È la prima volta, anche per chi i suoi anni cominciano ad essere tanti, che il Natale non abbia significato e donato tutta la sua dolcezza di sentimento, la sua luminosità di ottimismo e per il credente quella profondità di Fede del suo Mistero, non abbia cioè significato "nascita", ma abbia invece provocato la sensazione raggelante della "morte".
Nemmeno i Natali degli anni di guerra erano rabbuiati dalla tristezza e dilagati di sgomento, anzi riaccendevano la speranza e comunicavano la certezza che "qualcosa" sia pure lentamente e dolorosamente stava nascendo, una promessa che comunicava fiducia, donava coraggio.
Questo Natale invece è come nato morto. È contro senso in parole e nella concretezza ma è così: un Natale di morte. La morte che vince, sopraffà la nascita, uccide la vita. La cancellazione dell'inizio, come dire, allora è proprio tutto a vuoto. E verrebbe da concludere che forse tutto un progetto adorabile non ha mai avuto principio dal momento che mai ha potuto avere continuità. Allora si tratta di una impossibilità, dunque di una assurdità o almeno non di più di un'utopia sia pure bellissima, di un sogno sia pure adorabile...
Si raggrumano nell'anima tutte queste sensazioni e, è chiaro, molte altre ancora, non perché la strage di Natale ha cambiato in lacrime e sangue, orrore, sgomento, angoscia infinita, una solennità unicamente segno e realtà di amore, di pace, di fraternità, di umanità, ma anche e perché le circostanze di quella orrenda strage devono costringerci a capire, a leggere dentro, a scoprire quale può essere quella spietata logica di morte. In modo che quello che forse "la nascita" non ci aiutava più a capire, lo impariamo almeno dalla morte.
Si sono dette e scritte fiumi di parole per scavare nel sottoterra della disumanità a tentar di scoprire le radici di tanto orrore e strapparle via, una buona volta, sì che non abbiano a germogliare ancora maledizione e disperazione. Il male oscuro è ormai così tanto realtà di morte che l'estirpazione del bubbone non può essere ancora rimandata. È ora, perché diversamente c'è proprio da aver paura che la metastasi abbia ormai attaccato perfino gli organi vitali.
E a questa purificazione e liberazione tutti siamo chiamati: la sanità e la salute appartiene ad ogni cellula e alla loro compaginazione. Anche se, è chiaro, che gli anticorpi hanno un compito e una responsabilità decisiva e vitale.
A noi e, evidentemente, a chiunque nella propria visione e nel proprio rapporto con la vicenda della storia, abbia una luce e un progetto di Fede, appartiene un approfondimento e un chiarimento particolare di ogni e qualsiasi avvenimento e quindi e tanto più di un fatto tanto sconcertante, assurdo, disumano come quello della strage di Natale (per raccogliere il fatto che direttamente ha ferito la nostra gente e l'anima nostra, senza ovviamente lasciare da parte o sottovalutare la disumanità di ogni altra strage che avviene qua e là nel mondo).
Non perché è possibile dare una risposta a quel tremendo "perché'' che ci ha ossessionato fin dal primo momento che abbiamo saputo della tragedia.
Non bastano certamente se non ai fini importantissimi di scoprire e bloccare le responsabilità orrende dei mandanti e degli esecutori, le motivazioni di follia ideologica, di mania di sovversione, di delinquenza assetata di strage rigurgitante dai neri abissi del culto della morte. Perché nella strage di Natale vi sono circostanze ancora più "nere": vi è una raffinata, spietata ricerca di efferatezze di lotta, di guerra, di odio, "contro" il popolo. Quel povero popolo che viaggia in treno, il popolo della seconda classe e, questa volta, quel povero popolo che obbedisce al detto popolare: Natale con i tuoi. Tentativo, e riuscitissimo, d'insanguinare una festa di tenerezza, di pace. Di rendere gelida di morte, la nascita, la vita. Momento di sgomento, di disperazione, un'occasione di fiducia, di speranza. Questo popolo impoverito sempre più d'identità culturale, di significanza politica, di spontaneità religiosa. Questo popolo depauperato di lavoro, inflazionato economicamente, oppresso dalla burocrazia, sfruttato dal consumismo, in balia della pubblicità... Ecco gli hanno ammazzato nell'anima, facendone morte, angoscia, sgomento, disperazione, anche il Natale.
Perché?
Può essere che sia, perché questo popolo, nonostante tutto, conserva la sua dignità, riesce a superare a scavalcare tutto quello che gli è contro o che se ne prende gioco o la sfrutta e rifacendosi alla sua saggezza di popolo, vuole vivere in pace e ce la fa a vivere in pace, fino a celebrare il suo Natale di popolo cristiano, sia pure alla sua maniera sentimentale devozionale nella pace del ritrovarsi insieme, intorno al presepe e alla tavola da pranzo, il suo insieme al nord, in un abbraccio di popolo in pace. la strage è per odio contro questa pace di popolo senza dubbio giudicata il nemico contro cui lottare e che deve essere turbata, vanificata. Perché la pace è il nemico della guerra. E di guerra, di sovvertimento, di scontro, di scatenamento di violenza, c'è bisogno laddove non c'è altra possibilità di potere o laddove si vuole ottenere il totale, assoluto potere. la strage di popolo, d'innocenti, di povera gente, di chi cerca di lavorare in pace, godersi la sua casa, vivere la gioia della sua famiglia nella soddisfazione di quel poco o tanto che il benessere della vita moderna può offrire, la strage di questo popolo è perché si decida a scegliersi, ancora una volta, l'uomo forte, chi rimetta ordine nel disordine, ricostruisca il potere dello stato con pugno di ferro, rispolverando il manganello. Questo popolo pecorone va svegliato, provocato, spinto alla disperazione e allora si vanno, quasi a scadenze fisse, intensificando i boati orrendi delle esplosioni del tritolo e le stragi si moltiplicano nel cuore di questo popolo in pace a incrinarne la fiducia, a distruggere la speranza. Perché la morte scava sempre e unicamente dei vuoti, dei vuoti di tutto e perfino nella coscienza dei propri valori, della propria forza. Vuoti che i discorsi dei politici, le manifestazioni angosciate della gente e le celebrazioni liturgiche dei vescovi e del clero, se li ingoiano e disperdono. Domani, appena l'eco ne rimarrà, fino alla prossima volta. Perché nel frattempo, almeno fino ad ora, niente è successo perché i vuoti non si allarghino sempre di più.
E chi gioca le sue strategie di potere, lo sa e aspetta il prossimo treno.
Tanto più che gli strateghi della morte e delle stragi non sono che l'ultimo anello di una catena che incatena nella morte il mondo intero. Quelli delle bombe contro il povero popolo sono gli squallidi, miserabili "locali" del potere della morte che imperversa e domina il mondo.
Il capitalismo scatenato a dominare l'universo è sinonimo della morte. Lo sfruttamento della terra comporta ormai la sua morte ecologica. La pace riposa unicamente sull'equilibrio del terrore: quanto più morte è possibile tanto più pace sarà. Il benessere di un terzo di umanità costa la morte degli altri due terzi, il progresso scientifico, tecnologico prepara guerre stellari e un'umanità fatta di robot. Per il pane degli operai che fabbricano armi e i miliardi di chi le commercia, si appoggiano dittature che uccidono, torturano, schiacciano popoli e popoli. Per il pane dei contadini che producono "coca" e i miliardi di chi la commercia, è strage continuata, sempre più morte che annienta gioventù: questa morte ormai inarrestabile.
Concatenazioni internazionali fra la strage di Natale e la sovversione che serpeggia dovunque nel nostro tempo?
Certamente. E la catena maledetta va spezzata. E tanto più quanto lavora nel segreto, trama nell'occulto e viene allo scoperto soltanto con il tritolo della strage.
Ma perché questa morte al tritolo sui treni, nelle gallerie, nelle stazioni, nelle piazze... nel cuore del popolo, sia debellata, è urgente e decisivo che sia stroncato il culto della morte che ormai sta imperversando a livelli mondiali, alimentato e propagandato come una cultura maledetta, dalle centrali del capitalismo, del potere politico, della strategia militare.
Un paio di kilogrammi di tritolo o che altro diavolo sia stato, su un treno che corre nel buio di una galleria, ha dilaniato l'innocenza di quindici persone, ne ha ferito centinaia, ha reso giorno di morte la gioia del Natale e provocato infinito sgomento.
Ecco e qui è smarrire nell'assurdità, quindici miliardi di tonnellate di tritolo nascoste sul treno che si chiama "terra" e che corre, fra gli spazzi del cosmo, verso, ormai è strategia programmata, le guerre stellari, questa "Bomba" non impressiona, non sgomenta, non fa gridare alla ribellione, non provoca una rabbia infinita. Né interessa i discorsi dei politici, né coinvolge le liturgie del clero...
Anzi ormai il propagandismo politico, la disincarnazione della Chiesa e l'ubriacatura del benessere, hanno ottenuto che la gente viva pacificamente, conviva serenamente con la "Bomba".
Eppure e chi può smentire questa tremenda verità, la bomba sul treno Napoli-Milano della strage di Natale è espressione, segno maledetto, "un qualcosa" di quella "Bomba". L'unica differenza è qui, che questa è esplosa e ha ucciso quindici persone, l'altra non è ancora esplosa ma è collocata, pronta per esplodere, dipende dal suo "timer" cioè dalle strategie diaboliche dei poteri occulti, delle trame segrete che serpeggiano nei sotterranei della storia. E nel caso la strage sarà come dieci volte l'annientamento dell'umanità intera.
La ribellione e la lotta o è contro tutta la trama nera che avviluppa e stringe nelle sue spire di morte la storia di questo nostro tempo, fino a vanificarla a forza di pace, di fraternità, di libertà, di dignità umana... oppure la manovalanza periferica della morte continuerà ad alimentare la paura nel cuore del popolo perché non dimentichi ma tenga presente e se ne convinca sempre più che il suo destino non è nelle sue mani, né in quelle di Dio, ma nelle mani di chi tiene la "Bomba".
La strage di Natale può anche essere che abbia voluto dire che ormai anche sperare e aspettare Redenzione e Salvezza non ha più senso e nemmeno serietà storica: non per nulla hanno scelto il Natale per far esplodere questa loro Bomba e compiere questa strage di popolo.
Cari amici,
partendo dall'Italia mi sento nell'obbligo di lasciarvi una relazione anche se breve, di questo soggiorno. Inutile dirvi che i giorni mi sono volati, anche perché, correndo incessantemente dal Piemonte alla Calabria, alla Sicilia, non ho permesso al tempo di sfare la valigia per stendere sul tavolo tutti i suoi campionari. I miei interventi sono stati sollecitati dalla voglia che io soddisfacessi due esigenze: la prima quella di voler sapere qualcosa di più sulla teologia della liberazione, l'altra di chiedermi un rifornimento di speranza.
Penso che la curiosità teologica così diffusa, nasconda un progetto dello Spirito santo per svegliare il laicato che considera la teologia un piatto della cucina clericale. Credo sia apparso chiaro a tutti che dietro la disputa sulla teologia della liberazione, si nascondono i poveri, il loro dramma e la loro aspirazione. Ho ragione di credere che il risultato di questa curiosità teologica sarà quello che ha sintetizzato con parole chiare uno scrittore uruguayano a me caro Mario Benedetti. Vi voglio citare le parole che chiudono un suo articolo apparso in una rivista spagnola: "Tutto un continente crocifisso dal nord opulento svuotato dagli ierofanti della banca internazionale appoggia questi nuovi "Galilei" che per la prima volta ottengono che i non religiosi, i non cattolici, gli atei, ci sentiamo chiamati in causa e convocati a un progetto di vita degna, liberata. Gesù di Nazaret ha portato un messaggio di giustizia, una proposta di rispetto dell'uomo e della donna, una decisione solidale con i poveri del mondo, tratti fondamentali che non sono proprietà privata della chiesa. La figura e la trascendenza umane di Gesù appartengono all'umanità. In un certo modo con la sua apertura e il suo inserimento nel popolo, la teologia della liberazione ha espropriato simbolicamente Gesù non per toglierlo a un gruppo particolare di fedeli, ma per offrirlo a tutto il popolo". Confido che la Gerarchia non abbia paura di questo interesse teologico che sta fermentando una massa spesso amorfa. Noi italiani passiamo per essere uno dei popoli più religiosi e più indifferente di tutta la cristianità. La causa del nostro scetticismo o cinismo religioso è attribuita alla nostra prossimità geografica con Roma. Non mi prenderei questa responsabilità, ma devo confessare che mi ha sostenuto in questo spazio di tempo italiano che avevo progettato come uno spazio di riposo, la certezza che molti laici che mi sembravano in un tempo di letargo anche se impegnatissimi in espressioni religiose che liberano dal pensare, se è vero che il pensiero è strutturalmente critico, si sono destati e cominciano a vedere che la fede ha molto che vedere con la storia che viviamo che non è certamente allegra.
Più difficile che parlare di teologia è infondere speranza, e forse qualche po' di speranza sono riuscito a trasmettere. Me ne accorgo dal male che mi ha fatto la sofferenza di tanti giovani che ho incontrato e che implicitamente o esplicitamente mi hanno chiesto di aiutarli a sperare. Questi giovani vivono in una società squilibrata; ho avuto la precisa impressione che siano membri di una famiglia che ha avuto un passato opulento di beni economici, di fatti reputati gloriosi, di personaggi che, come direbbe Dante, "suonavano" nella vita quotidiana di molte città. Ora questa famiglia pare preoccupata unicamente di nascondere il suo inevitabile declino sotto splendide iniziative, tagliate da quella vita e da quella storia che è all'origine di questa fastosità. Una famiglia insomma che ha il programma di dar dignità alla morte piuttosto che di aprire le porte ai giovani che devono cercare l'inedito, il nuovo, la vita che è proiezione nel tempo che viene. Scelgo come simbolo di quello che voglio dire Firenze, dove ho visto le strade attraversate da striscioni recanti inviti a mostre di tutti i generi e per tutti gusti. Non sono nemico di queste iniziative, ma vi ho letto, e non so perché, la preoccupazione isterica di questa famiglia antica di nascondere la sua lussuosa fine.
Forse il leggere questi simboli con questo taglio mi viene dal costatare che i cosiddetti grandi della politica dell'aristocrazia, e della cultura entrano nei celebri teatri dove si svolgono dei fatti definiti culturali con uno sfoggio illimitato, lasciando senza risposta i giovani che devono rispondere alla sfida del tempo. Insomma mi pare di aver capito che quasi la totalità delle energie è spesa a imbalsamare con tutti i segreti dell'arte, il cadavere del tempo che abbiamo in casa, piuttosto che a dar coraggio e spronare alla fatica dell'allenamento quelli che devono accettare la sfida del tempo e rispondere alle sue provocazioni. Ho ripensato a Dostoiewskj quando preparava il suo viaggio attraverso l'Europa per visitare i "morti illustri" e ho sentito questo acre sapore di morte. So che non è facile infondere speranza; ma quel poco che ho potuto infondere mi viene dalla solidarietà con quelli che non hanno nessuna sicurezza e che sono stati abituati dalle vicende della vita a "sperare contro ogni speranza"; così ho potuto dire ai giovani che la speranza è il termine dialettico che nasce sempre in qualunque caso dalla sua negazione.
Sotto le pesanti tappezzerie di porpora e d'oro c'è il cadavere della speranza. Quella che rinasce continuamente ed è esternamente giovane è quella che nasce dalla sua negazione; ce lo ha insegnato Hegel, e prima di lui ce lo aveva detto san Paolo che parla di una speranza contro ogni speranza, che vuol dire una speranza che rinasce sempre dalla morte della speranza, a condizione di non imbalsamare il cadavere, ma di lasciarlo al sole sapendo che dalla putredine nasce la vita. Non è facile, perché bisogna che ci siano le circostanze storiche che negano la speranza e che non ci siano delle ricchezze per ricoprirla.
Le negazioni della speranza non mancano in Italia; ne abbiamo scoperte parecchie nei dialoghi con i giovani, la disoccupazione, l'invasione imperiale delle nostre terre con le armi, con l'economia, con i modelli di vita che hanno il fascino di potersi riprodurre con poche spese, la disparità sociale che sparisce sotto l'ipocrita uguaglianza della democrazia, e tanti altri guai di cui i giovani sono lucidamente coscienti. Bisogna fissare lo sguardo coraggiosamente su queste negazioni della speranza perché sia esse ed esse sole nascondono la speranza. Dobbiamo fare una conversione che sia veramente un cambiamento rivoluzionario di ruoli: da minacciati dobbiamo trasformarci in minacciatori. Ho scoperto, e mi ci sono voluti degli anni, che i poveri nascondono sotto la loro mitezza, il loro curvare la schiena davanti al potere, una energia indomabile; a loro è stato affidato il segreto che Gesù ha fatto il senso della storia, di sconfiggere la morte. La solidarietà con loro è il segreto per partecipare di questa debolezza che è la forza che vince il mondo. Ho cercato di insegnare ai giovani e chiedo scusa di questo termine insegnare, a rifiutare tutte le attrazioni culturali, economiche religiose che ci tagliano fuori dalla storia concreta quella che si combatte nella realtà mondana. Tutte le battaglie "ideali" o ideologiche o metafisiche o religiose, sono portatrici di delusione tanto più vicine quanto più urgente è la sfida che ci viene dalla realtà vuota di umano e di storia. Se i grandi fatti umani come la povertà l'ingiustizia, la prepotenza politica ed economica si presentano senza soluzione possibile, questo deve voler dire per noi che rinchiudono in se l'antitesi della speranza, la sua negazione, e quindi che non possiamo passare oltre.
Quelli che sfidano il mondo e le sue contraddizioni col denaro, col potere economico e politico sono condannati a morte col mondo con la non-speranza. È semplicemente ridicolo che i buoni cattolici ripetano con monotonia che violenza produce violenza - e sanno che lo dicono per proteggere i rapinatori - e poi pretendono di opporre ingiustizia ad ingiustizia, quando usano la ricchezza i beni economici, il potere per combattere il potere. Quando i seguaci di Cristo capiranno la lezione di David nudo che vince il Golia armato fino ai denti, del Bambino di Betlemme che espone il suo corpo fragile e nudo allo strapotere dell'impero che lo registra fra i suoi sudditi schiavi? Nel giudicare movimenti ed iniziative che si dichiarano di aiuto alla fede, al rinnovamento della vita e alla creazione di quella speranza che sola può salvare il mondo, non ho dubbi. Dove vedo la pratica di confidare nei beni so che lì non lavora lo Spirito, dove trovo l'esistenza di quei poveri cui Gesù ha promesso la terra e che non hanno in che confidare se non nella speranza nuda che nasce dalla morte del potere, so che quello è il luogo dell'appuntamento con la vita. Vi abbraccio uno ad uno e vi auguro un buon '85.
Ci è apparso interessante pubblicare una lettera indirizzata a don Beppe riguardo al suo ultimo articolo "La mia teologia" e la successiva risposta. Può essere un modo per chiarire ancora meglio il senso di ciò che scriviamo sul nostro giornalino che appunto altro non è che una "Lettera aperta" a tutti gli amici.
Caro don Beppe,
sono un assiduo lettore di Lotta come Amore. Per questo ti scrivo due parole su "La mia teologia". È quel "mia" che indica sempre più la tipica malattia dell'uomo di oggi malato di opinionalismo e di narcisismo, varco inevitabile di ogni protestantesimo. Occorre rituffarsi nella oggettività della Parola letta e vissuta dal popolo e nel popolo di Dio garantita e condotta dalla Comunione Papa-vescovi-popolo (ed è la tradizione!).
Ciò che manca dunque è una coscienza personale (non individuale: quella non ti manca!) e di conseguenza una coscienza storico-sociale prodromo per una coscienza ecclesiale (il mio io è in noi!). Ciò che manca è il riflettere su quel "factus oboediens usque ad mortem": e penso che la strada da battere sia proprio l'obbedienza e... a chi (non certamente a se stessi o a un Dio ridotto alla propria opinione e soggettività).
Grazie e Buon natale!
don Silvano Lucioni
Bisuschio (Va)
La lettera di don Silvano Lucioni (che non conosco, ma a cui sono grato per avermi letto) mi ha provocato ad una doverosa risposta. Il senso di essa non è per niente autodifensivo: non sono un "maestro" e quindi non mi sento il dovere di non sbagliare. Certo è però che le cose che ho scritto nel mio semplice articolo "teologico" sono radicate profondamente nel mio cuore e nella mia vita e mi appassionano fortemente.
"La mia teologia" voleva semplicemente comunicare le speranze che nutrono da anni il mio cammino di cristiano e di prete: come dire "la mia fede" o "il mio credo". Non nel senso di una proprietà privata, di un possesso strappato a forza, contro qualcuno; ma il dono che penso di aver ricevuto (e magari tanto poco corrisposto): dalla Bontà di Dio e dall' Amore di Cristo. È senza dubbio per questo dono straordinario ed inspiegabile che sono convinto di essere stato spinto a cercare di vivere l'impegno sacerdotale nella condivisione della vita operaia (ora artigianale), nella fatica quotidiana, nella comunione concreta con la gente umile e senza particolari poteri. Questa scelta l'ho sempre voluta collocare e vivere come parte dell'intera comunità della Chiesa, del Popolo di Dio, anche se non sono mancate le contraddizioni e le difficoltà. Ho sempre avvertito ed avverto chiaramente che ci sono "due anime" nella Chiesa storica: una è quella che la sospinge sulla strada della povertà e della condivisione a partire dagli ultimi; l'altra che la sollecita a sedere in alto, sul trono, amica e alleata dei potenti. Per me, "l'oggettività della Parola" la trovo chiara e trasparente nella storia e nella vita di Gesù di Nazareth, così come i Vangeli ce ne danno limpida testimonianza. La fonte della "mia teologia" è tutta lì: è stato il mio sogno segreto fin dai tempi del seminario e mi ha sempre accompagnato con meravigliosa e instancabile presenza; e me lo ritrovo dentro ancora intatto nonostante la fatica e il peso di ogni giorno. Può darsi benissimo che mi manchi "una coscienza storico-sociale" e quindi (se così dev'essere) "una coscienza ecclesiale": sono però felice che non mi sia mancata, fino ad oggi, la Fede e l'Amore per Gesù Cristo e attraverso di Lui per i poveri, gli umili, i disprezzati, i piccoli, i nonviolenti... Mi hanno sempre guidato nel mio cammino di speranza e di fede le Parole del Signore Gesù ai suoi apostoli: "Non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il padre vostro, quello che sta nei cieli. E non chiamate nessuno "maestro" sulla terra, perché uno solo è il vostro maestro, il Cristo". Sarò "malato di protestantesimo, di opinionalismo e di narcisismo" (che parolone!)? Non mi sento molto preoccupato per questo; lascio il giudizio a chi mi può giudicare (e fin nel midollo delle ossa). Ostinato, però, lo sono certamente: non cambierei questa "teologia" che ritrovo così fresca e chiara nella misteriosa e appassionata vicenda storica di Gesù di Nazareth, con le mille illuminate e sapienti teologie offerte a più riprese come "sicure" sul piatto della storia. Mentre in queste avverto spesso odor di muffa, di compromesso e a volte di complicità, nella teologia che è Gesù Cristo sento il profumo di qualcosa di sempre nuovo, di vero, di genuino come il profumo del pane appena sfornato o del vino appena spillato.
Sarà "poesia", invece di buona, solida, sicura e incrollabile "teologia"? Ostinato come sono, anche di questo non mi preoccupo troppo: preferisco l'incerto sentiero di Betlemme, di Nazareth, delle strade di Samaria, perfino di Gerico (e vorrei poter dire anche quelle del Golgota, ma non lo so!), alle strade sicure e diritte come quelle di via della Conciliazione, ai colonnati maestosi del Bernini, alle stanze di Raffaello o di Michelangelo, fino alle "autostrade" della Banca Vaticana... Sto nella Chiesa con sofferenza, ma anche con tranquilla serenità: perché penso che non ci può essere un'altra Chiesa, anche se credo che la Chiesa dovrebbe essere "altra" (diversa, cambiata, ripulita, rinfrescata, ringiovanita).
Neppure mi preoccupo di essere un "buon teologo"; vorrei tanto, e so che non lo sono, essere semplicemente un "buon cristiano", nel senso del Vangelo. Sono sicuro che la Chiesa, il Popolo di Dio, la Comunità dei credenti (Papa-vescovi-popolo) non serve a niente se non rende testimonianza storica, visibile all' Amore, alla Fraternità, alla Verità, alla Giustizia, alla Pace, alla Bontà di Dio. E l'unica università teologica di cui tutti abbiamo sempre bisogno credo sia stata aperta parecchi secoli fa, in un piccolo pezzo di Terra che allora si chiamava Palestina. Mi piacerebbe molto (al termine dei miei studi) ottenere la laurea!
Con affetto
don Beppe
Continua viva e intensa nella mia anima, in quella profondità del se stessi e non per ragionamento o ricerca culturale, ma piuttosto nell'intuizione, nella percezione istintiva, la riflessione sulla teologia della liberazione.
Sinceramente tutto un profondo interesse non è perché la conoscenza della storia e delle tematiche di questa ricerca teologica mi abbiano comportato visioni teologiche nuove, capaci di allargare gli spazi interiori, chiarimenti di Fede, provocazioni a cercare o almeno intravedere illuminazioni per un nuovo e più impegnato rapporto fra la scelta di Dio e la realtà storica nella quale mi ritrovo a vivere.
1 - T.d.L. e prete operaio
La scelta del Cristianesimo come spiegazione e motivazione della mia vita e del mio rapporto con l'esistenza (scelta poi precisata e, direi, totalizzata nell'accettare di essere prete) è avvenuta a seguito e in forza dell'amore a Gesù Cristo. Amore per lui, la sua persona, la sua storia, la sua parola: il suo essere annuncio e progetto e adorabile realtà storica di vero Uomo e di vero Dio, mi ha totalmente affascinato e quindi profondamente convinto a giocare tutta la mia vita in lui e con lui.
È quest' amore e il bisogno profondo di fedeltà, come voler essere acqua del gran fiume e fiamma viva dello stesso fuoco, che mi ha spinto, costretto a cercare come e dove respirare e vivere "qualcosa" di lui, almeno un accenno di risposta alla sua proposta.
La scelta di fare vita operaia, di essere prete operaio, in fondo è spiegabile unicamente nell'intendimento di quest'Amore. Ne sono profondamente convinto anche in questo momento e quindi anche dopo i trent'anni di vita vissuta a seguito di questa scelta. E nonostante tutto, compresa l'impressione di vanificazione attuale dei significati e dei sogni di questo progetto di vita di prete operaio. La teologia venuta dall' America Latina mi ha, se non scoperto qualcosa, molto consolato, confortato, incoraggiato. Trovare sistemato in sintesi teologiche, cristologiche, ecclesiologiche, un antico sogno, un'esperienza pagata duramente, una solitudine sempre più emarginata ed oppressa, non può che essere dolcissima, profonda consolazione. E tanto più quando è un fatto concreto, reale che tutta questa teologia è emersa, come oro dal crogiolo, dall'oppressione, dallo sfruttamento, dalla lotta per la dignità umana, di popoli e popoli.
È adorabile la costatazione che la potenza dello spirito, vanificata nella nostra storia di tentativo di liberazione nella realtà della classe operaia e del nostro popolo cristiano, non si è arresa, si è semplicemente spostata là dove il lievito ha trovato pasta da lievitare e il sale per dare sapore. Qui da noi, questo miracolo di una condizione popolare, come la realtà operaia, capace di "evangelizzare" la chiesa e la nostra cristianità, non è stato possibile che si compisse.
Forse, come è sempre richiesto per l'ottenimento di ogni miracolo, la Fede (compresa anche quella di noi preti operai) non è stata della misura di forza indispensabile e può essere che ormai il fiume si vada perdendosi nel mar morto.
Non è che sia mancata la teologia (anche se non sono apparsi i teologi) e una ricerca di traduzione concreta in esperienze di partecipazione, di coinvolgimento, di lotta in grazia e in forza del progetto cristiano di liberazione, da condizioni di sfruttamento, d'ingiustizia, d'oppressione.
2 - T.d.L. e miracolo economico
È anche vero però che il miracolo economico ha reso impossibile il miracolo della Fede, lo ha semplicemente surclassato, svalutato.
Perché il benessere può molto di più dell'oppressione. Il denaro appare molto più convincente, per la "liberazione", della parola. Fino al punto che ugualmente, a pari passo, sia Gesù Cristo che Carlo Marx sono stati soppiantati dalla strapotenza del capitale e dalla cultura capitalistica.
Può essere che questo tristissimo processo storico sia costatazione consolante, incoraggiante addirittura, per tutto il progetto (ma è realtà ormai nemmeno più strisciante perché decisamente alla luce del sole) per tutto il progetto di restaurazione, ormai galoppante, a cercare di occupare e dominare ogni spazio rimasto scoperto e non, ricoprendolo e soffocandolo di progresso tecnologico, d'intrallazzo politico, di potenza militare, di ubriacatura di benessere, di sentimentalismo e devozionalismo religioso rafforzato da potenzialismo cattolico, clericale, papale.
3 - Responsabilità della Chiesa
È certo che dello spengimento, del concludersi di un rinnovamento, fin dalle radici, della chiesa e di tutta una cristianità, per il ritrovare l'essenzialità costitutiva del messaggio di Gesù Cristo e quindi l'incidenza creativa di una comunità cristiana liberata e liberante capace di significare e ottenere umanità diversa, nuova, o almeno di alternativa all' andazzo paganeggiante della storia, ormai rassicurato e benedetto, di questo spengimento progressivo ( e si sta soffiando sul lucignolo fumigante) la Chiesa, da ogni vescovo fino al papa, ha le sue pesanti responsabilità. La nostra storia di movimento pretioperai può non avere alcun significato e tanto meno importanza e va bene. Sta il fatto però che se non altro sulle pagine di questa nostra storia e sono pagine fatte di carne e anima e fede, c'è raccontata la violenza della Chiesa gerarchica per vanificare quel nostro pugnello di lievito, mescolato e perduto nella massa di farina impastata di ogni e qualsiasi ingrediente che è la storia, anche cristiana, di questo nostro tempo.
Adesso la violenza si è spostata sull' America Latina e il tentativo di spengimento è sulla teologia della liberazione.
Può essere però che gli esiti non siano gli stessi e, ovviamente, per tanti motivi, ma, e lo credo profondamente, è perché più che tutto la potenza dello spirito di Dio non ce la farà a spengerla e a vanificarla ancora una volta né la congregazione della dottrina della fede, né la strapotenza del capitalismo occidentale.
4 - Speranza della T.d.L.
Ho scritto questo "qualcosa" di riflessione interiore, sinceramente, senza polemica e senza amarezza anche se, è chiaro, con infinita sofferenza: il sangue non è acqua, dice la gente. E di sangue dell'anima qui si tratta, molto più vitale di quello delle vene.
È chiaro che questo messaggio della Teologia della liberazione con tutta la sua freschezza e passione di fede popolare, mi riaccende l'anima, mi scalda il cuore, ravviva la speranza. E nella morta gora attuale non è dono di poco conto. Ogni esperienza della presenza dello spirito di Dio, dell'attualità vivente di Gesù Cristo, della potenza creativa di umanità della parola... e quindi dell'agitarsi degli alberi della foresta, fino a muovere le radici, del soffiare dei venti così da rigonfiare le vele e costringere la barca a solcare i mari della storia... ogni esperienza di continuità, di presenza storica di "incarnazione" del mistero di Dio nel mistero della storia umana, è sempre motivo di dare gloria a Dio, di rendere grazie per la sua dolcissima fedeltà di amore, e anche di riprendere fiato, rianimare lo spirito e ributtarsi nella lotta. Perché, è chiaro, anche la speranza storica (quella teologale non si è mai nemmeno appannata) è ancora possibile.
Ma forse è da questa riaccensione profonda e per la luce e il calore che diffonde, che prendono contorno e si precisano grossi, pesanti problemi.
5 - Le caravelle
Le caravelle, della pittoresca descrizione di P. Balducci, di ritorno dalla scoperta e dalla evangelizzazione del nuovo mondo, hanno attraccato ai nostri porti. Alla foce del Tevere non hanno trovato favorevole accoglienza da parte dei nativi della zona. Anzi tutt'altro, ma i navigatori non se ne sono afflitti eccessivamente e tanto meno si sono arresi. Ma, dati i tempi moderni, in aereo sono ritornati alle loro terre di origine, fra la loro gente, dove vivere, almeno teologicamente liberati, è più semplice e facile. Partendo però hanno abbandonato a noi le caravelle con tutto il loro preziosissimo carico.
Alla foce del Tevere non è stato possibile, almeno per ora, distruggere, incenerire ogni cosa, tutto è ancora intatto, così come è stato sbarcato e ciò che più è straordinario, ogni preziosità è lì disponibile, chiunque può prendersi quello che vuole e portarselo a casa.
Ma, cosa stupefacente per questi nostri tempi di così facile approfitto, niente, fino a questo momento, è stato portato via. Tutti guardano, ammirati, rigirano gli oggetti fra le mani e rimettono rutto al suo posto, come se fossero cose da museo.
6 - Universalità della T.d.L.
Sta il fatto che dopo che sono state messe sotto sopra le acque stagnanti del Vaticano, dopo che è stata costretta "al chi va là" la benemerita congregazione per la difesa della dottrina della fede (che simpatico era quel "Santo Uffizio", tanto si tratta della stessa storia).
Dopo che è stato agitato il mondo dei giornalisti radio, tele, stampa, tutti coinvolti nelle vicende di liberazione della teologia. E quindi dopo la provocazione a raccogliere e convocare convegni, seminari, incontri di studio ecc. ecc. Insomma dopo che tutto ha ripreso l'andamento normale, quello di sempre, mare tranquillo appena ogni tanto lievemente increspato, la barca quasi ferma con le vele afflosciate per mancanza di vento, ecco, adesso, in questa precisa realtà attuale, sarebbe giusto e doveroso affrontare seriamente, responsabilmente questa teologia della liberazione, cercandone, scoprendone e mettendone chiaramente in luce, la forza di rinnovamento, di rivitalizzazione di tutta la realtà ecclesiale, di tutta la cristianità.
Perché o la teologia della liberazione è annuncio di 'buona novella" per tutta la chiesa e la comunità cristiana o è dottrina di catechizzazione adatta a realtà particolari, per condizioni caratteristiche di popoli a seguito di situazioni culturali, economiche, sociali, politiche, ecc.
Io sono convinto, fin nel profondo dell'anima mia e nelle radici della mia fede, che tutta la chiesa universale e quindi ogni chiesa nazionale e locale, può e deve essere investita dalla luce e dalla potenza di una teologia capace di ripresentare e annunciare il Vangelo, liberato da ogni incrostazione operata dai secoli, non soltanto, ma particolarmente dall'incrostazione del tempo presente, attuale, con tutta la sua cultura, il suo progressismo, la sua disumanizzazione.
Non tanto vi è urgenza di una teologia per un giudizio dogmatico, etico, pastorale, sociale, politico, calato sulla realtà storica del nostro tempo. Di questa teologia ne sono pieni gli scaffali: libri, lettere encicliche, documenti pastorali, raccolta di discorsi, studi senza fine.
Ciò di cui c'è bisogno, come dell'aria che si respira, è di una teologia che sia autenticamente liberante, liberazione: sì, certo, come spezzare catene che legano mani e piedi, togliere di sugli occhi la benda che impedisce di vedere, di sulla bocca il cerotto che la chiude, di sul cuore il macigno che lo soffoca, scardinare le porte ferrate della prigione, demolire le fortificazioni... fino al punto che nemmeno l'orizzonte sia più limitazione di spazi, di vastità sconfinate. Anche se si tratta di un progetto che già diverse volte ha risuonato, e rimbalzato disgraziatamente, nel cuore dell'umanità e nel camminare della sua storia.
"Lo Spirito del Signore è sopra di me: a questo sono stato consacrato e mandato, ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, a proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a donare libertà agli oppressi, a predicare il tempo di grazia del Signore" (Isaia 61, l - Luca 4,18). E anche allora, come sempre ogni volta "si levarono sdegnati, lo cacciarono fuori della città, lo condussero sul ciglio della montagna per gettarlo giù dal precipizio".
(Evidentemente è proprio vero che la storia si ripete con una monotonia sconvolgente).
7 - T.d.L. in casa nostra
Ma ammesso e non concesso e le ragioni che giustificano la perplessità sono enormi e pesantissime, ammesso che la teologia della liberazione, da noi, nel nostro testo e contesto ecclesiale italiano, trovi accoglienza di teologi, consensi culturali, pastorali nelle comunità religiose e per abbandonarci all'ottimismo, anche la considerazione rispettosa di qualche vescovo... ecco, ma e il popolo? Seriamente, responsabilmente, si può pensare che la nostra realtà popolare sia o possa ritrovarsi nella condizione assolutamente richiesta per concepire, portare nel suo seno, dare alla luce e allevare con tutto l'amore e la passione indispensabile, una teologia della liberazione?
Perché, è risaputo, che tutto quello spirito religioso quello slancio di efficacia creativa della scelta di Dio, di Cristo, vissuto, e appassionatamente, dalle innumerevoli comunità cristiane dell'America Latina, come forza liberante dall'oppressione e costruente di dignità umana, tutta quella potenza di liberazione e di novità esplosa dalla parola di Dio e dalla grazia dei sacramenti... è anima, carne, sangue, vita, fede, speranza, forza di popolo.
l teologi hanno riempito, quasi sotto dettatura da parte del popolo, le pagine della teologia della liberazione.
È un fatto questo di novità assoluta che se non ha impressionato e fatto riflettere il card. Ratzinger, non può non bloccare gli entusiasmi della cultura teologica e non, qui da noi.
Perché se liberazione dev'essere come assolutamente bisogna che sia, pena che tutto sia o possa essere raffinatezza culturale, momento e occasione di rigurgito di amarezze, sovravvivenze, più o meno stanche, di contestazione, terreno buono dove riseminare vento... se liberazione dev'essere e in nome di Dio, per il Mistero di Gesù Cristo, per la potenza della parola, allora liberazione sia.
8 - T.d.L. una di chi, da che cosa
"Ma il nemico chi è, il nemico dov'è" è detto in quel nostro teatro per la pace.
Di chi e da che cosa il nostro popolo vuole liberarsi, deve liberarsi, cerca di liberarsi e nella fede cerca e trova la forza, il coraggio per questa sua lotta di liberazione?
È chiaro che il discorso si complica maledettamente e diventa problema angosciante, sconcertante. Siamo nel tempo e nella condizione storica nella quale è perfino equivoco e inconcepibile, qui da noi, nella realtà culturale, sociale, economica, politica, religiosa, cattolica, ecclesiale nella quale più o meno disinvoltamente stiamo vivendo, parlare di liberazione. A tutti i livelli ma particolarmente all'interno delle nostre comunità cristiane, nella pastorale, nella catechizzazione, nell'associazionismo cattolico, liberazione non è insegnata e praticata se non come liberazione, purificazione dal "peccato", questa parola così tanto abusata fino al punto che sembra dire tutto e invece dice niente, all'infuori dei dettati moralistici, su per giù sempre gli stessi da secoli e secoli.
9 - Liberazione non teologica
Certamente liberazione dal terrorismo, prima di tutto da quello rosso e possibilmente da quello nero, dalla mafia, dalla camorra, dai sequestri di persona, dalla violenza sessuale, dalla corruzione imperante pubblica e privata, dalla burocrazia asfissiante, dalla disoccupazione, dalla cassa integrazione, dalle sacche di miseria, dalla peste della droga... insomma "tutto" e cioè tutto ciò che intacca il benessere, il tranquillismo personale, individuale, egoistico...
Ma per questa liberazione non c'è bisogno di teologie di liberazione.
È opinione comune che basta un governo sul serio, una magistratura efficiente, una polizia dal pugno di ferro, galere sicure e abbondanti e, perché no, se proprio deve decidere del tranquillismo degli onesti, il ripristino della pena di morte. Perché di alternativa (e alternativa significa cambiamento di sistema di vita, rovesciamento dei valori imperanti e sostituzione di nuovi, rivoluzionamento dei criteri che decidono della giustizia, della dignità umana, della vera libertà dell'essere umano, dei rapporti sociali, culturali, politici, della promozione e del rispetto di una convivenza autenticamente umana ecc. ecc.) di questa alternativa invece è ormai perfino assurdo, pazzesco trattare.
10 - Teologia alternativa
E di fatti non si parla più, nemmeno nelle chiese, di povertà come contrapposizione alla strapotenza del denaro, alla fede che il denaro è tutto, il bene assoluto, l'unico dio. Di fraternità vicendevole, di primato dei poveri, degli indifesi, degli ultimi, di chi non è niente perché niente possiede, in alternativa all'arroganza del potere, di qualunque potere, della sopraffazione, dello sfruttamento. Di non violenza nei confronti del dilagare della religione della violenza, delle armi private e a livelli mondiali, della strumentalizzazione della morte, ormai dentro a quello che si mangia, all'aria che si respira, all'angolo di strada, ai confini delle nazioni, alla pace che si spera... di difesa popolare nonviolenta in sostituzione al militarismo, alla militarizzazione dei popoli, dei blocchi che schiacciano l'umanità. Dell'umano superamento della pretesa di una convergenza assolutizzante sul sé stesso fino alle misure di deificazione dei propri diritti, individuali, collettivi, di popoli, di razze. Della gioia della semplicità del vivere in contrapposizione all'insaziabilità di un benessere incapace ormai di sopportare un punto di arresto.
Della vita di fede, di una pratica religiosa vissuta per la gloria di Dio e per l'Amore fraterno, come alternativa ad una religiosità esteriorizzante, spettacolare, strumentalizzazione di tutto il Mistero di Dio a proprio servizio, personale o di classe, di istituzioni, di privilegio, di potere...
11 - Eppure la speranza
Con il Concilio, chiarissima esposizione di teologia di liberazione, sembrò che la terra buona dove la parola avrebbe potuto fruttificare dove il trenta, il sessanta, il cento per uno, fosse stata individuata, dissodata e largamente seminata. Ma poi è tornata anche quella buona terra ed essere strada da tutti calpestata e dove gli uccelli beccano ogni cosa, si sta invece dilatando la terra incolta e incoltivabile perché arida, sassosa, pietrosa e i rovi e le spine crescono, pare quasi a vista d'occhio e inarrestabili, sicché anche la teologia della liberazione potrà crescere nei convegni, sui libri, ma non nella nostra terra.
Disgraziatamente per noi, ancora una volta.
La speranza, tutta ovviamente chiara e forte nella potenza dello spirito di Dio, è che "le caravelle" non riprendano il vento di scirocco e facciano vela, ritornandosene di dove sono venute.
Perché se l'evangelizzazione del vecchio mondo non è possibile oggi, lo sarà certamente domani. "Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno". Così è scritto.
E l'attesa, nel Mistero cristiano, è fede e amore anche e particolarmente quando è crocifissione.
don Sirio Politi
"E il profeta sognò una vigna". In quei tempi dissacrati e disincantati in cui ci si acqueta nell'oggi e, se si pensa al domani, si ha paura, torna la nostalgia del sogno. Se vogliamo lievitare in "più spirabil aere" dobbiamo abbandonarci al sogno come il profeta che sognò la sua vigna. Non importa se il sogno scontrandosi con la realtà non si realizzerà, l'importante è averlo sognato. Nessun ideale si è incarnato nella storia se prima non lo ha preceduto la passione e l'intensità del sogno.
Don Sirio, prete operaio nel libro "Antico sogno nuovo" (Gribaudi editore) fa di nuovo udire la sua voce proprio per rilanciare il valore di quelle tensioni ideali di cui oggi la società è tanto carente. Egli ha avvertito come sia necessario ricuperare la bellezza dell'utopia cristiana sognandola con impeto dell'innamorato di Dio. Bisogna di nuovo, come nei tempi antichi ritornare al sogno che ci apra ad orizzonti più vasti, bisogna desiderare con intensità amore e pace sconfinati, uscire dal privato egoistico e allargare su tutti gli uomini l'aspirazione alla bellezza infinita
Cosa succede poi nella realtà? Quanto riusciremo a realizzare del sogno? Non è importante vagliarlo. "La nostra vita è quella realizzata a seguito della scelta o è più vera, cioè noi stessi, la storia non vissuta, quella che ha camminato su strade tracciate, ma non percorse?" Questa è la domanda che si pone l'autore. "Il sogno cioè ha valore in quanto si realizza, ma non ha forse un valore anche in se stesso, non è forse una luce, una intensità folgorante anche il sogno portato tutta la vita nel segreto del cuore? Il concreto, il realizzato non è mai per ogni essere umano molto più dell'onda che si frange sulla spiaggia nei confronti dell'immensità del mare". Ma dietro lo scintillio e la breve voce dell'onda è importante, essenziale la vastità del mare.
Questo libro è la storia di un sogno sognato dall'autore "è il racconto della mia vita" egli scrive. Nel quotidiano però, nel concreto la vita dell' autore è stata ben diversa dal sogno. Ma cos' è veramente la realtà e il quotidiano con i suoi limiti in confronto al sogno, alla passione con cui questa realtà é stata vissuta e si trasfigurata? La realtà è illusione e il sogno vita autentica.
Il libro è la storia di una comunità monastica. Per chi conosce don Sirio sa che egli nella realtà è tutt'altro che un monaco ed è vissuto tutt'altro che in un monastero. Parroco prima, poi prete operaio nella darsena di Viareggio, vive ora in mezzo al fragore e al fervore del porto tra i marinai e gli operai, lavorando con gli handicappati in un Centro Artigianale. Dove sono i monaci silenziosi e il monastero eremitico? Sono nel sogno che ha sorretto tutta la vita dell'autore e quella degli amici con cui ha vissuto e vive in comunità "uomini e donne con cui insieme, più o meno consapevolmente nel segreto dell'anima e alla luce del sole, abbiamo vissuto una vita, o almeno comunità di vita, nonostante la diaspora delle vicende personali".
E il libro avvince perché è la storia di tante persone con la loro vicenda diversissima. Non hanno un nome, prendono il nome dai doni dello Spirito Santo: Fratel Consiglio, Fratel Sapienza, Fratel Intelletto... Suor Fede, Suor Carità... Questi personaggi venuti dal marciapiede o dal conven-to, dall'Università o dalle brigate rosse, dal popolo o dal mondo della scienza sono state travolte dal sogno evangelico, ne hanno carpito il terribile segreto, si sono convertiti e si sono lanciati nell'avventura cristiana appassionatamente, affascinati dal mistero di Dio.
Il valore del libro è soprattutto in quella scossa violenta che ogni lettore avvertirà perché non si tratta della vacuità, dell'inconsistenza di un sogno qualunque, ma di un sogno che, come nei testi biblici, ha una voce tonante che scuote dalla tiepidezza nostra quotidiana. Il sogno è l'utopia cristiana che dobbiamo vivere intensamente fino alla follia se vogliamo che il mistero di Dio si incarni nella vita. Si tratta di una altissima "vox clamantis in deserto", il deserto della nostra inet-titudine a calare nel reale il grande mistero di Dio.
(continuazione)
Ma insieme, nel frattempo dell' incessante straripare della strapotenza, dell' assolutizzazione e cioè della stupidità, dell'assurda, pazzesca fatica dell'autoesaltazione e quindi dell'inganno, della menzogna, della falsificazione attraverso la violenza e tutto ciò che alla violenza si assomiglia, è anche e meravigliosamente, la sorgente chiara e limpida dalla fenditura della roccia e il ruscello fra i sassi e il muschio, a scivolare lungo l'impervio, lo scoscendimento per la sete delle lepri e dei caprioli. Le oasi improvvise e miracolose fra i deserti per palmeti a ondeggiare verde e vita nelle vastità riarse, bruciate della storia. L'opposto dell'assoluto è la santità e i santi sono la disponibilità al dono e all'accoglienza, addendi misteriosi per l'autenticità della somma umana, possibilità inesauribile all'Amore. Emergono su, improvvisamente, non si sa bene di dove e perché. Sconosciuti e pur vivi e vitalizzanti pur senza che loro stessi lo sappiano, a ottenere - e chi può conoscerne la misura - che la libertà continui a liberare, la verità a rendere veri, l'Amore a unificare l'umanità. Non è il loro miracolo forza di eccezionali virtù, di carismi particolari, è unicamente Mistero di semplificazione nella complicazione, intuizione interiore e traduzione fedele di distruzione dell'assoluto, di demolizione della statua e del piedistallo, è camminare a piedi nudi e bere acqua alle sorgenti e mangiare pane raccolto dalla mano di tutti. Perché santità è povertà, è semplicità, libertà, disponibilità, alterità: è avere bisogno. E l'Amore più vero è avere necessità e spesso struggente necessità, della dolcezza di uno sguardo, della cordialità di una stretta di mano e cioè della ragion d'essere della vita, della spiegazione del Mistero. Tutto il resto è artificiosità, rannodamento sempre più stretto fino alla soffocazione e quindi impazzimento per i tentativi di trovare aria da respirare.
Certamente insieme ai santi, i poeti, gli artisti, i cantastorie, gli innamorati, i sognatori, gli utopisti, i pacificatori, gli oppressi, quelli che piangono, che vivono di speranza, i non arresi, i perseguitati, tutti coloro che non si allineano, che non si vendono e è impossibile comprarli, ricondurli nella norma, gli anarchici, i ribelli, gli eretici, chiunque è libero e liberante... Insomma (perché l'elencazione fortunatamente è impossibile) insomma tutta "l'alterità" che ha il grande merito - è chiaro, tutt'altro che riconosciuto - di non permettere che scompaia l'umanità dalla faccia della terra e dal cuore dell'universo.
Non per nulla (il Mistero dell'Amore di Dio conosce perfettamente questo suo "partner" nel disegno di superamento dell'assoluto e per l'ottenimento della compiutezza dell'Amore) non per nulla subito dopo - esattamente cinquanta giorni - la Resurrezione e quindi il compimento nell'Essere di Dio dell'unità Dio-Uomo, è stata inviata nella storia dell'umanità la potenza dello Spirito di Dio. "La novità ottenuta nell'Essere di Dio - totalità dell'Amore per il superamento dell'assolutezza e quindi della separazione, della lontananza - è scesa immediatamente a cercare l'ottenimento e quindi il compimento dell'unità-Amore, laddove il cammino è tutto da percorrere e la fatica è oltre le forze dell'umano. La Pentecoste non è per fondare la Chiesa e non ne è l'inizio. E per il semplice motivo che la Chiesa è fin dall'inizio dell'esistenza dell'uomo e forse dell'universo. Perché Chiesa è ricerca della fatica di Dio a coinvolgere nel suo Mistero Amore e quindi di accoglienza, di partecipazione e, ancora più chiaramente, di comunione, dell'umanità e della sua storia. Perché o Chiesa s'intende umanità, dal primo uomo all'ultimo uomo che vivrà sulla terra, oppure Chiesa è una setta, un ghetto, anche e nonostante che possa essere significativa di una potenza, dati gli ottocentomilioni di cattolici.
La Pentecoste è l'animazione diretta, personale, incessante, della potenza dello Spirito di Dio, all'interno della disgregazione, della frantumazione e quindi della separazione e quindi della conflittualità e della violenza determinata nella realtà di ogni individuo e della storia dell'umanità, dell' affermarsi dell' assolutizzazione individuale e collettiva dal suo dominio incontrastato e docilmente accettato e obbedito.
L'animazione dello Spirito significa fermentazione, ribollimento, movimento incessante, certamente è lotta, scontro di valori, contrasto di progettazione, finalizzazioni all'opposto, antecedenze di emarginazione, lasciar cadere nell'inutile, nella menzogna precedenze... L'animazione dello Spirito è la fatica (è parola che significa Amore) di rendere il racconto del Vangelo, i fatti e le parole di Gesù, Dio Uomo, storia di tutti i giorni per ogni uomo, storia dell'umanità.
Perché ciò che Dio ha compiuto personalmente nel suo Essere Dio e conosciamo, adoriamo, glorifichiamo questa compiutezza di Dio Amore, è da compiere nel tempo, nella storia dell'umanità e in ogni singolo essere umano e ciò che più sorprende, sgomenta ed esalta è che questa compiutezza l'Amore di Dio - non per nulla è Amore - deve essere compiuta "insieme": Dio e uomo, Dio e umanità, uomo e uomo, popolo e popolo, tempo e tempo...
Insieme con me, tra noi, con tutti... Allora è la gloria e cioè non più l'assoluto ma l'Amore.
Non può non risultare evidente nel progetto della gloria di Dio e cioè del suo essere unicamente, esclusivamente Amore fino all'identità perfetta e ottenuta di Divinità Umanità = Amore, il ruolo della Chiesa del "dopo", cioè della continuità del Cristo storico, nell'incessante e progressiva storicizzazione del racconto evangelico per l'attuazione fino al compimento del tutto Amore a seguito dell'esaurirsi e vanificarsi dell'assolutizzazione, della separatezza.
È così importante anche se certamente non esclusivo e decisivo, il ruolo storico della Chiesa del "dopo", che lo Spirito di Dio, la potenza della sua gloria, cioè il traboccare dell'ottenimento del suo essere Amore, si è riversato nella Chiesa determinando il concludersi della Chiesa del "prima" e stabilendo l'inizio e la particolarità, la novità di segno, nella sua qualificazione e destinazione, della Chiesa della Pentecoste. La misura estrema dell'Amore sta tutta nel fatto che Dio ha scelto - ma non è nella logica del superamento dell'assoluto? - di affrontare e sostenere l'infinita fatica dell'animazione della storia dell'umanità per l'ottenimento del compimento Amore, "insieme" alla Chiesa, o meglio, in misura e maniera privilegiata, insieme alla Chiesa.
Quando la Chiesa viene definita "sposa" è parola stupendamente descrittiva di questo Mistero adorabile di Amore. Il "Cantico dei cantici" ne canta la dolcissima nuzialità, certamente nel sogno di Dio e nella fedeltà del suo Amore, mai delusa. Da allora è iniziato il tempo dell'attesa di Dio. Le sue scelte emergono dalla profondità infinita del suo essere Amore. E portano in sé stesse l'onnipotenza: ottengono ciò che è stato scelto di ottenere per il semplice motivo che sono unicamente, esclusivamente Amore e Amore è ottenimento.
È chiaro ormai che la via dell'ottenimento richiede all'Amore che ogni possibile possa essere possibile e quindi una disponibilità totale.
Dio ha questa disponibilità essendo Amore e accoglie tutto e qualsiasi possibile nella libertà dell'Amore. È soltanto l'assoluto che limita, condiziona, concede, proibisce. L'assoluto non accoglie, o unicamente, ciò che afferma, potenzia, assolutizza l'assoluto.
E la via dell'assolutizzazione è la violenza. L'imposizione della relativizzazione è l'estrema punta della violenza.
È in questa realtà storica di Mistero che può essere comprensibile e accettabile la storia della Chiesa. Diversamente è assurdità una visione di Fede, cioè quell'"insieme" con Dio, la comunione con lo Spirito, della Chiesa. Non possono significare la sua sacralità l'annuncio della Parola, l'amministrazione sacramentaria, l'istituzione gerarchica, la religiosità del popolo ecc. E se significazione la lettura storica può offrire, non può non porre in evidenza, e sconcerta e sgomenta, non molto più che mondanità, affidamento a risorse terrene, un consegnarsi ad efficienze umane e anche meno che umane. Potere: in cielo, in terra e sottoterra, dominio e dispotismo, autorità illimitata nel divino e nell'umano. La Chiesa è realmente il regno dell' assoluto, e l'assolutezza v'impera e domina incontrastata e incontrastabile a creare separazione, respinte, sudditanze, dipendenze, precedenze e privilegi in una frammentazione di separatezza inaccettabile. E sacrilegamente perché nel nome di Dio, nella continuità del Mistero di Cristo, attraverso l'affermazione e la difesa della Parola, della Verità, della moralità.
Può sembrare strana, incomprensibile questa ambivalenza della Chiesa: un magistero che indiscutibilmente è garanzia di Verità e nel frattempo una realtà storica che appartiene più alla menzogna che, come espressione, testimonianza della Verità professata.
È l'"insieme" che sfortunatamente spesso si risolve in dissonanze paurose, in dicotomie sconcertanti: come già raccontato nella Chiesa del "prima", così e con monotonia esasperante nella Chiesa del "dopo". Spesso le vie percorse da Dio e dalla Chiesa sono divergenti, a momenti sembrano parallele, raramente sono convergenti: è quando la via in cui è costretta a camminare la Chiesa è la via del Calvario che allora la confluenza si ottiene e l'unità si compie e è l'Amore.
È soltanto quando succede la cosiddetta persecuzione e cioè la liberazione, il decantamento, come dire la purificazione del Tempio dalla mercatura, dall'intrallazzo, di memoria evangelica.
Ogni volta, che sia pure forzatamente, è ridimensionata e necessariamente contenuta e respinta la tentazione dell'assoluto raffigurato nel potere, nel primato, nel dominio, nella necessità del successo, nell'assolutizzazione della persona, nel culto della personalità, nella statua e nel suo piedistallo... ogni volta che tutta la menzogna e cioè l'idolo è ridotto in polvere e la cenere è rimescolata nell'acqua e l'acqua è data a bere al popolo, ogni volta è il tempo che lo Spirito di Dio ritrova l'''insieme'' con la Sposa e fiorisce l'Amore. Perché semplicità, povertà, serenità creano disponibilità al dono e all'accoglienza. Allora Dio è Dio perché Amore e ugualmente l'Uomo è Uomo perché Amore.
E problema che sgomenta nel più profondo perché o la Chiesa verrà esautorata della sua missione, della sua ragion d'essere, che è l'essere "insieme" e quindi come svuotata del Mistero cioè di particolarità, di eccezionalità, di miracolo, non più luogo dello Spirito di Dio e di Speranza per l'uomo, oppure si dovranno scavare catacombe, camminamenti sotterranei, vita clandestina e il nutrimento il Pane e il Vino eucaristico e la Parola le otto beatitudini e l'unica gloria la Croce cioè "l'assoluto Amore". Allora e unicamente è la pace. Nel racconto evangelico, a volerlo leggere come storia dell'umanità, racconto per l'uomo che intende essere Uomo, l'estrema parola "tutto è compiuto" non è parola di morte, ma di pace. È dichiarazione e attestato di pace.
"Tutto è compiuto" è la parola del raggiungimento del di più è impossibile, non è dato di essere più Amore, più Dio, non è possibile offrire oltre all'"altro"; l'uomo non può essere di più Uomo. "La misura è scossa, pigiata, traboccante... "
È su questa via che è donato d'incontrare la pace, di ottenerne coscienza profonda, di sostanziarne carne, sangue, tempo, esistenza individuale e di umanità.
Lasciare scorrere nel proprio vivere, nella realtà e nel destino della vita per un'accoglienza aperta e fiduciosa, il fluire del Mistero di Dio, è essere assunti e coinvolti nel processo di ottenimento dell' Amore e quindi della Verità nei confronti di sé in rapporto all'altro uomo, chiunque sia, liberandosi da ogni menzogna, falsificazione, artificiosità e quindi da ogni assolutizzazione. Diversamente tutto si blocca, s'indurisce come pietra a costruire il simulacro, l'immagine, la maschera e cioè l'idolo... Allora la pace non può essere più perché l'assoluto vede, e unicamente e dovunque, il nemico. E per l'assoluto il nemico vuoi dire guerra.
Luigi Sonnenfeld
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