LOTTA COME AMORE: LcA giugno 1981

Attesa di un servo fedele

E' saggezza non drammatizzare anche perché la storia si svolge nel tempo e il tempo è come l'acqua, lava tutto arrotonda i sassi e i macigni che dalla montagna precipitano nel fiume e se non altro tutto sfocia al mare. È vero anche però che il mare - e quindi anche il gran mare della storia - s'inquina sempre più, si ricolma e si satura di rifiuti, di rottami, di espurgati chimici, di veleni e rischia di non essere più mare, ma un'immensa, orrenda cloaca.
Così sta succedendo a questo nostro tempo storico. Rischia di saturarsi di troppi orrori, di troppo schifo. E l'azzurro di umanità, o se non altro la sua speranza, sta riducendosi a melma cupa, verdastra, stomachevole, che perfino le onde nel loro perpetuo frangersi, rincorrersi, scavalcarsi, non sono spumeggiare di creste bianche, luminose di luce, ma rotolarsi pesante e grigio, affaticato e oppresso di troppo lordume.
Sta venendo sempre meno e pare che abbia a scomparire, la poesia del vivere umano, la dolcezza di un'aurora, la serenità del tramonto, in questo vivere quotidiano e tanto più in quello storico. Non è valore di poco conto perché è lo spengersi del palpitare, aperto, fiducioso, del cuore. E senza cuore o col cuore rattristato, stanco, depresso, non più è l'umanità a vivere, ma la forza d'inerzia, il meccanismo freddo di congegni artificiosi, surrogati assurdi, pazzeschi a sostituire la spontaneità, lo slancio, l'entusiasmo del vivere.
La tecnologia scientifica produce tutto - e qui sta la sua maledizione. La cultura sofisticata si sostituisce ai valori naturali e soffoca le intuizioni semplici, umili - e l'appesantimento delle sue razionalizzazioni schiaccia lo spazio dello spirito. La politica strumentalizza, senza pudori e riguardi, ogni possibilità del nuovo nella convivenza umana, a tutti i livelli, mondiali e individuali e riduce a calcolo spietato d'interessi, ogni e qualsiasi promessa di libertà cioè di umanità, riducendo tutto (che disperazione!) a politica. E sopra ogni cosa, valore verità, giustizia, rapporto umano, sensibilità individuali, collettive, di popoli... regna, domina, impera, il profitto economico: e qui sta consumandosi, fino alle misure della crudeltà più spietata, la schiavizzazione più disumana che mai forse è avvenuta nella storia che pure è sempre stata racconto spaventoso di schiavitù.
Non è il caso qui - siamo cosi niente di fronte alla fiumana che il modello di sviluppo sta dilagando, sempre più imperante e in modi e misure assolutamente inarrestabili, nel nostro tempo e in quello futuro - non è il caso di tentare chiarimenti e argomentazioni, per dimostrare la fondatezza di un giudizio tanto pessimista e quasi disperato, sul povero e sciaguratissimo mondo dove cerchiamo, se ce lo consentono, di sopravvivere se non proprio di vivere. Ma anche se non siamo niente - io, tu, noi, popolo, acqua di fiume che fa girare le pale del mulino abbiamo pure il diritto di respirare, cioè di credere in qualcosa che abbia in sé speranza, giustificazione, volontà di vita umana. Perché è pur vero che di poco si campa ma di nulla si muore.
Pensiamo che il bisogno, il desiderio, la voglia di trovare qualcosa - la famosa tavola, uno scoglio a cui sorridere, una mano pulita e forte da stringere, un qualcosa, qualsiasi possa essere, insomma, che aiuti il palpitare commosso di Speranza e più ancora di Amore - distingua l'umano dal disumano, qualifichi e costruisca un resto di umanità di fronte alla degenerazione generale.
Non per essere separati, diversi, arroccati in un perbenismo stupido che arriccia il naso, nauseato, davanti alle brutture del secolo, alla ricerca affannosa dell'acqua nel catino del proprio egoismo per lavarsi le mani, purificandosi, oltre che del crimine della passività, anche del peso di tremende responsabilità, che, sia chiaro, pesano sulla coscienza di ognuno, ma specialmente di chi è chiamato a caricarsi del "peccato" per tentare redenzione e salvezza, sia pure camminando sulla via della croce.
Si tratta invece della voglia - bruciante e appassionata - di trovare pane da spezzare e offrire, acqua di sorgente da versare inesauribile sul deserto che avanza. Valori umani cioè capaci di tenere accesa la speranza, come popolo di Dio che custodisce gelosamente la fiamma accesa nel buio della cisterna, mentre imperversa la deportazione.
Poiché a nostro umile avviso, è il tempo questo in cui bisogna giocare tutto più la Speranza e l'Amore, nel valore supremo dell'attesa.
La parabola del Vangelo è luminosissima: il servo fedele, mentre tutta la casa gozzoviglia, rimane dietro la porta, in fiduciosa, vigilante attesa.
Due cose importanti e decisive per l'autenticità dell'attesa .
Non lasciarsi travolgere nello sbandamento generale. Coinvolgersi sì e a gran cuore per una fedeltà di Amore a costo di tutto. Fino ad esserne schiacciati, annientati. Perché la paura è non Amore. E il tentativo di salvarsi da soli è già tradimento oltre che stupidità e orgoglio.
Lasciarsi coinvolgere è sincerità di partecipazione attiva, è rischio che significa onestà, fraternità, accoglienza e dedizione. L'incarnazione, fino alle misure più estreme, è umanità e cristianesimo.
Lasciarsi travolgere, no. L'arrendersi è segno di calcolo egoistico. L'abbandonarsi alla violenza della fiumana, è passività e consenso. Tanto è ladro chi ruba che chi para il sacco. La pigrizia è imperdonabile quando la casa brucia.
Il pericolo più grave, la minaccia più micidiale che incombe sul nostro tempo, è il potere, lo strapotere - nelle mani di chi? - di avvelenamento di tutta la realtà umana in questo processo di disumanizzazione: dagli individui, alle collettività, ai popoli, alla cultura ai mezzi di comunicazione, dalle esigenze sempre più assolute e assolutizzanti del benessere materiale al raffreddarsi, al congelarsi del sentimento umano individuale, all'inaridirsi terribilmente progressivo della solidarietà.
Il risucchio è praticamente irresistibile. Salva unicamente una profonda chiarezza di idee, un progetto a tutta prova di scelte assolute, la saldezza di una permanenza di respinta insieme ad una coraggiosa e allegra volontà di lotta. E, seconda qualità del servo vigilante nell'attesa, è la fedeltà. Fedeltà a se stessi nel conoscimento e nella convinzione del proprio destino e cioè ai motivi legati alla ragione d'essere, all'essenzialità, della propria vita. L'Amore alla Verità di se stessi è antecedente a qualsiasi altro valore. E giustifica e normalizza il pagamento di qualsiasi prezzo. Fedeltà agli altri realizzando la fedeltà a se stessi per offrire (questo coraggio dell'offrire e non dell'imporre) i valori essenziali, decisivi per la salvezza di umanità nel concreto cammino della storia. Fedeltà da verificarsi incessantemente nella pazienza, nella fiducia, nell'ottimismo inesauribile e cioè nell'Amore. E vorrei aggiungere, ma non è valore marginale, semplicemente aggiuntivo, fedeltà a Dio. Vivere e camminare sulla strada di Gesù Cristo dietro a suoi sogni adorabili, accogliendo le sue dolcissime utopie, bruciando del fuoco del suo instancabile, inesauribile Amore.


Cattolici e non

Dalla stretta angolazione di una realtà di volontariato laico, con tutti i limiti, le angustie, i ritardi di un volontariato in generale stucchevolmente esaltato quando fa comodo credere e far credere in tanta disinteressata bontà, da un fazzoletto di umanità, dicevo, alcune considerazioni sulla presenza di cattolici in una organizzazione dove non sono maggioritari, ma costretti in qualche modo a subire la preponderanza di altre componenti culturali e ideologiche.
La prima cosa da tenere di conto è che il cattolico che milita in una organizzazione laica di volontariato si trova a dover fare i conti con organizzazioni cattoliche a livello locale o a livello nazionale come la Caritas. Se a livello locale reggono ancora campanilismi con motivazioni da tifo sportivo, man mano che la riflessione cresce, aumentano anche le difficoltà per chi vuol costruire gesti di solidarietà senza distintivi, in una ricerca di rapporti nuovi ed aperti tra gli uomini. Come cattolico fatica a trovare spazio e credibilità schiacciato in un angolo da cattolici organizzati per realizzare, in quanto tali, l'amore nel mondo.
È vero che davanti al volontariato si apre ancora uno spazio che è possibile gestire in comune dove la coscienza solidaristica di un laico e quella di un cristiano che muove da elementi di fede non diventano corpo distinto, separato. Ma questa possibilità rischia continuamente di essere un affare di vertice, un «compromesso storico» a livello politico, perché non è alimentata se non scarsamente da un incontro sul piano della realtà sociale dove si dovrebbe gestire in comune e con strumenti comuni l'impegno di solidarietà e di assistenza.
Il terremoto nel Sud ne è stato prova significativa con tutto uno sforzo di volontariato ammirevole, che però poche volte ha trovato il modo di esprimersi senza ricorrere a grossi sussulti di identità e di specificazione delle proprie bandiere. Per esempio, a Grottaminarda, nel primo mese dal tragico avvenimento, intorno al centro di distribuzione e assistenza delle Pubbliche Assistenze toscane (organizzazione laica e in toscana a base largamente marxista) c'è stata la convergenza di associazioni come la Misericordia di alcune città toscane (sono la faccia cattolica delle Pubbliche Assistenze e in un clima campanilistico come quello toscano sono più che cane e gatto), la partecipazione di gruppi di Mani Tese, l'aggregazione di volontari isolati. Quando si è trattato di rispondere alle gravi provocazioni del sindaco di Grottaminarda, l'intero gruppo dei volontari ha risposto in maniera unitaria senza lasciarsi andare a quegli eterni «distinguo» che, a cose normali, sull'ormai consueta fabbrica occupata, provoca l'uscita di dieci volantini diversi, dalla cellula alla parrocchia.
Certo la tragicità dell'avvenimento mette tutto in riga, ma è possibile che, anche per i tempi cosiddetti «normali» non si faccia mai un po' di autocritica?
Innanzitutto, e la contestazione è immediata, invece che l'autocritica è fin troppo facile fare del vittimismo. Come cattolici non ci è dato spazio, noi vorremmo fare, dire, ma... E questo finisce per essere l'obiettivo primario. Non contribuisce con sovrabbondanza e coraggio ad affrontare i problemi che la realtà propone, ma difendere spazi occupati, lottare per acquistarne di nuovi, piantare le proprie bandiere e costruire i propri accampamenti.
È possibile che non si riesca a crescere? Come può la fede nel Cristo Risorto provocare nel cuore di tanti credenti un così grande timore di essere strumentalizzati, di non contare? O forse questa tremenda responsabilità di essere i «santi», gli «eletti», i «chiamati» diviene pietra pesan-tissima che schiaccia ogni possibilità di camminare insieme agli altri? Mi viene in mente, ma può essere anche una grossa bestemmia, che non avendo il coraggio di affrontare un serio rapporto con l'imprevedibile Dio di Gesù Cristo, ci siamo cosi tanto identificati in Lui da voler per forza costruirci «strade nostre» in quanto credenti perché: «i sentieri degli uomini (di quegli altri!) non sono i sentieri di Dio».
Soffro molto questa condizione di separazione. Non mi entusiasmano i riconoscimenti laici a chi si batte da cattolico per la giustizia, la verità. Non mi dice molto il rispetto dei laici per la mia cattolicità. Vorrei giocare la mia fede soprattutto come energia, come coraggio per affrontare uomo insieme agli altri uomini il mistero di questo mondo. Vorrei che il mio battesimo mi aiutasse a non aver timore se «gli altri» sono schiavi di un interesse o di una ideologia perché io so che si può essere lavati dai segni che ogni padrone imprime sulla fronte dei suoi schiavi. Ci sono tante potenzialità di crescita, tanta ricerca da fare, tanta vita da vivere. E siamo ancora qui, a misurarci sui «si» e sui «no», a sognare rivincite e affermazioni, a costringere il cuore ad esaltarsi solo quando l'affermazione è dei colori di casa. Non so se questo mio vivere avrà o meno significato, ma un senso ed una vera motivazione, almeno questo si.

Luigi

Povertà e Fraternità

A volte mi viene il dubbio se il mio riflettere alle cose che accadono, al momento presente di esistenza umana nella quale mi ritrovo a vivere, cammini sul filo di ragionamenti normali, di persona equilibrata o se invece segua, per una tendenza ormai incorreggibile, una rotta essenzialmente sballata e assurda. Forse mi si è bloccato il timone e la mia barca non tiene conto dei venti, delle condizioni del mare e fila sulla cresta delle onde senza orientamenti di bussola, ma forse soltanto tenendo d'occhio le stelle.
Confesso di rinvenirmi spesso smarrito come chi, pur sapendo dove vuole arrivare e conoscendone anche la via, girovaga qua e là, in cerca, sembrerebbe di non sapere bene che cosa. Non chiedo niente, non mi aspetto niente, perché mi sento al di là perfino del desiderio, mi avvedo, che è troppo e non mi può essere concesso. So bene che è molto triste e spesso è angoscia soffocante, cercare ciò che forse non riuscirò mai a trovare, sperare quello che forse non avverrà, lottare ed essere sicuri che la lotta è perdente. Allora non rimane che offrirsi ad occhi chiusi, accogliere tutto senza scegliere e forse senza nemmeno più discernere, perché forse esiste ancora una Verità e cioè che il dimenticarsi sia il vivere più puro e l'Amore più vero. Perché è in questo dimenticarsi (lo sparire del se stesso, facendo vuoto totale) che può essere il trovare un senso alla mia vita e più ancora una verità di rapporto, di comunione con la realtà nella quale sono immerso. Sta il fatto che una possibilità di vita sta tutta nella cocciutaggine del credere ad alcuni valori, alcuni progetti fondamentali, essenziali, decisivi. Non può e non deve impressionarmi e stancarmi il motivo che questi valori siano un'assurdità, fuochi fatui assolutamente incapaci di significare calore e luce. Perché è vero che la loro «vanità» non è determinata, ne sono sicurissimo, da un sopravvenire d'incostanza, d'irrazionalità. Sono pietra fondamentale sulla quale è possibile unicamente costruire umanità, soltanto è successo che il deviarsi del criterio di giudizio e il suo banalizzarsi, li ha costretti ad uno scadimento progressivo fino a spingerli all'emarginazione, a poco a poco sull'orlo dell'abisso del vuoto di attenzione e di apprezzamento.
Questi valori sono ormai e forse definitivamente un ricordo o fanno parte di racconto da favola d'altri tempi.
Ciò che rimane e è la controprova della loro validità assolutamente insostituibile, è tutto ciò che li rimpiazza, che sta alloro posto come «novità» voluta, cercata e imposta: e sono rovina distruzione e morte.
Tutto questo per introdurre riflessioni su due di questi valori storicamente perduti e sostituiti. In questi giorni e per costatazioni di costume imperante e per fatti di cronaca quotidiana, mi è avvenuto di pensare alla Povertà e all'Amore fraterno, quest'annuncio che sta alla radice del messaggio del Vangelo e che, volere o no, decide di un progetto di umanità.
La terra è andata inaridendosi, incoltivata e abbandonata e i rovi e le spine la stanno sopraffacendo, è strada e piazza, sassosa e aspra, quasi si è fatta nemica e anche il seminatore non si alza più al mattino col suo sacco traboccante di fiducia a gettare il suo buon seme perché anche la speranza di trovare terra buona, per il trenta il sessanta il cento per uno, si è affievolita fin quasi a scomparire.
Succede raramente di sentir parlare con convinzione, credendovi fino in fondo, di povertà. L'annuncio si è fatto contorto, prudente, arrotondato e, per dir meglio, spiritualizzato. Come chi dice e non dice, afferma ma senza affermare. La Parola qui assai più che in altra predicazione non è «si si, no no» e senza la percezione, la coscienza, che in definitiva poi, «tutto il resto che può essere detto viene dal maligno». In questo problema così alla radice del progetto cristiano, la fedeltà e l'obbedienza all'annuncio manca del coraggio della trasmissione esatta della Verità per il semplice motivo della insufficienza di coraggio (e di Fede) per un coinvolgersi con la Parola, realizzando la rottura indispensabile e la proposta concreta, spietata.
Nel tempo in cui il capitalismo è arrivato fino al punto di riuscire a imporre il suo modello (mentalità, prassi, costruzione personale e realtà concreta di rapporti sociali, politici, culturali ecc.) un discorso di povertà è assolutamente inaccettabile, assurdo, pazzesco. E chi può ascoltarlo?
La ricchezza, quella grandissima, esorbitante, illimitabile, ma ugualmente quella più ridotta e limitata, fino a quella che dà un minimo di sicurezza e sistemazione, sono condizioni di ripiegamento e di chiusura fino al punto da stabilire un vero e proprio istinto di conservazione. E' questa istintività dell'aggrapparsi violentemente, esasperatamente al possesso (anche se si tratta di quattro soldi e di due mattoni uno sopra l'altro, come del banco ambrosiano o della multinazionale della coca-cola, della carica di consigliere comunale o di primo ministro...) che provoca disumanità, in misure diverse, ma qualitativamente identiche. E sono maturati quindi i tempi in cui conversione, liberazione, rivoluzione, sono messaggi inascoltabili perché assolutamente senza senso, incomprensibili, assurdi. Per il semplice motivo che qualsiasi proposta di «cambiamento» è capito e accettato esclusivamente in ordine ad una crescita di possesso (di ricchezza, di sicurezza temporale, di sistemazione, di potere). Un cambiamento cioè una mutazione per un aggravamento di perdizione (evangelicamente parlando), non di salvezza, di liberazione.
Esattamente ciò che avviene per gli armamenti, o per il modello di sviluppo imperante, l'industrializzazione ecc. L'unico cambiamento ipotizzato e dichiarato possibile, è l'accentuarsi della produzione, è il progresso tecnologico, il consumismo (anche se non più sbandierato come soluzione economica).
L'annuncio della povertà come contenimento di questo affidarsi e consegnarsi alla ragione economica, alle leggi del profitto, alla ricerca del privilegio, è Parola letteralmente così ridicola, umoristica, che è assurdo proporla nella sua crudezza e nudità e tanto più inimmaginabile (forse anche per la fantasia di un santo) una sua possibilità di traduzione in qualsiasi progetto esistenziale, individuale o collettivo che sia.
E' preferibile non parlarne o al massimo in termini esortativi, al condizionale, per l'intenzione e non di più, d'impedire che gran parte dei quattro Vangeli (se non totalmente) diventino pagine bianche o racconti alla Cervantes.
Ugualmente è per il messaggio dell'Amore fraterno, della fraternità: perché i due valori, povertà e fraternità, sono legati e dipendenti vicendevolmente fino alle misure dell'identità.
Altro discorso, questo dell'Amore fraterno, dell'uguaglianza degli esseri umani, della dignità umana, della responsabilità vicendevole, dai livelli individuali fino a quelli di popoli e di continenti, che se fosse affrontato e vissuto sulla misura di serietà che impegna e coinvolge, Dio, Gesù Cristo, l'umanità intera, sarebbe discorso poco più che risibile, penoso, assurdo.
Può essere questa affermazione, al solito, giudicata eccessivamente azzardata e maculata di pessimismo, di giudizio volutamente negativo. E sarà cosi, sta il fatto però che, come un po' sempre nella storia ma tanto più attualmente, non si vuole avere, non soltanto il coraggio della Parola, ma neppure quello dell'analisi, della diagnosi. E per una cultura seria e responsabile, è un gravissimo male, tanto più poi per un Magistero della Verità teologica e morale, che, prima di tutto è chiamato al discernimento della malattia per poi provvedere alle terapie del caso.
La condizione storica della convivenza umana nelle sue radici è sempre più, con un progresso spaventoso, nelle sue manifestazioni di vita vissuta, la morte. La civiltà intesa (e in quale altro modo potrebbe intendersi?) come volume indispensabile e necessariamente in crescita, di benessere materiale, non può fare a meno, come i sistemi attuali economici, politici, imperialistici esigono, che rifarsi alla morte. Morte di fame, di sete, di oppressione, di schiavizzazione. Morte di soffocamento nel sangue di rivoluzioni liberatorie, di diritti ad essere popoli liberi, di ansia disperata di almeno un'ombra di dignità umana. Morte per ottenere o stabilire preminenze d'interessi personali o di gruppi di potere, affermazione d'interessi capitalistici e di potenza politica, ambizioni pazzesche di dominio incontrastabile, assoluto. Terrorismi organizzati e pagati da chi sa chi, non certamente da benefattori dell'umanità, sequestri di persona dove carne e sangue sono scambiabili con denaro prezzo di morte...
Il mondo è posto sul piatto della bilancia maledetta e sull'altro piatto è deposta, freddamente, a calcoli computerizzati, la morte.
Anche la pace (e è parola sintesi, contenente e significante umanità) è speranza dipendente dagli equilibri del terrore e cioè riposa (!!!) sul potenziale esistente e in crescita della morte universale.
Riflessioni che son diventate perfino vecchie, come una corona consunta di rosario, che ci vuole perfino del coraggio (il coraggio di un discorso inutile) a ripeterle.
Va bene e allora continuiamo a biasciare giaculatorie sull'Amore fraterno, a sentimentalizzarci sulle opere buone e sospirare invocazioni pietistiche nella preghiera dei fedeli. E nel frattempo chiara volontà, anche nel popolo della Fede e della scelta cristiana di fraternità nei rapporti fra gli esseri umani (compresi naturalmente e non è chiarissimo, programmatico messaggio cristiano? i cattivi, i peccatori, i nemici) di mantenimento dell'ergastolo, di una pistola in tasca a legittima difesa degli onesti, cioè di chi ama il suo prossimo, di leggi repressive di polizia, sempre per la tutela degli onesti.
Volontà, qualsiasi possa essere la sua analisi referendaria, assai vicina se non proprio vera e propria indicazione che la pena di morte sarebbe l'unica soluzione di questo brigantaggio che mette in pericolo la tranquillità dei «buoni». E non voglio, volutamente, accennare al problema dell'aborto, perché, nonostante l'enormità di questo problema di morte, a non parlarne con il preciso frasario del movimento per la vita, si rischia la «sospensione a divinis». E non voglio per l'Amore che ho per la Chiesa anche gerarchica, che risulti la Chiesa una qualsiasi centrale di potere capace di «uccidere» sia pure spiritualmente.
Dunque c'è una certa resa nei confronti di questi due essenziali messaggi del Vangelo: le condizioni storiche maturate in questi nostri tempi, rendono impraticabile perfino l'annuncio della povertà e della fraternità. L'impossibilità dell'ascolto zittisce la Parola e così il vivere e il convivere s'immiserisce sempre più di valori essenziali, capaci dell'unica vera ricchezza. E succederà inevitabilmente che il vuoto dei valori essenziali, quelli che stanno alla radice, si dilaterà fino a inghiottire i surrogati, i valori secondari, marginali. Perché sta scritto che per avere il di più è indispensabile cercare prima il Regno dei cieli. Non cercare l'essenziale, lasciarlo anzi cadere nel vuoto del deprezzamento e della disattenzione, è giocare irrimediabilmente anche il superfluo. E a quel che sembra stiamo camminando allegramente su questa strada.
Penso e credo che esistano delle gravissime responsabilità. E le più pesanti gravano su chi è stato chiamato al ministero della profezia e ne ha e ne deve avere il cuore e la Parola. Il mondo può andare in rovina se la storia dell'umanità lo vuole, ma guai se venisse a mancare la profezia, questo misterioso e luminoso discernimento dei segni dei tempi, la rivelazione fedele e libera del giudizio di Dio, l'indicazione esatta dove è la salvezza e dove è nascosta la perdizione. Si stanno compiendo i tempi in cui una scelta di Fede esige e comporta la scomodità e il rischio di essere, senza affatto climi d'eroismo e di martirio ma di semplice linearità, un «segno di contraddizione». Una realtà di contrasto, cioè, di scontro, di lotta. Se non altro per chiare e stranissime preferenze, per progetti coraggiosamente alternativi, per pensieri assolutamente diversi, per fantasia decisamente bisognosa di novità. È verissimo: un coraggioso sputare sul piatto di lenticchie, rifiutarsi di cambiare pietre in pani, di tentare miracolismi per avere il plauso delle folle, ridacchiare sulle suggestioni del potere, della carriera, della sistemazione. E semmai aprire le mani ai chiodi di un imprigionamento all'Amore e distendersi sul legno duro della Povertà.
Discorsi religiosi, meditazioni misticheggianti, raffinatezze contemplative: può darsi e non me ne dispiace affatto. Ma è anche poesia di spazi infiniti, respiro profondo di cuore dilatato oltre ogni misura, anima colmata traboccante di libertà e sogno meraviglioso sempre sognato dall'Amore di Dio e sempre in attesa di diventare storia.
E nel mistero di questo «divenire» è bellissimo gettarvisi dentro e lasciarsi travolgere e macinare in una perdizione scavata dal gettarsi di Dio nell'abisso dell'umanità.

Sirio

Il sangue di Piazza S. Pietro

30 maggio 1981
Racconto con semplicità e franchezza le mie riflessioni e mi permetto di scriverne agli amici perché il Papa sta ormai bene: è da ieri che la prognosi riservata è stata tolta. Del terribile fatto del 13 maggio rimane una memoria angosciosissima, un punto di devozione in piazza s. Pietro, un disgraziatissimo giovane in carcere, il dubbio del complotto di terrorismo internazionale, lo sgo-mento di un «perché» senza risposta.
Certamente quella mano che stringe la pistola e spara al di sopra di una folla in festa afflosciando su se stesso il segno più visibile della Chiesa, della cristianità, ha fatto esplodere, insieme a tanta pietà e angoscia, sgomento e venerazione, infiniti problemi. Televisione, radio, giornali, servizi a non finire. Commenti, giudizi, illazioni di ogni genere da tutto il mondo. E va bene. Si tratta del Papa e di questo Papa la cui «mondialità» è indiscutibile.
Ho ascoltato e letto tutto quello che mi è capitato di ascoltare e leggere. Ma il mistero mi se è infittito, mi è sceso fin nel profondo dell'anima, fino a provocare nell'intimo della Fede interrogativi inquietanti che pur rimanendo ovviamente senza risposta, mi hanno costretto (certamente a modo mio e io sono quel povero prete che sono) a riflessioni particolari, personali.
Mi sembra normale e, direi, logico, cercare d'inquadrare con criteri di Fede un fatto drammatico che ha investito il Papa fino a ferirlo quasi mortalmente.
Non ho senza dubbio la Fede di S. Caterina da Siena che chiamava il Papa «il dolce Cristo in terra». Ho troppo bisogno di credere in Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, per permettermi accostamenti o, sia pure in qualche modo, delle identità. Penso però e spero che la mia Fede nel Papa, successore di Pietro, sia chiara e sicura, anche se non sono più capace, ma è un problema di età, credo, di effervescenze, entusiasmi, di «evviva» e cose del genere. Perché l'esperienza della vita indurisce la fede, la essenzializza in profondità misteriose, scavate nell'anima dalla lunga guerra di trincea e dal vivere allo scoperto, al sole all'acqua al vento. A un certo punto questa Fede, sempre più abituata a confondersi e perdersi nei valori della gloria di Dio e della salvezza del mondo, non può, non riesce proprio, a entusiasmarsi all'eccezionalità di folle, al folclore di rapporti, a viaggi planetari. È difficile dire cosa vuole questa Fede, ma certamente non gli basta un papa politico, un papa solenne, un papa buono, un papa austero, un papa che sorride, un papa umano... (è l'elenco dei papi della mia vita). Potrebbe un Papa essere diverso, altra cosa, del Papa che la storia della mia vita mi ha dato di poter conoscere?
Ho sempre sognato che era possibile. E mi permetto di dire che la delusione fin qui è stata quasi del tutto amara. È probabile, anzi è certo, che le riflessioni che mi sono salite su dall'anima, dopo l'attentato a piazza s. Pietro, siano provocate dalla permanenza di questo mio sognare, impenitente e tenace, di cui non riesco a stancarmi, a svegliarmi, nonostante tutto ma specialmente la costatazione storica di un aggravarsi della realtà nei confronti del sogno.
Dico queste cose per mettere sull'avviso gli amici che leggeranno queste righe: non vorrei che si fidassero troppo di quello che penso e che tenessero presente che la mia Fede è un po' particolare, anche se è vero, per la dolce Bontà di Dio; che non mi ritrovo affatto in difficoltà o in crisi. E speriamo che questa «pace» non sia un brutto segno.
Torniamo allora in piazza s. Pietro e al sangue che tanto tragicamente vi è stato versato. Dicevo di aver ascoltato molti servizi radio e televisivi, anche se spesso, a un certo punto, occorreva molta sopportazione, Ho cercato di leggere un po' tutto quello che mi è capitato. E fra tutte le analisi dei fatti e di ciò che sta sotto ai fatti, analisi politiche, poliziesche, morali, sociali, religiose, nazionali, internazionali ecc. inquadrate con ogni obiettivo e da ogni angolatura, me ne è mancata una, o almeno non mi è successo di ascoltarla e di leggerla ed è sicuramente l'analisi, il giudizio più importante anche per il fatto che si tratta di un attentato al Papa.
Mi permetto di arrischiarla io (eh! sì, è vero e chi sono io?) questa analisi, da povero credente in quel detto popolare: «non si muove foglia che Dio non voglia» e che interpreta in maniera chiarissima l'affermazione di Gesù: «anche i capelli del vostro capo sono contati»: «non cade un passerotto dal cielo senza che il Padre vostro lo sappia».
E il Papa (come del resto ogni essere umano e quanti sono la cui tragedia ogni giorno viene macinata dall'assurda crudeltà della disumanità) è assai più di un capello e di un passerotto.
Ecco la domanda, il mistero, che mi interpella fin dal più profondo della Fede: E Dio? Qual'è il disegno di Dio, delle imperscrutabili sue vie, in tutto quello che è accaduto in piazza s. Pietro (in questa sacra piazza s. Pietro, centro e cuore della Cristianità e non in altra piazza del mondo dove innumerevoli volte si sono radunate intorno al Papa, folle immense). Questo «perché» inquadrato e affondato nel mistero della Fede cristiana, in questo preciso tempo storico, spartiacque di epoche, conclusione di una storia di secoli e inizio di altra storia che potrebbe anche essere lunga di giorni appena o di qualche anno (sappiamo soltanto e non è poco che uomini hanno il potere, nelle loro mani, di concluderla questa vicenda umana, a loro piacimento) o forse di più, se l'onnipotenza di Dio vorrà impedirlo.
È un interrogativo senza dubbio angoscioso anche perché carica la Chiesa di tremende responsabilità, se è vero come è vero, che i fatti sono anche chiaro discorso, il più chiaro e convincente, che le cose concrete diventano esperienza e quindi indicazione di strada sulla quale camminare o di strada dalla quale sarebbe giusto ritrarre il piede. Il tentare una risposta (percepibile forse soltanto nella preghiera) richiederebbe una lunga riflessione. Non posso azzardarla, non ne ho le capacità e il tempo e lo spazio. Quindi non di più che dei poveri accenni o balbettamenti.
l) - Analisi storica del nostro tempo, quello in cui viviamo e che dovremmo conoscere molto bene, se il mondo in cui viviamo lo guardassimo un po' più criticamente e, meglio ancora, alla luce della Fede.
Realtà dì dominio e in misura assoluta, a livelli mondiali fino allo sbriciolamento individuale, è profitto economico. Il potere si manifesta e imperversa in proporzione alla sua consistenza economica.
È un fatto che s'impone voltando l'angolo della strada, seguendo l'impazzimento degli imperialismi. Questo potere provoca i poteri di supporto e di appoggio, di affermazione e di sviluppo: il politico, il militare, il culturale: è assolutamente oggettivo aggiungere, il religioso (in tutta la complessità di rapporti, terreno e celeste, materiale e spirituale, temporale ed eterno ecc. che il termine, sia pure approssimativamente, «religioso» riesce a significare). La mescolanza di queste realtà, in assurda osmosi, è sempre stata esplosiva di spaventose sciagure. È una micidiale, disumana vicenda lunga quanto è lunga la storia,
Potremmo essere alla vigilia, Dio non voglia, ma esiste la reale possibilità che avvenga, della sciagura finale, conclusiva. La fine dell'umanità sta sopra la storia, legata alle migliaia di testate nucleari (e in via di aumento) e al modello di sviluppo, di civiltà (la parola non è più sinonimo di umanità ma esattamente il contrario) imperante e assolutamente determinante. Tanto più pericolosa perché verniciato, camuffato di «benessere». (altro termine da ripulire coscienziosamente).
2) - La Chiesa e quindi il Papa se è vero come è vero che il Papa è il primo cristiano, segno visibile, personale, della Chiesa.
Vi sono uomini singoli (non occorre citare i nomi, sono, si e no, le dita di una mano) che condensano e raccolgono in se stessi le realtà che dominano il mondo e possono decidere del destino della storia. È sempre stato così, ma oggi è davvero altra cosa, anche se non vogliamo accettarlo, obbedienti, come siamo, alla stupidità dello struzzo. L'identità della Chiesa (e non soltanto la sua missione, questa facile e bonaria soluzione di tremende responsabilità) non è ritrovabile sulla strada del potere, delle misure d'importanza temporale, d'incidenza politica, di raccolta di masse, di trionfalismi.
La sua identità è nella pagina delle tentazioni e in quella delle beatitudini. Non è nei 1750 canoni del nuovo codice di diritto canonico, nel moltiplicarsi delle allocuzioni, nell'ammodernizzare la pastorale confidando nei cosidetti mass-media, nel provocare leggi a sostegno della morale, nel confidare in campagne referendarie per la salvezza della vita...
Richiami misteriosi eppure chiarissimi, si sono succeduti e in misure appassionanti, dal Concilio in poi, perché la Chiesa obbedisca alla sua Verità costitutiva di presenza vivente di Gesù Cristo nella storia, un'«Ecclesia» di Fede, di Speranza, di Amore, spiegabile e giustificabile esclusivamente nello Spirito Santo.
E richiami sempre misteriosi eppure chiarissimi se vi era volontà e Fede per capire, venuti da angosciose e provvidenziali sconfitte, da delusioni amare, da stanchezze e crisi... Sono anni che il temporalismo, questa eterna e diabolica tentazione, sempre risorgente per camuffamenti di regno di Dio e si tratta di regno di uomini, inquina il mistero di Dio nella storia, alienandolo e ritardandolo in suggestioni e illusioni puramente terrene.
So bene che sono affermazioni queste giudicabili poco rispettose, superficiali ecc. Ma sono anche e se non altro, sofferenza a seguito di Amore, angoscia di anima in pena. Si, certamente per Fede e Amore alla Chiesa, ma adesso specialmente per Amore verso l'umanità e la sua sorte.
Perché la salvezza del mondo, cosi problematica nel nostro tempo e tanto più nel futuro - e salvezza vuoi dire qui salvezza dalla disumanizzazione progressiva e salvezza dalla consumazione della disumanità nella tragedia nucleare - questa salvezza può essere legata alla Chiesa.
Adesso, anche storicamente e davanti a Dio se è vero come è vero che Dio è la ragion d'essere, valore di convergenza assoluta dell'universo, adesso il mondo ha bisogno della Chiesa, come dell'aria da respirare.
Quale Chiesa reclama il mistero della salvezza del mondo?
A quale Chiesa il disegno misericordioso di Dio lega, come a sacramento immerso nella storia, quel battesimo nell'acqua e nello Spirito, capace di far rinascere l'umanità in una nuova umanità?
È certo che la risposta è possibile intuirla nel profondo segreto dell'anima nostra alla luce unicamente di chiarissima Fede.
Ma non possiamo non riflettere - e il richiamo non è pietistico, misticheggiante, ma rigorosa-mente storico - che a volerla conoscere questa Chiesa di cui Dio e il mondo hanno bisogno per operare salvezza, è nelle pagine del Vangelo, nella storia dell'unico Salvatore, sulla via del Calvario portando sulle spalle la Croce della disumanità che imperversa nel mondo, questa Chiesa.
È venuto il tempo in cui la Chiesa è chiamata a partecipare nella propria carne al mistero della morte che sempre più domina nel vivere quotidiano, nella realtà dei rapporti umani, fino a incombere come morte universale.
Poco più di un anno fa il sangue del Vescovo Romero, sull'altare di una chiesa.
Ora il sangue del Papa sulla piazza s. Pietro. Forse Dio sta costringendo la Chiesa alla Croce.
La Chiesa cioè ogni cristiano. Anche il primo, fra i cristiani, il Papa.

don Sirio

Lettera a "Repubblica"

QUEI BUFFONI DELL'ANTINUCLEARE
Sono uno di quei «buffoni i quali scambiano la scienza per una festa campestre e l'industria per un comizio» di cui dice il prof. Vacca nell'intervista di Bocca del 7 scorso febbraio. Sono uno cioè di quel popolo che si è trovato ad essere senza partito, senza sindacato, senza amministrazioni comunali, provinciali, regionali, nazionali (perché le istituzioni politiche e i mezzi d'informazione non raccolgono i problemi e le lotte di questo popolo) che non avendo alcuna possibilità di ottenere attenzione da parte dell'opinione pubblica organizza «feste campestri». Per esempio, a Capalbio scalo, a Montalto di Castro, al Brasimone, a Caorso, nella Val Seriana ecc. e a Roma, dove due anni fa erano 30.000 questi buffoni a manifestare contro le centrali nucleari. È un buffone per il prof. Vacca, questo popolo, pacifico, non violento, che manifesta il proprio dissenso ai progetti del potere politico, economico, scientifico ecc. perché avverte (non in maniera scientifica, ma come gli animali, i disastri cosmici. - Lo riconosciamo di agire con questa istintività che ancora il popolo possiede, professore) l'insidia alla propria salute, la minaccia incombente sulla propria terra (è mai stato, professore, in Maremma?) la connessione spaventosa, nel nucleare, del civile e militare, la spesa folle e inutile (il 7% di energia elettrica da otto centrali, sull'intero fabbisogno nazionale), il problema drammatico, irrisolto e irrisolvibile (anche dalla scienza) delle scorie radioattive... ma chiedo scusa che «un buffone» che balla sui prati, si permetta arie da professore e accenni qualche motivo di giustificazione per le feste campestri. No, professore, lei sbaglia quando dice che i buffoni gridano agli scienziati: «Li sentite, non conoscono i rischi del nucleare e lo vogliono fare». Gridiamo invece noi! Buffoni e con piena coscienza. «Eccoli, gli scienziati: conoscono molto bene i rischi del nucleare e lo vogliono fare». E la differenza per noi non violenti è notevole, intacca la coscienza che anche gli scienziati dovrebbero avere e anche quelli del potere. Non c'è responsabilità maggiore di chi sa che qualcosa è male, e pur sapendo lo compie.
Prof. Vacca, non starei troppo tranquillo di fronte alle tremende responsabilità nelle quali il nucleare coinvolge, se fossi un professore e un professore in particolari posizioni scientifiche. Come sono professori anche quelli, tanto per esempio, del CNEN che avevano dichiarato terre non sismiche quelle della Campania, dell'Irpinia, della Basilicata e quindi «siti» disponibili per centrali e depositi di scorie... Invece è tutt'altra storia quella dei buffoni che ballano sui prati: sono tranquilli in coscienza, anche se poi succede come al sottoscritto che a fare il buffone, come dice il prof. Vacca, il 16 dic. scorso, a Firenze, insieme ad altri sette buffoni, si è beccato sei mesi di carcere con una condizionale di cinque anni. Cinque anni in cui sarà meglio che faccia il professore piuttosto che il buffone.
A Giorgio Bocca vorrei dire che un 'intervista andrebbe bene anche con il prof. Mattioli dell'Università di Roma, con il prof. Tiezzi dell'Università di Siena e tanti altri professori anche se sono amici dei «buffoni»...
Sirio Politi
Viareggio

Questa lettera e stata spedita alla rubrica «lettere» del quotidiano «La Repubblica», ma non è mai apparsa sul giornale.


Tempi moderni

Si dice che viviamo in tempi moderni,
nella civiltà dell'anno '79.
Ma quando mi guardo intorno altro non vedo
che moderna tortura, dolore e ipocrisia.

In tempi moderni i bambini muoiono,
crepano di fame, ma chi osa chiedere perché?
E bambine senza abiti,
urlando, sotto il napalm, corrono attraverso il fuoco notturno.

E mentre grassi dittatori seggono sui loro troni,
bambini seppelliscono le ossa dei genitori.
E polizia segreta nel cuor della notte, non vista,
dà la scarica elettrica alla donna nuda.
Sul lastrico giace il negro, morto,
e dove il petrolio fluisce più nero la strada scorre più rossa,
e là era Colui che era nato e venuto per essere, ma visse e morì senza libertà.

Mentre i burocrati, gli speculatori e presidenti tutti,
si dipingono stanotte i loro sporchi, fetidi, felici sorrisi,
il prigioniero, solo, riderà dalla sua tomba,
e l'infelice di domani lascerà l'utero della madre.


La donna pianse

Da umile casa, a notte fonda,
svolazzando un'ombra volò via,
la gialla luna colpi la picca affilata,
dove le ombre notturne danzavano e giocavano.
Un rovo graffiò la tremante mano
e un gufo notturno guardò non visto,
attraverso torbiera e valle un patriota
marciò fuori alla conquista d'un sogno.
Fredda acqua nera sferzò e schizzò
e giocò intorno a un giunco a brandelli
accanto a tizzoni morenti una donna pregò Dio
e il Gael potesse vincere.
I chiodi d'argento di un rozzo scarpone
sfregiando una solitaria pietra senza vita,
traverso dolce collina egli andò avanti a piedi
per combattere con Tone (1).
Sei giorni combatté, tra morenti mucchi di eroi mutilati e insanguinati,
e il cannone inglese tuonò, sopra le larve di ossa celtiche
il sangue della nazione era versato.
Migliaia caddero in terrore urlante di sangue,
mentre il formatore si nascondeva pavido lì vicino,
ma non restò nessuno di quella sanguinosa lotta
a sentire il pianto della donna.

(1) Wolfe Tone: patriota irlandese del secolo scorso (n.d.t.)

Bobby Sands


Associazione "Najdeh"

L'Associazione «NAJDEH» (in arabo «soccorso») è nata nel 1977, dopo la caduta di Tel el Zaatar, per riorganizzare la vita e il lavoro artigianale nei campi profughi del Sud Libano. È gestita dalle stessa donne palestinesi: cooperative di ricamo, asili nido e scuola materna ecc.
Cari amici, una volta ancora viviamo nel Libano momenti di grande tensione: siete informati dalla stampa internazionale, concentrata soprattutto sul genocidio degli abitanti di Zahle e della regione libanese sotto controllo falangista. Senza sottovalutare la gravità delle perdite in questa parte di popolazione innocente, attiriamo la vostra attenzione sul fatto che le nostre regioni (ovest di Beirut, Saida, Nabatiyeh Tyr e i campi profughi del Sud) subiscono altrettanti bombardamenti e vittime civile.
Quanto alle cause che ha provocato questa nuova esplosione di violenza sono spiegate in un comunicato del Movimento Nazionale Libanese che qui sintetizziamo:
a) la battaglia aperta del fronte falangista a Zahle è parte di un piano per ridurre il ghetto isolazionista a un mini stato di Saad Haddad (falangista);
b) la soluzione per Zahle sarebbe di sbarazzarsi della dominazione falangista. In questo contesto la forza di dissuasione araba compie la sua missione progettando la sicurezza della zona Bekaa, dell'armata siriana e della strada di Damasco. La pace non tornerà se non se ne andranno le milizie di Gemayel;
c) bisognerà che le forze dell'ordine si sottomettano alla Forza di Dissuasione Araba. È una condizione per normalizzare i rapporti tra gli abitanti di Zahle e quelli della Regione;
d) la partecipazione di unità regolari libanesi a fianco degli isolazionisti di Haddad, su incitamento di elementi amici dei falangisti è un fatto grave. Il Movimento Nazionale Libanese ritiene responsabile di questi fatti gli alti comandi dell'Arma e imputa agli isolazionisti la responsabilità delle numerose vittime innocenti e del pericoloso deteriorarsi della situazione;
e) Il M.N.L. raccoglie l'appello lanciato dal presidente Sarkis e dichiara aperto permanentemente il comitato centrale per seguire gli sviluppi;
Al NAJDEH dobbiamo adattare misure di sicurezza, come la chiusura degli asili a Beirut e nel sud; altre sono in preparazione per essere pronti ad un eventuale attacco israeliano al sud e a una estensione del conflitto.
Così abbiamo deciso quanto segue:
a) preparare il lavoro dei lavoratori con almeno 3 mesi di anticipo (nei materiali) in modo che il lavoro possa continuare in ogni caso.
b) i quadri dirigenti dei nostri «progetti» che si devono formare, specialmente quelli dei giardini d'infanzia, sono impegnati in azioni volte a minimizzare gli effetti di bombardamenti indiscriminati. Visitiamo i feriti negli ospedali, e le famiglie delle vittime dei bombardamenti per seguirli nei limiti dei nostri mezzi, organizziamo dei corsi per la difesa civile e primi soccorsi e, quando è necessario, distribuiamo aiuti in natura.
Naturalmente, se dovesse esserci un escalation del conflitto dovremmo concentrare i nostri sforzi per rispondere ai bisogni delle comunità dei campi dove si trovano i nostri progetti.
Noi temiamo che in Libano la vendita dei nostri prodotti soffrirà della paralisi delle attività economica. Così vi domandiamo di intensificare i vostri sforzi per vendere in tutti i modi possibili.
1) Inviare subito il denaro delle vendite.
2) Inviare i vostri ordini per l'estate e per l'autunno sin da ora perché l'aereoporto potrebbe essere chiuso in caso di escalation. Precisate se volete i colli per posta (10 Kg Max) o per via aerea e a quale indirizzo.
3) Aiutateci ad aumentare vendite e contributi.
4) Non inviate per ora né abiti né medicinali. Le spese di trasporto sono elevate e per ora é meglio avere i soldi per vivere.
Noi stiamo tutti bene e siamo molto occupati, fieri della nostra associazione che fa del suo meglio per servire. Riceverete un nostro rapporto d'attività 1980 ma nell'attesa contiamo sulla vostra solidarietà.
Comitato Esecutivo dell' Associazione NAJDEH
BEYROUTE, 11 - 4 - '81

Le prigioni di Israele

di Amnon Kapeliouk - Al Hamishmar,
Tel Aviv, 30 - 5 - 1980
Le celle - 3 metri per 6, con soffitto molto basso e piccoli fori al posto di finestre - sono sovraffollate. In un angolo della cella c'è un rubinetto, un WC aperto, e - sopra quest'ultimo - una doccia. In questo servizio, senza un mobile di qualsiasi genere né materassi, sono rinchiuse 10 persone, per 23 ore al giorno. «Non ho nemmeno cinque centimetri di spazio privato, si lamenta Abdel Aniz Ali Shahin che ha trascorso gli ultimi 12 anni in diverse prigioni israeliane. Agli avvocati, lo stesso vice-direttore della prigione ha ammesso che il «sovraffollamento qui è terribile».
Il cibo è sempre uguale e deve essere consumato per terra. Due volte al giorno i prigionieri sono condotti in un minuscolo cortile di cemento-armato 5x15 metri per 30 minuti «d'aria». Gli è vietato, tuttavia, di compiere qualsiasi esercizio di ginnastica o sport. Dicono gli avvocati: «abbiamo visto come i prigionieri si sforzano di beneficiare più possibile dal poco movimento che gli è consentito: camminano su e giù velocemente, come un film di Charlot».
Un certo numero di prigionieri è affetto di malattie cardiache. Per esempio, Abdallah Ajami, di 44 anni, proveniente da Gaza, in carcere dal 1967 (cioè dal momento dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi), e Adbdel Razek AI Kutub di Gerusalemme, un giovane che si è ammalato in prigione. Nel carcere non c'è un medico. Il più vicino ospedale è a 80 chilometri di distanza, a Beersheba.
La prigione di Nafha è situata in una zona esposta a ogni genere di angherie naturali. Le tempeste di sabbia, spesso violente, sono la causa di costanti infiammazioni oculari. Il cibo è sempre misto a sabbia. Di notte prevale un freddo intenso e di giorno il caldo è intollerabile, tanto più nelle celle sovraffollate e non-ventilate. Serpenti e scorpioni - gli abituali abitanti del deserto - s'infilano spesso nelle celle. «Fin dal 1967 abbiamo lottato per migliorare le nostre condizioni di prigionia». dicono i palestinesi detenuti, «abbiamo fatto scioperi e scioperi della fame, abbiamo subito punizioni, celle d'isolamento, sospensioni delle visite e molte altre pene fino a che, poco a poco, abbiamo conquistato alcuni diritti elementari. Adesso siamo stati nuovamente privati di ogni diritto. A Nafha, dobbiamo cominciare tutto daccapo».
I prigionieri palestinesi chiedono cose elementari: un letto invece di un pavimento sparso con sabbia, insetti e rettili; un tavolo su cui poter mangiare e scrivere; la fine della terribile congestione nelle celle, un lavandino per potersi lavare: un'ora d'aria più lunga e la possibilità di esercitarsi, l'uso della carta igienica, la possibilità di farsi la barba. uno specchio, libri, giornali, il permesso di ascoltare la radio, di portare la biancheria, di ricevere roba per cambiarsi. Insomma, la fine delle condizioni disumane prevalenti a Nafha. «Hanno imprigionato i nostri corpi ma non possono spezzare «il nostro spirito», dicono, annunciando una lotta per i miglioramenti: e comunque, nelle attuali circostanze, non abbiamo nulla da perdere».
Il mondo in cui sono detenuti i prigionieri palestinesi è un mondo isolato e chiuso. La stampa israeliana non ha accesso a queste prigioni e tutte le informazioni accessibili sono ottenute dai familiari o dagli avvocati dei prigionieri. Queste informazioni dettagliate sono sinistre, e non sorprende che la richiesta di miglioramenti delle condizioni di vita viene continuamente ripetuta. Scioperi della fame sono mano frequenti tra i prigionieri palestinesi, il cui numero si aggira attorno ai 3.000 e a cui non si accorda nulla di quanto viene concesso ai prigionieri ebrei, compreso la lettura dei giornali e di libri e l'ascolto della radio.
Le prigioni israeliane hanno una graduatoria di durezza. Ramleh, è una prigione durissima, ma i prigionieri la considerano confortevole in confronto ad Ashkelon e Beersheba. In quest'ultima. il sovraffollamento è intollerabile. Lo spazio stanziato a ogni prigioniero è minuscolo. I prigionieri sono costretti a consumare i pasti per terra. Non hanno il diritto di portare della biancheria o dei pigiami anche quando questi sono forniti dalle famiglie (anche questa umiliazione viene inflitta soltanto ai prigionieri palestinesi). In contrasto con Ramleh, non vi sono lenzuoli. Le cure mediche sono praticamente inesistenti - per qualsiasi malanno viene prescritta l'aspirina. La carta igienica non viene fornita, e, se portata dai familiari. viene sequestrata.
Secondo gli avvocati che difendono i prigionieri palestinesi le visite dei familiari finiscono invariabilmente per essere un incubo per i visitati quanto per i visitatori. La visita è consentita una volta al mese: due fitte e spesse reti separano il prigioniero dai suoi cari, in modo da renderli praticamente invisibili gli uni dagli altri.
Tuttavia, in confronto alla nuova prigione di Nafha, impiantata in mezzo al deserto, anche quella di Beersheva sembra tollerabile. Questa 17.a prigione israeliana è stata designata fin da principio allo scopo di «spezzare» quei prigionieri che a parere delle autorità sono i leaders. La prigione di Nafha è stata inaugurata all'inizio di maggio e in essa si trovano oggi circa 100 prigionieri palestinesi dai territori occupati. Nafha è stata costruita su una collina arida, a circa 8 chilometri da Mnzpe Rarnon, al centro del deserto del Neghev. Le costruzioni sono circondate da molteplici recinti di filo spinato e molti cani da guardia abbaiano incessantemente giorno e notte.
L'intenzione è, a quanto pare, di trasformare Nafha in una prigione centrale per i detenuti palestinesi. Attualmente vi sono incarcerati i prigionieri condannali a lunghi periodi di prigionia, o all'ergastolo, e coloro che sono considerati i capi.

Testimonianze di atrocità commesse da soldati isra

La registrazione delle testimonianze è avvenuta in Israele, nei giorni 13, 19, 20 maggio 1980.

l - Soldato in servizio di riserva, età 25 - 30 anni: Ci hanno ordinato: costringete l'arabo ad abbaiare e a dire io sono un cane.
Ho compiuto Il mio servizio di riserva nella zona di Hebron, in Cisgiordania, durante la prima metà di maggio. Appartengo a un'unità di combattimento che aveva servito in precedenza nei territori occupati.
Al nostro arrivo nella zona siamo stati chiamati ad ascoltare un esponente del governo militare che era accompagnato da un colono di Kiryat Arba (insediamento ebraico presso la città araba di Hebron - n.d.t.) che ci veniva presentato come un ufficiale dell'esercito anche se non portava divisa. I due ci parlavano sul tema «Gli arabi cosi come sono». La conclusione da trarre dalle loro dettagliate descrizioni era che gli arabi «non hanno nulla in comune con gli esseri umani. che noi abitualmente conosciamo, e che quindi essi vanno trattati come animali, da addomesticare». I due sottolineavano ripetutamente che gli arabi imparano quando gli si esercita sopra dell'autorità e quando gli si umilia. L'esponente del governo militare diceva perfino che gli arabi desiderano essere picchiati, e che è ciò che vi viene richiesto.
Gli ordini precisi che abbiamo ricevuto erano: quando effettuate una perquisizione all'interno di una casa dovete picchiare il padre di fronte al resto della famiglia, specialmente di fronte ai bambini (picchiare la madre non ha lo stesso significato). Quanto al tipo di botte da impartire, i due esperti raccomandavano: se il soggetto resiste, rompete tutte le ossa del padre e dei figli maggiori. Se non vi è resistenza, e specialmente se il padre vi chiede pietà di fronte ai suoi figli, allora dovete soltanto schiaffeggiarlo in viso un paio di volte. Una minima dose di botte ci deve essere comunque.
Se poi un membro della famiglia si dimostra arrogante - e per arroganza si deve intendere, per esempio, il rifiuto di parlare, oppure uno sguardo che esprime ostilità - allora dobbiamo rompere gli oggetti che si trovano in casa, in particolare quegli oggetti che si presume siano considerati particolarmente preziosi dalla famiglia: l'apparecchio, i mobili del salotto, il letto dei genitori. Il capo dal canto suo, ci raccomandava in modo particolare di distruggere il cibo: versare l'olio sulla farina, etc. Uno dei soldati chiedeva: «non sarebbe meglio pisciare sulla farina?» E il «conferenziere» rispondeva: «Usate la vostra fantasia».
Alla fine del discorso il comandante si rivolgeva a noi spiegando che si tratta di un dovere spiacevole, ma che era altrettanto importante per lo Stato quanto il combattimento in tempo di guerra. Egli offriva a coloro che non sarebbero stati disponibili per questo tipo di servizio la possibilità di compiere altre funzioni. Io ero tra coloro che alzavano la mano. Eravamo non più della decima parte dei presenti.
Quando siamo giunti nel villaggio dove si dovevano compiere le perquisizioni, scorazzavamo per le stradine diverse volte, su e giù, sparando in aria per spaventare la popolazione. Alcuni dei soldati, incoraggiati dagli ufficiali, sparavano contro le case, e qualcuno sparava anche contro le finestre chiuse.
Durante il mio servizio in quel villaggio, ho visto spesso uomini e ragazzi portati in strada, messi in fila, e picchiati a turno dai soldati che facevano da «guardie». Ciò accadeva più spesso quando arrivavano gli uomini del governo militare o quelli del Gush Emunim, i quali qualche volta portavano la divisa ed altre no. Era molto chiaro che i nostri ufficiali ne avevano paura perché questi ultimi hanno accesso facile e diretto al Capo di stato maggiore e riferiscono sugli ufficiali dell'esercito, non soltanto sul loro comportamento ma anche sulle loro opinioni. Gli ufficiali e i soldati che si distinguevano nel pestaggio degli arabi venivano pubblicamente elogiati dagli uomini del governo militare e di Gush Emunim. Elogi speciali venivano riservati a quei militari che ordinavano all'arabo, dopo averlo picchiato di umiliarsi, facendogli dire «grazie per avermi picchiato ed avendomi trasformato in un essere umano», al che essi rispondevano «un arabo non può mai diventare un essere umano, comunque facciamo del nostro meglio per riuscirci». E a quelli che ordinavano all'arabo di piegarsi, mettersi giù su quattro zampe, abbaiare come un cane, e dire: «io sono un cane», dopodiché lo facevano spogliare e minacciare i suoi genitali.
Ho anche visto come si legavano gli arabi ai veicoli militari che partivano, trascinandoli così verso i nostri WC, che essi venivano poi ordinati di pulire. Tutti i lavori duri ed umilianti nel campo militare venivano fatti da arabi portati dal villaggio a questo scopo. Una volta, circa 200 uomini venivano prelevati dal villaggio dopo un giorno di coprifuoco e costretti a stare in piedi per tutta la notte su una collina nei pressi del paese. Un uomo del governo militare con uno di Gush Emunim sceglievano i soldati noti come i più bravi picchiatori per fargli le guardie e picchiarli. Ciò ha sollevato una gran protesta tra quei soldati che si lamentavano invece di essere premiati, venivano puniti col lavoro notturno extra ed essi hanno deciso di vendicarsi e di non picchiare gli arabi quella notte. La mattina dopo essi venivano rimproverati per questo «sciopero del pestaggio», gli ufficiali gli rimproveravano perché «non si sentivano gli arabi urlare per le botte» durante la notte.
Nei giorni successivi l'unità veniva impiegata in altri villaggi con le stesse mansioni e lo stesso tipo di azioni veniva ripetuto. Ai blocchi stradali gli autisti arabi venivano picchiati e così anche i passeggeri. Prima si attendeva che si formasse una lunga fila di macchine, e poi, quando c'era una folla giudicata sufficientemente numerosa, si prendevano le vittime una per una e che si picchiava davanti a tutti.
Quando abbiamo finito il nostro periodo di servizio, l'uomo del governo militare ci ringraziava per «il buon lavoro fatto». Ho notato che la maggioranza degli uomini della mia unità dapprima si divertivano con tutta la vicenda e poi semplicemente si abituavano, gli sembra la cosa normale da fare. Alcuni degli uomini hanno invece deciso di emigrare da Israele non appena potranno farlo, a causa di tutto ciò».

2 - Un soldato di riserva, età 40 anni:
«II rabbino militare ci predicava la cacciata degli arabi; il consigliere Usa c'incoraggiava a diventare un esempio per i bianchi d'America».

«Sono venuto a parlarti perché sapevo qualcosa sulle tue idee.. Appartengo a un'unità di uomini che sono più o meno tutti della mia età. Il nostro servizio di riserva ha avuto inizio, questa volta, con una riunione a cui partecipava un gruppo di religiosi che cantavano canzoni fanatiche, tipo «E noi espanderemo ». Poi un rabbino militare che risultava essere un colono di Gush Emunim iniziava una predica basata su frasi del Talmud. lo non ne capivo granché salvo che era diretta contro i gentili. (i non-ebrei, ndt) in generale, ma in seguito, quando ha cominciato a parlare dei paragoni biblici, tutto diventava molto chiaro. Lui stava semplicemente dicendo che gli arabi di oggi sono gli amalechiti e i canaaniti dei tempi della bibbia e che quindi bisognava che se ne andassero perché Dio ha dato questo paese a noi alla condizione che vivessimo qui noi soli, gli ebrei soltanto, senza i gentili, la cui sola presenza contamina la Terra e gli ebrei, rinviando la salvezza. Gli arabi che si rifiutassero di andarsene dovranno subire il destino dei sette popoli (canaaniti etc.) dei tempi della bibbia. A questo punto non riuscivo più star zitto, e gridavo: Ma è questa la religione ebraica?! Allora lui mi prendeva in giro, dicendo che sarei un ebreo riformista, di quelli che si siedono nella sinagoga accanto alle donne, e tutti ridevano. Si vergognavano di continuare la contestazione. C'erano anche altre domande. Per esempio: perché ci mettiamo tanto ad espellere gli arabi. La sue risposta era che in primo luogo dobbiamo agire gradualmente per evitare che ci manchi tutt'un tratto tutta la mano d'opera, e in secondo luogo, perché molta gente in Israele non è ancora sufficientemente forte nella sua fede. Quando finì, il nostro comandante s'alzo e disse: d'ora in poi, ricordatevi di ciò che vi è stato detto qui, in ogni momento e in ogni circostanza.
La nostra unità doveva imporre il coprifuoco in diversi luoghi. Durante il coprifuoco si compivano perquisizioni in tutte le abitazioni.perquisizioni il cui unico vero scopo era quello di picchiare, di terrorizzare e di umiliare. Soltanto pochissimi soldati evitavano di picchiare la gente, ed essi venivano subito presi in giro dagli altri.
Di regola, le azioni da compiere erano: la deliberata distruzione di proprietà di oggetti e la distruzione del cibo. Si buttava sabbia sulla farina, sullo zucchero. I soldati urinavano sull'olio da cucina o sui sacchi di farina. Se qualcuno buttava soltanto il cibo per terra, ciò veniva considerato un atto troppo mite. Si picchiava tutti gli uomini e i figli più grandi, e qualche volta anche le donne. Se qualcuno diceva qualcosa o chiedeva qualcosa gli veniva scatenata addosso una tempesta di botte. I soldati parlavano di questo con i coloni di Gush Emunim che venivano a visitarci e gli elogiavano, dandogli anche dei consigli come picchiare meglio: consigliavano di rompere le costole, perché è facile, particolarmente nei casi di ragazzi giovani; oppure di usare la parte inferiore della mano «perché così si rompe meglio le ossa. Quanto alle umiliazioni, essi consigliavano delle cose che non ho neppure il coraggio di ripetere qui, ma vorrei citare un'ufficiale che nel passato aveva servito con Arik Sharon (il generale-ministro oggi responsabile per la colonizzazione ebraica del territori occupati - ndt), e che è stato trasferito al nostro reparto dopo essere stato ferito altrove: non avrete umiliato un arabo abbastanza fino a che egli non avrà urlato davanti agli altri. Fate quel che volete, pur di fargli urlare in pubblico.
I soldati che si rifiutavano di picchiare venivano presi in giro, accusati di essere comunisti del Rakah o del Matzpen (anche se nei casi a me conosciuti non si trattava di sostenitori di alcun gruppo) che si vergognavano di picchiare gli sporchi arabi (in ebraico: araousnìm).
Nonostante che anch'io ho sofferto da questo trattamento, e che ho sofferto vedendo tutto quel che succedeva senza poter far nulla per fermarlo, non sarei venuto qui a parlarti se non fosse stato per un altro discorso, tenutoci questa volta, verso la fine del nostro periodo di servizio, da un «esperto psicologo» dal rozzo accento americano, che parlava male l'ebraico e ricorreva spesso a parole in inglese. Egli ci diceva che dobbiamo addomesticare gli arabi come si addomesticano gli animali. Ripeteva in continuazione l'esempio del cane, come quando si vuole addomesticare il cane a non fare i suoi bisogni in casa si deve spingergli il muso ripetutivamente nei suoi feci e nella sua urina ed ecco, così si deve fare con questi arabi che stando qui sporcano la nostra casa (cioè il nostro paese). Spiegava anche che gli arabi causaole loro origini e la loro cultura, non capiscano nessun altro trattamento, e che si tratta in realtà di un trattamento che è tutto per il loro bene, così com'è per il bene dei cani picchiarli quando c'è n'è bisogno.
Dopo dì lui ci ha tenuto un breve discorso anche uno di Gush Emunim. Diceva che il mondo è diviso in cinque parti: l'inanimato, la vegetazione, l'animato, Il parlante e gli ebrei, e la differenza più importante sta tra il parlante (diceva di evitare deliberatamente l'uso del termine «esseri umani» perché ciò sarebbe stato fuorviante) e gli ebrei: «perciò non dovrete temere ciò che avete fatto ad esseri umani - un simile concetto non esiste. Non avete picchiate o umiliato degli ebrei, ed è questo che conta.
Questi discorsi erano stati accolti, generalmente, con accettazione e comprensione. Per quanto riguarda, era in quel momento che avevo capito che era mio dovere raccontare i fatti a qualcuno.
Vorrei aggiungere un altro dettaglio. Dopo i discorsi ho cercato di parlare con lo psicologo da solo. Gli chiesi se ciò ch'egli aveva detto degli arabi non poteva riferirsi anche agli ebrei dai paesi arabi. Egli si guardava intorno (perché all'infuori di noi due la gran parte dei soldati della mia unità provengono dai paesi arabi) e diceva: «si, certo, sono per lo più come gli arabi, ma se noi ci comportassimo nella maniera giusta ciò convincerebbe molti «veri ebrei» di venire dagli Usa». Gli chiesi cosa voleva dire con ciò ed egli rispose che quegli ebrei degli Usa che desiderano picchiare i negri e non possono farlo, verrebbero qui per picchiare gli arabi. Poi aggiunse: «E forse gli americani in generale impareranno dal nostro trattamento degli arabi come trattare i negri». A questo punto cessai la conversazione.
lo non sono un'intellettuale e negli ultimi anni ho letto pochi libri, ma ora, pensando a cose lette nel lontano passato, mi sembra di scorgere una grande somiglianza tra l'attuale stato d'Israele e le crociate.

3 - Testimonianza di un soldato di riserva, età 23 anni:
«Io vorrei dire solo poche cose, e in particolare due: 1 - Picchiare e umiliare gli arabi in Cisgiordania è la norma, è un diritto acquisito. 2 - Quel che mi spaventa più di qualsiasi cosa è che ho visto come i nostri uomini godono sempre di più questo «diritto» e la loro espressione, il loro comportamento, mi ricordavano in modo drammatico e crescente dell'espressione e del comportamento di drogati che dopo un po' non possono più fare a meno della droga».

4 - Testimonianza di un soldato di riserva, età 25 anni:
«Le vittime gridavano dal dolore; i soldati dicevano: è cinema gratis».

«lo non ero incaricato con il «mantenimento dell'ordine», ma essendo incaricato con altre mansioni nella zona di Hebron tra il 2 e il16 maggio dovevo attraversare questa zona spesso, ed era impossibile non notare le atrocità. Menzionerò soltanto tre casi di cui sono stato testimone oculare.
1. - Viaggiando in macchina attraverso una zona deserta ho udito improvvisamente un urlo terribile. Ho avuto molta difficoltà a convincere gli altri soldati di fermarci. Dicevano: lascia perdere, si tratta probabilmente soltanto di arabi, gli stanno facendo qualcosa. Ma presto ci siamo trovati davanti ad un lager improvvisato, recintato con filo spinato, in mezzo a un campo. Circa.300 uomini e ragazzini ancora bambini erano concentrati lì, divisi in due gruppi spaziati tra loro. Il centro di questo spazio vuoto c'era un tavolo accanto al quale erano seduti un ufficiale e due civili circondati da 15 - 20 soldati in piedi. Uno dei soldati andava verso uno dei gruppi, sceglieva un uomo a caso, lo trascinava per i capelli o per l'orecchio fino al tavolo, dove la vittima veniva interrogata a forza di calci e pugni. Alcuni «interrogatori» erano brevi, dopodiché l'uomo veniva trasferito nel secondo gruppo. Altre volte il pestaggio era tanto terribile - non ho mai visto una cosa del genere, neppure in un film. Le vittime erano sdraiate per terra gridando dal dolore e i soldati e gli interroganti ridevano, sì, stavano lì ridendo a crepapelle. Improvvisamente ho visto otto uomini in disparte, erano molto giovani, spogliati nudi tranne le mutande, sdraiati sulla schiena con le mani legate dietro la schiena con corde elettriche. Alcuni erano svenuti, e altri gemevano appena. Ci siamo avvicinati al recinto del lager, e i soldati che vi facevano da guardie dicevano: qui c'è il cinema gratis, se volete potete restare a guardare. Ho tentato di dire qualcosa, ma i miei compagni cominciavano a prendermi in giro, dicendo: è un buon soldato, ma ha un'anima troppo bella, così mi sono azzittito. Uno dei miei compagni chiedeva perché gli uomini nudi erano sdraiati lì. La risposta era: sono arroganti. Poi dicevano che questi uomini erano li da un bel po' e che questo trattamento si sta rivelando anche migliore del pestaggio: Servono da esempio, basta dimostrare agli altri sporchi arabi questi qua come sono ridotti. Gli dicevo: «Ma continuate a picchiare senza soste: Ma come, non ti piacerebbe picchiare un arabo? Quando mai ne avrai un'altra occasione per farlo?» E un altro diceva: Gli arabi aspettano di essere picchiati, e così via. Ho smesso di fare domande.

2 - Nel cortile del governo militare di Hebron ho visto centinaia di persone arrestate. I soldati e quelli di Gush Emunim giravano tra loro, e ogni tanto sceglievano una vittima e la picchiavano, o gli ordinavano di mettersi in posizione umiliante, per esempio su una gamba sola oppure su tutt'e quattro, oppure di alzarsi e ributtarsi per terra molte volte, in continuazione.

3 - Viaggiando sulle strade vedevo spesso degli arabi fatti scendere dall'autobus, o portati fuori da qualche villaggio vicino. con i soldati che li maltrattavano.

4 - Testimonianza di un soldato in riserva, età 30 anni:
Ho prestato servizio nella zona di Genin-Nablus (in Cisgiordania - ndt). La nostra unità aveva ordini permanenti: quando vi si comunica che ci sono problemi, chiudete una strada, o un settore della città, o una parte del villaggio senza dichiarare formalmente un coprifuoco, e portate fuori tutti i maschi dall'età di 12 a 18 anni. Non c'è bisogno di controllare l'età esatta sui documenti, valutatela liberamente voi. Per me, si trattava di un'esperienza scioccante. Le madri, sapendo già quel che accadrà ai figli, cercavano di proteggere i più giovani con i propri corpi, ma non potevano fare nulla. Se non lasciavano andare i figli venivano picchiate e minacciate che il figlio verrà trattato ancora più duramente. l bambini erano già stati picchiati all'interno della casa, davanti al resto della famiglia. I ragazzi venivano concentrati in un luogo, e l'interrogante gli annunciava: «vi terremo qui fino a che scopriremo chi aveva scagliato la pietra, sappiamo che egli (o loro - ho partecipato a un gran numero di questo tipo di razzie) si trova tra voi». Poi i ragazzi venivano fatti correre verso un luogo deserto fuori dal villaggio o dal quartiere. L'unità chiudeva il luogo ai giornalisti o alle personalità, come per esempio i sindaci arabi, dopo che tutti i telefoni nella zona erano già stati interrotti in anticipo. L'interrogatorio del ragazzo, qualche volta di centinaia di ragazzi, altre volte di alcune diecine, si svolgeva in modo semplice:
L'interrogante, o due interroganti, stavano accanto a un tavolo improvvisato, qualche volta con un segretario. Un ragazzo viene trascinato verso di loro, picchiato, e chiesto: «Hai scagliato tu la pietra?». Ovviamente, la risposta è sempre negativa, e allora i soldati che si offrono volontari per quest'azione, ricevano l'ordine di picchiarlo, di bastonarlo con i manganelli o di frustarlo; su tutto il corpo tranne la testa. Qualche volta è l'interrogante a segnalare ai soldati quale organo colpire. Alcuni interroganti preferivano far bastonare i ragazzi sulle costole, altri sullo stomaco, altri ancora sulle mani e sui piedi. Uno di loro picchiava egli stesso i genitali dei ragazzi. Dopo il pestaggio e le botte, veniva ordinato di torcere il braccio del ragazzo verso l'indietro. I ragazzi urlavano perché quelli che si sforzavano di non urlare venivano maltrattati ancora peggio. A questo punto l'interrogante guarda il ragazzo torturato, e dopo un po' dice: «quello dice la verità, adesso basta», oppure «quello sta mentendo. continuate». Gli interroganti vantavano davanti a noi di «saper conoscere dallo sguardo di un arabo se egli mente»: Di solito, durante gli interrogatori, uno dei ragazzi non regge di più alla tortura e confessa, ma ciò significa che la sua tortura non finirà mai più, o meglio, quando il numero delle confessioni avrà raggiunto quello che gli interroganti si erano prefissati in anticipo, e ciò a prescindere dalla questione se chi aveva scagliato le pietre era in realtà di questa zona oppure no.
Dopo alcuni giorni di questo tipo di servizio non riuscivo più a stare zitto e cominciavo a dire in giro che queste azioni non andavano bene.
Una volta l'ho detto davanti al mio ufficiale. Lui è membro di un kibbutz, e un «falco» nelle sue idee, Subito mi ha detto: da quando mai sei diventato uno del Rakah (il partito comunista)? Io negavo di essere nel Rakah,e allora lui diceva: se non sei del Rakah e reagisci in questo modo vuol dire che forse sei affetto da qualche disturbo mentale. Forse ti si deve ricoverare. Nel mio kibbutz ci sono stati alcuni casi come il tuo, che sono stati sottoposti con successo a trattamento psicologico. Sono stato preso dal panico, dalla paura di essere ricoverato in manicomio, e pertanto non ho più detto nulla fino alla fine del mio periodo di servizio, ma ho visto che dal quel giorno i miei compagni cominciavano a guardarsi intorno in modo diverso. Non so che cosa dovrei fare, dovrei chiedere il trasferimento in un'altra unità?




La repressione dei sindacati palestinesi

nei territori occupati

Fin dal 1967, il regime d'occupazione israeliano ha operato sistematicamente per distruggere l'economia autoctona dei territori palestinesi e per trasformare la Cisgiordania e Gaza in semplici riserve di mano d'opera a buon mercato per l'economia d'Israele, Ogni giorno, 75 mila (1) lavoratori arabi dotati di lasciapassare, sono costretti ad andare a lavorare in Israele, Essi costituiscono il 15% della mano d'opera impiegata nello stato israeliano, la quale consiste in maggioranza di lavoratori arabi (residenti entro i confini pre-1967), e il 40% della forza-lavoro degli stessi territori occupati. Com'é la regola per i lavoratori neri net Sud Africa, ai lavoratori palestinesi dei territori occupati è vietato restare in Israele dopo il tramonto, ed essi vengono obbligati a compiere lunghi viaggi ogni giorno tra il luogo di residenza e quello del lavoro, La loro giornata di lavoro/viaggi consiste cosi di almeno 14 ore. (2) Al lavoratore palestinese è proibito qualsiasi ricorso contro il datore di lavoro, per qualsiasi motivo: maltrattamento, licenziamento, compensazione per un incidente sul lavoro, etc. (3) Egli non ha diritto allo sciopero.
I lavoratori palestinesi vengono impiegati esclusivamente in lavori squalificati e «sporchi», (4) La paga di un lavoratore del territori occupati è in partenza inferiore del 20-50% a quella accordata per lo stesso tipo di lavoro a un israeliano. Inoltre, da questa paga vengono sottratte tutte le tasse a quote identiche a quelle dedotte dallo stipendio del lavoratore israeliano, senza però che egli abbia diritto ad alcuno dei benefici sociali derivanti dalla tassazione a quest'ultimo, Il lavoratore palestinese, infatti, non ha diritto alla pensione, né ai servizi sanitari, né alle vacanze pagate, etc. Ciò significa che un'altro 30% circa viene sottratto alla sua misera paga, e che, inoltre, egli viene in definitiva costretto a contribuire a coprire i costi della stessa occupazione militare della sua terra. (5)
D'altra parte, la distribuzione delle basi autonome dell'economia dei territori occupati ha ridotto i posti di lavoro e fatto si che coloro che restano a lavorare in Cisgiordania e Gaza possono spesso ottenere soltanto impieghi parziali e anche meno pagati di tipo artigianale. In tutta la Cisgiordania, per esempio, sono rimaste soltanto 8 piccole fabbriche che impiegano 50 o più operai. I soli investimenti operati in Cisgiordania in questi anni sono quelli dei capitali che affluiscono verso gli insediamenti coloniali ebraici costruiti sulle terre palestinesi. Questa situazione è intesa a spingere i giovani palestinesi, specialmente i più qualificati, ad abbandonare il proprio paese ed emigrare, senza più diritto al rientro. (6) La disoccupazione, le intollerabili condizioni di lavoro, lo sfrutta-mento e le umiliazioni connesse, assumono cosi il preciso significato di una politica di espulsione forzata dai territori occupati da parte d'Israele.

Ordine 825 del 20 marzo 1980
L'ordine n. 825 del Governo Militare della Cisgiordania, emesso il 20 marzo 1980, è inteso a soffocare ogni attività sindacale nei territori occupati. Esso conferisce al Governo Militare i seguenti poteri:
1) Di espellere da un qualsiasi sindacato un qualsiasi suo iscritto.
2) D'impedire a chi era stato condannato a 5 anni o più di prigione di candidarsi in elezioni sindacali.
E, inoltre:
3) Il sindacato ha l'obbligo di avvertire il governo Militare con 30 giorni d'anticipo di ogni prevista elezione.
4) Il Governo Militare ha il potere di annullare a posteriori l'elezione avvenuta di un sindacalista e di annullare altresì qualsiasi decisione presa in precedenza dallo stesso sindacalista eletto.
L'uso di arresti e di limitazioni sulla libertà di movimento della Cisgiordania è generalizzata. George Wazboon, Vice Presidente dei sindacati della Cisgiordania è attualmente confinato a Betlemme. Siham Bargouti, della Segretaria Generale degli stessi sindacati e Mahmoud Ziadeh, Vice Presidente del Sindacato dei lavoratori alberghieri e dei ristoranti (un'attività essenziale nella ridotta economia della Terra Santa) sono confinati il primo nel proprio villaggio e il secondo a Nebron, e impediti di recarsi al quartier generale dei sindacati che si trova a Gerusalemme. Zakara Mamdan e Khalis Zejazi di Nablus, Damin Hussein di Ramallah e Hushi Haddad di Betlemme, tutti dirigenti sindacali nelle loro città, sono stati deportati dalla Palestina a causa delle loro attività sindacali.
Le celebrazioni del 1° maggio sono soppresse in Cisgiordania da tre anni a questa parte per ordine del Governo Militare. A Gerusalemme (che gli israeliani considerano annessa a Israele) lo scorso 1° maggio una manifestazione pacifica dei lavoratori è stata aggredita dalla polizia, e 22 organizzatori arrestati. Nessuna accusa è stata formalizzata nei loro confronti, ma essi sono rimasti in stato di detenzione per oltre una settimana.
Ogni riunione sindacale deve essere notificata alle autorità militari con un mese di anticipo, con specificazione dell'argomento che verrà trattato, dei nomi dei relatori e del contenuto dei loro interventi (in base a un ordine del Governo Militare del 1976, al tempo del regime laburista). Inoltre, tutti i contatti dei sindacati palestinesi nei territori occupati con l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, devono passare tramite le autorità d'occupazione. Per esempio, quando il dirigente sindacale palestinese Aden Gharim, Segretario Generale della Federazione dei Sindacati in Cisgiordania e membro del consiglio comunale eletto di Nablus volle incontrare la delegazione dell'OIL che visitò i territori occupati nel 1976. l'incontro doveva avvenire negli uffici del Governo Militare, e l'interprete imposto era un agente del Shin Bel (servizi di sicurezza) che aveva in epoca precedente interrogato Gharim sulle sue attività sindacali. Negli anni successivi, Gharim venne impedito del tutto dall'incontrare le delegazioni dell'OIL che tornarono in Palestina, benché tali incontri siano stati specificamente richiesti. Nel settembre del 1980, egli s'incontro a Nablus con una delegazione della CGT, dopodiché venne convocato nell'ufficio del Governo Militare e interrogato per 6 ore consecutive dal consigliere politico del Governatore sulle circostanze in cui era avvenuto l'incontro e sul contenuto di esso.
Un altro esempio: la normale riunione mensile del Comitato Esecutivo della Federazione del Sindacali della Cisgiordania, fissata per il 4 gennaio 1980, fu annullata dal Governo Militare con Il pretesto che essa «era stata convocata per motivi politici».
In realtà, quella riunione avrebbe steso una mozione di solidarietà con i lavoratori della Compagnia d'Elettricità di Gerusalemme che gli israeliani avevano allora deciso di sequestrare al fine di liquidare l'autonomo approvvigionamento d'elettricità alle popolazioni palestinese gestito dalla stessa Compagnia fin dai tempi del mandato britannico.
Questi, e innumerevoli altri esempi da noi constatati, portano all'inevitabile conclusione che le autorità d'occupazione israeliane considerano il Sindacato palestinese come una minaccia agli illeciti vantaggi quotidianamente tratti dallo sfruttamento dei lavoratori arabi dei territori occupati. nonché come un altro aspetto ancora della resistenza civile palestinese all'occupazione militare stessa.
Nel 1977/78 si sono verificati in Israele 90 mila incidenti di lavoro, di cui 200 culminati con omicidi bianchi e 6 mila con invalidità permanente delle vittime. Il fatto che la grande maggioranza degli operai, specialmente nei lavori manuali e non qualificati, siano arabi, e che quelli tra essi che provengono dai territori occupati non hanno neppure diritto a risarcimenti, né alle spese per le cure mediche, incoraggia i datori di lavoro sionisti a sfuggire ai costi di mezzi di sicurezza e di modernizzazione, mentre le autorità ostentano una tale indifferenza, come , del resto fa, la Mistadrut (la Confederazione israeliana dei sindacati).
• I lavoratori dei territori occupati costituiscono il 33 per cento della forza-lavoro impiegata all'interno d'Israele nell'edilizia; Il 25% nell'agricoltura (esclusi i lavori stagionali in cui vengano impiegati i bambini); il 20% nella nettezza urbana e servizi di pulizia.


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