"Amerai il Signore Dio tuo e la pace come te stesso".
L'ha scritto un bambino su un foglio di una raccolta di disegni realizzata in una scuola, questo nuovo comandamento.
Chiaramente appartiene a questo nostro tempo e sempre più al tempo futuro, l'identità del prossimo con la pace.
Perché pace è tutt'uno con l'esistenza e con la qualità della vita del prossimo e l'Amore al prossimo prima di tutto è nel "non uccidere". Poi tutto quello che appartiene al vivere e alla dignità umana del vivere. Nel nostro tempo tutto l'economico, il politico, il militare e pare ancora il religioso, è posto nell'uccidere. Sembra che ogni rapporto umano sia impostato sulla morte "del prossimo". Anche la pace, dicono, affonda le sue speranze nella deterrenza e cioé nella sempre maggiore, orrenda capacità di morte.
Il prossimo e cioè l'individuo, il popolo, i popoli, l'umanità, non esistono più per se stessi, per il valore che sono, contano ormai e sono apprezzati e soltanto con il criterio della distruzione, dell'annientamento. L'umanità non esiste dal momento che da un istante all'altro e con, estrema facilità, può non esistere più. E ci accorgiamo bene quanto questa realtà inquini, sciaguratamente, la cultura, la moralità, la convivenza umana del nostro tempo.
L'Amore alla pace, amare la pace, può ancora convincere se riusciamo a scoprire, purificare, amare i valori essenziali, quelli che stanno avanti, prima delle distorsioni, delle aberrazioni, degli intorbidamenti operati dalla storia, dalla cultura, dalle religioni, dalla civiltà...
La pace è uno di questi valori. È tutt'uno con l'umano come il sangue che circola nelle vene (non per nulla la guerra è spargimento di sangue).
La pace vuol dire vivere. La guerra (ogni scontro, conflittualità) vuol dire uccidere. Il comandamento è chiarissimo: ama la pace perché la pace è te stesso. Cioè la vita, la dignità umana, l'uguaglianza, la libertà... Tutto quello che è uomo e donna.
Amare la pace dello stesso Amore del comandamento che chiede Amore a Dio.
Amore a Dio e alla pace. Uguale Amore. Cioè Amore totale, perfetto, assoluto. Al di là di ogni considerazione, ragionamento, razionalità, legge, illazioni, distinzioni, complicazioni di moralismo casistico, di opportunismo ideologico, culturale, economico e anche pastorale...
Amore chiaro, immediato, a cuore aperto, semplice, totale, assoluto... perché così non può che essere l'Amore a Dio. Ugualmente così dev'essere l'Amore alla pace.
Perché Dio è pace. E pace è Dio.
"Come puoi dire di amare Dio che non vedi se non ami la pace che è te stesso e la gente con la quale vivi?" Forse è venuto il tempo in cui la pace deve essere oggetto di adorazione. Esattamente come Dio. Perché di Dio la pace è rivelazione, manifestazione, presenza.
È inconcepibile una coscienza di Dio, una conoscenza del Mistero del suo Essere, una esperienza di Fede, un'intuizione Mistica dell'Unità e Trinità di Dio e quindi una profonda adorazione contemplativa della sua ineffabile identità, se non nella quiete interiore, nella preziosità più dilatata, nella visione più trasparente e cioè nella pace.
Nella pace dono di Dio, grazia illuminante dello Spirito, serenità perfetta di anima e carne e sangue, nella propria interiorità intorno a se e nel rapporto di comunione con ogni essere umano e l'universo intero. Perché la pace è santità cioè quando tutto è accolto con Amore, tutto è vissuto in chiarissima convergenza a Dio, perché tutto sia Dio.
Perché Dio è l'unico, la totalità, l'Assoluto.
È via mistica estremamente facile la visione, la sensazione di Dio, del suo Essere infinito, camminando sulla via della pace, lasciandosi cioè a poco a poco abbandonare alla spaziosità in continua dilatazione per la sparizione degli ostacoli, delle difficoltà, di ogni e qualsiasi cosa o problema che chiuda, che ripieghi su se stesso, che blocchi. Oltrepassare ogni limite, al di là di ogni orizzonte, avanti sempre nella spaziosità, oltre le nubi, l'azzurro, le stelle... Il cuore umano di queste misteriose, stupende nostalgie e lo Spirito è inesauribile dono d'infinito...
Ad una sola condizione: la pace. Questa libertà, questo respiro interiore, questo richiamo dell'assoluto, questo sogno adorabile.
Si capisce allora come nel Cristianesimo di Gesù Cristo la pace sia semplice, chiarissima essenzialità. Perché tutto il messaggio cristiano è fondato, raccolto, unificato nella pace.
Tutto in Gesù è pace perché il Figlio di Dio non può che essere pace.
Pace perfetta, assoluta, totale e cioè la Pace che è Dio e che si è fatta Uomo. Pace che è Dio, in Gesù, Pace che è Uomo.
"Dio si è fatto pace, carne, storia perché la pace abiti fra gli uomini".
Sorprende e sconcerta costatare che la pace non abbia ottenuto e ancora non ottenga la centralità della Fede per la conoscenza di Dio e l'Amore verso di lui. E quindi non abbia guidato e ancora non guidi il concretizzarsi storico, il comportamento morale, giuridico, individuale, collettivo, di popoli.
Non è, nemmeno adesso in cui la pace è decisiva per la sopravvivenza fisica, sociale, morale dell'umanità, non è la pace argomento di ricerca teologica, religiosa, mistica, contemplativa, pastorale.
La pace è oggetto di preghiera liturgica, sembra, più per convenienza che per convinzione. Non è tema di ricerca teologica, ricerca di chiarimento esegetico, biblico, provocazione di Fede nell'assunzione del messaggio di Cristo raccolto fedelmente dal suo Mistero, progetto di pastorale per la costruzione di coscienze, purificate da tremendi inquinamenti, in comunità ecclesiali fondate e viventi dei valori della Fede-Pace.
La pace come spiritualità, via mistica, visione contemplativa per la comunità religiose, monastiche. Per la Chiesa, continuità storica di Cristo risorto. Perché la pace, prima che per ogni altro uomo e donna, è respiro vitale di chi ha scelto Dio come ragion d'essere della propria vita e della propria storia.
Questo lungo articolo l'avevo scritto perché doveva far parte di una collaborazione ad un libro sulla pace. Per motivi redazionali non è stato possibile collocarlo nella stesura della pubblicazione. Mi permetto allora di offrirlo agli amici del nostro giornalino pensando che possa esserci chi, armato di pazienza, gli interessi leggerlo.
Chiedo scusa della prolissità e anche della eccessiva fatica, inevitabile, a leggerlo.
Come ormai risulterà agli amici, secondo me il tema della pace, prima che da ogni altra angolatura e motivazione, certamente sempre importante, andrebbe affrontato anche dalla parte di Dio, di Gesù Cristo, dello Spirito.
È chiaro che non sono un teologo e tanto meno un contemplativo.
Semplicemente sono un pover'uomo condotto dalla lunga e faticosa esperienza di Chiesa e di vita umana a credere che la Pace è Fede. Fede in Dio, Fede nell'Uomo.
Sirio
La Teologia della pace
"Ecco la dimora di Dio con gli uomini!
Egli abiterà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed Egli sarà <Dio-con-loro>. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate".
E Colui che sedeva sul trono disse "Ecco, io faccio nuove tutte le cose".
(Apoc. 21,3-5)
"Una mentalità nuova che includa una teologia della pace adeguatamente sviluppata richiederà contributi da diversi settori della vita della Chiesa: studi biblici, teologia sistematica e morale, ecclesiologia, nonché le esperienze e le intuizioni di quei membri della Chiesa che in vari modi hanno lottato per costruire la pace in questa epoca spesso violenta.. Non intravediamo le caratteristiche di una teologia della pace, ma non abbiamo una visione sistematica delle loro relazioni interne".
La sfida della pace
Lettera pastorale dei vescovi USA
1 - Umiltà e teologia
Che io, povero prete dal martello in mano, ormai da oltre venticinque anni e con il tempo e le forze logorate dal camminare gomito a gomito con la gente sulla strada della vita e della storia, che io mi permetta di fare della teologia, è perlomeno presuntuoso.
Me ne rendo conto ma certa presunzione può anche non essere un male o un peccato imperdonabile quando tutto è assolutamente senza pretese. Il Magistero ha tutto il mio rispetto e la mia obbedienza da sempre. Ma penso e credo che fatta questa obbedienza di spazio per muoversi, camminare e anche volare ne rimane all'infinito. La verità dogmatica non chiude l'anima ma piuttosto l'apre, la spalanca, costringendola ad affacciarsi dove non è nemmeno l'orizzonte, dove "occhio mai vide e orecchio non udì".
Non sono un'esegeta, altro che come uno che scruta e contempla il cielo stellato e se ne inebria pur non essendo astronomo: guardo il firmamento stellato della rivelazione di Dio e il brividìo di luce incessante, ma cerco di salire oltre le costellazioni, d'intuire al di là, e chi può misurare gli spazi, il mistero d'infinito Amore là, dove e soltanto, è Dio?
Il bambino del catechismo da un bel pezzo è lontanissimo ricordo e così è anche del giovane seminarista degli anni di teologia: non studiavo affatto - nemmeno tagliavo i libri - del Diritto Canonico e non riuscivo ad occuparmi seriamente della Teologia Morale per un rifiuto invincibile delle leggi e delle casistiche. Studiavo invece, ma era come quando pregavo, la Teologia Dogmatica e certamente attraverso la conoscenza esegetica delle Sacre Scritture, i padri ecc., ma seguendo anche intuizioni, elevazioni, contemplazioni del Mistero di Dio, in Se stesso, in Gesù Cristo, nell'Amore Spirito Santo.
Ho sempre pensato che avere le ali - Rivelazione, Magistero, Dogmi ecc. - è dolcissima grazia di Dio, ma aprirle le ali e volare nell' azzurro del cielo ed inebriarsi d'infinito spazio e di chiarissima luce, è il dono dell'adorabile rapimento dello Spirito di Dio.
Lo sguardo del cuore, il dilatarsi dell'anima, l'umile e semplice preghiera di adorazione può essere quell'intuizione, quell'elevazione, quella contemplazione. Niente quindi di straordinario.
La teologia è la via dell'andare e del venire di Dio e dell'uomo, in un andirivieni incessante di Cielo e di Terra, di Rivelazione e di Risposta, come in un gioco bellissimo ed estasiante a irradiare Amore. Se in questo riflettersi a specchi parabolici del divino e dell'umano non si frappone nebbia, oscurità, caligine, ma tutto è nella trasparenza di Fede limpidissima, allora nell'uomo, anima e corpo e storia, è possibile cogliere e adorare l'immagine e più ancora il volto di Dio e nel Mistero di Dio è dato di intravedere e contemplare tutta la realtà, vita, morte, destino, dell'uomo e della sua storia. La teologia oltre alla fatica di dissipare, svanire ogni nebbia e tenebra, liberando e dilatando la conoscenza, ravvicinare le distanze e mettere a fuoco la visione, la teologia è per donare certezza all'incertezza della Fede, accendere l'Amore del cuore a fiamma inestinguibile, sostenere la trepi-dante e spesso ansiosa attesa della Speranza.
Se teologia è scienza di Dio è chiaro che il campo nel quale cercare il tesoro, richiede volontà di lavoro, di fatica, quell' ansia adorabile di desiderio, di bisogno assoluto di trovare la chiarezza, la verità e cioè il segreto nascosto nella insondabile profondità di Dio, fino ad arrivare a scoprire il cuore di Dio, quell'intimo nodo che stringe e racchiude l'essere di Dio, il punto focale di conver-genza della divinità e irradiante tutta la sua manifestazione.
La teologia: è il rapporto eternità e tempo, cioè il farsi tempo dell'eternità e quindi il rapporto creatore e creazione e il farsi creatura del creatore e poi (ancora di più la visione è chiamata a purissima, verginale trasparenza) il rapporto Dio e umanità e cioè il farsi umanità e storia, di Dio.
2 - Novità e teologia
Ma è praticamente, umanamente impossibile il decantarsi, il purificarsi della teologia dagli inquinamenti, annebbiamenti dell'umano. Perché non esiste e non può esistere uomo liberato dalla sua storicità, dall'essere circoscritto e quindi prigioniero del suo tempo, della sua terra, della cultura del suo popolo. In fondo è vero che la Fede in Gesù Cristo è tutta qui: uomo perfettamente e totalmente libero, concretezza storica perfetta e libertà assoluta, circoscritto in un luogo e in un tempo e appartenente ad ogni angolo della terra e a tutto il tempo della storia, Figlio di un popolo e di una cultura ermeticamente chiusa e incidenza profonda nella storia di tutta l'umanità. Eccezionalità così straordinaria, letteralmente unica fino al punto da poter ottenere convincimento del suo essere Dio. Perché tutto qui e dovunque, in questo momento e sempre, di un popolo e di tutti i popoli... appartiene esclusivamente a Dio.
Prima di Gesù Cristo e dopo di lui appartiene agli uomini e qualifica la loro verità e onestà, proporzionalmente, la fatica della ricerca di una qualche misura di liberazione, di purificazione dalla carcerazione storica e quindi di capacità intuitiva, conoscitiva della verità, di qualsiasi verità, ma, è chiaro, particolarmente della verità di Dio.
È di qui che s'impone per la teologia e la sua ricerca di conoscenza di Dio, la necessità vitale e quindi umile e semplice, di muoversi, eterna pellegrinante, di terra in terra, di popolo in popolo, di tempo in tempo. Non può appartenere a nessuno, come l'aria da respirare e il sole, la spaziosità dei cieli e il tempo che corre. Qui la proprietà assai più che in tutto il resto è sacrilegio perché incatenamento di Dio, un segnare confini all'infinito, stabilire e programmare la manifestazione del Mistero.
Forse alla teologia (questo misterioso perdersi della conoscenza umana nella ricerca della conoscenza di Dio) nella storia dell'umanità, non è stata consentita questa liberazione.
Anzi nei millenni la teologia di ogni religione ha subito violenza cioè schematizzazioni obbligate dentro le oppressioni storiche, quando non è avvenuta una vera e propria strumentalizzazione a giustificazione della disumanità, a copertura e più spesso ancora a garantire alleanze della divinità. La teologia, ma è parola sintesi di tutto il religioso, richiede sempre più, anche qui onestà è sangue che circola nelle vene, un riconoscere contaminazioni, imprigionamenti, oppressioni, servilismi, strumentalizzazioni e chiedere umilmente perdono, che non vuol dire dichiarazione di errori ecc. ma semplicemente di aver "obbedito più agli uomini che a Dio".
Forse è venuto il tempo in cui teologia non è più esclusività di scienza, specializzazione di qualificati: si sta imponendo sempre più, piaccia o no, un magistero che è quello della storia, però di una storia non fatta da regnanti ma dal popolo.
Si tratta di un magistero esercitato da una contingenza storica determinata dalle scelte dei potenti ma che rimangono rovesciate e trasformate in storia totalmente diversa e nuova al momento del loro impatto con le realtà popolari.
La teologia dei "segni dei tempi" è anche la teologia e più ancora la visione e contemplazione dei "segni di Dio".
E può essere che questo nostro tempo sia il tempo dell'inizio di nuova storia di coinvolgimento di Dio e umanità.
È in questa Fede che la "Teologia della Pace" può essere "il granello di senape che, seminato, cresce, diventa albero e gli uccelli vengono a fare il nido fra i suoi rami. Può essere il pugno di lievito impastato in misure di farina: una forza capace di lievitare tutta la pasta".
3 - Libertà e teologia
Affermare e credere che la pace s'identifica con l'Essere di Dio non è certamente una ricerca di strumentalizzazione pacifista, disarmista ecc. E nemmeno tentativo di liberazione di Dio, uno scioglierlo da ogni e qualsiasi alleanza, disinquinando il mistero della divinità da compromissioni temporali, da impossessamenti determinati da poteri terreni, da necessità strategiche, militari. Questa liberazione di Dio cammina allo stesso passo e sulla medesima strada lungo la quale va avanti sia pure faticosamente la liberazione dell'uomo. Perché tutto è congiunto fra uomo e Dio, divinità e umanità, sia nel bene che nel male e quindi nella pace e nella guerra: non è possibile e nemmeno ipotizzabile una liberazione dell'uomo se in antecedenza o almeno simultaneamente non avviene una liberazione di Dio. Perché Dio è per i credenti e per i non credenti è come l'aria che si respira: non è data una respirazione ossigenata se l'aria, l'atmosfera, non è purificata, disinquinata. Tutta la storia dell'umanità credente o no, risente e porta le conseguenze, come ferite spesso mortali o come piaghe non cicatrizzate, della non trasparenza dell'idea di Dio, della libertà di Dio e della costrizione perpetrata dalla religione per strappare Dio dal suo essere pace e coinvolgerlo nelle imprese degli uomini che hanno dilagato di lacrime e sangue l'umanità intera e tutta la sua storia.
Forse è di qui, dalla realtà storica di questo sacrilegio, che è assurda o perlomeno sforzata, soltanto sognata, una teologia della pace senza che in antecedenza sia affrontata una rilettura della Bibbia e senza chiedere perdono all'umanità e alla sua storia, da parte del Cristianesimo nei confronti dei sedici secoli della storia cristiana.
Una teologia della pace può voler dire due cose: una fatica profonda, sofferta e coraggiosa per ritrovare, come pagliuzze d'oro nella sabbia del fiume, sprazzi di luce di pace nel pesante e torbido buio della storia della Chiesa. Oppure in secondo luogo, partire dalla condizione storica attuale determinata dalla realtà dell'esistenza del potenziale nucleare capace di concludere l'esistenza dell'umanità e scoprire insieme alle ragioni strategiche, politiche, economiche, militari, anche motivazioni teologiche e responsabilità morali, verità cioè raccolte nel mistero di Dio e nella coscienza dell'umanità. Nel primo caso è evidente una specie di fatica apologetica con il risultato di una sforzatura culturale e quindi di accentuazione di equivoco con in più una raccolta di copertura buona soltanto a tentare di smaltire pesanti responsabilità. Di questa fatica ne è testimonianza la prima parte della lettera pastorale dei Vescovi USA "la sfida della pace".
Nel secondo caso impressiona e sconcerta (anche se le vie di Dio, è vero, sono infinite e i segni dei tempi vanno letti e scrupolosamente interpretati) il fatto che a provocare una teologia della pace sia la paura. E è evidente che la paura anche se è, come dicono, l'equilibrio del terrore a salvare la pace nell'era nucleare, è chiaro che non può essere la paura e il terrore atomico, fondamento e programmazione di una teologia della pace.
La pace non è né potrà mai essere frutto di paura. La paura è negatività, è conseguenza di male, di peccato, sta al fondo e con preminenze decisive e determinanti, di tutta la disumanità che ha imperversato e imperversa nella storia. È assurdo aspettarsi che dalla paura fiorisca la conoscenza di Dio e particolarmente la contemplazione della pace identificata con Dio. E forse di più ancora è impensabile che la costatazione dell'incubo che pesa ormai sulla umanità fino, a chi ne è cosciente, a causare l'orrenda paura di camminare sull'orlo dell' abisso della distruzione universale, possa ottenere un profondo rannodo di amore fraterno, di rispetto vicendevole fra i popoli, di umanità diversa, nuova.
Non è certamente muovendo da realtà di disperazione universale e da incubi per paure apocalittiche, che è possibile sognare una teologia della pace.
4 - Conversione e teologia
Dai terribili tempi in cui stiamo vivendo è doveroso e intelligente e cristiano raccogliere l'indicazione che il cammino della storia è arrivato ad un crocevia di fronte al quale è inevitabile una scelta, s'impone cioè, piaccia o no, quella che teologicamente (e qui è già teologia della pace) si chiama conversione.
E conversione è positività, valore creativo, inizio e volontà di novità. Impone la conversione un giudizio sereno ed onesto, retto e libero, nei confronti di tutto un passato, nella disponibilità all'accoglienza di ogni e qualsiasi responsabilità e un aprirsi alle vie nuove, esporsi serenamente e fiduciosamente alla fatica e al rischio della novità nella disponibilità a pagare tutti i prezzi richiesti. Non è semplice e facile rompere con tutta una storia passata imponendosi rotture di legami culturali, d'interessi privilegiati, di sicurezze oramai collaudate. Occorre un intervenire sulla sacralità della Tradizione e infrangere collegamenti e dipendenze, tagliare ponti e non voltarsi indietro, non sopravvivere di cultura archeologica, di celebrazioni secolari.
La conversione esige il coraggio di chiedere perdono e non è immaginabile una teologia della pace se non è radicata in questa umiltà (equivalenza di pace) liberante da un condizionamento orgoglioso (e cioé di potere) di non accettabilità di un giudizio d'infedeltà, d'incoerenza, di irresponsabilità.
Il Concilio Vaticano II ha cercato per la prima volta nella storia della Chiesa, di trasparire questa umiltà, ma è stato riconoscimento di breve durata, troppo presto si è imposto il ritorno alle posizioni sopraelevate di considerazione di se e di imposizione dei propri rapporti assolutizzati ed esclusivi. Ma non chiedere perdono, oltre ad esporsi ad una negatività di magistero e ad una non sincerità e linearità di comportamento e quindi di partecipazione e condivisione della realtà storica, impedisce alla cristianità e alla Chiesa, una disponibilità, una capacità, una volontà di novità, di creatività e cioé fa perdere al Cristianesimo nel mondo la possibilità di una proposta di storia nuova, di umanità diversa.
Ciò di cui la Chiesa può essere accusata e pesantemente, è l'aver mancato, l'aver fatto mancare alla storia e quindi all'umanità, agli uomini e alle donne di ogni angolo della terra e di tutti i tempi, l'alternativa alla vicenda umana pensata, voluta, imposta e sempre violentemente, dagli uomini del potere.
5 - Rivelazione e teologia
U n'altra storia cioè e precisamente quella iniziata da Gesù Cristo e a prezzo di sangue, da inserire e svolgersi, libera e sicura, nella storia "normale" dell'umanità. Una corrente di acqua dolce ad attraversare il mare amaro della violenza, della sopraffazione, della legge del più forte, della strumentalizzazione della morte, della disumanità del fine giustifica e mezzi.
Una teologia della pace è la ricerca, onesta e adorabile, di questa alternativa: ricerca da affondarsi - e chi può segnarne le vie e le misure - nelle profondità infinite del Mistero dell'Essere di Dio. Perché Dio è ancora conoscenza tutta da scoprire. Il camminare della storia lungo i giorni, i secoli, i millenni ha, in una visione di Fede, quest'unica spiegazione: scoprire sempre di più all'umanità "agli occhi che vogliono vedere, agli orecchi che vogliono ascoltare", la conoscenza di Dio. L'affermazione che la Rivelazione si è conclusa con Giovanni evangelista, può essere dichiarazione ad uso del magistero della Chiesa, ma non può significare la cessazione della manifestazione di Dio, del rivelarsi del suo Mistero: perché ad ogni aurora di sole al mattino e allo sbocciare di un fiore e al nascere di un passero nel nido, la gloria della creazione si dilata a lode del Creatore. Così ad ogni alito di vento, al frangersi di un'onda sulla spiaggia, ad ogni palpito di cuore, al fiorire di un sorriso, all'accendersi di un desiderio, di una speranza.
Così e ugualmente il fluttuare dei popoli, l'agitarsi dei continenti, il fremere della storia e le sue esplosioni di lotta, di scontro, di orrori e insieme di sogni, di pazzie, di utopie, di liberazioni, d'ideali mai affogati e annientati da maree di sangue, da diluvi di lacrime, sempre risorgenti a credere, a cercare una novità sia pure impossibile.
Dio è l'onnipotente violenza - Gesù la chiama lievito, sale, luce... - nascosta nell'anima dell'umanità a impedire il chiudersi, il raggomitolarsi su se stessa, in se stessa, concludendo la ricerca dell'infinito nel finito, del cielo nella terra, di Dio nella materialità dell'umano.
La storia, tutta la vicenda umana, dall'imponderabile al cosmico, è provocazione di Dio ad aprire gli occhi alla visione, alla contemplazione, alla conoscenza del rivelarsi incessante di Dio. Ad aprire il cuore all'adorazione, all'Amore di Dio.
La fine del mondo, la conclusione della storia avverrà quando la rivelazione e la conoscenza saranno compiute: e la compiutezza, la misura della totalità appartiene all'Essere di Dio. E questo sarà il giorno scelto da Dio e che Lui solo conosce.
Oppure la creazione non sarà più, resistenza sarà conclusa, se verrà il tempo in cui la Rivelazione sia sterile e inutile manifestazione e la conoscenza sia come chiudere la finestra alla luce del sole. Il giorno in cui le tenebre non si lasceranno nemmeno filtrare dalla luce, quello sarà certamente l'ultimo giorno della storia. E questo è il giorno che può essere deciso dagli uomini, dalla storia dell'umanità.
In questo nostro tempo in cui stanno infittendosi le tenebre in spessori di disumanizzazioni sempre più pesanti, la Teologia della Pace, nell'approfondimento e nella precisazione determinata, provocata dalla contingenza storica attuale, possiede con estrema chiarezza, i requisiti di accoglimento di tutta la teologia tradizionale, di decantazione e purificazione delle incrostazioni dei secoli passati e di proponimento di una visione di Fede capace d'incidenza viva e vitale nella sconcertante condizione storica di questo nostro tempo.
S'impone però chiaramente il superamento di ogni e qualsiasi timore, è il tempo in cui la prudenza non è più una virtù e la saggezza non è apprezzabile quando è sinonimo di conservazione e respinta preconcetta, sistematica della novità o anche semplicemente della diversità. Perché è veramente stupido e riprovevole stare ad annaffiare i gerani alla finestra quando la casa sta bruciando.
L'unico timore ragionevole oggi è l'incubo di quattordici miliardi di tonnellate di tritolo, l'equivalente del potenziale nucleare, sospese sul destino dell'umanità. La prudenza è tutta nel raccogliere la sensibilità di umanità, ancora sopravvivente, nella coscienza umana e dei popoli e unificare l'estremo tentativo, la suprema fatica, dai quattro venti del mondo, di strappare dalle mani dell'irresponsabilità imperialista del potere economico, politico, militare, il potenziale bellico capace della distruzione del mondo. Perché ogni problema: la recessione economica, le fonti energetiche, l'equilibrio monetario, le divergenze ideologiche e perfino le contrastanti volontà di supremazia assoluta nel mondo ecc., ogni problema che travaglia l'umanità può essere affrontato e risolto se non altro attraverso i progressi, i chiarimenti, le liberazioni che la storia stessa, nel suo evolversi, matura ed ottiene. Ma il problema della permanenza e in continuo aumento, della capacità d'incenerimento del mondo, va risolto immediatamente e può essere risolto unicamente annullando il potenziale nucleare e liberando quindi l'umanità dalla paura dell' annientamento.
6 - Cultura e teologia
S'impone una saggezza, una sapienza da non ricercarsi nella cultura, nel progresso, nelle civiltà, ma nel semplice e primordiale istinto di conservazione, nelle ragioni profonde della vita, nei valori essenziali, decisivi della sopravvivenza. È in questa saggezza che l'era del nucleare comanda ed impone, pena la distruzione, la morte universale, il ritrovare e progettare la nuova cultura, cioè il nuovo umanesimo perché "ormai le cose di prima non sono più". L'accumulo di secolo in secolo di teologie e filosofie, di sistemi economici e politici., di letterature, arte e poesia e più ancora ansia di umanità e angosce, utopie e sogni senza fine spesso affogati di sangue e lavati di lacrime... l'accumulo di tutta una "civiltà" si sta sbriciolando e dissolvendo davanti alla realtà, impietosa e dis-umana, delle armi nucleari.
È da questo concludersi di una storia che se ne deve aprire, iniziare un' altra. Diversamente è la fine. L'uomo vecchio esige il nuovo: è la legge della sopravvivenza. Una glaciazione universale minaccia la terra se non freme e non si sveglia la primavera. Se una teologia della pace non aiuta nel suo scrutare il mistero della creazione rivelando e proclamando la presenza dello Spirito creatore di Dio, il conoscere le vie di Dio nel condurre l'evolversi della storia e indicando le vere obbedienze, le collaborazioni profonde dell'umanità per l'attuazione, il diventare storia dell' Amore e della Pace, la teologia è "cembalo e bronzo squillante".
E la Chiesa e la Cristianità continuano ad essere "occhi che non vedono, orecchi che non odono" e cuore che non pensa e non ama.
7 - Splendore e teologia
Ma più ancora la teologia della pace deve aprire, avviare alla conoscenza di Dio.
E non per ascendere e assidersi "nel terzo cielo". Ma per raccogliere lo splendore delle stelle a sostituire i lampioni al neon lungo le strade della città. Per rapire al sole il suo fulgore e fugare le tenebre, il buio della notte, in un giorno che sia eternamente aurora.
Perché la pioggia scenda a fecondare il campo del buono e del malvagio e produca la terra dove il trenta, il sessanta, il cento per uno, perché é vero, che cinque pani d'orzo e pochi pesci possono sfamare l'umanità intera, se interviene e può essere compiuto il miracolo dell'Amore. L'importante è nascondere sotto terra il buon grano e poi mentre la storia veglia o dorme, cresce da se fino alla mietitura.
Ma per tutto annunciare e proclamare, bisogna non avere di ricambio due tuniche e i calzari, non avere oro e argento nelle cinture e mangiare e bere quello che viene posto davanti. E avere la gioia di riconoscere e la libertà di attestare che "la verità è stata nascosta ai saggi e ai potenti di questo mondo e rivelata, manifestata ai piccoli". Perché "la pietra scartata dagli edificanti è diventata pietra d'angolo".
Guardare oltre e scrutare le profondità dei cieli, può voler dire, come fin troppo è avvenuto, cercare di salire in cielo per strappare dal firmamento le stelle a farne selciato di strade per i potenti e i loro interessi, ma può anche significare il salire fino a intravedere l'immagine, intuire la somiglianza di quel volto che è il vero volto dell'uomo perché è il Volto di Dio. Visione, contemplazione, adorazione, è l'innamorarsi beatificante che non chiude e tanto meno conclude, ma è pienezza che trabocca e si riversa in sorgenti di acqua viva fino ad estinguere ogni sete. Perché la teologia della pace è misteriosa, struggente, adorabile nostalgia di Dio.
8 - Mistero e teologia
Perché Dio è pace. L'inimmaginabile pace eppur tanto conosciuta come conosciuto è ciò che non sappiamo nemmeno sognare pur essendo sostanza vivente del nostro essere e del nostro vivere. Forse è vero che siamo nati su un'altra terra e da altro padre e da altra madre e poi a vivere la vita siamo stati collocati qui su questa terra e coinvolti in una storia che forse realmente non è la nostra storia. E proviamo l'angoscia dell'emigrato, la solitudine amara dello straniero. Questa terra non è la nostra terra e allora camminiamo, ebrei erranti, pellegrini senza soste, non verso una terra promessa che non esiste né può esistere, ma a ricercare la terra dove siamo nati, la nostra terra, perché sappiamo, la nostalgia ne è garanzia, che solo nella nostra terra è la pace cioè la compiutezza, la totalità, l'assoluto.
Affermare che Dio è questa pace non è discorsetto apologetico, devozionale. Può anche essere che sia la chiave per introdurre ad un chiarimento, perché chiarimento vi deve pur essere, del Mistero. Mistero non è là dove è impossibile capire qualcosa, può anche essere dove è dato di conoscere e di capire "tutto".
Così è del Mistero che è Dio. È Mistero, certamente e come potrebbe non esserlo? Ma è l'inconoscibile che offre le uniche, esclusive possibilità di capire tutto, dall'imponderabile al cosmico, dall'esperimentabile a tutto ciò che è "oltre".
Dio è conoscenza esaustiva. Senza di lui è preferire di fermarsi sull'orlo e è ad ogni passo. Come è per la pace. Nella pace è sicuramente l'umano, nella guerra è unicamente il disumano.
Le verità essenziali, consustanziali alla vita, sono sempre un crocevia, pongono inevitabilmente davanti ad una scelta.
In questo nostro tempo, oggi stesso (non possiamo essere sicuri se potrà essere anche domani) la storia dell'umanità è davanti all'ultimo crocevia, all'ultimo bivio: la sopravvivenza o l'annientamento, l'umanità o la disumanità. La pace, finalmente pace o la guerra ormai veramente guerra. La teologia, la Chiesa, la Cristianità, pare che ancora debbano decidere la scelta, al bivio della storia, fra Dio o la morte di Dio, perché la disintegrazione del mondo è veramente la scalata al cielo a tirare giù dal trono chi vi sta seduto.
È sconcertante come la profezia possa essere così spenta, svanita fra i carismi della Chiesa.
9 - Contemplazione e teologia
E profezia è l'annuncio della verità di Dio, della verità dell'uomo.
Estremamente significativa ed eloquente del Mistero di Pace che è l'Essere di Dio, è la verità fondamentale, costitutiva, della Fede: Unità e Trinità di Dio. Semplice affermazione di molteplicità inconfondibile e di unità perfetta, assoluta. Un esprimersi esistenziale di unità sostanziale. Un essere di più ed essere uno. L'unità che si divide e si raccoglie, si esprime e si ritrova, di più e cioè pluralità e di più ancora l'unità. Perché la pienezza, la totalità dell'unità si ritrova e è veramente unità perché è molteplicità. È la divergenza e la convergenza che realizzano l'unità. È il movimento che dà significazione all'immobilità. È la diversità che stabilisce l'uguaglianza. La dissomiglianza che comporta l'identità.
Perché Dio è Amore e è Amore perché Trinità. E quindi conoscenza e conosciuto. Amato e amante. Illuminante e luminoso. In una circolazione perfetta dove tutto, assolutamente tutto, è donato e tutto, perfettamente tutto è ricevuto. Non di più e non di meno. Vincolazione per libertà assoluta personale. Dipendenza è indipendenza, libertà è appartenenza. Se stesso è altro.
Perché Dio è la pace. La pace è Dio.
Forse una teologia della pace è possibile sognarla soltanto in una liberazione di Dio da tutto il suo coinvolgimento operato dagli uomini e dalle religioni, nella storia. Una ricerca teologica che sia come lasciarsi illuminare dalla luce del sole. Quella "luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo".
Perché l'Essere di Dio, unità e molteplicità, molteplicità e unità e cioè Amore, Pace, non è rimasto chiuso in cielo, come "tesoro geloso" in uno scrigno attentamente custodito, ma si è aperto e il tesoro prezioso si è donato in una effusione la cui misura è quella di Dio e cioè senza misura.
La creazione (è possibile questa visione e adorazione del mondo materiale?) è forse più che manifestazione, trasposizione dell'Essere di Dio per dare di Sé realtà e immagine. Segno di concretezza e invito alla trascendenza. Come scala o ali per scendere e incontrarsi, conoscersi, amarsi. Perché la terra è per fiorire occhi che vedono, aprire orecchio che ascolta, anima che trepida, cuore che palpita, quando l'Invisibile si rivela, la Parola parla, lo Spirito si effonde, l'Amore si dona...
È una limpidissima trasparenza di Fede che intuisce che l'umanità è uscita dall'Unità e Molteplicità, quasi a riprova dell'infinita perfezione e compiutezza e sicurezza di molteplicità indefinita e di unità assoluta.
Perché il donare di Dio è simultaneamente accoglienza. L'uscire da lui è rimanere perfettamente in lui: il concetto e la realtà di spazio è unicamente quello di Dio.
10 - Cristianesimo e teologia
Tutto questo Mistero (ma è una semplice evidenza) si è per così dire rivelato, precisato, storicizzato in Gesù Cristo.
L'Unità e la Molteplicità si è aperta a effondersi in realtà totalmente diversa ma ad ugualmente ottenere molteplicità unificata e cioè Amore e Pace. La teologia non ha spiegato e forse nemmeno la mistica contemplativa, quanto il riversarsi della divinità nell'umanità, nella Persona di Gesù Cristo e della umanità nella divinità sia perfetto, infinito, adorabile Mistero di Pace.
Gesù Cristo è la pace.
Vero Dio, vero Uomo. Divinità e umanità nell'unica Persona. Storia di Dio e storia di uomo in una confluenza di unificazione, realtà di pace assoluta. Di nuovo e ancora, ma è incessantemente, Unità e Molteplicità, dono e accoglienza, Amore, Pace. Non è un caso, o dottrina moraleggiante, a edifica edificazione dei devoti, per una spiritualità di Chiesa, per un temporalismo sacrale e nemmeno per la salvezza eterna di anime elette, che una Croce in un giorno del tempo storico, sopra una roccia di tutta la terra, è stata issata fra cielo e terra, il creatore e la creazione, Dio e l'Uomo.
È per riavvicinare le distanze scavate, richiamare la dispersione, radunare e forzare la molteplicità a ritrovare e ottenere l'unità e cioè l'Amore, la Pace.
Il compimento di questa Unità è avvenuto nel Mistero di Dio e nel suo Essere, la multiforme presenza è perfettamente unitaria, Amore e Pace. Non altrettanto è avvenuto nella storia, nel cuore dell'umanità, nella Fede della cristianità, nella missione della Chiesa. La molteplicità è sempre più divergenza, divisione, separazione quindi lotta, scontro, guerra.
La fissione o scissione dell'atomo per l'energia nucleare, esplosività capace di frantumare la terra, ne è il segno e la realtà suprema.
La Fede in Dio, in Gesù Cristo, nell'Amore è sapere che esiste l'Unità in attesa di tradursi nella storia: è compimento che aspetta. E i tempi di attesa della pace totale si restringono paurosa-mente.
"Io sto alla porta e busso. Se uno mi sente e mi apre, io entrerò e ceneremo insieme, io con lui e lui con me" (Ap. 3,20).
don Sirio Politi
È trascorso ormai un anno da quando ci siamo messi in giro a "predicare la pace" con lo spettacolo teatrale "Le ombre d'Hiroshima" che don Sirio ha scritto e che insieme ad un piccolo gruppo di amici siamo riusciti a mettere in piedi. Amici molto diversi fra loro, ma tutti desiderosi di dare un po' del proprio tempo e delle proprie energie a questo grande sogno della pace. Perché proprio di sogno si tratta: di una visione della vita raccolta prima nel profondo del cuore, alle radici stesse dell'esistenza, e poi resa pubblica, gridata, raccontata a forza di gesti e di parole. Una visione che parte dall'esperienza tragica e terribile della prima bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki e poi si allarga fino al nostro tempo così carico di pericoli concretizzati nell' enorme potenziale nucleare che i "grandi" hanno progressivamente accumulato sulle nostre teste, nascosto - quasi fosse un tesoro prezioso - nelle profondità della terra e del mare.
Un annuncio, questo del nostro teatro per la pace, che non vuoi far leva sulla paura, perché la paura è sempre e comunque una cattiva madre, anche se a volte può produrre qualche frutto positivo. Un annuncio invece che vorrebbe scavare dentro le coscienze, prendere il "cuore" dove ogni uomo e ogni donna potrebbero ritrovare il senso della vita e rendersi conto dell' assurdo che è nascosto nella logica purtroppo cresciuta e crescente dell'equilibrio del terrore, del riarmo ad ogni costo (magari fino all'olocausto di milioni e milioni di esseri umani).
A me è sembrato di andare in giro nei teatri, nelle chiese, in qualche piazza, a compiere un'opera che assomiglia tanto alla visione che pare S. Agostino abbia avuto a proposito di tutt'altra questione: un bambino che con una conchiglia cercava di svuotare il mare! Forse anche noi col nostro girare qua e là in veste di modestissimi "attori", con le nostre attrezzature da saltimbanchi, assomigliamo a quel bambino della visione: Vorremmo tentare di svuotare il gran mare della violenza organizzata, l'oceano degli arsenali militari, degli eserciti sempre pronti alla lotta, delle centrali del potere politico ed economico che sono sempre dietro ogni militarismo, della sottile e ben attrezzata cultura della guerra che ogni popolo ha pagato a prezzo di fiumi di sangue. Forse quello che abbiamo fatto e che continuiamo testardamente a fare è solo un ingenuo ed infantile tentativo di portar via da quest'oceano amaro della storia umana qualche goccia, con l'assurda speranza che arrivi il momento in cui si realizzi il grande avvenimento sognato dal profeta Isaia: "Forgeranno le loro spade in falci, le loro lance in aratri e nessuno imparerà più il mestiere della guerra".
Così il nostro sogno ingenuo e infantile si ricollega misteriosamente al sogno stesso di Dio. Quel sogno che storicamente si è fatto visibile nella vita di Gesù di Nazareth, del quale vorremmo essere umili ma fedeli testimoni. Sulla linea della sua lotta, dei suoi sogni, delle sue speranze forse si può collocare anche questo nostro "girare per le città d'Israele" nel tentativo di provocare una presa di coscienza che conduca a delle risposte precise contro la logica della guerra e per una cultura e una vita di pace.
Nei dibattiti che abbiamo sempre fatto a conclusione del nostro teatro, sono sempre emerse le contraddizioni che sono alla base della nostra cultura riguardo al modo di concepire la realizzazione della pace, sia per quello che è definito il "mondo cattolico" sia per il "mondo laico e socialista". Alcune di queste contraddizioni sono del resto state messe in evidenza da certi "gesti" pubblici che sono stati compiuti proprio durante questo nostro "anno teatrale" da persone che nella Chiesa cattolica hanno un ruolo importante e significativo. Vorrei ricordare la benedizione della prima pietra della chiesa che sta sorgendo nella base nucleare di Comiso fatta dal vescovo di Ragusa e del giubileo dei militari celebrato a Roma dal papa Giovanni Paolo II. Il nostro annuncio teatrale è esattamente all'opposto di questi avvenimenti che esprimono in modo chiarissimo come si possa annunciare la pace dando una mano (benedicente!) a coloro che preparano, programmano e attuano le strategie della guerra.
Ugualmente sul fronte "laico" i continui appelli e richiami alla distensione e quindi alla pace, sono subito smentiti dal dispiegamento di armi nucleari sempre più raffinate, precise e distruttrici. Il nostro caro presidente Pertini, ad esempio, che aveva auspicato lo svuotamento degli arsenali militari per riempire i granai di chi muore di fame, si è ritrovato a presiedere una "repubblica nucleare" ben espressa dalle rampe dei Cruise di Comiso. Con la nostra umile conchiglia fra le mani, noi continuiamo nel folle tentativo di svuotare il mare...
don Beppe
Non so bene cosa significhi psicologicamente raccontare dei sogni: può anche essere che voglia dire non avere cose reali, concrete da raccontare e allora uno si rifà con i sogni. Può anche essere che realmente non ci sia nulla, oggettivamente, storicamente, da raccontare e non certamente per svalutazione di quello che sta succedendo, ma anche perché tutto è ormai raccontato, fritto e rifritto., fino alla noia e non è il caso d'immalinconire perché non capita più niente di nuovo sul quale riversare attenzione, entusiasmo, speranze. E allora dal momento che è donata questa grande risorsa umana (spesso è stata utilizzata e adorabilmente anche dal "divino") questa possibilità di consolazione che è il sognare, conviene abbandonarci ai sogni.
Dolcemente e serenamente. Come sognano i bambini. Come sognano i cani sdraiati al tepore del sole.
Ho scritto un libro di sogni. E l'Editore mi ha scritto che sì ha avuto un certo successo ma non grandissimo. Le librerie cattoliche, dice lui, non l'hanno favorito perché giudicato "troppo avvenieristico". Ma poi forse perché racconta di "sogni antichi e nuovi" e il mondo cattolico ormai è tutto rivolto al concreto, all' immediato, cioè al temporal-trionfalistico di un Regno di Dio da ottenersi nelle piazze, attraverso valenze e successi di pastorali temporalistiche, di risorse e ritrovati assai più di questo mondo che del mondo di Dio.
Nonostante quindi la ridicolezza e l'assoluta inutilità del sognare, a me succede ancora di sognare. E mi avviene di sognare ad occhi aperti: cosa assolutamente imperdonabile e realmente risibile, alla mia rispettabile età, in cui non dovrei più avere sogni per il capo, ma invece saggezza e senso del concreto, se un po' d'esperienza mi è stato dato di vivere come giustamente si spera.
E come se questo sognare ad occhi aperti non bastasse mi avviene di sognare anche dormendo. E non soltanto sogni che visti attraverso la filigrana dell'analisi potrebbero spiegare chissà cosa del misterioso subcosciente che abita e imperversa nei fondali del nostro oceano interiore, ma anche sogni netti, chiarissimi, come visioni in piena luce, concreti e reali come fatti realmente avvenuti. Sogni cioè così veri come una traduzione fedelissima del concreto in immagini irreali, ma strasposizione nel sogno di una precisa realtà non vissuta eppure appassionatamente desiderata.
Insomma ecco il racconto di questo sogno di stamani, domenica, 14 Maggio, poco dopo le sei. Un filo di luce filtrava già dalla finestra socchiusa. Mi ero svegliato molte volte, come ormai mi succede durante la notte. Avevo tutta l'impressione spiacevole che non mi sarei addormentato più e pazienza, tanto mi dovevo alzare alle 6,30. Sono rimasto in quel sereno assopimento al quale mi sono abituato per cercare di rimediare al non dormire, in attesa che suonasse la sveglia.
E invece mi sono addormentato e ho sognato un momento di estrema lucidità e commozione. Come se fossi nella mia chiesa di quando ero bambino. Accanto alla porta che di chiesa immette nella sacrestia, accanto alla grande colonna che regge il frontone del presbiterio.
Papa Giovanni Paolo, ma è meglio che dica papa Wojtyla, stava per entrare nella porta della sacrestia. Era col suo abito talare bianco, la sua immagine era precisa, nettissima, aveva il volto sudato, i capelli leggermente bagnati di sudore. Sereno anche se molto affaticato. Mi sono avvicinato, ansioso e dolcemente felice. Gli ho preso le mani e poi l'abbracciavo con grandissimo affetto e abbracciandolo il mio volto si è appoggiato al suo, sentivo il bagnato del suo sudore. Lui rispondeva all'effusione affettuosa, dolcemente, quasi con abbandono. Una gioia profonda come per un Amore pieno, sicuro, totale. Così tanto e così vero che gli ho detto: ma sai che io ti amo. E ora mi guardava e vedevo bene che credeva a questo mio Amore. E allora ho cominciato a dirgli ed era con Amore e Angoscia, uno struggente desiderio e voglia infinita di potergli dire di questa Angoscia: ma perché non parli della povertà, della semplicità, della fraternità... perché non racconti soltanto del Vangelo...
Mi stringevo nuovamente nell' abbraccio, vedevo il bagnato di sudore del suo volto, dei suoi capelli bianchi. Non mi ha detto niente, non una parola, mi guardava con profonda, malinconica dolcezza. E io ho continuato a dirgli, ma era la mia Angoscia che parlava perché non vi era ombra di polemica, di risentimento, di rimprovero, ma unicamente (lo ricordo benissimo) quello struggente Amore perché lui fosse e facesse quello che gli dicevo, era importante, decisivo per lui, per lui personalmente e quindi come papa. E gli dicevo: perché tutta quella grandiosità, quell'importanza... non sono le cose del mondo che fanno il regno di Dio... è la povertà, la povertà...
Ho aperto gli occhi e mi sembrava di vedere ancora, continuavo a provare fisicamente la sensazione dell' abbraccio, del volto bagnato di sudore, della dolcezza dello sguardo e della profonda stanchezza. E la pace per aver potuto dire a papa Wojtyla le parole della mia Angoscia e del mio Amore.
Mi sono alzato e ancora non aveva suonato la sveglia, non erano ancora le 6,30.
Forse il sogno era durato pochi secondi. Perché sempre la Verità e la Sincerità il tempo che passa se le porta via rapidamente. Durano forse come un batter d'occhio o un palpito di cuore. Tanto più quindi la Verità e la Sincerità quando non possono essere altro che un sogno.
Sirio
Spesso nel nostro grande capannone, dove col nostro lavoro artigianale cerchiamo di guadagnarci il pane quotidiano ma anche il ritrovare il vivere la dignità del lavoro fatto di cuore e di mani, spesso arrivano visitatori.
Chi vuole un lavoro chi un altro, curiosità da soddisfare, qualche pregiudizio in cerca di chiarimenti o anche perché quel tipo non sa dove trovare da scambiare una parola.
E spesso assistenti sociali, genitori in cerca di un'accoglienza per quell'emarginazione alla quale ancora non è dato di entrare a far parte della convivenza umana.
Ogni tanto capitano scolaresche. Gruppi di bambini, di ragazzi a formicolare qua e là nei diversi reparti di lavoro, incespicando nella grande confusione che regna dovunque, rovistando in ogni angolo a scoprire i motivi di curiosità, d'interesse, di stupore.
Si raggruppano qui, là, intorno a chi lavora e vogliono sapere tutto. Cos'è questo, cos'è quest'altro. A cosa serve quest'attrezzo, com'è che è possibile fare questo lavoro.
Quando sarò grande anch'io voglio lavorare. Anche mio padre fa questo lavoro. Ma quanto guadagni? Sei un prete allora perché lavori?
Fammi vedere come si fa a saldare. E quanto tempo ci vuole a impagliare le sedie... E poi la falegnameria, il lavoro della pelle. Sciamano sulla scala di legno a vedere la rilegatoria dei libri.
E naturalmente l'attenzione più interessata è al lavoro della ceramica, anche perché lì c'è il numero maggiore dei giovani handicappati.
Logicamente l'attenzione intorno a loro si approfondisce per problemi molto più complessi e profondi. Qualche settimana fa è venuta una classe di terza media di una scuola della darsena. Di questa visita al nostro laboratorio ne hanno fatto oggetto di una ricerca rielaborata fra loro in classe insieme alla loro insegnante. La fatica di questi ragazzi è stata pubblicata su un quotidiano della città.
La offriamo volentieri ai nostri amici di Lotta come Amore.
C'è in Darsena, in mezzo ai piccoli cantieri di via Virgilio, un capannone che apparentemente non è diverso dagli altri: bozze e lamiere, grandi vetrate e ferro. Vicino all'entrata leggiamo il nome scritto sopra un cartello: A.R.C.A. (Associazione Ricerca Cultura Artigiana). L'atmosfera all'interno è serena: la gente lavora in modo tranquillo e costante, ognuno è impegnato a svolgere con serietà il proprio compito. Il grande salone che occupa tutto il piano terra dell'edificio è diviso in vari settori dove piccoli gruppi di persone sono occupati a forgiare il ferro, a impagliare le sedie, a lavorare il cuoio e la creta ed al primo piano a rilegare i libri. Questo capannone si differenzia dagli altri del suo genere per i lavoratori che ospita; ci sono infatti quattro preti operai (Don Rolando, Don Sirio, Don Luigi e Don Beppe), 13 handicappati e due obiettori di coscienza che svolgono qui il loro servizio civile. Dei 13 ragazzi, la maggioranza ha superato i vent'anni e quelli che presentano maggiori difficoltà, lavorano nel settore della creta. Ci sono anche due donne specializzate per assistere questi ragazzi; Franca che li aiuta nel loro lavoro ed Eleonora che si occupa della parte tecnica.
L'USL paga l'elettricità, le assicurazioni, il pulmino che li porta sul posto di lavoro e la mensa la quale è presso i Cantieri Benetti ed è gestita da una famiglia. Il guadagno è scarso ed i sacerdoti ricavano gli stipendi da quello che riescono a produrre, che non è molto.
Lo scopo di questo capannone non è comunque legato al guadagno, né quello di dare un lavoro a vita a questi handicappati, ma di insegnare loro un mestiere che possano poi esercitare presso una fabbrica o un ente pubblico. Una legge regionale ben precisa dice che ogni azienda, con un personale di circa venti operai, dovrebbe assumere un ragazzo portatore di handicap. Naturalmente questo non avviene, altrimenti il problema dell'occupazione del ragazzo handicappato sarebbe già in parte risolto. Don Sirio ci ha detto che per ora nessuno dei ragazzi dell'Arca ha trovato lavoro, anche quelli che sarebbero stati in grado di svolgerlo con una sufficiente autonomia.
Nonostante che l'Arca non sia ancora riuscita a concretizzare questo scopo, rimane il fatto importante che questi ragazzi sono contenti del loro lavoro e soprattutto si sentono utili.
È infatti importante per loro essere considerati come gli altri e vedere il frutto delle loro fatiche che non è fine a se stesso ma serve a produrre anche un minimo guadagno. Non a caso infatti ogni anno questi ragazzi partecipano alla festa della SS. Annunziata vendendo personalmente gli oggetti fabbricati e con il ricavato fanno delle feste oppure organizzano delle gite. Ed è con grande soddisfazione che vedono le loro creazioni scelte dagli altri ed anche in questo modo si sentono meno diversi. È un dato di fatto che la società non è ancora pronta per accoglierli: il mondo del lavoro, soprattutto ora con il problema della disoccupazione, non offre alcuna possibilità. Questo capannone non è ovviamente la soluzione del problema generale, ma è secondo noi un esempio di come la questione può essere affrontata.
(III G)
Per me e Paolo stare a contatto con i ragazzi handicappati non era una cosa nuova; lui a Pisa ed io a Livorno, nostre città d'origine, avevamo già avuto esperienze di animazione e servizio verso persone handicappate.
Tuttavia iniziando il nostro servizio civile, durante il quale a noi due si è aggiunto Sergio, obiettore di Firenze, ci siamo trovati a vivere questo rapporto in maniera più continua e soprattutto nel contesto di un luogo di lavoro dove si svolgono varie attività artigianali, che vanno dalla lavorazione del ferro forgiato a quella del cuoio e della pelle, dal laboratorio di ceramica all'impagliatura delle sedie. Questo ci ha dato l'opportunità, prima di tutto d'imparare a lavorare con le nostre mani, cosa per noi abbastanza nuova, e di poterlo fare insieme a questi ragazzi senza sentirci superiori nei loro confronti o trattandoli solo come "persone da aiutare".
Importante per noi è stato anche il fatto di poter fare questa esperienza come collettivo di obiettori. Crediamo infatti che condividere pienamente dei momenti della nostra giornata; mangiando, dormendo, abitando insieme, dia l'occasione di conoscerci meglio di aprirci di più anche agli altri senza rimanere legati ad una dimensione strettamente individuale del nostro servizio (anche se un po' di privacy ci vuole!). Delle nostre "miserie" quotidiane molto ci sarebbe da raccontare; dal fatidico uovo sodo che ci aspetta ogni giorno a pranzo, a tutte le battute e i detti sorti sugli obiettori, con frequenti riferimenti al famoso proverbio "per la mangia e per la bea nessun ce la facea, ma per la lavora...!".
Comunque, scherzi a parte, ci siamo accorti che si può vivere il servizio civile come momento qualificante della nostra vita, non solo per l'utilità o meno del lavoro che svolgiamo adesso che forse resterà solo una breve parentesi, ma come verifica e ripensamento delle motivazioni che ci hanno spinto a fare questa scelta che non vuole rimanere un momento chiuso e fine a se stesso, ma un'esperienza propositiva e di testimonianza concreta per noi e per gli altri.
Paolo, Sergio e Minello
obiettori di coscienza in servizio civile
presso l'A.R.C.A. (Associazione Ricerca Cultura Artigianale) Viareggio
Spazi infiniti il suo cielo
silenzio di altezze profonde
e non sussurra alito di vento
movimento immobile eterno.
Pace prima del principio
eternità raccolta nell'attimo
e non muta ne trascolora
è nell' assoluto compiuto.
Desiderò volare e nacquero
i cieli trepidi di stelle
camminare e si distesero
valli si elevarono montagne.
Gli piacque sussurrare la parola
che racconta storie d'Amore
e il silenzio degli occhi
che guardano il mistero.
Novità di pace ogni mattino
primavera fioriva sui prati
stupore negli occhi di bambino
rannodo nello stringersi delle mani
Corro la notte a chiamare
le stelle perché le stelle
sanno se pace è scesa
dall'infinito cielo o la guerra.
Voglio sapere quale parola
mi parla la margherita nel campo
mi canta lo stormire
delle foglie e il volo del gabbiano
E il battito del cuore
acceso nell' abbraccio dell'Amore
l'ansia palpitante dell'Anima
a sognare profondità di Mistero
I cieli per guerre d'angeli
terra per campi di battaglia
uomini per stragi e stermini
ferro e intelligenza per armi?
Sono stanco, Pace, di sognarti
gli occhi hanno pianto oceani
di speranza e la voce
che chiama è rantolo d'agonia
Eppure credo alla tua Pace, o Infinito
il Nulla non potrà mai più tornare
come tutto era prima del Principio
il tempo è entrato ormai nell'Eterno.
Quasi a metà strada fra Lucca e Viareggio, prima del breve valico del Monte Quiesa, venendo da Lucca, sulla destra della via provinciale, si apre e si allarga una vallata coltivatissima, orlata di colline stupende. Nella vallata, al confluire dei campi col muoversi dei pianori in collina, si adagia, distesa come un ricamo prezioso fra il verde, la Certosa di Farneta.
Un'antichissima Certosa (forse dal 1200) ancora abitata, una delle pochissime in Italia, da una fiorente comunità.
Vi palpita, silenziosa, nascosta, clausura severissima, la solitudine di 32 monaci. Preghiera e in piena notte, come nei tempi antichi, suona la campana per il mattutino. Lavoro, raccolto, solitario, nelle celle, accoglienza al portone a cuore aperto e pace e silenzio assoluto.
Nel '43 - '44 il monastero si aprì ai rifugiati, ai perseguitati politici, agli ebrei: e il cuore aperto costò la vita a dodici monaci trucidati dalle SS tedesche.
Ma la storia cammina e anche la memoria diventa corta. Ma forse anche la Fede pare che si disorienti e si sciacqui. È difficile in questi nostri tempi giudicare cosa e quando la pastorale è ricerca di Regno di Dio o è invece compromissione o rilassatezza. Sta il fatto - e la cosa angoscia e sgomenta per la sua realtà e più ancora per la sua sconcertante simbologia - sta il fatto che il Comune di Lucca (sindaco democristiano) ha autorizzato la sistemazione di una discarica dei rifiuti solidi della città e dintorni, in un appezzamento di terreno a poche centinaia di metri dalla Certosa.
I monaci hanno semplicemente dichiarato che una Certosa e una discarica di spazzatura non possono coesistere.
E i monaci venderanno (o svenderanno) la Certosa e se n'andranno.
Un comitato guidato da un professore. Qualche accenno sul settimanale cattolico diocesano. Un articolo bellissimo di Mario Tobino. Un altro, ottimo, su "Repubblica". Una protesta dell'ANPI, dato che la Certosa è medaglia d'oro e monumento della Resistenza...
Nient'altro. E naturalmente il progetto della discarica va avanti.
Forse un'opposizione decisa, risoluta della Curia Arcivescovile non è possibile?
Sta il fatto che se una Chiesa locale non ha la forza religiosa e morale, civica e culturale, d'impedire che una discarica di rifiuti, d'immondizie, di spazzatura, amministrativamente, conti di più di una comunità di certosini e valga di più della sacralità di una secolare e gloriosa Certosa, è inevitabile una profonda perplessità, una sgomentante angoscia. Forse è vero, la cosa è molto emblematica, che sono "i rifiuti" a creare serie difficoltà, a tutto, ma forse anche alla Fede. E non è possibile non riconoscere, certo, amaramente, che la "spazzatura" ci sta sopraffacendo e, è chiaro, a scapito dell'essenzialità.
Se qualche amico volesse
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455