatti solo l'amore può parlare all'Amore. Allora divento l'adorazione del mondo, dell'universo, sono questa adorazione vivente: una corale perfetta che sale a perdersi in lode infinita davanti al Trono di Dio.
Trovare parole per esprimere il Creato (il luogo stesso del per-l'altro) è il punto più alto della comunione alla quale è arrivato: come un soffio, il respiro dell'amore passa dall'uno all'altro, da Dio a lui, da lui alle creature per tornare a Dio. Che sia l'amore diafanico del quale parla Teilhard de Chardin, quello che ci attraversa quando ci siamo resi trasparenti, che ci possiede: è di Dio e nostro, teologico ed antropologico insieme?
L'anello si chiude
Una caratteristica di questo viaggio esemplare è la passione che lo abita, non solo quella alta che guida il protagonista, anche quella confusa, eccessiva che deborda. Ricordo che don Luisito, quando lesse il libro la prima volta, rimase disorientato dall'affastellarsi del racconto, dall'empito del comunicare. E ne aveva ben donde, perché la passione porta sempre a sbavature, è troppa cosa: è, secondo la Ragione, difettosa.
Ebbene, questa passione sfilacciata, concreta, umile, ce lo rende più caro perché ravvisiamo don Sirio come uno di noi, pienamente umano.
Chi era don Sirio, un pensatore, un artista? Credo fosse un uomo di preghiera e un semplice artigiano: colui che tiene insieme la mano, la mente e il cuore e che, pur consapevole di essere una piccola cosa (una piccola pietra - amava dire - alla quale erano state date ali per volare), si era abbandonato a un sogno di amore. Ho conosciuto il creato e le creature, si è aperto il velo che copre li cose, si è svelata la sostanza segreta, delineato il volto dell'anima, venuta alla superficie l'esistenza nascosta... È il campo, questo mondo, che nasconde il tesoro: bisogna affondare le mani nella terra, gettar via i sassi e le pietre e forse lasciarsi mangiare le unghie dalle zolle indurite. Dopo, scoperto il tesoro, correre a casa e vendere tutto per comprarlo ed essere ricchi soltanto di quello. Lo so e sempre più lo capisco che cercare e trovare l'Amore di Dio vuoi dire offrirsi a sofferenza infinita, ma non posso e non voglio opporre un rifiuto.
(1) Punto di riferimento vivace del mondo cattolico di quegli anni, la piccola casa editrice è stata fondata a Vicenza nel 1954 e ha pubblicato 310 titoli.
(2) La nascita delle Nazioni Unite, i processi di Norimberga, la nuova Costituzione italiana con il suo solenne ripudio della guerra..
(3) Per una storia della pietà, Maria Zambrano, Cuba, 1949
(4) René Voillaume si consacrò all'eredità spirituale di Charles de Foucauld. I religiosi da lui fondati trovano il modo di vivere di contemplazione nel cuore delle masse, come recita il titolo di un suo fortunato volume, uscito in Francia nel 1950.
(5) "Come loro" (ed. Paoline) è il fortunato titolo che la traduttrice, Vanna Casara, sceglie per il volume "Au coeur de masses" di Padre Voillaume, uscito in Italia nel 1953. Si tratta di una raccolta delle lettere che Voillaume periodicamente indirizzava alle fraternità.
(6) Don Bruno Borghi, classe 1921, entra a lavorare nelle fonderie della Pignone, a Firenze nel 1951, col permesso del cardinale Della Costa.
(7) Nato a Capezzano Pianore nel 1920 e morto a Viareggio nel 1988, inizia a lavorare nel cantiere Picchiotti a Viareggio nel 1956, col permesso del vescovo A. Torrini
(8) La lettura di "Pèlerinage aux sources" spinse don Sirio a volere conoscere di persona Shantidas, come Gandhi aveva soprannominato Lanza del Vasto, l'apostolo della nonviolenza in Europa, scrittore, poeta, pellegrino instancabile.
(9) Le Piccole Sorelle di Gesù vengono fondate da Magdaleine Hutin nel 1939, anch'esse, come i Piccoli Fratelli, sulle orme della spiritualità di Charles de Foucauld. Nel '54 due giovani parrocchiane di Bargecchia, con le quali don Sirio aveva condiviso una profonda ricerca spirituale, entrano nella fraternità italiana con il nome di P.S. Giulia e P.S. Maura
(10) A più voci, Adriana Cavarero, Feltrinelli, 2005
"Se la mia vita fosse povera mano protesa, aperta e concava per raccogliere anche una sola lacrima che cade, basterebbe forse per la gioia di non essere vissuto per nulla."
don Sirio
Maria Grazia Galimberti
La mia profonda amicizia con don Sirio è documentata in un libro sulla famosa crisi della Azione Cattolica, ai tempi del pontificato di Pio XII "La Gioventù Cattolica in cammino" dello storico Francesco Piva. Contiene una lettera trovata nell'archivio di Mons. Montini, nella quale io, in un momento particolarmente drammatico della mia vita, gli manifestavo l'impossibilità di sopportare ancora la situazione romana e l'enorme sofferenza che mi provocava. Gli raccontavo che l'unico sollievo era rifugi armi presso un grande amico con il quale condividevo le idee, gli ideali, i sogni: quell'amico era il parroco di Bargecchia di quel tempo, Sirio Politi.
Credo che basti questa lettera - che oggi è apparsa anche nel mio libro "Vivo sotto la tenda" - per dimostrare quale affetto mi legasse a Sirio Politi. E non era solamente l'affetto di confratello per un comune ruolo nella chiesa, era soprattutto l'affetto per una comunione di ideali, di sogni, di speranze.
Eravamo tutti e due molto motivati da un famoso libro "Au couer de masses" che tradotto in italiano ebbe un titolo veramente efficace: "Come loro" che a quel tempo apparve rivoluzionario. L'autore era René Voillaume il fondatore di tutti i movimenti che fanno parte della fraternità ispirata a Charles De Foucauld. La guerra cui parteciparono molti sacerdoti francesi, tra cui Voillaume, reclutati in quanto in Francia non c'era il diritto di esenzione per i preti, li convinse che era giunto il momento in cui il prete rinunciasse ai suoi privilegi e alla distanza che lo separava dal popolo e anche a quella specie di venerabilità della persona lontana che non si mescola col popolo. Si sentiva il bisogno di unirsi "a loro", come cittadini che condividevano e partecipavano gli stessi ideali. Questo ideale plasmò tutta la vita di don Sirio fino alla morte. A questo proposito devo dire che negli ultimi momenti della sua vita ho ricevuto messaggi e telefonate continue che mi trasmettevano momento . per momento le sofferenze che lo accompagnarono alla morte. Per questo affermo che sono stato profondamente amico, sempre, di don Sirio. Fu il medesimo ideale di uguaglianza che ci fece fare la scelta della stessa congregazione religiosa: io come religioso e lui come aderente, ma praticamente partecipe della stessa vita e della stessa spiritualità. Questa credo sia stata una sua caratteristica. Perché, vedete, ciò che univa i preti operai francesi e la nostra congregazione religiosa era cercare l'uguaglianza attraverso il lavoro nelle condizioni più umili, ma in più c'era per noi, e qui sta la differenza, l'idea dell'imitazione di Cristo nella povertà e nella laicità. Perché Cristo non apparteneva al personale del tempio e non viveva delle entrate religiose del tempio, ma ha vissuto del lavoro delle sue mani nel lungo periodo dei trent'anni vissuti nel "nascondimento" di Nazareth.
Vorrei ora sottolineare una cosa importante perché anche oggi di bruciante attualità. Attraverso crisi e sofferenze noi, con i giovani di quel tempo, abbiamo anticipato il Vaticano II nell'aspetto fondamentale di volere una Chiesa non parallela allo Stato, con quell'aspetto un po' dominatore del potere politico, piuttosto una chiesa distinta, seppure non separata dalla società umana. Perché il Regno di Dio - che è al centro del messaggio di Gesù e la cui proclamazione ci è affidata - si realizza non nelle accademie delle università o nei parlamenti dei politici, ma nella storia concreta dei popoli. E questo per noi è stato il valore ideale che abbiamo accolto e servito per tutta la vita e speriamo di non avere mai tradito né abbandonato. Abbiamo vissuto con il popolo le sue vicende, cercando nella sua storia il filo rosso del Regno di Dio. Perché il Regno di Dio si deve formare nella quotidianità delle sofferenze che il popolo vive. Ho condiviso sempre, in ogni momento con Sirio questo ideale: in 60 anni di assenza dall'Italia, ogni volta che potevo ritornare credo di non aver mai trascurato un incontro con lui confermandoci l'un l'altro in questo ideale di vita.
Ora passo ad un altro argomento, rifacendomi a quanto dichiarato dal prof. Pezzino a proposito delle conquiste della classe operaia. Non mi sembrano tali, in questo momento storico mi pare, anzi, che l'attuale precarietà del lavoro sia la distruzione di secoli di lotte, di conquiste, di sofferenze per il raggiungimento dei diritti fondamentali da parte della classe operaia. Non sono pessimista perché credo in Dio, in un Dio Provvidenza che aiuta, ma credo che non abbiamo mai trascorso un periodo oscuro come il presente. Lo sottolineo perché, pensando alle sofferenze passate per portare avanti gli ideali che abbiamo coltivato tutta la vita, li vedo non tanto cancellati, quanto privati di quel germe di sviluppo in cui avevamo sperato insieme, Sirio ed io.
Prima di terminare, vorrei collegarmi nuovamente a dei fatti storici che sono stati ricordati, perché ci guidino nel presente. Citerò una testimonianza che ci può aiutare ad assumere anche oggi determinate posizioni. Al tempo della famosa scomunica dei comunisti da parte della Chiesa, io ero in Sardegna e lavoravo con i minatori. Ricordo che i minatori erano stati esclusi dalla Chiesa: infatti quando si dice che la classe operaia si è messa contro la Chiesa si compie una inesattezza, perché è stata la Chiesa che ha escluso la classe operaia. Il nostro vescovo di Iglesias, che era un uomo estremamente rigido, ci chiamò e ci disse che se i minatori si fossero accostati al sacramento della confessione in vista della Pasqua, noi sacerdoti dovevamo chiedere loro se erano iscritti alla CGIL (non solo al PCI) e far loro strappare la tessera se volevano l'assoluzione. Altrimenti sarebbero tornati a casa peccatori. Ricordo che con i miei confratelli dissi: preferirei essere io cacciato dalla Chiesa, piuttosto che compiere un atto simile. Non l'avrei mai fatto, anche perché sarebbe stata come offendere Dio, non solo l'operaio. Per non so più quale circostanza, dovetti fare un viaggio a Roma e confidai il fatto a un amico gesuita il quale mi disse: perché oggi non vieni a pranzo alla nostra residenza? Lì troverai padre Cappello, un grande canonista (lo conoscevo di nome perché avevo studiato su un suo testo). Accettai l'invito e finito il pranzo dissi al padre che desideravo parlare con lui. Gli raccontai il fatto, confidandogli la mia preoccupazione perché gli operai, specie i più giovani, passavano molto tempo parlando con noi ed era probabile che avrebbero fatto la Pasqua e quindi chiesto di confessarsi. Cosa dovevamo fare dal momento che l'unica alternativa era chiudere la cappella e di andarcene, piuttosto che fare quello che il vescovo aveva ordinato? Padre Cappello, con il suo caratteristico sorriso gesuitico, mi disse: "Caro fratello, io penso che lei quando ascoltava le lezioni di diritto canonico sonnecchiava, perché la sua morale non è ben documentata. Deve sapere che per fare un peccato grave occorrono due condizioni (che non ho mai dimenticato): sapere che si fa un peccato grave ed avere la libertà di non farlo. Allora: i suoi operai si sono iscritti alla CGIL non per offendere Dio o la Chiesa, ma per salvaguardare i diritti che sono loro negati e nel farlo non avevano davvero l'intenzione di commettere un peccato, perché se si confessano vuol dire che conservano la fede e hanno intenzione di continuare ad aderire alla Chiesa. Siccome mancano sia la prima condizione, la coscienza di peccare, sia la seconda e cioè la libertà di non farlo (perché devono difendere insieme i loro diritti), dica al suo vescovo che nessuna persona, neppure il Papa ha diritto di considerare peccato quello che non lo è". Così, pur sapendo che a quel tempo tutti gli operai erano iscritti alla CGIL, durante la confessione ho evitato questa domanda. Vi ho ricordato questo episodio perché quando la Chiesa, in periodi particolarmente bui pone scomuniche, non è detto che si debba obbedire, dimenticando che siamo ministri di un Dio misericordioso e intelligente, molto più intelligente di ciascuno di noi.
L'essere riuniti qui per la ristampa del libro di don Sirio, mi ricorda la grande, calorosa amicizia che mi ha legato a lui e i giorni del nostro lontano passato, molto duri per me e probabilmente anche per lui. Un tempo difficile, ma anche bello, splendido, perché ci ha maturati e fatto sentire la necessità, come preti, di essere vicini al popolo e di sostenerlo nella ricerca di liberazione. Si parla oggi, di nuovo, della teologia della liberazione e quindi del valore evangelico della libertà che è sostanziale, fondamentale. Occorre non dimenticalo, specialmente oggi, per esempio quando si vota. Il popolo italiano sembra non considerare il voto politico come un fatto di grande importanza e responsabilità. Non si vota più per convinzione, per volere una nazione libera e giusta, ma si vota in base alle parole di propaganda, alle suggestioni, alle immagini che ci vengono proposte. E questo è molto doloroso. lo vorrei che il popolo italiano acquistasse coscienza della propria soggettività e della propria responsabilità. E la Chiesa dovrebbe educare a questa soggettività e a questa responsabilità. Non siamo delle pecore: siamo delle persone umane che pensano, che amano, che portano le loro responsabilità verso tutto ciò che è giusto, pacifico, umano. Essere cristiani non significa solo il privilegio di andare in chiesa per ottenere consolazione e conforto, ma soprattutto quello di acquistare coscienza delle nostre responsabilità. La società politica non la fanno i parlamentari. La società politica la facciamo noi: non con il criticare quello che vien fatto, manifestando solo una generica scontentezza. Ma con l'assumerci la nostra responsabilità: questo bisognerebbe dire ad alta voce e gridarlo nelle piazze. Perché oggi si va al voto senza alcuna responsabilità. Non era così nell'immediato dopoguerra, quando si voleva costruire un paese davvero più giusto. Tutto questo si è perduto ed è molto doloroso anche per chi crede. Ricordiamoci che essere cristiano non significa solamente avere fede in un Dio trascendente, ma avere il senso della responsabilità di ciò che lo stesso Dio vuole da noi su questa terra: una società vera, giusta, umana che deve lottare perché la ricchezza sia distribuita tra tutti e ciascuno abbia una risposta all'esigènza di giustizia che sta dentro di sé.
fratel Arturo Paoli
Questo piccolo libro prezioso è stato determinante per la vita di diverse persone: per me che ve ne parlo stasera, per don Beppe che venne da Firenze a conoscere il suo autore, per don Rolando che rafforzò la sua amicizia con don Sirio dopo la sua lettura. Noi quattro, con alcuni amici della prima ora, nel lontano '65 decidemmo di dare vita a una comunità di uomini e donne desiderosi di vivere gli ideali evangelici. Da lì prese vita l'avventura che tutti voi ben conoscete, quella della comunità del Bicchio dapprima, in seguito, quella della Chiesetta del Porto.
Ma «Una zolla di terra» era nato prima: don Sirio vi raccoglie i pensieri, gli slanci, la visione che lo animavano durante i primi anni della sua avventura operaia. E un testo che si può associare ai libri di spiritualità, ma detto questo si apre a diverse interpretazioni.
Oggi, per voi, ne ho scelta una fra le, tante, quella di un viaggio interiore. «E' un viaggio - scrivo nella nota di apertura - che si iscrive nei mille racconti (poesie, favole, miti...) dell'anima che vuole avanzare verso Dio, mossa da un'inesplicabile visione, ma per farlo deve superare molti ostacoli. Cosa spinge il protagonista ad affrontare l'avventura? Al richiamo di Dio, si affianca la compassione per il dolore del mondo; durante il cammino scopre che l'amore giustifica tutto, "tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta").1
Don Sirio in quel periodo è disposto ad abbandonare il conosciuto e a diventare folle per il mondo: è un procedere, il suo, che all'inizio è leggero, alato, quasi un volo di uccelli. Più tardi incontrerà la «dura realtà»: come vi ho accennato, sono gli anni in cui compie l'esperienza operaia, conosce fatica, sfruttamento, solitudine e il mondo degli esclusi, ai quali si lega per sempre con un patto di solidarietà che non tradirà mai.
Il libro comincia con queste parole:
"Ho sempre sognato un modo di vivere disperso nel mondo. Un abbandonarsi alla vastità della terra. Come l'acqua d'un fiume che scorre calma e serena e si abbandona alla corrente, lasciandosi portare.
Mi piacciono gli uccelli migratori perché hanno bisogno istintivo di sconfinare, di volare via, di abitare lontani, di arrivare e di partire per gioia di perfetta libertà. Così i pesci che nelle profondità del mare navigano in banchi immensi verso il mistero".2
Nei primi capitoli don Sirio usa - inconsapevolmente, credo - parole, frasi, richiami dal mondo delle favole: sono briciole di innocenza che semina per indicarci un cammino. Il suo cuore, come quello dei bambini e dei poeti, è attratto dal bello e riesce a vedere la realtà esistente sotto la scorza che la nasconde, la presenza dell'anima del mondo, la sua intima essenza. Cristina Campo, in un suo saggio, ci spiega come l'eroe delle fiabe sia sempre mosso dal Bello che irresistibilmente lo attrae e questo bello non è altro che l'immagine del Bene, il suo aspetto sensibile.3
Credo che Don Sirio si sentisse, a tratti, anima del mondo. Quando, durante il viaggio, arriva insensibilmente verso un punto di non ritorno, la visione di luce che lo aveva attratto cambia. Si compie il passaggio dall'infanzia all'età adulta, nella quale le fiabe sono solo un ricordo, d'altronde, il suo è un viaggio di iniziazione. Troppo si è lasciato immergere nella solitudine dell'uomo, non ha parole che per descrivere il dramma "dell'anima schiacciata dal peso della terra e del tempo". Sarà con le braccia cariche di questa realtà che don Sirio riesce a risalire verso l'amore, non lottando, ma abbandonandosi a Dio, sicuro che Lui saprà portarlo alla meta.
Il suo procedere si fa via via sempre più assorto, preso completamente da quanto va scoprendo: "Bisogna abituare il cuore ad udire le voci del filo d'erba e della stella del firmamento, ma in modo speciale il richiamo della solitudine e della pena degli uomini. "4
Il passaggio chiave che distingue un prima da un dopo, l'ultima volta di un novellare di ragazzo e la forza che gli occorre per avanzare verso il bagliore che aveva intravisto, li descrive così:
"Se il camminare e camminare nella luce e nel buio, in superficie e negli abissi alla ricerca del mistero è fatto in serena libertà, si arriva alla porta misteriosa delle novelle antiche che si apre solo al suono di magiche parole. E una soglia da varcare con coraggio, anche se il paesaggio intravisto ci spaventa, perché diverso da quello fin qui conosciuto.
Sembra un abisso senza orizzonti, eppure, se la ricerca non è finita, dobbiamo trovare l'ardire di avanzare, i piedi nel vuoto, non più sorretti dal selciato duro e solido della strada battuta e nemmeno dalle pietre di breccia scagliosa dei sentieri montani.
Smarriti, entriamo lentamente dentro il Mistero di Dio, dove arrivano tutte le strade che fasciano il mondo."5
È giunto anche lui nella selva oscura, oscura per lo smarrimento che gli viene dal non avere più punti di riferimento (la diversità del paesaggio che intravede gli pare un abisso senza orizzonti) oscura per il dolore e la solitudine che incontra.
Entrare nel "luogo oscuro" è una situazione ricorrente dei miti o delle favole. È nella difficoltà che l'eroe mostra le sue capacità, ma don Sirio non è lì né per combattere, né per vincere la partita con l'astuzia; non desidera ottenere la mano di una principessa, come ricompensa al suo ardire.
A chi, allora, va nelle fiabe la sorte meravigliosa? "A colui che, senza speranze, si affida all'insperabile. Non conta su eventi particolari, perché è certo di un Realtà che racchiude tutti gli eventi e ne supera il significato".6 Qui, magicamente, lo sconosciuto (i nuovi paesaggi) diventa il conosciuto massimo:
"Allora ciò che stiamo vivendo acquista valore, come se cominciasse a crescere di preziosità per il semplice far parte di un disegno misterioso eppure chiaro, un gioco che intreccia cielo e terra. L'intima essenza della realtà si rivela e se ne conosce il cuore".7
Da lì cerca Dio per tutti gli uomini, d'ora in poi il nuovo che può guidarlo ha un solo nome: la Pietà.
"Mi guida l'Amore determinato da identità di problemi e di destini, che rinuncia a una conoscenza fredda e staccata".8
Il tema di rinunciare alla guida della Ragione per affidarsi al cuore, agli istinti, alla densità dei sentimenti, è stato sottolineato da diversi pensatori del '900. La Ragione ha fatto molto per noi, ci ha condotto per mano dalla Rivoluzione Francese in poi verso un sistema di leggi e di rispetto, ma più in là della giustizia e della tolleranza non è in grado di andare. Per avvicinare l'uomo, per guarire il suo cuore occorre, diceva Maria Zambrano - una grande filosofa spagnola che ha attraversato tutto il secolo scorso - la Pietà. Ne parla circa l0 anni prima che don Sirio scrivesse questo libro, nel '49, quando definisce la Pietà il più gigantesco dei sentimenti, «il più ampio e profondo, quasi la patria di tutti gli altri9".
E ancora, scrive: "Al di là dei saperi chiari, non ci sarà bisogno di altri saperi, meno distinti e chiari ma altrettanto indispensabili?" Pietro Barcellona, filosofo del diritto, una delle belle menti di questo nostro tempo, si e molto occupato negli ultimi anni dei limiti della Ragione10, capace di mutilare l'esistenza reale, il corpo, le emozioni, fino a produrre una nuova patologia: l'uomo senza sentimenti.
E come non citare il sociologo francese Edgar Morin, padre del pensiero complesso come unico metodo di lettura della realtà, una modalità che «permette di articolare ciò che è collegato e di collegare ciò che è disgiunto»? E nell'ambito di questa complessità che Morin rivendica la liberazione della Ragione dai suoi limiti che le impediscono di vedere i bisogni, le spinte, la ricchezza dei miti: la vita.11
Tutto questo don Sirio lo ha scoperto non perché ha elaborato un pensiero filosofico, ma semplicemente vivendo la vita senza difendersene, andando avanti, mai stanco; perché si è lasciato dilagare il cuore dalle domande senza risposte che ha incontrato. L'intera sua ricerca è fatta di partecipazione. Stefano vi leggerà due brani, tratti da due diversi testi: «Una zolla di terra» e «Uno di loro», il suo secondo libro. "Non sono mai solo. Sono legato a tutti. Camminiamo a folla, ma uniti a catena. E i miei diritti sono ormai solo doveri: la legge che mi regola è l'Amore, solo la sua osservanza può giustificarmi a vivere, a mangiare, a respirare. "12
"Mentre lavoro in cantiere, nonostante il rumore assordante e la stanchezza fisica, mi sembra di essere sponde di una fiumana infinita. E allora mi sale dal cuore un desiderio immenso come tutto l'universo, una preghiera, un chiedere con gli occhi, uno scongiurare con tutta l'anima, un implorare dolce e calmo con dentro una sofferenza ed una gioia terribili ... perché io so quanto l'umanità ha bisogno di Lui. E davanti a Dio non sono più io, sono loro, sono tutti."13
Durante il lungo viaggio che ha compiuto, don Sirio di è guadagnato faticosamente ogni progresso: era il prezzo da pagare per giungere a scoprire il segreto nascosto in basso, nelle pieghe della storia (gli abissi di cui parla). E questa coralità collettiva alla quale giunge che lo distingue dagli Eroi, il cui compito è singolo/singolare, per definizione, mai corale.
Da una storia simile a tante storie antiche, alla sua storia, quella di un cantore dell'Amore che ha una caratteristica: partecipare, essere insieme, accogliere, tessere Luce dentro una realtà di ombra, sicuro che il mondo è in cammino e che esiste una forza creatrice più grande di come si è espressa fino a questo momento; e certo che noi, se crediamo, possiamo tradurla in forme nuove. Per gli uomini va tenacemente alla ricerca della Speranza nel cuore di Dio per "portarla in ogni angolo, accanto ad ogni essere vivente. Non si può -scrive- lasciarne fuori nemmeno uno".14 Nel cuore gli canta la speranza, perché "cercando al di là del tuo limite e del mio, al di là della mia misura e della tua ho scoperto Dio".15
La cosa forse più straordinaria di questa avventura è che don Sirio riesce a tenere insieme il dolore e l'amore: Simon Weil, che è stata per lui in quegli anni un punto di riferimento forte, scriveva «La fede è credere che la realtà è amore e niente altro. [ ... ] Credere che la realtà è amore, pur vedendola esattamente come è»16.
"Lo so che questa realtà umana sconcerta e smarrisce e per noi credere di essere amati diventa quasi un assurdo sogno impossibile, ma è perché non abbiamo ancora accettato che Dio sia Amore. E che per Lui la misura di amare è veramente quella di amare senza misura: non prova delusione, Lui, non ha paura a cedere, a rinunciare. Può permettersi di tutto accettare, anche i condizionamenti più gravi, perché qualsiasi cosa richiesta o imposta, gli dà d'essere Amore."17
Questo atto di fede è stato forse il passaggio più difficile da compiere: lo scandalo del dolore del mondo ha sempre fatto sentire forte la sua voce. Ma lui ha creduto che, nonostante tutto, il mondo è amore e tutta la sua esistenza ha testimoniato che è possibile fare nascere nuove dinamiche di vita.
(1) 1Cor 13,4-7
(2) Sirio Politi, Una zolla di terra,EDB, 2008, Cap. I,44,45
(3) Cristina Campo, Della fiaba, in Gli imperdonabili,Adelphi, 1987, 29-42
(4) Politi, op. cit. Cap. I,47
(5) Politi, op. cit. Cap. III,58
(6) Campo, op. cit. 41
(7) Politi, op. cit. Cap. II,55
(8) Politi, op. cit. Cap. VIII,85
(9) Maria Zambrano, Per una storia della pietà, Cuba, 1949
(10) Pietro Barcellona, Critica della ragion laica, Città Aperta edizioni, 2006
(11) Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, 1993
(12) Politi, op. cit. Cap. XVIII, 139
(13) Sirio Politi, Una giornata di lavoro, in Uno di loro, Gribaudi, 1967, 80
(14) Politi, op. cit. Cap. II,53
(15) Ibid, Cap. VI,76
(16) Simone Weil, Quaderni IV, Adelphi, 1993, 300
(17) Politi, op. cit. Cap. XI,103,4
"Forse ho soltanto scritto una lunga lettera a chi si può scrivere a cuore aperto e come ogni lettera anche questa è fatta di parole semplici e vere: parole scoperte e raccolte con gioia e sofferenza nel segreto dell'anima e scritte con tanta fiducia perché vogliono essere soltanto Amore"
(dall'introduzione di Una zolla di terra)
Maria Grazia Galimberti
Luigi Sonnenfeld
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