LOTTA COME AMORE: LcA ottobre 1984

Pace e ipocrisia

Ormai parlare di pace, proporre la pace, discutere e pregare per la pace, è impegno che si è andato allargando nella coscienza individuale e collettiva. E chi è che non si dichiara per la pace? E di pace si riempie la bocca e di pace tratta con carta e penna?
Ugualmente capita per la nonviolenza. La nonviolenza sta diventando la cultura di questi ultimi decenni del secolo. Anche, se a dire il vero, questi ultimi decenni concretamente sono tempi di inaudita violenza. Milioni di morti nelle "guerrette" qua e là per il mondo. Killeraggio disinvolto, normalizzato, negli scontri di potere mafioso.
Commercializzazione ad alti livelli della morte con la produzione e collocazione di armamenti e di droga. Milioni di morti di fame ogni anno. Sfruttamento incontrollabile delle risorse naturali e nel frattempo riversamento incontenibile di rifiuti inquinanti ad assassinare la terra da coltivare, l'acqua da bere, l'aria da respirare. Più i due blocchi est-ovest che si ostinano per amore di pace a tenere col fiato sospeso l'umanità sull'orlo dell'abisso nucleare, aumentando sempre più quei quindici miliardi di tonnellate di tritolo, l'equivalente del potenziale nucleare. E ora, come se non bastasse, cercano di coinvolgere anche le stelle progettando le cosiddette guerre stellari.
Pace e non violenza stanno diventando paurosi equivoci.
Non soltanto perché c'è il rischio, estremamente pericoloso, di convincersi a stare tranquilli, a fidarsi ad occhi chiusi di chi gestisce il potere, impegnando questa passività nella ricerca di fare i propri interessi e provvedere saggiamente e più abbondantemente che sia possibile, alla migliore sistemazione economica, politica della propria carriera
L'equivoco micidiale è quello culturale. Tutti ne sono consapevoli, tutti, dall'uomo della strada all'uomo di cultura, dal dirigente sindacale, all' imprenditore industriale, dal politico all'ecclesiastico... che il mondo nel quale stiamo vivendo è spaventosamente nell'ipocrisia, nel fariseismo più sfrontato.
E, secondo il giudizio del Vangelo e la spada a due tagli della sua Parola, l'ipocrisia, il fariseismo, il camuffamento del male come bene e del bene finalizzato al male, merita soltanto una parola terribile: "guai" che nel linguaggio biblico suona come maledetti, segnando un'impossibilità di recupero.
Così è della pace: un bene supremo, assoluto, strumentalizzato per il potere, asservito all'interesse politico, economico, militare, religioso. U n bene essenziale, vitale per il popolo, come l'aria che si respira, che si stravolge contro il popolo.
Pace e intanto l'industria bellica è l'economia che più tira nel mondo in interessi capitalistici sconcertanti. Pace e i regimi dittatoriali militari sono i più che dominano nel mondo e tutti disinvoltamente sostenuti ad ogni livello dagli imperi che si spartiscono il mondo.
Pace e i blocchi si fronteggiano rafforzando i potenziali capaci di distruggere l'umanità.
Pace e la guerra economica si scatena sempre più per il possesso di mercati e di sfruttamento, costringendo ad una sottoumanità il sud del mondo per favorire la superumanità del nord.
Pace e fra i poveri si riflette la guerra delle multinazionali e sempre più il miraggio dell'arricchimento lustra la canna della pistola e il fucile delle canne mozze.
Pace, pace, ma nessuno, o quasi, crede che povertà sia decisiva per la pace. Che la semplicità sia condizione essenziale, costruttiva della nonviolenza. Che serenità è pace proporzionalmente ad un lasciar cadere assurde pretese. Che pace è essere felici anche delle piccole cose. E che non violenza è rifiuto d'imposizione, di forzatura culturale, sociale, politica, psicologica, morale e religiosa: non violenza è rapporto con ogni essere umano da pari a pari e se antecedenza e preferenza vi dev'essere è dell'altro, tanto più se l'altro è povero, indifeso, oppresso, infelice. Nonviolenza è lasciar cadere ogni e qualsiasi assolutizzazione, è rifiutare ogni occasione di essere monumento e demolire qualsiasi piedistallo per altri monumenti...
Perché "pace, pace": e ancora è favorita, sollecitata, benedetta una convivenza sociale basata sulle differenze economiche, culturali, politiche, un cristianesimo individualistico, ghettizzato, intimista, devozionale... Pace e la pace è diventata il grande equivoco che rafforza il potere, copre di un rimboschimento spaventoso di missili di qua, di là, dovunque, questo povero mondo e giustifica l'egemonie, gli imperialismi, le ideologie e gli impazzimenti più disumani.
Pace è la spietata ipocrisia che la cultura imperante, quasi tutta venduta al potere, sta dilagando, perché nasconde la guerra e la violenza mimetizzandola, contrabbandandola come scienza, progresso, libertà. Fariseismo camuffato di pace è spesso una pastorale che filtra, passa e ripassa al setaccio dell'ortodossia, le bevande, per scoprire il moscerino e nel frattempo disinvoltamente ingoia e impone che sia ingoiato, il cammello, Purifica e lava l'esterno del piatto e del bicchiere e intanto li riempie, e spesso traboccano, del proprio interesse, prestigio, autorità.
Pace, pace... ma spesso è imbiancatura di sepolcri: all'esterno appaiono belli sì che sepolcri risultano, sembrano grandi opere sociali, imprese umanitarie, congressi prestigiosi, salvezza dell'umanità, e invece dentro sono ossa di morti e marciume.
Forse è venuto il tempo in cui il capitolo 23 di Matteo è di una attualità sconvolgente, a leggerlo come criterio di giudizio della realtà storica del nostro tempo.
E se questa lettura storicizzata non è consentito farla perché verrebbe stimmatizzata e repressa come Teologia della Liberazione, allora forse è più semplice e onesto togliere una volta per sempre molte pagine del Vangelo e bloccare definitivamente il Cristianesimo alla devozione.
Perché mai come oggi l'equivoco, il distorgimento, la manipolazione, il surrogato, il sofisticato, l'inquinamento, il propagandismo, la sponsorizzazione, la pubblicità, la reclamizzazione... è il pane che si mangia, il vino che si beve, la cultura che ci propinano, la politica alla quale si crede, la religione che si pratica, la pace nella quale si spera
Di verità sotto il cielo pare quasi che non esista più niente. E tanto meno di semplice, d'immediato, di onesto, di cuore aperto... .
Fra le tante proposte del Vangelo, tutte sicuramente norma fondamentale di sincerità di vita e di onestà di rapporti, ve n'è una, che nel nostro tempo, è particolarmente inascoltata e disattesa, pur essendo la chiave di volta del Cristianesimo: la tua parola sia sì, sì, no, no, perché ogni aggiunta viene dal maligno.
Non può non porsi, a lasciare andare a certe riflessioni non accomodanti, per ogni coscienza onesta, il problema: se le cose stanno così - e sembrerebbe - cosa fare?
A dire il vero lascia piuttosto perplessi che in una così pesante degenerazione di valori, qual'è l'equivoco, l'ipocrisia, degenerazione che investe così radicalmente il vivere umano fino a sembrare normalità di cultura, di comportamento, come dire, una moralità corrente, non si sappia in concreto cosa fare.
Questa moralizzazione dell'immoralità è il segno inequivocabile che ormai il male è cronicizzato.
E inoltre è anche la riprova di un arrendersi, se non proprio di un assecondamento, da parte delle centrali che fanno cultura, che formano le coscienze e che gestiscono i grossi mezzi d'informazione, a che la fiumana straripi dove e quando vuole. Una vera e propria sconfitta, si direbbe, della Religione e della Civiltà.
Cosa fare.
Come prima fatica bisognerebbe provvedere immediatamente ad una rimozione: togliere prima di tutto la trave che è nell'occhio, cercare cioè di avere capacità visiva e di giudizio, purificata, libera. È chiaro: questa rimozione a livelli personali, collettivi: più ampliati che sia possibile. L'ipocrisia è condizione psicologica tutta particolare: è facile vederla e inorridirne intorno a noi e nel mondo, è difficilissimo riscontrarla in noi stessi e nel nostro comportamento. D'altra parte lottare contro l'ipocrisia vuol dire prima di tutto non essere ipocriti.
Poi è necessario tirarci fuori e coraggiosamente, da ogni intrigo, complicazioni, compromessi, forse occorre attenzione anche alla troppa prudenza, all'eccessiva saggezza... Nel frattempo cercare di riconsiderare e ritrovare il fascino della sincerità, della semplicità, la gioia e la dignità di essere quello che siamo, nel superamento di ogni complesso: riscoprire cioè, nello specchio della verità, la propria vera immagine e preferirla a qualsiasi altra
Respingere ogni ipocrisia comporta logicamente non intrallazzare, non incensare, non aver paura... Non pretendere, non aspettarsi niente, fregarsene disinvoltamente dell'importante, del personaggio. Non adattarsi a dipendenze, sudditanze, servilismi e tanto meno pretenderli e imporli. E poi aiuta molto un'inesauribile capacità di umorismo...
Accenni certo e banalissimi, se volete. È praticamente impossibile ammaestrare sulla sincerità, la schiettezza, la verità. Anche perché dovrebbe essere cosa semplice, spontanea, come camminare, come respirare... È certamente decisivo avvertirne l'importanza vitale, come sentire il cuore che palpita.
Trattandosi poi di pace, attenzione: bisogna avere il cuore puro, limpido, liberato da qualsiasi ombra o penombra di ipocrisia, a voler vivere in pace e per parlare di pace, lottare per la pace.
Ogni e qualsiasi intenzionalismo, a livelli personali, sociali, politici, religiosi, fino alle realtà di potere mondiale, quello che decide se l'umanità deve vivere o sparire, ogni intenzionalismo, rende la pace ipocrisia, inganno, equivoco miserabile.
Perché di pace ce n'è una sola, è identica la pace per sé stessi e per ogni essere umano, oppure è ipocrisia cioè la guerra.
È così, veramente, nel cuore di ogni uomo e nel cuore del mondo.

La posta di Fratel Arturo

Carissimi Amici,
Vi scrivo da Recife dove sto dando un corso nel ITER (istituto teologico Recife) e per volontà di dom Helder il corso è sulla teologia della Eucarestia. A parte il corso hanno organizzato vari incontri che mi prendono buona parte della giornata. È una grande gioia incontrarmi con dom Helder che considero un vecchio e grande Amico: ieri mi ha parlato dei suoi impegni italiani e mi ha detto che in ottobre andrà a Lucca, stupendo. Mi sono incontrato con dom Helder la domenica stessa del mio arrivo a Recife, il l0 giugno, Pentecoste: ci siamo incontrati in un immenso ginnasio dove si pratica il basket e altri sports, gremito fino all'impossibile mi hanno fatto sedere accanto a Lui e avevo l'impressione di un vecchio finito, che faceva uno sforzo enorme per mantenere gli occhi aperti e una immagine accettabile al pubblico. Io stesso non dovevo presentare un aspetto molto incoraggiante dal momento che avevo viaggiato la notte ed ero arrivato a Recife alle quattro del mattino. Pensai molto a un articolo che una giornalista italiana scrisse anni fa su Edith Piaf che m'impressionò molto, chissà perché. Raccontava la giornalista di essersi incontrata con un rudere umano che non si reggeva in piedi che non mostrava nessuna voglia di vivere e molto meno di cantare. Entrò in scena appuntellata e i suoi puntelli, la lasciarono sola in quello spazio che pareva il deserto. Quando cominciò a cantare Edith Piaf si trasformò completamente.
A questo pensavo quando il vecchietto dom Helder arrivato il suo momento guizzò dalla sedia e cominciò a saltare nel mezzo dell'arena e a trasmettere il suo entusiasmo. Tutti gli occhi erano fissi su lui che creava una comunione profonda. Era tutta gente di "favelas" di quartieri poveri che dom Helder da 15 anni convoca a passare la Pentecoste con Lui. In mezzo alla sua omelia si chiede: che faremo per uscire dalla nostra situazione così dura e ingiusta e accenna le prime battute di un canto popolare di chiesa: "Quando il povero avrà fiducia nel povero potremo cantare libertà". Questi tuffi in una chiesa che è quella chiesa dei poveri auspicata dal Vaticano II sono il relax migliore .. Mi dispiacque solo che mi tirasse in ballo, ma bisogna permettere alla affettività debordante di dom Helder questi scivolamenti nella retorica. Anche ieri 18 mi sono incontrato con Lui alla vigilia della sua partenza per l'Italia. Mi ha raccontato il suo ritmo quotidiano di vita, che io già conoscevo. Vi posso dire solo che mi ha fatto sentire miserabilmente pigro e poco generoso. A questa umiliazione profonda e benefica dovete l'avere scovato il tempo per scrivervi.
La Chiesa del Brasile continua nella sua linea di fedeltà al popolo, e questo provoca inevitabilmente reazioni ufficiali o non ufficiali, perché sempre quando la chiesa esce dalle sua linea estremamente dottrinale e spiritualista, provoca reazioni di proteste che possono arrivare alla persecuzione aperta. Dom Helder mi ricorda molto dom Arnulfo Romero che conobbi non tanto da arrivare a quell'amicizia che mi lega a dom Helder, ma conobbi sufficientemente per concludere che era un vescovo estremamente ligio alle direttive di Roma, e di una adesione alla chiesa incondizionata.
La loro originalità che li fa apparire davanti al mondo come simboli di una libertà che può prendere contenuti diversi e opposti, non consiste in posizioni teoriche o dottrinali che rompano una struttura giudicata troppo rigida, ma consiste nell'amore reale, autentico al loro popolo nella scoperta mistica della identificazione di Cristo con il povero. La differenza fra questi pastori e altri uomini di chiesa non è nella dottrina, ma nel fatto che le scelta dei poveri sulla cui decisione si da una unanimità assoluta nella Chiesa, si fa vera scelta dei poveri, e non adesione al concetto di povertà.
I poveri di dom Romero sono gli oppressi e gli emarginati dalle 14 famiglie che hanno nelle loro mani il destino di El Salvador. I poveri di dom Helder sono i famosi nordestini flagellati dalla fame, dalla disoccupazione, dalla impossibilità di accedere a quei diritti che sono i diritti assoluti di ogni uomo che vive in questo mondo. Quando la scelta dei poveri è una scelta affermata nei documenti ecclesiastici, questa non fa male a nessuno ed è una testimonianza del "buon cuore" degli uomini di chiesa. Quando la scelta dei poveri si materializza, e un Vescovo, come ripete dom Helder, si propone di essere la voce di quelli che non hanno diritto di parlare, c'è da aspettarsi una reazione che può arrivare all'assassinio.
Il popolo ha composto un canto che ripeteva sfollando lo stadio, "Helder Camara H.C. tu sei il fratello dei poveri e ogni povero ti ama H.C.H.C il tuo successore sarà uno che ama il povero". Uscii con una certa tristezza perché so che il criterio normale per mandare un successore a dom Helder non sarà quello di scegliere chi lo imita in questo amore ai poveri, ma un vigile della disciplina. Se io dicessi questo a un responsabile della Chiesa mi risponderebbe: tutti i Vescovi non sono amici dei poveri? A questa affermazione-domanda, mi sentirei di rispondete con assoluta sicurezza basata nell'esperienza un No assoluto, non è vero tutti i vescovi s'interessano dei poveri, beneficano i poveri, ma pochi sono veramente amici dei poveri. Ho notato che essendo benefattori dei poveri, si possono fare delle scelte politiche che aiutano a fabbricare poveri e a mantenerli in uno stato di dipendenza che svalorizza progressivamente la loro dignità, fino a ridurli "cosa" ma queste scelte sono assolutamente incompatibili con l'amicizia. Gesù pensa a questo quando avverte: Non fatevi chiamare benefattori - Fatevi amici col denaro? - Sappiamo che una relazione fra benefattore e beneficato genera aggressività indipendentemente dalla volontà dei soggetti di questa relazione, l'amicizia produce amore. Quando incontro persone affettivamente deluse che hanno alle loro spalle una storia di frustrazioni affettive, mi chiedo se non hanno fatto una confusione fatale fra beneficienza, amicizia e amore. Questo può darsi anche nel caso della relazione padri-figli. Una relazione che ha avuto come oggettivo quello di arricchire il figlio culturalmente o economicamente di dare, come ho sentito dire molte volte, "il meglio possibile" piuttosto che di creare una relazione di amicizia. È un tema questo su cui dobbiamo riflettere continuamente, che non dobbiamo dichiarare mai definitivamente chiuso perché fa parte integrale del nostro vivere.
Ho cominciato con l'intenzione di raccontarvi i miei viaggi, ma in realtà mi rendo conto che non m'interessano i chilometri, gli spostamenti di luogo che spesso coprono la distanza Roma-Helsinki, m'interessano gl'incontri umani. Una delle mie maggiori difficoltà è mantenere contatti con tanti amici sparsi in Brasile che, a differenza dei venezuelani, scrivono molto, e spesso: differenza di cultura e preoccupazione di coltivare l'amicizia? Il contenuto dei miei discorsi è su per giù lo stesso, eppure non ho la sensazione di mettere lo stesso disco e di azionarlo. Quello che fa il sempre nuovo dello stesso ho scoperto essere proprio quel contatto umano, quel dialogo che costruisce una amicizia che è sempre diversa perché diverse sono le persone. Mi dico in confidenza che mi meraviglio sempre che mi cerchino e mi paghino dei viaggi che oggi sono costosissimi, perché sono convinto di non dir nulla di originale. L'originalità forse consiste in una capacità che Dio mi ha dato (io non ci ho messo nulla, assolutamente nulla) di assumere l'altro, di interiorizzare i problemi e lo stato altrui - È una qualità che costa cara ma è fonte di una rinnovazione permanente. Dentro di me la chiamo la biologia dello spirito. Credo che si debba ricercare lì il fatto che vivendo una vita che toscanamente definirei strapazzata, non mi stanco. Mi stranisce sempre una domanda: è stanco? Ieri sera sono arrivato alle 22 a casa dopo una giornata pienissima, e mi hanno detto che i miei alunni (provvisori) della facoltà di teologia facevano una festa di san Giovanni (tutto il mese di giugno nel nordest del Brasile è come il maggio fiorentino, e uniscono i tre santi Antonio, Giovanni e Pietro) Un amico mi ha detto con molta timidezza che i ragazzi sarebbero felici di invitarmi ma sanno che non possono chiederti questo dopo una giornata come quella di oggi. io mi sentivo benissimo e ho partecipato alla festa. Era una festa con nulla e per questo inondata di vera felicità. Le cose più succulente erano pannocchie di granturco bollite o arrostite e i pistacchi. per questo forse questa gioventù non ancora attaccata dalla lebbra delle nostre società dei consumi e della sazietà, conserva la capacità di divertirsi veramente. Vi lascio abbracciandovi uno a uno con un arrivederci. Se i mesi continuano a precipitare come i primi sei (e non accennano a frenare il ritmo) aggiungo arrivederci presto.

Arturo

Ferie e giornali

Nei giorni delle ferie la lettura dei giornali è una "occupazione" tradizionale.
Anch' io non sfuggo alla regola e ne approfitto per una lettura più attenta e soprattutto "quotidiana". Così avverto maggiormente la differenza di peso tra la notizia che luccica un attimo anche sulle prime pagine e l'insistenza su temi analizzati dalle più diverse angolazioni che rimbalzano come per un dibattito tra le diverse testate.
Mi sono letto e riletto - ah! la magia del tempo "inutile" che scorre sonnacchioso e lento - le cose più diverse. Mi sono aggiornato sul vivere multiforme di una società misurata in colonne, righe, dimensione di carattere, maiuscolo e neretto.
Dragaminealtapressionelewiscarcerazionepreventivamuorepuntodaunavespadollarogiovanipaolomoserlavapiùbianco! ... O no?
Porgo le mie scuse per essere stato ancora più sciocco del solito, ma sono imbarazzato per il fatto di voler scrivere su un argomento non so quanto centrato e su cui vorrei avere idee più chiare di queste quattro povere riflessioni che sto per fare. Ho letto sui giornali di agosto - il punto di partenza è quindi costituito dai quotidiani di cui sopra - il divampare della polemica sulla nuova legge sui termini di carcerazione preventiva ed insieme il riaprirsi del discorso sulla vitalità del nuovo terroris-mo, l'imbarazzante problema dei pentiti, le figure dei dissociati, il fronte della fermezza, l'azione riconciliatrice di uomini di Chiesa del calibro del cardinale Martini e del vescovo Riboldi.
Ho avvertito la tensione di un discorso che penetra a fondo nel cuore di questa nostra società italiana là dove uomini di buona volontà tentano di ricostruire un quadro di più autentica giustizia e di possibilità di recupero di ogni dimensione vitale terminata a vicolo cieco.
Credo che esperienze di perdono e di riconciliazione costituiscono le deboli, ma valide tracce di una strada ancora tutta da costruire.
Mi chiedo con quali energie. Mi chiedo soprattutto se le energie liberate dal perdono possono di nuovo essere poste al servizio di un progetto utopico negli anni immediatamente futuri.
Con quali energie perché il fenomeno del pentito, del dissociato, non è ristretto ai soli terroristi. È usato ormai nel linguaggio comune, ma ancora di più può essere usato per indicare coloro (e sono tanti!) che hanno avuto parte attiva negli anni ruggenti della contestazione, che con il terrorismo emergente hanno avuto collusioni sensibili se non altro nel linguaggio, nella definizione degli obiettivi, nell'uso di analisi spietatamente semplificate nei termini del buono/cattivo, nell'assenso fideistico a slogan e manifestazioni.
Dissociati dagli obiettivi di un cambiamento decisivo e deciso per sposare obiettivi di razionalizzazione del sistema attuale, confluiti spesso nei partiti della sinistra, non di rado riscoprendo posti di responsabilità ai vari livelli. Pentiti e quindi passati di nuovo dall'altra parte, quella vincente e privilegiata che assegna incarichi e responsabilità sulla base del merito individuale e dell' interesse privato. Meriterebbe cominciare a fare un po' di storia locale (in paesi e città) per vedere l'evoluzione della popolazione nata negli anni '50 per riuscire a stabilire il peso di una generazione che ha attraversato il '68 in gioventù e se ne è resa protagonista. Perché l'impressione che ricavo dagli incontri e dai rapporti che ho con amministratori pubblici, uomini di partito, gente che in qualche modo conta e decide ai diversi livelli e che appartiene a questa fascia di età è deprimente in rapporto al problema di partenza: alla possibilità, cioè, di una rigenerazione del tessuto sociale del nostro paese che non passi attraverso una politica di potatura e sradicamento, ma attra-verso una vera opera di riconciliazione e di "perdono" (donare ancora). Gente brava, con la testa sulle spalle, quella di cui sopra, a puntellare con onestà e vigore questo nostro stato e sistema, con profonda ansia riformista verso una maggiore giustizia. E dico questo senza ironia perché spesso, se non sempre, è così. Ma esiste in loro come una rimozione del sogno politico di una autentica "diversità". E l'ubriacatura giovanile di una nuova umanità, di un nuovo potere è chiusa nel cassetto delle esperienze a vicolo cieco, delle strade che finiscono di contro a un muro. Mi chiedo allora come può un popolo che ha abdicato alla radicalità per sostituirla totalmente, come ingrediente necessario delle grandi e feconde rotture storiche, con l'equilibrio della razionalità e la bilancina del "senso del reale", come può un popolo avere il coraggio di guardare dentro di se e trovare la forza di esprimere e ricevere un autentico perdono?
E le deboli tracce della nuova forza di perdonare che sembra attraversare il tragico mondo del terrorismo, possono far sperare in una spinta alla riconciliazione collettiva per un progetto sociale più impegnativo? A questa grossa seconda domanda or non so davvero rispondere se non esprimendo un ulteriore interrogativo. E riguarda l'incertezza sulla consapevolezza che il "perdono" nei fatti di terrorismo come nella restituzione alle energie popolari e soprattutto giovanili della necessaria radicalità, non si gioca soltanto tra violentatore e violentato, ma anche con la costituzione come "parte civile" della massa di gente stritolata nelle proprie aspirazioni, nel sogno collettivo di una vita più umana. Tanti giovani che si sono suicidati incapaci di resistere in vita in una realtà disegnata dalle grigie sbarre dell'"unità nazionale", tanti che si sono lasciati morire nel cuore senza il nutrimento di una speranza collettiva. Nella lotta sociale e politica di questi ultimi vent' anni ci sono morti (e sono soprattutto giovani di vent'anni come in tante, troppe guerre: un terribile salasso che le società umane sembrano quasi cinicamente volere come "mai maledetto" controllo delle nascite) che pesano sulla coscienza collettiva e non sono raccolti né nominati perché appartengono a tutti gli schieramenti e non fanno bandiera. Solo se li faremo risorgere in una rinnovata speranza ideale, nella radicalità della vita che vuole rinnovarsi, avremo la forza di ricostruire un tessuto sociale intrecciato da solidarietà e autentica partecipazione politica.

Luigi

La mia Teologia

Ci sono momenti in cui è difficile esprimere in parole quello che passa nel profondo dell'anima. Forse è per il "vuoto" che uno si ritrova dentro, là dove la vita ha scavato piano piano, giorno dopo giorno, come l'onda del mare batte sullo scoglio e lo lavora incessantemente da ogni parte.
Come il vento sulle pietre delle montagne, insieme alla neve, al gelo e al calore del sole. Se mi guardo "dentro" mi ritrovo pieno di cicatrici, di ferite, di "segni" che lo scorrere degli anni vissuti nella quotidiana, faticosa, umile ma appassionata ricerca di Dio hanno inevitabilmente lasciato.
Così è cresciuto il pudore a parlare troppo di Lui. Vorrei riuscire sempre di più a rendergli testimonianza nella concretezza dell' esistenza, nella condivisione della storia umana, nell'accoglienza fraterna verso i piccoli e i poveri. Forse più col "silenzio" che con la parola, anche se so benissimo che pesa sul mio destino il "dovere di evangelizzare".
Ma è diversa la comprensione di questo dovere, anche se l'impegno è rimasto chiaro e preciso. Così non mi ritrovo per niente nella mia Chiesa (una parte) che continua a parlare di Dio salendo sul piedistallo della Storia, cercando le grandi piazze e le folle, ostentando sicurezze, premurosa dei poveri e degli affamati ma anche gelosa custode delle sue "azioni bancarie", pellegrina di pace ma sempre legata al carro dei potenti. Questa mia Chiesa che legge molto attentamente, nel segreto dei palazzi vaticani, libri sospetti e pericolosi per la fede e chiama a renderne conto i suoi sospettati autori, ma non sa leggere con almeno pari zelo il libro aperto della violenza organizzata, del razzismo, dell'imperialismo economico e militare, dello schiacciamento dei poveri. Questa mia Chiesa che - mi pare - non ha ancora scelto fra i "due padroni" quale voglia realmente servire.
Mi sento invece vicino alla mia Chiesa (l'altra parte) che ormai ha scosso la polvere dei propri sandali per uscire definitivamente dalla città dei ricchi, dei forti, dei grandi, dei sapienti, dei furbi, per entrare a confondersi col popolo dei poveri, dei deboli, dei piccoli, degli ignoranti, dei pacifici. Una Chiesa ormai fatta di tanta gente (vescovi, preti, uomini e donne) e che ha obbedito alla parola di Dio e alla parola della storia ed ha saputo mettere in serena, anche se faticosa e mai finita comunione l'Amore venuto dal cielo con il bisogno d'amore che sale incessantemente dal profondo della terra. Il cuore di Dio e il cuore dell'umanità.
Questa mia Chiesa che ha scelto di vivere nelle foreste con gli indios, nelle baracche delle periferie, nei campi e nelle fabbriche, che ha lasciato i "sacri palazzi" e tutte le buone sicurezze che essi garantivano. Questa mia Chiesa che ha detto "no" alla guerra, che ha obiettato al servizio militare, alla potenza nucleare, alla legge del denaro e quindi del più forte.
Le frontiere di questa mia Chiesa hanno gli stessi spazi del cuore di chi ha accettato di mettersi in cammino dietro i passi dell'unico Maestro e Signore. Pur sapendo che spesso su questa strada può profilarsi l'ombra di una croce. Ma anche l'alba di una incessante resurrezione.
È in questa Chiesa che ritrovo anche la sorgente della mia umilissima ma chiara "teologia", perché essa ha il potere unico e straordinario di parlarmi del regno di Dio, della vita eterna, del Padre che è nei cieli, della speranza, del perdono dei peccati, della grazia e del dono dello Spirito. Perché in essa io sento vivo e presente il passo del Povero, del Figlio di Dio e del Figlio dell'uomo, del Debole e dell'Oppresso, del Pacificatore e del Liberatore.
Il passo fraterno di Gesù di Nazareth.

don Beppe

Liberazione e repressione

La lettura del documento della S. Congregazione per la Dottrina della Fede sulla Teologia della Liberazione mi ha dilagato nell'anima l'angoscia, lo sgomento, lo smarrimento di cui mi affogò la lettura di un altro documento, quella volta del Card. Pizzardo, (esattamente 30 anni fa), nel quale la Chiesa ufficialmente interveniva e d'autorità concludeva, l'esperienza dei preti-operai francesi e anche la mia di povero e solingo preteoperaio seppellito in un cantiere navale della mia città.
Uno dei momenti più angosciosi della mia storia di prete. Avevo giocato tutto per Amore e la voglia di un nuovo rapporto, finalmente quello vero perché fatto di carne e sangue, fra la Chiesa e la classe operaia e la Chiesa respingeva quell'Amore e spengeva quella Speranza.
Il motivo di quella repressione? il solito, sempre quello come se altri problemi tremendi, in cui si sta giocando nel nostro tempo la sopravvivenza della Fede e del Vangelo, non ne esistessero: il pericolo dello scivolamento (quel documento diceva dell'inevitabilità) nella perdizione del marxismo.
Domandavo una volta ad un carissimo Vescovo, ma il discorso era tutt' altro che umoristico, se nel ministero dei Vescovi vi era anche il carisma dello spegnimoccolo, la missione di spengere quello che lo Spirito Santo e spesso tanto faticosamente, riusciva ad accendere.
Non è possibile non sgomentarci davanti al puntuale corso e ricorso della teologia della repressione nella affermazione e nella difesa dell' ortodossia della Fede da parte del Magistero della Chiesa.
E non può non venire il sospetto della strumentalizzazione dell'ortodossia e cioè il mantenimento intatto del deposito della Fede, per interventi intenzionalizzati alla conservazione dell'esclusività dell'evangelizzazione nelle mani della Gerarchia e quindi alla esclusione assoluta della evangelizzazione del tempo storico da parte della base popolare cristiana.
Evidentemente la Gerarchia non accetta che lo Spirito sia come il vento che soffia dove vuole e non si può nemmeno sapere di dove viene e dove va. Allora scatta ad altissimi livelli e a quelli periferici la teologia della repressione. Perché della repressione ha tutti i connotati anche se raddolciti e vellutati dal progredire, per grazia di Dio, della liberazione che il vento, di cui sopra, ha ottenuto nel cammino del tempo e della storia. Non sono mai riuscito ad accettare che la verità di Dio e cioè la Rivelazione, abbia bisogno della repressione per il suo mantenimento vivente nella storia. La forza della parola è Parola. E la sua diffusione è la predicazione. E può andar bene il pulpito e anche l'infallibilità dell'"ex catedra". Ma assolutamente non il tribunale. Perché semmai è nel tribunale (di qualsiasi tipo allora esistente) che la Parola fatta Carne è stata giudicata e condannata.
Mi rendo conto che queste sono le solite divagazioni "evangeliche", la realtà storica è un altro paio di maniche e tanto più la difesa dell'autorità e del potere.
Ci sarebbero molte cose sulle quali riflettere e molto dolorosamente, alla lettura del documento del Card Ratzinger e del suo segretario Mons. Bovone. Ma io non sono un teologo (occorre essere teologi per capire dove sta e cos'è la Verità, quella che "ci fa liberi" secondo la promessa di Gesù?) Sono un povero cristiano e prete logorato ormai dal sogno, implacabile come un'arsione cocente, che Gesù Cristo sia progetto e realtà di umanità nuova e dalla fiducia e dalla speranza che la Chiesa, di questa novità, ne sia annuncio e vivente testimonianza
Non sono un teologo come innumerevoli cristiani sparsi per il mondo, famiglie, comunità, popoli... Siamo non teologi ma credenti, animati dalla Speranza, legati dall'identica Fede, uniti dallo stesso Amore del prossimo... Siamo dei poveri in balia della ragione economica che impera spietata nel mondo. Oppressi dalla strapotenza dei blocchi che si spartiscono il dominio della terra e schiacciano l'umanità coprendo la schiavizzazione con le falsità ideologiche di democrazia, di libertà, di dignità umana... Siamo povera umanità costretta a vivere sotto l'incubo spaventoso di 50.000 testate nucleari capaci di mantenere implacabilmente l'umanità con il piede nella tomba della distruzione universale... Siamo gente disperata dal dilagare irrefrenabile della cultura della morte, dall'affermarsi, sempre più spietata, dell'assolutizzazione del dio denaro, dalla trasformazione del benessere in una divinità disumana per amore della quale la fame che annienta, la scienza che è distruzione, la politica che è oppressione e sfruttamento, la cultura che è ormai passività e allineamento ecc ecc. (e chi può raccontare della disumanità di questa nostra civiltà?).
E la Chiesa si allinea e completa la realtà della repressione che intende soffocare nel mondo il bisogno vitale di un respiro profondo, ossigenato di libertà, di vera autentica dignità umana per ogni uomo e donna Siamo e lo siamo sempre più il povero popolo e cioè il popolo dei poveri, "il gregge senza pastore" e quindi senza Amore né pietà, anche se l'aereo continua i suoi viaggi ad incontrare la speranza della povera gente, ma poi l'aereo riparte e ritorna a Roma dove c'è "il palazzo dalla cui finestra la Chiesa guarda il terzo mondo".
È molto triste che alzare gli occhi e guardare in profondità il mistero del cielo e della terra a incontrare la dolcezza dello sguardo del Padre di tutti gli uomini per scoprire la certezza della fraternità umana, dell'uguaglianza di tutti, della speranza della giustizia e della libertà nella dignità di Figli di Dio, sia giudicato lotta di classe, inquinamento marxista, pericolo per l'ortodossia della Fede...
E sconcerta e sgomenta che la voglia e è forse soltanto un sogno, di liberarsi dall'oppressione del potere economico, politico e militare sia condannata come lotta di classe (tutto il documento è una dissertazione assurda sulla lotta di classe) e che il diritto a non essere assassinati, torturati, ridotti alla fame e alla disperazione ecc. sia stimmatizzato come "peccato".
Ma non è detto cosa sia la strapotenza del capitalismo, l'assolutizzazione dell'interesse economico, politico degli Stati Uniti, la disumanità dei regimi militari, l' irrisione delle parvenze di democrazia, la strage di popolazioni, d'innumerevoli preti, di un vescovo: un sistema di dominio, dispotico e spietato, intollerante perfino della speranza. Questa non è lotta di classe e nemmeno, sembra, peccato.
A meno che non sia in preparazione un altro documento della Congregazione della Dottrina della Fede che sistemi una buona volta e, sarebbe l'ora a dir la verità, i teologi della teologia della repressione.

don Sirio Politi

A memoria di Padre Giovanni Vannucci

A memoria (e memoria non è ricordo ma presenza viva, vivente) di P. Giovanni Vannucci, riscrivo qui per me e per gli amici quest'omelia che in una di queste domeniche autunnali, nel 1979, offrì alla comunità della messa al tramontar del sole, nella dolcezza ariosa e fiorita delle Stinche, in quella chiesetta di pietre romaniche, raccoglimento profondo e misterioso di anime e cuori ad ascoltare la Parola che sgorgava dolcissima e suadente dal Mistero di Cristo e fioriva dalle sue labbra sempre sorridenti e dal suo cuore sempre straordinariamente fiducioso e sereno.
In sua memoria non aggiungo parole mie perché sarebbero lacrime di commozione e di sgomento. Perché la solitudine spesso si amplia a misure tali che diventa soffocazione. E a me è successo (come per chi sa quanti, ugualmente) da povero pellegrino che cammina e cammina per deserti o da navigante su un guscio di noce a solcare gli oceani, come quando si oscura il cielo e scompare la stella polare.
P. Giovanni era un punto di orientamento sicuro, il tronco di un albero robusto al quale appoggiarsi per un riposo, riposante anche se soltanto di un minuto. Una sorsata d'acqua fresca, una boccata d'aria buona. E cioè un motivo di fiducia, un riprendere speranza, un incontrare un sorriso di consolazione.
Ora è tutto più vuoto, anche se è vero, me ne rendo conto, che sempre più è il tempo nel quale il vuoto è destinato a dilatarsi e la solitudine a scavare desolazione e a rischiare stanchezze.
Per questo e per tutta la stima e l'affetto, la sua morte, il suo volarsene via così repentino, è stata e è lacrime e sgomento.
Accanto a lui, di pochi anni più anziano di me, mi sentivo come un bambino: adesso il bambino cerca la mano, non la trova ma cammina fiducioso perché vuole obbedire alla sua voce.
Questa pagina è uno dei suoi dolcissimi inviti all'unità, nell'Amore.
Sirio


Un'omelia di P. Giovanni Vannucci
L'aspirazione all' unità
Domenica XXVII Mc. 16
"Nel principio Dio li creò maschio e femmina... Sicchè non sono più due ma una sola realtà vivente. L'uomo non separi quello che Dio ha congiunto". Queste parole sono state, vengono e verranno lette da punti di vista del tutto differenti, a seconda del grado di spiritualità raggiunto da chi le legge e le ascolta.
Tenendo presente che Colui che le ha pronunciate appartiene alla suprema dimensione divina, esse hanno un significato che sarà sempre più evidente a quelle coscienze che costantemente si avvicinano e ascendono all'ultimo vertice dell'esperienza spirituale. Le parole della Bibbia, come ci insegna tutta la Tradizione, sono ricoperte da volumi che vanno gradualmente tolti da chiunque voglia raggiungerne l'ultimo significato.
"Sciagura all'uomo che nei libri sacri non vede altro che eventi storici e parole del linguaggio ordinario. Ogni parola della S. Scrittura racchiude un significato elevato, un sublime mistero. Le narrazioni storiche sono le vesti esteriori.
Sciagura all'uomo che scambia la veste esterna per la stessa S. Scrittura! Gli insensati vedendo un uomo ricoperto di splendida veste non sanno andare oltre l'abbigliamento, dimenticando che è il corpo a dare il significato alle vesti. La Bibbia ha un suo corpo: le narrazioni. Le menti ordinarie si fermano alle vesti e non vedono il corpo; quelle più penetranti vanno verso il corpo; i saggi, i servi del Re supremo, che abitano sulle altezze del Sinai, si fermano a considerare l'anima, fondamento delle espressioni della Bibbia. Nel tempo futuro saranno preparati a contemplare l'anima di quest' anima che respira nelle parole dalla Bibbia". (Zohar).
Per l'ascolto delle parole della Bibbia ci è più necessaria l'intensità di un' attenzione silenziosa che non la lettura di commenti esegetici: essa ci permette la disarticolazione della mente da tutte le interpretazioni che si è costruita e l'avvento della Rivelazione nell'anima
Nel principio Dio li creò maschio e femmina. Nel principio, non all'inizio della creazione, ma nell'istante eterno della creazione, nell' atto della creazione che non ha ancora raggiunto il suo compimento, Dio crea la bi-unità umana, la cui vocazione è quella di ricostituire una sola realtà vivente. L'uomo non può impedire questo cammino verso l'unità senza alterare il corso della creazione.
È scritto: "Li creò maschio e femmina", ogni immagine che non sia maschio e femmina non assomiglia all'immagine celeste.
Il Santo, benedetto sia sempre, non dimora ove il maschio e la femmina non sono uniti, colma di benedizione il luogo ove sono una cosa sola.
La Scrittura non dice: "Lo benedì e lo chiamò Adamo", ma "li benedisse e lo chiamò Adamo". Dio benedice soltanto quando il maschio e la femmina sono uniti. Il maschio solitario non merita il nome di uomo. Lo merita quando è unito alla femmina; la Scrittura dice: "Diede loro il nome di uomo" (Zohar).
Il richiamo di Cristo alle parole dell'"in principio", può essere inteso e interpretato sul piano dell'istituzione della indissolubilità matrimoniale, e tale è la prima interpretazione letterale. Possiamo domandarci se essa è l'unica, oppure se costituisca il primo passo verso un' altra lettura che ci aiuti a comprendere l'anima vivente di questa parola. In un altro testo Cristo dice: "Chi lascia la sua famiglia, la moglie, i fratelli, i figli, i genitori per amore del regno di Dio, riceverà il centuplo e la vita eterna". (Le. 18,29).
I due, l'uomo e la donna, nel primo testo sano chiamati a costituire una sola realtà vivente, nel secondo è incoraggiata la separazione per amore del regno di Dio.
Sono in contraddizione, oppure il loro contrasto ci permette di comprendere la verità profonda contenuta in ambedue e che è oltre l'immediato senso letterale? Questa seconda ipotesi tenterò di dimostrare.
In ogni essere umano, uomo o donna che sia, esiste l'aspirazione verso l'unità e l'integrità del proprio essere che, risolvendo ogni conflitto in una sfera oltre il mondo fenomenico, dia alla mente quella pace suprema che è il regno della maturità della coscienza. Non è questa coscienza dell'unità che hanno cercato le grandi anime religiose dell'umanità e che è contenuta nella preghiera di Cristo "Siano una sola realtà come lo e T li, Padre, siamo una cosa sola?" (Gv. 17,21)
La reintegrazione del proprio essere personale percorre tutte le zone della realtà umana: il corpo, le emozioni, la mente, lo spirito, essa li percorre come energia unificatrice e redentrice. Essa rivela l'intenzione del Creatore sulle sue creature, la forza vitale realmente divina che dona un senso alla ascesa dell'uomo nella sua verità: raggiungere l'unità delle origini.
È la fiamma che purifica dalle scorie ogni coscienza e distrugge le barriere di divisione che separano l'uomo dalla donna, la creatura umana dalla parte più vera del suo essere. Ritrovare l'unità del proprio essere in Dio, è la consegna che viene rivolta a tutte le creature umane, qualunque sia la loro vocazione personale. È rivolta a quelle coscienze che scelgono la via matrimoniale come la più consona per ritrovare la loro unità, ed è ugualmente indirizzata a quelle che, nella nostra tradizione, si sentono chiamate alla via della solitudine. Ad ambedue è richiesto di dischiudersi alla piena rivelazione cristiana, ad accogliere la presenza di Dio che si annuncia come Padre e Madre, due in uno e che manifesta il suo vero volto, maschile e femminile insieme, e che quando è così ricevuto, si accende in una passione ardente per tutta la razza dell'uomo e della donna terrena che non potrà ormai né essere fermata, né respinta, né ignorata.
Gesù disse: "Quando farete dei due una cosa sola, l'interno come l'esterno, l'esterno come l'interno, la mascolinità e la femminilità farete una cosa sola, perché la mascolinità non sia solamente maschile, e la femminilità non sia solamente femminile, allora entrerete nel Regno. (Vang. di Tommaso, 221)
Giovanni Vannucci
settembre 1979

Cantico delle creature

Ogni uomo è una zolla di terra, di terra atta a dare la vita ai tuoi germi divini, o Dio.

In quest'ora del tramonto, mentre il tuo angelo passa tra la luce e luce, ricolma, o Signore, di pace il cuore che attende, la mano verso di te protesa.

In quest'ora presaga del buio, la terra raccoglie in sé tutte le vite che fervono: su tutte il tuo angelo segni la pace!

Benediciamo, fratelli, la terra: la terra dove siamo vivi come alberi forti, dove riposeremo, liberati dal male.

Benediciamo la terra per il pane che dona, per i frutti delle dure fatiche, per i balsami pietosi al patire, per la dolcezza dei lunghi riposi.

Benediciamo, fratelli, la terra, mentre passa l'Angelo di Dio e annunzia giorni di luce nuova e redenta.

Un giorno l'Angelo di Dio dirà al tramonto della nostra vita terrena: più non tramonta né sorge il sole per voi, la vostra vita è chiamata a contemplarsi in Dio!

Benediciamo, o uomini, la terra, quando passa l'angelo della vita e della morte, e annunzia che Cristo è la vita e la luce senza tramonto.

Ogni uomo è una zolla di terra, di terra atta a dare la vita ai tuoi germi divini, o Dio.

P. Giovanni



Lettera aperta alla nostra chiesa

1) Preti di varie parti d'Italia ci siamo trovati a Prato nei giorni 20-21 Giugno per riflettere su "l'insegnamento ecclesiastico sulla pace tra vecchi schemi e profezia nuova".
2) Abbiamo riscontrato anzitutto l'accordo nel ritenere la pace, concepita come pienezza di vita nella giustizia e nell' amore, valore fondamentale, specie nelle presenti circostanze che vedono il mondo avviarsi verso la catastrofe nucleare.
3) Partendo da questo dato di fatto, luogo teologico nel quale ripensare e vivere la fede cristiana, abbiamo avvertito il bisogno di costruire e approfondire una "teologia della pace", ossia la teologia incentrata nell'idea onnicomprensiva della pace, dono di Dio "comunione trinitaria'', da accogliere nel cuore e da incarnare nella vita personale, familiare, ecclesiale, sociale, mondiale.
4) Sul piano pastorale c'è, secondo noi, urgenza di impostare una "pedagogia della pace", intesa come educazione delle coscienze alla responsabilità personale e comunitaria, attraverso ritiri, conferenze, seminari di studio e manifestazioni, in dialogo con tutte le persone di buona volontà.
5) Convinti che la pace non è essenza di guerra, ma che dove è è guerra o sistema di guerra non c'è pace, abbiamo considerato alcuni nodi del rapporto "cristianesimo-disarmo", confrontando fra loro documenti e pronunciamenti vari (concilio, papa, vescovi, cappellani militari ecc.) sull'argomento.
6) Abbiamo costatato che il magistero ecclesiastico è "in evoluzione", qualche volta si contraddice nelle affermazioni e ancor più nelle valutazioni e orientamenti pastorali che tentano di applicare i principi evangelici ai problemi storici contemporanei. In particolare c'è diversità nell' interpretare il messaggio biblico della pace e nel valutare storicamente la posizione nei primi tre secoli; non parliamo del problema attuale del disarmo, che, così come è impostato, può dare copertura morale al riarmo più spietato, pur denunciato da tutti i documenti magisreriali.
7) In particolare sulla "deterrenza" si registrano pronunciamenti diametralmente opposti: "è moralmente accettabile" a certe condizioni (senza badare poi se tali condizioni si verificano o no), oppure è immorale".
8) I preti convenuti invitano tutta la chiesa a valutare se l'alternativa rispetto alla difesa militare, ossia la difesa popolare nonviolenta organizzata, elogiata dal Concilio (cfr Gaudium et spes n. 78/1591) e propugnata nella maggior parre dei documenti episcopali, non sia effettivamente l'unica evangelicamente coerente; per cui parrebbe non ci sia mediazione di principio fra il sistema militare e il sistema della lotta nonviolenta salvo un gradualismo di tempi e una variazione di modi.
9) Si ritiene indispensabile, per la credibilità del messaggio cristiano della pace, riprendere in pienezza la difesa globale della vita, come pare fosse nella primitiva chiesa: no all'aborto, no all'esposizione dei bambini, non alla violenza dell'esercito, no alla pena di morte.
10) Vanno collegate e incoraggiate le varie "obiezioni" ai crimini contro la vita: obiezioni di coscienza al militare, alla ricerca-industria-commercio bellici, all'aborto: obiezioni fiscali alle spese militari e alle spese per l'aborto. Siamo solidali con tutti coloro che, a causa di tali obiezioni sono in questo momento sottoposti a procedimenti giudiziari.
11) Avvertiamo soprattutto la carenza di cultura. C'è ancora troppo la "cultura del nemico" e troppo poco la "cultura del fratello". Tutto ciò richiede una considerazione teorica e pratica più decisa delle "beatitudini evangeliche", in tutta l'estensione e globalità del loro valore, all'interno del quale può trovare applicazione il comando "amate i vostri nemici".
12) Dal lato organizzativo, si chiede che l'organismo ecclesiale Justitia et Pax venga costituito e reso operante in ogni diocesi e parrocchia. In preparazione al convegno ecclesiale del 1985 si auspica che tali argomenti vengano affrontati e approfonditi da tutta la chiesa italiana nell' ottica della riconciliazione. In particolare si propone che Justitia et Pax nazionale organizzi, invitando operatori pastorali preti-religiosi-laici, un "seminario di studio", insieme con la Caritas italiana, sulle scelte di pace oggi.
(Seguono 16 firme di sacerdoti)


Pace, Amore e l'Assoluto

Nel mese di ferie mi è stato dato di sbarcare in un'isola. Nell'isola mi è stato donato di scoprire una valle. Nella valle ho trovato una casetta di pastori. Nella casetta ho vissuto vita eremitica. La vita eremitica mi ha ottenuto di oltrepassare gli orizzonti del cielo e della terra e di perdermi nell'infinito.
Non sono pensieri, meditazioni, ricerche o approfondimenti teologici, ma soltanto un respirare interiore e fasciarmi portar via dal cielo azzurro, dalla dolce violenza del sole, dall'abbraccio appassionato del vento...

Pace, Amore e l'Assoluto
Nelle mie riflessioni e più ancora nelle mie intuizioni e cioè in quelle istintività interiori che si impongono come la fame e la sete nel più profondo del proprio essere, in queste mie riflessioni il criterio base, la provocazione e il dilatarsi dell'illuminazione, mi proviene dalla pace. È come avere finalmente scoperto dopo tanto pellegrinare e vagabondare, il luogo che misteriosamente avverto quello in cui sono nato, la mia terra e dove quindi mi è dato e donato di vivere pienamente la mia vita: qui è la sorgente d'acqua limpida, il pezzo di terra buona dove seminare per il pane e l'aria è chiara trasparente; il cielo azzurro o anche nuvolo è dono come il sole e la pioggia. Anche l'aurora e l'imbrunire, il giorno e la notte, il succedersi delle stagioni non sono tristezza ma la gioia di un cammino, il farsi incessante di un divenire glorioso perché il tempo, cioè il camminare, l'andare avanti è tutt'uno con l'essere arrivati, tempo e non-tempo si equivalgono, come ogni istante è eternità e eternità ogni palpitar del cuore.
È utopia questa pace, la pace, o peggio ancora, è vuoto, aspirazione illusoria? Può essere. Ma allora perché ne provo un così profondo, misterioso, infinito desiderio? Perché - e è quasi in continuazione - me ne prende una voglia terribile come aria da respirare e pane da mangiare?
Mi viene spesso da cercarla la pace girando gli occhi intorno come per scoprirne la concretezza, di toccare, di palpare con le mani per sentirne la materialità. È interrogazione continua, assillante, un domandarne qualcosa a chi possa darmene notizia, un' indicazione preziosa. La cerco nelle profondità del cielo, negli abissi della terra, nelle vicende della storia, nel travaglio della vita quotidiana, nel Mistero della tua anima, nella trepidazione del tuo corpo, nello splendore o nell'incupirsi dei tuoi occhi, nella speranza, nella disperazione... La pace è come la ricerca, il bisogno di Dio: un 'insaziabilità che divora, una necessità assoluta, irrinunciabile. Non stanca il non trovare: semmai impazzisce sempre di più per l'impossibilità di arrendersi. Bisogna abbattere le muraglie della prigione, segarne almeno le inferriate e calarsi giù con le lenzuola annodate. Per ottenere la libertà di correre e correre a cercare. Perché, è chiaro ormai, cercare è già trovare. È certo che l'ignoto si lascia scoprire, l'introvabile, eccolo lì, al voltar dell' angolo, in una stretta di mano, nella cordialità di un sorriso a cuore aperto.
Si sono concluse le vie obbligate. Scomparsi i luoghi sacri. Confuse e inutili le definizioni e tanto più le imposizioni. Rimangono certo importanti le orme lasciate e i segnali indicativi di strade percorse: ma non servono di più che per accennare un orientamento.
Stelle polari per punti di riferimento alla rotta nell'immenso oceano del Mistero. Ma decisiva rimane la spinta interiore, l'urgenza irresistibile, il richiamo imperioso, nascosto nel profondo di sé, come per gli uccelli migratori. Ciò che conta e significa e s'impone è il polo magnetico e la forza di attrazione. E dunque la risposta interiore, la rispondenza nascosta, la necessità impellente. Allora l'incontro arriverà, anzi già avviene perché l'Amore non è il possesso, l'Amore è l'attrattiva vicendevole, il non poter fare a meno dell' altro, è questa alterità affascinante perché (è chiarissimo, come la luce del sole) è il perdersi nell'alterità che dona compiutezza.
Il Mistero dell'esistenza è in questi poli lontanissimi che si cercano, si attraggono perché sia vinta e superata la separatezza e si compia l'unità.
Tra Dio e l'uomo (l'umanità) le differenze sono oltre ogni misurazione, così le lontananze, letteralmente infinite, eppure, e lo stupore è contemplazione adorante, le identità sono sorprendenti, quasi incredibili e forse perfino inaccettabili, non per Lui, Dio, che le ha pensate, volute e chiaramente dimostra di non averne paura nonostante i prezzi d'infinito inesauribile Amore, ma spesso identità inaccettabili a noi, a me, a te, alla condizione umana e alla sua storia, perché troppo crediamo soltanto alla nostra identità, quella costruita con le nostre mani, il volto fatto con i nostri trucchi, la maschera costruita con i nostri inganni, infatuazioni, esaltazioni, impazzimenti. Preferiamo la moneta falsa a l'oro sonante. Ci affascina il complesso, il complicato, la complicazione.
Il ripiegamento su noi stessi, l'aggrovigliamento della nostra razionalità, la distinzione, la separazione e cioè tentazione irresistibile quanto sempre sottilmente ingannatrice - e lo sappiamo e qui sta l'immoralità - è l'assolutizzazione.
Stranamente è questa voglia dell' assoluto, questa necessità del tutto, che ci gioca l'errore esistenziale, sostanziale, dal quale ha inizio la via sbagliata e tutto il cammino che ne consegue.
L'assoluto è la ragion d'essere della nostra vita, la spiegazione della nostra esistenza e diventa (e è maledizione) radice, causa e racconto di tutto l'orrore di cui la storia dell'umanità trabocca.
Perché?
Forse la spiegazione è molto semplice e basterebbero occhi limpidi per vedere e cuore puro, liberato per comprendere.
L'assoluto è realizzazione, ottenimento di valore, spazzando via tutto l'intorno, come dire fare piazza pulita, perché rimanga unicamente, esclusivamente (sono gli avverbi-storia della disumanità, sono cioè "il peccato") il monumento e il suo piedistallo.
L'assoluto è la fatica impazzita di essere il solo, l'unico, l'io.
Anche Dio, il veramente uno, ha rifiutato per così dire, quest'assoluto, questa assolutizzazione, pur essendo pienezza, totalità, compiutezza: niente può essere aggiunto né tolto a Lui eternamente perfetto.
Ma la Rivelazione (e l'intuizione contemplativa e la conoscenza adorante) dice che Dio è Trinità. L'assoluto cioè è ottenimento di convergenza trinitaria. L'assoluto è Amore e quindi non è più assoluto.
L'Amore pone l'esigenza, la necessità dell'espansione, del dono e dell'accoglienza.
In questa visione di Dio è semplice capire il perché della creazione. Sulla linea del superamento dell' assoluto e nella necessità di ottenimento dell'Amore, l'onnipotenza del donarsi ha espresso l'universo. E nella realtà cosmica della creazione la necessità incontenibile dell'Amore ha pensato e chiamato "l'altro", l'uomo. È bellissimo e colma di stupore adorante contemplare l'universo, "l'altro", perché l'assolutezza non sia Dio e nemmeno Dio Trinità.
Corre il tempo incommensurabile ma è riprova che l'universo non è "altro" ossia vera "alterità" a impedire l'assoluto. E è allora, a compimento dell' Amore, che nella profondità misteriosa del tempo (miliardi di anni dicono gli scienziati, sei giorni dice il racconto biblico, ma è perfettamente lo stesso) è seminato, si sviluppa, cresce e si erge finalmente "l'altro", l'essere umano e sempre a superamento dell'assoluto, è duplice l'essere umano, uomo e donna.
Ecco: Dio e l'uomo. Veramente da allora Dio non è più l'assoluto.
Concretamente, storicamente. Nel tempo e nell'eternità. L'uomo nel suo esistere sempre esisterà. Adesso, cioè dopo il Principio, l'uomo è. È molto insipido pensare che Dio è diminuito, che non è più Dio, se così stanno le cose. Dio è semmai più Dio non essendo l'assoluto per il semplice motivo che è più Amore. Perché dove l'assolutezza decresce cresce l'Amore. E, in Dio, Amore è infinito come l'Essere Dio. Tutto il racconto cristiano - Dio si fa Uomo e Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo - attesta e precisamente racconta del cammino di superamento dell'assoluto che il Mistero di Dio ha compiuto. E il racconto è intessuto di vicende estreme vissute da Dio-Uomo quasi come per ottenere annientamento di sé nella ricerca incessante del rifiuto dell' assolutezza in una relativizzazione nei confronti dell'umano fino a parteciparne la punta estrema che è la morte. E la morte inchiodato sopra una croce.
Sembrerebbe ma è per la limitatezza del nostro essere Amore che dopo la sepoltura si fossero concluse le possibilità di ogni e qualsiasi di più, in questo processo di superamento e di annientamento dell'assolutezza, in questa appassionata ricerca di essere dono e cioè Amore. Perché storicamente il compimento unitario, dove si ottiene e si stabilisce realtà unitaria nel finito e col finito e cioè con l'umano, è la morte e la sepoltura. Sulla pietra rotolata all'imboccatura del sepolcro sono stati posti i sigilli e le guardie. Anche giuridicamente, secondo cioè la sapienza umana e la sua logica, tutto è compiuto.
Ma è scritto che i pensieri di Dio e le vie di Dio, non sono quelle degli uomini. E meno ancora l'Amore di Dio è secondo l'Amore dell'uomo. La Resurrezione è il segno della continuità il cammino, perchè il suo tracciato è infinito, dopo appena una sosta (ma qual'è il significato della sosta nel sepolcro se non il tempo della discesa e dell'espansione fino agli "inferi", fino cioè agli estremi confini dell'universo, a raccogliere nel grande abbraccio del creatore tutta e materialmente, la sua creazione?) dopo quella sosta il cammino del superamento dell'assoluto e della ricerca, della necessità insaziabile di essere Amore, si è realizzato nell'interiorità dello stesso Essere Dio. L'Unità Trinità si è aperta all'accoglienza del corpo di Gesù. La corporeità è entrata a far parte della divinità. "Siede alla destra del Padre". Ora è la compiutezza e cioè la gloria. L'Amore ha vinto l'assolutezza. L'unità è realizzata raccogliendo la pluralità e pluralità rimane ottenendo simultaneamente unità. Vi è dunque un cambiamento nell'Essere di Dio? A pensarlo manifestiamo semplicemente l'istintività delle nostre logiche umane.
Diversificazione, trasmutazione, ciò che è adesso non lo era prima, il movimento-cambiamento, non è quando l'ottenimento è la finitezza, il compiuto, la perfezione. E cioè ciò che era già presente, connaturato, essenzialità, il Sé.
Così è nel Mistero di Dio. Altrettanto avviene nel movimento della creazione. Ugualmente, ma spesso disgraziatamente non succede, dovrebbe ottenersi in ogni essere umano e nella storia dell'umanità. Con estrema semplicità Gesù raccontava di questo Mistero indicandolo come segno del Regno, con le parabolette del piccolo seme che diventa albero, del pugno di lievito, del sale della terra.... e le cose che Gesù raccontava le aveva imparate tutte dalla viva voce del Padre.
La Resurrezione è evento storico che certamente ci riguarda come testimonianza, motivo di Fede per la nostra resurrezione. Ma la resurrezione non è vincente la morte (che meccanicità strana sarebbe e piuttosto assurda). Resurrezione è finalmente liberazione dalla separatezza di cui la morte è il segno estremo è il realizzarsi, il compiersi del cammino verso l'unità, quell'Unità ottenuta dalla riunificazione della frammentazione, dello sbriciolamento della vita e della sua vicenda e più ancora a causa di ogni separazione avvenuta a seguito del cedimento alla tentazione (praticamente irresistibile) dell' assolutizzazione, di questo stabilirsi fine e causa del se stesso, credendosi l'unico con pretese di esclusività.
Tutto in Dio si è sicuramente compiuto e la sua gloria è perfetta con la Resurrezione e la presenza corporea di Gesù e la sua storia, cioè la sua totale identità, nell'Unità Trinitaria dell'Essere di Dio.
Nella storia dell'umanità e cioè nella realtà dell'uomo-tempo, tutto è in via di compimento.
Perché la ragion d'essere della storia, nella visione del contemplativo, è che lo stesso cammino di Dio sia compiuto dall'umanità.
Realtà diverse sembrerebbero infinitamente lontane, e invece no.
Come sempre la separazione esistente è chiamata all'unità: diversamente si tratterebbe di assoluti, di a sé stanti e quindi di non Verità perché non Amore.
E ciò che è Dio e definisce divinità, è dell'uomo e stabilisce umanità.
Il superamento dell'assoluto in Dio (e in Lui sembrerebbe pertinente l'assoluto) è segno significante della necessità del superamento dell'assoluto nell'uomo e nella sua storia (tanto più che chiaramente l'assolutezza nell'uomo è assurdità, vera e propria degenerazione).
In fondo, riuscendo a guardare nel letto dove scorre il gran fiume della storia dell'umanità e il piccolo rigagnolo della vicenda di ogni essere umano, ciò che può offrire spiegazione (si fa per dire) del fluttuare, del travolgere, dello straripare e anche dell'irrigare, del fertilizzare e del dissetare di questa strana, assurda, sconcertante, esaltante storia umana, è questo tentativo e è sempre violenza fino spesso alle misure estreme della disumanità, dell'affannarsi, dell'imporsi, a costo di tutto, dell'assoluto, dell'assolutizzazione: e i sinonimi dell' assoluto nelle pagine del racconto della storia sono di una monotonia che sgomenta, nonostante l'evoluzioni delle civiltà e i cosiddetti progressi.

don Sirio

Come svuotare gli arsenali e riempire i granai?

Cresce e si afferma in quantità e qualità la Campagna dell'obiezione di coscienza alle spese militari lanciata dai movimenti nonviolenti per contrastare nei fatti le minacce derivanti dalla corsa agli armamenti e dagli attuali potenziali bellici.
L'obiezione fiscale consiste nella detrazione della percentuale di tasse (5,5%) altrimenti destinata alla preparazione della guerra, per costituire invece un fondo ad uso immediato per scopi di pace.
Uomini e donne di varia condizione sociale, di ogni età, della più diversa appartenenza politica e religiosa, hanno fatto propria questa proposta e deciso di «pagare per la pace e non per la guerra».

Ecco alcuni dati significativi della Campagna:
1984: ------------------------------------------------------------------- 2500 obiettori fiscali
1983:----------------------------------- 1600 obiettori fiscali 155 milioni di lire
1982:----- 419 obiettori fiscali 90 milioni di lire sottratte agli armamenti
13 milioni di lire sottratte agli armamenti e destinate alla pace
sottratte agli armamenti e destinate alla pace
e destinate alla pace

MOVIMENTO INTERNAZIONALE RICONCILIAZIONE
Via delle Alpi, 20 - Roma

MOVIMENTO NONVIOLENTO
C.P. 201 - Perugia

LEGA OBIETTORI DI COSCIENZA
Via Pichi, 1 - Milano

LEGA DISARMO UNILATERALE
Via Alberti, 7/c - S. Giovanni Valdarno (FI)

MOVIMENTO CRISTIANO PER LA PACE
Via Rattazzi, 24 - Roma

Per ogni informazione rivolgersi a:
CENTRO COORDINATORE NAZIONALE c/o Centro per la Nonviolenza
via Milano, 65
25128 BRESCIA (tel. 030/317474)


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