LOTTA COME AMORE: LcA giugno 1985

Il peccato della banalità

Se fossimo capaci, mossi da un desiderio di sincerità, di guardare dentro di noi, fin negli angoli più nascosti e segreti del noi stessi e del mondo nel quale viviamo, avremmo la spiacevole sorpresa di scoprire che il tessuto costruttivo e connettivo della nostra cosiddetta personalità e civiltà, è fatto, pressochè totalmente, di banalità.
E cioè tutto quell'insieme d'irrazionalità, di assurdità, di miserabilità che, attraverso il montaggio operato dalla vanità, questa voglia instancabile di falsificazione e di darla ad intendere a noi e agli altri, ottiene disinvoltamente che la stupidità diventi realtà di valori, che l'imbecillità apparisca intelligenza e cultura, che l'insignificanza risulti importanza ecc.
È chiaro che la banalità, la riduzione dell'infinito ad un guscio di noce e la gonfiatura del guscio di noce alle misure dell'infinito, rovescia i veri valori ottenendone il deprezzamento, la svalutazione attraverso quel semplice meccanismo di sostituzione progressiva proprio di una cultura che ha abbandonato la chiara ricerca ed esaltazione della verità, sostituendovi semplicemente la menzogna, l'apparenza, la strumentalizzazione, lo sfruttamento.
È vero che tutti, un po' più o un po' meno, siamo "quelli della notte" e tiriamo tranquillamente avanti in un clima di parapsicologia dove il racconto e la dimostrazione del come stanno veramente le cose, comprese quelle scientifiche, avviene sotto le luci di un palcoscenico.
È davvero sconcertante questo bisogno che tutti abbiamo, della banalizzazione, di ridurre sul lastrico della stupidità anche i valori più elevati, essenziali, determinanti la nostra dignità umana. Quella dignità che non ha niente a che fare con l'orgogliosità, ma che è semplice e serena coscienza dell'essere uomo, dell'essere donna, umanità che cammina eretta, può guardare il cielo azzurro e il firmamento stellato, cuore ansioso d'Amore, spirito che sogna l'Infinito...
Ma forse è perché la spaziosità, la grandezza, la gloria e cioè la coscienza profonda, misteriosa della vera dignità, ci spaventa, ci sgomenta, per quella strana impressione di perderci, che allora ci aggrappiamo all'assurdo come l'ostrica allo scoglio.
In fondo, è vero che banalizziamo tutto per paura. Paura dell'ideale, del sognare, dell'utopia e cioè di tutto quello che ci dà l'impressione (e l'esperienza) d'inconsistenza, d'irrealtà, d'impraticabilità.
Si fa avanti e spesso inconsapevolmente, ma anche a seguito di scelte precise e responsabili, il bisogno della concretezza, la logica del reale, del pratico, dell'immediato. Nella progressiva intensificazione di questa istintività del concreto, inversamente diminuisce, fino a vanificarsi o quasi, la coscienza dei valori dello spirito, della vera dignità umana: la libertà, l'uguaglianza, la fraternità; il diritto comune, la collaborazione, la pace, ecc. La banalità, la banalizzazione è inevitabile che sempre imperversi e a livelli mondiali fra i popoli (cosa c'è di più spaventosamente banale in questi nostri tempi della stupida, assurda banalità della "potenza" dei due blocchi e della sua personificazione negli uomini che detengono il potere?) e a livelli individuali per il moltiplicarsi e l'affermarsi della "serietà" pratica, realizzatrice, della banalizzazione, cioè del ridurre tutto, assolutamente tutto, alla calcolatrice, alla computerizzazione del concreto, in termini di profitto economico, di carriera politica, finanziaria, di affermazione di se, di vanità, di alterigia personale ...
Disgraziatamente per la dignità umana e per la sua onorabilità, la banalizzazione è, o sempre che sia, irreversibile. È come l'inquinamento: l'acqua limpida, l'aria pulita, la sanità della terra ecc. è sempre più una impossibilità perché l'inquinare è una necessità stabilita dal benessere. Così è della banalizzazione, sembra proprio che il nostro tempo ne abbia assoluto bisogno, fino a farne una cultura, una civiltà.
L'esemplificazione è perfino assurda da quanto la banalizzazione è ormai sistema imperversante. Perfino la Fede e cioè la visione e il consenso alla verità di Dio e dell'Uomo, al Mistero del tempo e dell'eternità, al giudizio nei confronti della pace o dello sterminio dell'umanità e cioè tutti quei valori che costruiscono dignità, onore, gloria... è spesso costretta nelle angustie di una proclamazione devozionale, di una testimonianza individuale o di groppunzoli, di liturgie a spettacolo, di presenze autoritarie, di affermazioni assolutizzate, di pastorali personalistiche... e cioè spesso di sconcertanti, angosciose banalizzazioni.
E il Vangelo ridotto a banalità è sacrilegio che grida vendetta davanti a Dio e davanti agli uomini. (E a ben pensarci di questo sacrilegio noi cristiani siamo tutti responsabili.)
Chi è che non ha sofferto (certo, meno che gli interessati per la loro faccia di bronzo) della banalizzazione delle ultime elezioni e del referendum sul "sì" e sul "no" per tutto quel tritume di rissa fra partiti, unicamente accaniti a strappare voti gli uni agli altri cercando di provocare e di sfruttare al massimo la banalità dell'elettorato?
Cos'è quell'incontro di Ginevra dove si banalizza, fino al tragicomico la sopravvivenza dell'umanità? E la spaventosa, orrenda guerra fra l'Iran e l'Irak per il rancore mortale di un vecchio maledetto e di un dittatore spietato e dei venditori di morte che sono i commercianti di armi?
E così nel disgraziatissimo Libano, nel Sud Africa, in Cambogia, nell'Afganistan, intorno al Nicaragua, nel Cile ecc. Tutti attestati spaventosi di riduzione di popoli e popoli alla banalità d'interessi economici, di miserabili vanità personali.
La banalità orrenda fino all'assassinio assurdo, impazzito del terrorismo. La banalità miserabile della mafia, "l'onorata società" a schiavizzare la miseria per realizzare supremazie a forza di paura e di spargimento di sangue. Così la camorra. Così la produzione di cocaina e di eroina nelle terre diversamente costrette alla fame e il suo fluire maledetto destinato a concludersi nell'arricchimento e nella morte. Così la fabbricazione di armi e il commercio ad alimentare, a favorire le guerre.
Lo scontro fra i blocchi giocando sulla distruzione del mondo...
È tutta un' enorme, spaventosa, terrificante banalizzazione di valori ridotti sempre più alla miserabilità, allo schifo, alla nausea d' interessi personali o multinazionali.
Perché ciò che domina il mondo e la storia e conduce l'umanità all'autodistruzione è la vanità, la banalità di persone, di essere umani, che per trenta, sporchi denari, vendono la pace, la dignità, la libertà, la fraternità, l'intesa, raccordo, il rispetto... ogni valore autenticamente umanità. E cioè i politici, gli economisti, i militari, gli scienziati, gli intellettuali, i mestatori internazionali, gli arrivisti nazionali... È chiaro che l'elenco non può che essere simbolicamente indicativo perché chiunque cerca e ottiene, a qualsiasi titolo e a qualsiasi livello, l'elevazione della propria statua (questa banalità estrema) facendo degli altri (famiglia, società, partito, popoli, Chiesa ecc.) il piedistallo dove sistemare la propria "personalità", si abbandona alla banalità più stupida e commette il peccato di ridursi alla banalità dell'idolo.
Ma non è possibile non considerare la responsabilità di queste banalizzazioni personali (assai più comuni di quanto si creda) anche e particolarmente per la provocazione di banalizzazioni collettive. La passività dell'opinione pubblica, la stupidità delle folle, questo affidarsi, consegnarsi al "capo" riponendo in lui (e in tutto quello di cui lui è l'emergenza) ogni speranza e ogni illusione, è immensa, penosa, sconcertante banalità. Banalità che spesso, oltre alla delega, comporta altre banalità quali quelle, così per esempio, di ridursi a pensare e a interessarsi solo a se stesso, al proprio buco, ovattandolo più che sia possibile di benessere, realizzando il proprio giro, piccolo o grande che sia, dove sentirsi veramente "qualcuno".
Ecco dove e come la banalità è stata vinta, respinta. Dove e come la banalizzazione può essere superata e ritrovare la pura, semplice, esaltante dignità umana.
Anche se è vero che sempre più queste due pagine di Vangelo siano inaccettabili: le banalità di cui siamo inquinati c'impediscono perfino di considerarle una proposta seria.
Le due pagine di Vangelo (ma tutto il suo racconto è annuncio e proposta di umanità nuova) si trovano, per chi volesse leggerle, ma è vero che sono conosciutissime, in Matteo capitolo 4,1-11 e capitolo 6,25-33.


La posta di fratel Arturo

Cari Amici d'Italia,
L'avvenimento più importante di questi ultimi tempi, è la conversione da una vita nomade a una vita sedentaria (per modo di dire). Questa conversione nella storia dei popoli rappresentò una vera rivoluzione, e nella mia storia personale è pure un cambio importante. Gli avvenimenti mi hanno condotto alla decisione di rompere con la mia vita di predicatore ambulante per dedicarmi a una comunità con maggiore continuità di tempo. Questo passaggio non può essere brusco come desidere-rei, perché non posso trascurare gl'impegni presi precedentemente.
Ora faccio una esperienza di come il nostro cuore non va al ritmo del tempo perché sento che in me è avvenuto qualcosa di veramente nuovo e questo avvenimento mi riempie di gioia. Nello stesso tempo ho la coscienza che non posso abbandonare il vecchio di punto in bianco, per il rispetto che devo ad altri e agl'impegni presi.
Quando sono rientrato in Brasile il padre Oreste Stragliotto, il parroco che ha fatto finora da impresario dei miei impegni di lavoro ricevendo più critiche che lodi perché doveva rispondere un numero maggiore di "no" che di "si", mi aveva preparato una casetta di legno ai limiti della sua parrocchia in un quartiere operaio che si chiama vila campestre. Il quartiere è conosciuto anche perché contiene una zona di prostituzione. La casetta doveva essere secondo un piano primitivo, un eremitaggio per i nostri ritiri, ma, da quando vi sono entrato, ho sentito che doveva essere il mio domicilio. Oreste con una preoccupazione di me da vero amico, ha cercato di fornire la casa di certe comodità come per esempio un bagno e una doccia che costituiscono il pezzo più bello ed elegante della casa, e ora pensa di costruire due stanze annesse per gli ospiti che vorranno passare con me un po' di tempo. Le stanze saranno molto semplici e mi offre una garanzia quello che Oreste aveva già costruito a Caxia nella casa dove abbiamo collaborato per anni in ritiri, incontri, corsi per gruppi religiosi e laici dedicati alla pastorale popolare. Queste stanze non risultano superflue perché attualmente due giovani abitano con me, e siamo davvero allo stretto. Guardo per consolarmi i tuguri ai piedi di questa collina dove so che vivono sette otto o più persone molto più allo stretto. Ma non sono così fanaticamente letterale nell'assumere la vita dei poveri, e più che a una imitazione formale, penso alla mia identità che devo rispettare fondamentalmente, per restare in mezzo a loro con una certa efficacia contento della mia vita.
Non so perché mi risuona sempre alle orecchie un verso di Dante che a proposito di san Pier Damiani lo definisce "contento né pensier contemplativi" perché dobbiamo essere contenti della nostra vita, ma non dobbiamo per decreto o per uno sforzo di volontà, ma perché veramente la vita che facciamo ci piace davvero. Io non saprei pensare una vita diversa per me. Abbiamo battezzato questo luogo "morro do Precursor" monte del precursore perché la casetta é situata su un monticello che solo con un po' di fantasia si può chiamare montagna, un po' come la montagna delle beatitudini; e la comunità ha scelto democraticamente san Giovanni Battista come Patrono. Il luogo è molto bello, circondato da boschi finché resteranno boschi, perché le case avanzano a un ritmo impressionante; di qua vedo san Leopoldo e nei giorni limpidi, Porto Alegre che è a una trentina di chilometri. La comunità è composta di operai che hanno lasciato il campo dove non potevano più vivere; in basso si estende una fila di tuguri abitati da "biscateiros" gente che vive di lavori precari. Mi sono sentito accolto dal primo momento e, nonostante abbia passato un mese solo, non mi sono mai sentito in solitudine. Non posso dire a voce alta che questo mese è stato forse il migliore dell'anno perché ho sempre paura di offendere quelli che partecipano alla mia vita con i quali mi trovo sempre bene; insomma ho scoperto una volta di più che sto bene in compagnia e meglio solo, perché solo sono più in compagnia. Mi chiedo sempre perché quando si parla ai religiosi di scelta dei poveri è come parlare di andare all'inferno. Vi fanno quella faccia di martiri volontari che darebbe voglia di dire - statevene a casa vostra - perché non vedono altro che la sporcizia, le cose che mancano delle quali moltissime sono assolutamente inutili. Non si vede quell'onda di amore, di simpatia che si avvolge quando si mette piede in una comunità di poveri. Non so se sono un marziano, ma ho sempre pensato che la sola vera felicità dell'uomo è l'amore e l'amicizia. Quando ci si sente accolti ed amati tutto è bello, l'amore trasfigura le cose. Senza l'amore tutto diventa brutto e ostile. Nella mia lunga esperienza di vita in fraternità potrei raccontare sofferenze, lotte, spazi di vita non facile, ma mai, mai un solo momento mi sono sentito estraneo in un comunità; posso dire col fratello Carlo che la mia massima sofferenza sono sempre state le separazioni, le partenze.
Per l'anno prossimo 1986 penso, secondo un piano che abbiamo fatto coscienziosamente con Oreste, che il mio soggiorno qui sarà interrotto solo da due viaggi, uno in Italia e un altro in Amazonia dove m'interessa soprattutto incontrarmi con un vescovo domenicano che stimo moltissimo. Oreste pensa a un centro di spiritualità un po' come Spello; io spero che sia meno frequentato di Spello, ma mi lascio portare da Colui che ha diritto sulla mia vita e ha trasformato questo diritto in una amicizia davvero felice. Ripensando alla mia vita vedo tante tantissime infedeltà da parte mia, ma vedo che tutte le scelte i cambi di rotta, violenti o soavi, tutti sono risultati buonissimi. Questo mi fa aperto sempre al nuovo, senza paura, anche se vedo chiaro fino in fondo, ed è giusto non vedere chiaro perché direbbe Paolo, "la speranza che si vede non è più speranza".
Vi abbraccio uno ad uno.

Arturo

Nella terra "tatuata" del libertador

12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo sbarca su una isoletta delle attuali Bahamas battezzata da lui S. Salvador. Per la storia europea sarà la data della scoperta dell'America; per la popolazione india è il giorno in cui inizia l'invasione.
9 aprile 1985: sono trentacinque anni del mio sacerdozio cristiano, dono meraviglioso e gran-de responsabilità! Devo rinnovare il mio impegno con Lui e con tutta l'umanità, ho scelto un luogo preciso: la Bolivia, un mio amico carissimo, un francescano che vive a Gutierrez, nel Chaco boliviano dal 1976. In questi giorni sono, sommerso dalla stanchezza e pervaso da una continua inquietudine. È la tentazione di svicolare da un impegno, la consegna tenace affidatami dalla mia Coscienza trentacinque anni fa. Sento che la mia vita sta per essere temprata di nuovo come il vecchio ferro rovente pronto alla battitura del maglio e alle martellate sull'incudine. Di nuovo, come per la Patagonia e l'Etiopia, il viaggio che mi attende fa crescere in me una forte ribellione: la paura di incontrarmi con una storia di uomini e di donne che possono rendere ridicola la mia consegna di trentacinque anni - questa sarebbe piccola cosa - ma duemila anni di Cristianesimo.

Giovedi 11 aprile:
con due amici carissimi, Silvano e Umberto in viaggio sereno e scorrevole di avvicinamento alla capitale per l'autostrada del sole faticosamente affacciatosi su di un mattino piovigginoso. Alle 12,30 solita paura dell'aereo che sempre mi accompagna e che mai mi fa dormire durante il volo, si va verso Milano su un B710 dell'Alitalia. Brevissima sosta e alle 14 meta Caracas. Volo tranquillo, pranzo, cena, proiezione di un film carino - La Signora in Rosso - e la solita scemenza su Tarzan rifatto. Alle 18,30 venezuelane si atterra (finalmente dopo ore 9 di volo) all'areoporto internazionale "Simon Bolivar", il Libertador. In America Latina tutto, piazze, strade, monumenti, sono un inno alla libertà ed ai liberatori, intorno regna tanta schiavitù.

Venerdi 12 aprile:
una giornata a Caracas: quattro milioni di abitanti (tre milioni di poveri-poveri) apposati su innumerevoli colline, sembrano formicai a dimensione umana. Un ronzio di zanzare giganti ti accompagna tutto il giorno e ti ammonisce che su queste strade e tre autostrade sopraelevate si aggirano due milioni di automobili, ostentata ricchezza e miseria. Palazzi da sessanta piani e baracche di mattoni e lamiera (rancitos). Poi capirò che è meglio, anzi si tratta di sopravvivenza, la città della campagna: l'interno del Venezuela è attualmente invivibile. Alle 1,30 della "mañana" imbarchiamo per Manaus su un aereo delle linee boliviane proveniente da Miami: lo chiamano "Il corriere della coca". Manaus è la città del caucciù, capoluogo dell'Amazzonia: in questa regione dell'Amazzonia brasiliana in seguito ad alcune denunce nelle due ultime settimane di agosto 1984 sono stati liberati per lo meno duecento schiavi.

Sabato 13 aprile:
alle 6,20 del mattino siamo all'aereoporto "Viru viru" (pianta boliviana) di Santa Cruz de la Sierra (500.000 abitanti), capoluogo del Sudoriente della Bolivia: un areoporto molto bello e funzionale, costruito dai giapponesi poco tempo fa: dopo alcuni attimi di smarrimento lo vedo lontano, inconfondibile, una gioia immensa mi commuove; riabbraccio l'amico carissimo, sempre il solito, nelle rughe della fronte la fatica si è fatta più grande, nella stretta dell'affetto la speranza si è ancorata più a fondo nel gambo del cuore di un'umanità accolta come è ma sognata come dovrebbe essere.
Dopo una breve sosta dai padri francescani tedeschi di San Antonio 8 ore di carrettera, 200 chilometri in mezzo a boschi foltissimi, quadre di frutteti e campi di mais, torrenti da guadare, un ponte di legno della ferrovia su un fiume limaccioso e fiero dei suoi vortici: Rio Bravo. Alle 8 della tarde attracchiamo a Gutierrez, un tipico villaggio da film di Zapata: piazza, chiesa spagnolesca, suono stonato di campane, "peones", bambini, sole e miseria.
Qui nel Chaco opera il mio amico da dieci anni: la prima lotta dare all'indio la possibilità di vivere, ospedale, medicine, cura dei bambini e degli adulti; grandi nemici: il morbillo, la tubercolosi, la vinciuga (una cimice che con il suo morso danneggia irreparabilmente il cuore), i medici privati. Seconda battaglia di questo impegno silenzioso, coraggioso e tenace e limpidissimo per il rispetto di un popolo fiero e dignitoso ma tormentato nei secoli e per la crescita lenta e paziente della loro coscienza: la scuola. Riprendono vita e splendore e vigore queste comunità indie (Guarany) che vivono e operano con decisioni comunitarie prese volta per volta in assemblee totali con un Alcade (sindaco) democraticamente eletto.
In questo momento un'altra graduale conquista: l'acqua in tutta la sua parrocchia, suddivisa in varie comunità, vasta come la nostra Toscana. La Bolivia sud-orientale è una terra di contadini indios Guarany: all'inizio di questo decennio sono state rilevate le seguenti percentuali di famiglie che non possedevano terra o coltivano appezzamenti assolutamente insufficienti per garantire la sopravvivenza: la Bolivia ed il Guatemala tengono questo triste primato nell'America Latina con 1'85%; infatti tutta la terra è controllata da grandi proprietari (ganaderos) mentre solo il 2,5% dai contadini (peones).
Dalla conquista-invasione del 1492 (inizio di un massacro e di un ladrocinio altro che scoper-ta ed evangelizzazione del nuovo mondo!) sino ai nostri giorni, l'uomo latino-americano sente di essere stato derubato progressivamente ed in modi diversi da quello che era, ed è, la cosa più cara: il grano, il mais, la frutta, le miniere (L. Badilla). Nella offesa che la conquistainvasione arreca alla terra, l'uomo latinoamericano sente un'offesa a se stesso, al suo passato (Inca, Maya e Azteca), ai suoi padri, ed alle sue misteriose origini. Il riassunto di tale rivendicazione lo si trova, simbolicamente, nelle parole che un capo-indiano messicano rivolgeva ad un missionario spagnolo: "quando voi siete arrivati noi avevamo la terra e voi la Bibbia, oggi invece noi abbiamo la Bibbia e voi la terra".
Dalla Bibbia oggi il popolo latino-americano ha ripreso vigore e speranza per il suo cammino di liberazione verso la nuova Terra.
24 giugno 1985

Rolando

Miracolo mancato

Ho letto su "Avvenire" del 12 Giugno '85 una notizia-flash molto interessante e provocatoria: ben 18.000 militari e rispettivi 380 cappellani si sono ritrovati in pellegrinaggio davanti alla grotta della Madonna di Lourdes. "Si è concluso domenica sera a Lourdes il 270 pellegrinaggio internazionale militare, che ha riunito per 3 giorni nella città mariana 18 mila militari appartenenti a 16 nazioni dell'Europa, dell' Africa, delle Americhe e dell'Asia. Domenica sera, prima di separarsi, i giovani militari hanno partecipato cantando, sulla spianata del Rosario, alla cerimonia conclusiva dell''arrivederci".
Questo avvenimento, riportato come assolutamente normale dal quotidiano cattolico nella rubrica "i giorni", mi ha suggerito alcune riflessioni sul tema della "riconciliazione" che ormai sembra diventato il motivo ricorrente nell' area della Chiesa cattolica. È anche l'occasione di riflettere insieme sul problema della pace, ma non in modo teorico e generico, ma concreto e preciso: anche se il tema della pace sembra aver preso quel rilievo e quell' attenzione che aveva qualche anno fa. Per questo mi sembra giusto continuare la riflessione su questo argomento che rimane drammaticamente attuale, in una realtà mondiale dove la guerra e la crescita degli armamenti sembrano essere una necessità indiscutibile.
Mi è venuto spontaneo pensare che a Lourdes un pellegrinaggio militare potesse aver trovato una collocazione ispirata seriamente allo spirito di riconciliazione che dovrebbe mettere in movimento il lievito evangelico che certamente cova sotto la cenere delle istituzioni sociali, di cui l'esercito è una delle più inquietanti. Si poteva giustamente pensare ad un vero e proprio "miracolo" che a Lourdes si sarebbe potuto compiere: il miracolo cioè di una chiara rottura fra mondo militare e valori cristiani, fra le ragioni della forza delle armi e le ragioni dell' amore evangelico. Ma il giornale cattolico non porta notizie del genere. Dalle poche righe risulta, infatti, che tutto si è svolto con assoluta "vecchia normalità": niente profumo di "vino nuovo" nelle cantine dell' istituzione militare.
Certo, sarebbe stata una liturgia suggestiva quella che si poteva celebrare nel santuario di Nostra Signora di Lourdes: uomini in divisa militare che deponevano, come straordinari ex-voto, i loro abiti di guerra per ritornare semplici uomini in abiti civili, come a significare la scelta di rompere definitivamente con tutta una storia di sangue e di violenza di cui gli eserciti sono storicamente sovraccarichi.
Non penso davvero che ciò non sia accaduto perché questa non era la volontà della Madre del Signore. È vero che la bianca Signora della grotta di Massabielle tace da tanto tempo, da quando parlò a Bernardette Soubirous, ma la sua parola non potrebbe essere diversa da quella che uscì dalle profondità del suo cuore: "La mia anima esalta il Signore... perché ha rovesciato dal trono i potenti ed ha esaltato gli umili; ha saziato di beni gli affamati e rimandato i ricchi a mani vuote".
Penso che a Lourdes tante volte sia risuonato questo brano del Vangelo durante le celebrazioni in onore di Maria. Abbandonare nel suo Santuario la "Vecchia pelle" militare per ritornare semplici uomini senza divise né gradi poteva essere un segno preciso di una riconciliazione che altrimenti rischia di continuo di rimanere una maschera buona per tutte le occasioni. Ancora una volta il nostro mondo cattolico continua a mantenere tranquillamente l'equivoco di una giustificabilità religiosa della vita militare, senza mettere per niente in questione lo stridente contrasto fra la logica degli eserciti, della difesa armata, dell'uccidere o del prepararsi a farlo per la patria (o le patrie) e le proposte evangeliche di Gesù. Continuando anzi a rafforzare ancora di più l'equivoco con una nutrita presenza di cappellani nei vari centri militari, garantendo così l'incolumità morale di un mondo che la Parola di Dio chiama semplicemente a scomparire: "Cambieranno le spade in falci e le lance in aratri e non impareranno più a fare la guerra" (Isaia).
Da Lourdes poteva venire questa ventata di faticosa, difficile ma profetica novità, come la faticosa e profetica novità di un parto attraverso il quale nasce l'umanità nuova sognata da sempre da Dio nella sua incessante storia d'Amore con l'umanità, E Maria è stata, in questa storia d'Amore, una serva obbediente, fedele e coraggiosa.
Poteva essere una cosa bella e coraggiosa aver invitato i militari a recarsi a Lourdes come si invitano i malati di ogni parte del mondo: il militarismo è senza dubbio una delle malattie più gravi e pericolose da cui sarebbe giusto e doveroso chiedere di essere liberati.
E penso proprio che la Madre del Signore, la grazia e il miracolo li avrebbe fatti volentieri, se la Chiesa di Gesù si fosse messa a Lourdes in questo preciso stato d'animo: perché lei conosce il carico di sofferenza e d'angoscia che è racchiuso dentro l'apparente legalità degli uomini armati di tutti i tempi. Lo conobbe certamente in tutta la disperazione che dovette assalirla intorno al patibolo del Figlio, condotto alla morte dietro buona scorta di un manipolo di soldati romani i quali si giocarono a sorte la sua tunica e gli trafissero il petto a colpi di lancia, a chiusura di una notte e un giorno di terrore e di angoscia indescrivibile. Forse, è di quella notte e di quel giorno che la Bianca Signora di Lourdes avrebbe potuto parlare al cuore dei 18mila militari e dei 380 cappellani che celebravano serenamente l'Eucarestia nel suo Santuario, se appena fosse stata interpellata nel mistero di Fede e di Amore di cui essa è certamente la più qualificata dei testimoni.


Vorrei dedicare agli sconosciuti 18mila militari, ai loro 380 cappellani, agli zelanti organizzatori del loro imponente pellegrinaggio al Santuario di Lourdes un brano di uno stupendo poema di un poeta dell'Ecuador, che sembra riecheggiare in termini moderni la meravigliosa profezia d'Isaia che rimane come una indistruttibile spina piantata nel fianco della Chiesa, che tutto può fare ma che non può in alcun modo sfuggire a ciò che il suo Signore ha proclamato con limpida chiarezza.

"Verrà un giorno più puro degli altri:
scoppierà la pace sulla terra
come un sole di cristallo. Un bagliore nuovo
avvolgerà le cose.
Gli uomini canteranno nelle strade
ormai liberi della morte menzognera.
Il grano crescerà sopra i resti
delle armi distrutte
e nessuno verserà
il sangue del fratello.
Il mondo sarà allora delle fonti
e delle spighe che imporranno il loro impero
di abbondanza e di freschezza senza frontiere.
Soltanto i vecchi, nella domenica
della loro vita tranquilla
aspetteranno la morte,
la morte naturale, fine del cammino,
paesaggio più bello del tramonto".

Jorge Carrera Andrade

don Beppe

Un golpe nella C.E.I.

Fotografia di posa, quasi per intero della persona. Faccia rotonda, bonaria, a mezzo sorriso. Occhiali. Abito talare episcopale impeccabile, filettatura e bottoni viola e fascia alla vita pure viola (ovviamente nella foto del quotidiano "Avvenire" il tutto è in bianco e nero). Catena intorno al collo a sorreggere la croce presumibilmente in oro, appena sotto il petto, sulla fascia viola.
Tutto normale, si direbbe per chi ha pratica di vescovi: ma in questo caso vi è un particolare, di qui e di là dell'apertura del colletto bianco, da buon militare sono in bella vista due stellette. Perché la fotografia è di mons. Gaetano Bonicelli, l'Ordinario militare di tutte le forze armate in Italia. Un vescovo con le stellette. Un generale di corpo d'armata vestito da vescovo. Questo militare-vescovo, questo vescovomilitare la C.E.I. (conferenza episcopale italiana) lo ha nominato membro della commissione per le migrazioni. Ma non è certamente per la speranza che a Mons. Bonicelli venga la voglia, insieme a tutti i suoi cappellani militari, di emigrare dal mondo dell'esercito e della guerra, a quello della gente della pace.
Ma più sorprendente e sconcertante ancora, è la nomina dello stesso generale di corpo d'armata-vescovo, a presidente del Cop., ossia del centro di orientamento pastorale.
D'ora in poi la pastorale e cioè l'annuncio del Vangelo, l'amministrazione dei Sacramenti, ogni attività parrocchiale, sarà orientata da un militare. Non è eccessivo quindi l'ipotizzare una militarizzazione della pastorale: quelle due stellette non possono che giustificare la preoccupazione.
Il convegno di Loreto di aggiornamento pastorale, promosso dal Cop nei giorni 1- 5 luglio, sarà il generale-vescovo a presiederlo.
Di fatti ha già rilasciato un'intervista sul tema del convegno "Oltre l'indifferenza: la parrocchia a vent'anni dal Concilio".
E il vescovo-generale discute della "massa amorfa degli indifferenti" che, dice lui, consolandosi, sembra, "li troviamo già nella Bibbia e nel Vangelo: ci sono sempre stati".
E racconta dell'indifferenza e dell'oltre l'indifferenza nelle parrocchie.
E che dopo vent'anni dal Concilio "il più è ancora da fare"... perché "dopo le infatuazioni del '68 e degli anni '70, ci accorgiamo che il grosso problema di oggi è dare ad ogni cristiano che vuole essere corresponsabile nella vita della Chiesa, il senso della sua partecipazione".
È insomma il problema dei laici. Dato che i preti sono pochi...
Grazie, signor generale, ma lasci in pace le parrocchie, i preti, i laici e si occupi delle sue caserme e se gli armamenti sono lucidati e pronti: lei sa bene che da un momento all'altro può esplo-dere una guerra da seppellire il mondo.
Grazie, signor vescovo, ma i laici e i preti di dopo vent'anni dal Concilio, oltre a molte altre delusioni, devono amaramente costatare che lei insieme alla croce pettorale di vescovo porta ancora le stellette di militare.
Evidentemente l'obiezione al servizio militare non ha nemmeno sfiorato la sua coscienza di Vescovo. Per migliaia e migliaia di giovani laici, sì.
Come pure per gran parte della coscienza popolare.

don Sirio Politi

Quando le mani pensano e il cuore sogna

1 - ESSENZIALITÀ DEL LAVORO
Il lavoro è realtà di sintesi di tutta l'esistenza, valore così fondamentale, connaturato con il vivere e convivere umano da determinare tutto lo snodarsi della storia da che mondo è mondo: è la strada obbligata lungo la quale cammina il faticoso, drammatico camminare dell'umanità.
Il lavoro è il rapporto vitale fra l'essere umano e l'esistenza.
E esistenza è nascere, è vivere, è morire. Il lavoro è il contenente, il determinante di questo ciclo vitale, perché stabilisce ed ottiene il rapporto di dipendenza e di convergenza fra il vivere umano e la terra: la terra intesa come sorgente inesauribile della vita.
E' dalla terra che il lavoro trae ogni e qualsiasi elemento indispensabile per la vita e cioè assolutamente tutto.
Un corpo che vive è una realtà di lavoro: l'aria che si respira, il respirare, il nutrimento che si fa sangue, l'assimilare, l'unirsi di uomo e di donna per la vita, il concepire e il nascere... e l'esemplificazione è senza fine perché realmente il lavoro è sinonimo di vita, è il segno dell'essere vivi, è identità con l'esistenza.
In fondo il lavoro come produttività, trasformazione e quindi attività esterna a se stessi e quindi sforzo, fatica nel campo, nella miniera, nella fabbrica ecc. è applicazione del lavoro del vivere per ottenere il necessario per vivere.
Tutto questo, ma è appena un accenno, per chiarire questo legame profondo, quest'unità essenziale fra il vivere e il lavoro, fra il lavoro e la terra sulla quale si vive.
Diversamente, perché con più precisione e più profondamente da quello che diceva S. Paolo: "chi non lavora neppure deve mangiare" si può affermare che "chi non lavora nemmeno vive, non è un vivente" certamente non ha dignità di uomo e di donna. Vivere passivamente e unicamente prendere, cioè sfruttare, non è il giusto rapporto fra la vita e l'esistenza, è respinta di vivere "insieme" con tutta la realtà materiale in una sana e onesta integrazione fra se stessi e la terra sulla quale si vive, non è guadagnarsi onestamente il pane che si mangia, godere dell'acqua che si beve, vivere dell'aria che si respira...

2 - UMANITÀ E DISUMANITÀ DEL LAVORO
Il lavoro è realtà così alla base del vivere umano da essere determinante dei valori fondamentali della vita umana.
E i valori essenziali, decisivi, costitutivi dell'umano e di tutta la sua storia, sono l'amore e l'odio, l'onestà e lo sfruttamento, la pace e la guerra.
Il lavoro è lo spartiacque di questi due versanti che decidono la scelta della storia fra umanità e disumanità.
E' il bivio il lavoro di fronte al quale sta la violenza o la fraternità, la guerra o la pace. Bisogna onestamente riconoscere che le scelte storiche con una prevalenza sconcertante sono state per la violenza e la guerra.
In ordine a queste scelte che hanno affogato di ingiustizia, sopraffazione, di lacrime e di sangue, la storia dell'umanità, la non valorizzazione del lavoro come valore assoluto, la non supremazia del lavoro come unicamente significanza di umanità e invece la disumanizzazione, la svalutazione del lavoro fino ai livelli più depressi come la schiavizzazione, la servitù della gleba, la forza economica, valore produttivo di ricchezza, di potere economico, politico, militare... insomma l'asservimento del lavoro disonorandolo della sua dignità costitutiva, del vero, autentico valore di umanità, riducendolo ai livelli di un attrezzo o di una macchina produttiva di sopravvivenza per le masse o di ricchezza e di potere per i "Padroni del potere", ha comportato da sempre e comporta attualmente, la disumanizzazione del lavoro.
Disumanizzazione del lavoro, valore creativo di umanità, fino al punto da essere storicamente il lavoro realtà di lotta, di scontro, causa di violenza, provocazione alla guerra.
Sgomenta e angoscia spaventosamente la costatazione che ciò che è per la dignità si trasformi in degradazione, ciò che è segno e realtà di solidarietà, di convivenza, diventi campo di scontro, strumento di guerra, ciò che è e deve donare vita, pace, felicità, pienezza di vita umana, sia condannato ad essere giustificazione alla morte, guerra, schiavitù, maledizione.
Un sogno adorabile, un progetto meraviglioso, una proposta di dignità e di grandezza, di vera e propria regalità dell'uomo nello stupendo regno dell'universo, degradato, avvilito, condannato ad una eterna conflittualità, ad una guerra spietata e disumana fino al punto da giustificare gli orrori più spaventosi, le crudeltà più raffinate, le stragi più orrende.
Perché questa è la storia. Storia nella quale il lavoro, l'opera dell'intelligenza e delle mani, della creatività e della trasformazione, ha un ruolo di causalità primaria. E siamo al tempo ormai in cui la desacralizzazione e disumanizzazione del lavoro ha condotto l'umanità e la sua storia sull'orlo estremo dell'annientamento totale dell'esistenza. Il "lavoro" di due pollici a premere due pulsanti può far esplodere questo cuore stanco e deluso dell'umanità: un impazzimento progressivo sul filo dei secoli e dei millenni arrivato alla follia finale.
Le responsabilità di questa degenerazione progressiva dell'umanità del lavoro in questa disumanizzazione identificabile nel suicidio dell'umanità intera?
L'incubo che sta aggravandosi sulla sorte degli uomini, ad ogni giorno che passa, è pazzia e assurdità tale che impedisce perfino le possibilità di analisi.
Sgomenta, disorienta, paralizza ciò che sta avvenendo nella storia, fino al punto che è praticamente impossibile puntare il dito e indicare il colpevole, il responsabile.
E' forse il caso di ricordare la parola di Gesù: "chi è senza peccato scagli la pietra". Eppure può essere importante e giusto e onesto tentare l'identificazione di responsabilità, almeno quelle legate alla particolare condizione di rapporto con la realtà umana e la sua storia. Se non altro per la speranza di cambiamento e per la fiducia d'incidenza storica per un cammino nuovo dell'umanità.
Può essere utopia, d'accordo, ma ormai siamo al punto storico nel quale soltanto l'utopia può significare ed essere salvezza.

3 - RELIGIONE E LAVORO
Nell'analisi storica delle causali che hanno provocato l'affossamento dell'umanità in abissi di perdizione, dalla quale sembra impossibile salvarsi, certamente le religioni hanno pesi e misure di responsabilità letteralmente incalcolabili.
E non tanto, se vogliamo, per responsabilità dirette in questo processo degenerativo nei confronti dei valori umani e in particolare del valore che è il lavoro, quanto per non avere illuminato, facendo brillare la luce sul candeliere, quanto per non aver fermentato con buon lievito la massa di farina e dato sapore con il sale di umanità, allo scorrere della storia.
Perché fra le realtà e i valori umani non raccolti e vivificati, illuminati e impreziositi dalla Fede e dalla Verità religiosa, particolarmente trascurato, emarginato, deprezzato, è il lavoro. E nonostante che il lavoro, l'operosità umana, riassuma, sintetizzi e attui pienamente, fino a significarle profondamente, le verità fondamentali, essenziali, costitutive di ogni realtà religiosa, di ogni affermazione di Fede. Questa realtà di rapporto tra Fede e lavoro è così legata inscindibilmente, fino al punto che maturandosi crisi, condizioni storiche d'incompatibilità o di contrasto, di lotta ecc. ne consegue sempre una depressione, una svalutazione dei valori umani del lavoro e ugualmente un disincarnarsi, un estraniarsi dalla condizione popolare storica per una spiritualizzazione, una finalità soprannaturale e di salvezza nell'eternità, del lavoro, della fatica umana, del rapporto cioè fra l'uomo e la realtà materiale nella quale l'uomo deve lavorare e operare per la propria sopravvivenza e il proprio sviluppo, personale e sociale.
E' chiaro che questa terra pietrosa e aspra non può che fruttificare uno svisamento, un distorcimento della religione e della Fede fino ad essere giustamente giudicata "oppio dei popoli" e nello stesso tempo un impoverimento, un immiserimento dei valori umani del lavoro, fino alla svalutazione e avvilimento del lavoro "come condanna" conseguenza del peccato, schiavizzazione, maledizione...
E' dovere urgente, pressante a voler fermare la corsa del cammino umano verso l'abisso dell'autodistruzione, prima di tutto, ritrovare una visione di Fede, chiara ed esatta, della sacralità del lavoro. E nello stesso tempo ripensare i valori di dignità umana propri del lavoro manuale: perché è dalla valutazione, dalla realtà e dalla gloria del lavoro manuale che può essere ipotizzata una rivalutazione totale di ogni valore umano. È dalle fondamenta che si giudica e si opera la stabilità della casa. Occorre semplicemente il coraggio di una purificazione, un disinquinamento nell'acqua del fiume della storia. E la chiarezza cristallina di idee nuove, di nuova sensibilità umana e il coraggio di un cammino lungo strade diverse.
Come la nonviolenza anche il lavoro (sono due realtà dell'identico uomo) ha bisogno di Amore e di Fantasia.

4 - UMANITÀ DEL LAVORO ARTIGIANALE
La Darsena di Viareggio è certamente l'angolo più caratteristico, vivo della città. Il canale Burlamacca che scende dalle cave di sabbia e dalle paludi del retroterra, è il confine fra la città balneare e il porto. E dire "il porto", la Darsena, è raccontare di centinaia di barche da pesca, attracco di navi mercantili, panfili, yachts e un'infinità di motoscafi a cullarsi sugli specchi d'acqua come branchi di gabbiani pronti a spiccare il volo. Poi i grossi cantieri navali e intorno officine, aziende artigianali, laboratori di ogni genere a provvedere attrezzature, impianti, arredamenti perché ogni barca che scende in mare dev'essere, come una sposa nel giorno nuziale, agghindata e bellissima, perfetta. All'inizio di una strada, a pochi metri da un grosso cantiere (la strada non per nulla è dedicata ad un poeta, Virgilio e i poeti, si sa, non separano mai sogni e realtà) c'è un grande portone di lamiera ondulata, scorrevole. È quasi sempre aperto, spesso anche d'inverno quando nel grande capannone, 500 mq, coperto di eternit, si gela letteralmente: altrettanto come ora che è estate si ribolle. All'ingresso, quando è possibile scorgerlo di tra le macchine e i furgoni vari che disinvoltamente parcheggiano lì davanti, è un cartello, tenuto in piedi da un supporto, con sopra le indicazioni dei diversi lavori artigianali che si fanno all'interno. Ferro, rame, impagliatura sedie, ceramica, legatoria libri, cuoio, falegnameria... è chiaro che l'elenco è piuttosto presuntuoso, ma a giustificazione, dipinta sul cartello c'è un'arca di Noè con diversi animali che si affacciano dalle finestre. Di fatti la denominazione dell'azienda è A.R.C.A. (Associazione Ricerca Cultura Artigiana).
Si entra liberamente e difatti chi non sa cosa fare e anche chi non trova dove scambiare una parola o un saluto, viene a gironzolare lì dentro. Si entra e forse la prima impressione è di un enorme confusione che, meno che lungo il centro, non si sa nemmeno dove mettere i piedi. Si accatastano cose di ogni genere, non proprio come i magazzini di robivecchi, ma quasi. È perché spesso chi vuol disfarsi di qualche cosa che gli è di troppo e che non usa più, la offre a noi, anche ovviamente per fare un'opera buona.
Ma è poi vero che l'artigiano ricicla sempre tutto. Niente diventa inutile all'occhio esperto perché, guarda caso, capita quel lavoretto in cui un pezzo di ferro di quella ferraglia ammucchiata è indispensabile per risolvere il problema. Anzi spesso da cose che potevano essere gettate, vengono perfino delle idee. Chi lavora con le mani ha sempre l'immaginazione, la fantasia pronta e attenta. Dunque da una grande confusione si tirano fuori, come dice il Vangelo, cose vecchie e cose nuove. E questo è verissimo non soltanto per tutta la produzione che può essere realizzata, ma specialmente per chi lavora, vi vive le proprie giornate di fatica e di passione, ottenendovi motivi di sincerità personale, valori di rapporto umano, il necessario per vivere e l'indispensabile per una coscienza di dignità umana.
Sono entrati in quest'arca di Noè, a cercare salvezza dalle acque del diluvio consumistico, dall'affogamento industriale e più ancora dalla pianificazione disumanizzazione della ragione economica, tipi certamente strani. Anche perché a pensare in maniera non uniformizzata, a tentare di vivere non allineati, livellati ecc. si è sempre ormai giudicati come degli strani, degli assurdi, sognatori. Ormai gli spazi per una identità personale si vanno terribilmente restringendo e sempre meno è concessa e perdonata una diversità, una originalità.
In tempi come i nostri di tanto decantata libertà democratica vivere fuori dagli steccati o dalle inferriate delle prigioni della cultura dominante, dell'ordine stabilito, della "normalità" imposta, della morale e anche della religione, della politica utilitaristica ecc. il vivere diventa alquanto difficile. A meno che non si abbiano chiarissime le idee, i convincimenti, a tutta prova di resistenza, le scelte, ma specialmente risorse inesauribili di serenità, di profondissima pace. Tanto più che nel progetto è chiarissima, essenziale la volontà di non vivere chiusi nel proprio guscio ovattandolo meglio che sia possibile, ma sulla strada, allo scoperto, a gomito a gomito con tutta la realtà storica, compresa quella più sconcertante, propria di questo nostro tempo. S'impone quindi un confronto che sia pure spiacevolmente spesso diventa uno scontro. È chiaro, nonviolento, ma forse proprio per questo, continuo, tenace, implacabile, come è, non può essere diversamente, l'Amore.

5 - SOGNARE LAVORANDO
Più o meno mimetizzati, tra le attrezzature e l'affastellamento delle cose, lavorano quattro preti. Una scelta chiara, inequivocabile.
La Fede, ma una Fede religiosa che raccoglie il Mistero di Dio, di Gesù Cristo come una strada lungo la quale camminare nella storia, nella condizione umana. Come accogliere nelle mani una lampada per farsene illuminare ed essere luce, perché c'è tanto buio intorno e spesso le tenebre sono fitte nonostante le luci al neon. Può essere che il lavoro non sia un ministero sacerdotale, un'opera pastorale, rimane però che anche Dio ha "lavorato" alla creazione dell'universo. E Gesù Cristo, fino a trent'anni, risultava figlio di un fabbro-falegname di Nazareth.
In ogni modo guadagnarsi il pane, il necessario per vivere con il lavoro delle proprie mani, la fatica e la fantasia della propria anima, è semplice onestà, donazione vicendevole, scambio vitale, complemento unitario di valori umani. È chiaro che in questa visione può ottenersi nell'umile, povero, amoroso lavoro artigiano, realtà di profondità sacramentali, dove la materia si trasforma in elevatezza di valore umano, per una creatività non soltanto formale, artistico, ma anche religioso, dove il confine fra terra e cielo si confonde e si perde.
Forse è anche qui un ministero sacerdotale, certamente non precisabile a norma del Diritto Canonico, ma per questo non meno santificante del vivere e convivere umano. Quattro preti e insieme a loro obiettori di coscienza (tre attualmente) in servizio civile. A maneggiare attrezzi di lavoro invece del fucile, a imparare un lavoro artigiano piuttosto che a fare la guerra, a lavorare per opere di pace, di fraternità al posto di servire l'assurdità del mondo militare.
Alcuni altri amici impegnati nei diversi lavori e insieme gli handicappati.
L'handicap è più o meno un ritardo mentale, ma più ancora una segregazione fino all'emarginazione ne ha fatto poveri esseri ( sono ragazzi e ragazze da 20 a 25 anni) destinati ad essere una disgrazia per le loro famiglie, un peso cioè una zavorra per la società.
Il lavoro manuale visibilmente li ha ravvivati, come usciti da un tunnel buio e ora all'aperto della vita dove gli spazi sono alla luce, all'aria aperta. Le mani che lavorano producono ma non soltanto cose visibili, concrete, da ammirare, da vendere e commerciare, producono serenità, espansività, rapporti umani e particolarmente senso di utilità, coscienza di valore personale, di contare realmente qualcosa. Poco, certamente, ma a pensarci bene, cos'è che conta molto nella vita? Forse soltanto quelli e certamente sono tanti, che si credono di realizzare cose importanti ma spesso è a seguito di una gonfiatura fatta dagli interessati o dalla società capitalistica perché vi lega i suoi interessi economici.
Loro no, sono felici soltanto di essere insieme a tutti, di essere come tutti. E lo sono nel lavoro, alla mensa operaia, nei rapporti con noi, con la gente che viene nel capannone, per le strade nelle manifestazioni sindacali e politiche, al ristorante dove ogni tanto riusciamo a ritrovarci.
Non è facile spesso tirare avanti ore e ore di lavoro, trovare motivi d'interesse personale, educare ad una coscienza operaia, intuire i momenti difficili, sostenere le depressioni e le stanchezze. Ma non è così anche con le persone cosiddette normali?
Sì, è vero quando suona la sirena, spesso è un grosso sollievo: ma sollevarsi dalla fatica del lavoro è la gioia di chi lavora. E nella nostra azienda, appena le sirene dei cantieri accennano il loro grido, uno dei ragazzi, ormai specializzato nella sirena, sale in cima alla scaletta dove è sistemata la legatoria dei libri, e dopo aver preso nei polmoni una lunga fiatata, suona anche lui, imitando la sirena, alla perfezione, a meno che qualcuno gli dica: clik e allora tronca l'onda del grido e protesta: ma perché mi hai levato la corrente?

6 - L'INEVITABILE BUROCRATICO
La nostra azienda artigiana è una società di fatto, iscrizione alla Camera di Commercio e all'Artigianato. Amministrazione regolata dalle norme vigenti con tutti gli effetti assicurativi, pensionistici, assistenziali propri di ogni azienda artigianale. Chi lavora con noi deve iscriversi all'artigianato, deve provvedere al pagamento dei contributi, regolare una sua amministrazione, passare all'azienda, per le spese di gestione, il dieci per cento del suo fatturato.
Per gli handicappati (attualmente sono dodici dei quali otto a lavoro protetto e gli altri per una preparazione ad un inserimento nel lavoro) è stata stipulata una convenzione con l'U.S.L. della città.
L'U.S.L. provvede all'assicurazione, alla retta della mensa operaia, allo stipendio di una dipendente dell'U.S.L. per l'assistenza, tre ore al mattino per una ragazza specializzata in ceramica, un contributo per le spese generali dell'azienda (c'è un forno elettrico per le ceramica).
Il capannone dove lavoriamo è in concessione demaniale all'azienda e viene pagato un affitto allo stato. La produzione e la commercializzazione del lavoro prodotto dagli handicappati viene amministrata con amministrazione propria a totale ritorno del gruppo handicappati.
Eccoci qui. Da alcuni giorni i ragazzi sono al mare, a prendersi il sole e sguazzare nell'acqua, fra le onde che frangono sulla battima. Anche noi, artigiani che si rispettano, alla fine di luglio chiudiamo la baracca e andiamo in ferie.
C'è piuttosto bisogno di allargare l'anima in una distensione libera e riposante: perché a settembre si arriva molto presto e l'A.R.CA riprenderà, a Dio piacendo, a navigare, vele al vento, sulle acque di un diluvio che non accenna ad offrire ancoraggi tranquilli e sicuri di pace, di fraternità, di umanità.

Sirio

Qui riposa la pace

Può essere che a molti dei nostri amici siano sfuggite due o tre mezze colonne di giornale (vedi "La Repubblica" del 15 giugno) che raccontano della pubblicazione di un libro che documenta a che punto é il potenziale bellico attuale. Il suo titolo é nientemeno che "Campi di battaglia nucleare". Naturalmente é pubblicato in America ma riguarda particolarmente l'Europa e nel dettaglio strategico il Mediterraneo e quindi privilegiatamente l'Italia..
Pensiamo che possa aiutare le riflessioni sulla "pace" dati anche i tempi di deperimento collettivo di attenzione e di lotta per salvarla questa povera pace con la pace. e non con la guerra, riportare i pochi accenni di questo libro che ne dà il quotidiano. Ma bastano anche per la costatazione che l'Italia non è una terra libera e quindi di pace, ma un paese occupato militarmente fino ad essere "campo di battaglia nucleare".

WASHINGTON - Tra i paesi dell'Alleanza atlantica, l'Italia si trova al terzo posto quanto a numero di armi atomiche schierate sul proprio territorio. Si tratta di 549 testate nucleari, concentrate prevalentemente in Veneto e Friuli per fronteggiare un attacco nemico attraverso il «varco di Gorizia».
Negli ultimi tempi si è assistito però a uno spostamento del baricentro strategico della Nato dalle pianure del Nord alla zona più mediterranea dell'Italia con l'installazione dei missili da crociera a Comiso e il trasferimento a Napoli del comando supremo delle forze navali americane, che prima si trovava a Londra. Queste notizie sono contenute in «Nuclear Battlefields» (Campi di battaglia nucleari), un librodocumento di William Arkin, analista dell'Institute for Policy Studies, che è stato presentato (venerdì 14 giugno) nella capitale americana.
Il libro, che porta la firma anche di Richard Fieldhouse, mostra quanto la corsa al riarmo nucleare sia ormai generale e onni-comprensiva. La sua portata, le sue conseguenze rimangono però oscure - sostengono gli autori - anche alle nazioni che a questo formidabile riarmo più contribuiscono.
Le cinque potenze nucleari dispongono oggi di basi atomiche in 65 paesi o territori: gli Usa in 40, l'Urss in 11, l'Inghilterra in 12, la Francia in 9, mentre la Cina non dispone di installazioni all'estero. In tutto, le armi nucleari schierate nel mondo ammontano a 50.000 testate.
Otto paesi ospitano ordigni atomici americani: innanzi tutto la Germania Ovest, con 3.396 testate; poi l'Inghilterra (1.258); l'Italia (549); la Turchia (489); la Grecia (164); la Corea del Sud (151); 1'01anda (81) e il Belgio (25). Il 70 per cento delle armi nucleari tattiche, cioè destinate a uno scacchiere limitato, schierate dagli Stati Uniti si trovano fuori dall'America o a bordo di vascelli. Un terzo dell'arsenale nucleare mondiale è stanziato in Europa e la massima concentrazione, in assoluto, di testate atomiche è lungo la frontiera tra le due Germanie.
A ogni istante, per 10.100 testate vige lo stato di allerta, queste armi sono cioè pronte all'uso nel giro di pochi minuti.
Una buona metà dell'arsenale atomico delle grandi e piccole potenze sfugge a qualsiasi controllo o trattativa. Nella «terra di nessuno» si trovano la santa barbara di Francia, Inghilterra e Cina, nonché tutte le bombe nucleari di profondità, i missili terraaria, i proiettili di artiglieria, le bombe d'aereo per operazioni tattiche, i missili a medio raggio e le mine atomiche, ordigni che nella versione più semplice possono essere usati anche da un commando di due sole persone. Si ricorderà la polemica suscitata da Arkin su queste armi atomiche «da zaino», che risultano custodite anche in Italia.
A proposito del nostro paese, Arkin ci ha dichiarato in una intervista che «il numero di testate atomiche presenti in Italia si è ridotto negli ultimi tempi, soprattutto per via dell'innovazione tecnologica, che rende le nuove armi più efficaci delle vecchie».
L'Italia però conserva, anzi accresce il suo ruolo di bastione sul fianco meridionale della Nato, a fronte di una presenza sovietica nel Mediterraneo, che consiste abitualmente in circa 45 vascelli. La flotta sovietica è concentrata nella parte orientale del «Mare Nostro» e comprende da l0 a 12 unità di superficie, da 7 a 8 sottomarini d'attacco e da due sottomarini con missili da crociera.
Data la sua posizione geografica, l'Italia è una testa di ponte ideale per la lotta anti-sommergibile, che del resto è l'attività navale più rilevante nell'ambito del Mediterraneo. Aerei americani P-3CV «Orion» (con capacità nucleare) e gli italiani «Atlantique», in partenza dalle basi di Sigonella e Catania, pattugliano la zona. I centri di Sigonella, San Vito dei Normanni, Napoli e Rota (Spagna) raccolgono informazioni sul movimento delle navi dell'Unione Sovietica, che tra l'altro fa transitare il 50 per cento delle merci che importa e il 60 di quelle che esporta attraverso il Mediterraneo. Alla Maddalena fanno capo, com'è noto, i sommergibili d'attacco americani, pure destinati alla sorveglianza.


Ricordo

Una donna attraversa le strade
della città.
C'è nei suoi abiti povertà,
nella sua bocca c'è tristezza
e nei suoi occhi umiltà.

Nell'incrociare frettolosa
una piazza deserta,
una cosa imprevista
la fa rimanere con lo sguardo
ansiosamente dilatato.

Dopo, accigliando la fronte,
si guarda con sospetto,
subito con ansia si china
e nervosamente
qualcosa raccoglie dal suolo.

Però una guardia ha sorpreso
il suo gesto e con rabbia si avvicina
e le dice: "L'ho vista,
mi dia quel che ha raccolto".

Lei con voce tremante risponde:
"Ma Signore, è una cosa senza valore".
Ma quegli ordina con furore:
"Mi dia quella cosa".

Vedendo che ai suoi ragionamenti
ella si nega con ostinazione
senza altra considerazione
la guardia la trascina a spintoni
al quartiere di polizia.

Schernita e colpita
senza compassione né rispetto,
ella cammina angosciata,
con le mani strette
nascondendo il suo segreto.

La gente sussurra,
si burla, si allontana.
Ella non si lamenta né implora
e le sue lacrime divora
senza proferire un gemito.

Così spinta dal tratto crudele
della guardia dura e brutale,
arriva finalmente al quartiere
e appena entrata si trova
di fronte a un brillante ufficiale.

Dopo una dolorosa pausa
guardando senza comprendere,
così parla l'ufficiale:
"Mi dica il motivo
perché porta questa donna".

"Mio tenente, ho cercato invano
di convincerla a mostrare una cosa
che qui nelle vicinanze
da terra la vidi raccattare.

E sempre in questi casi
si oppongono con tanta fermezza
quando l'oggetto è rubato".

"Allora torcetele le braccia
fino a che mostri il segreto".
E la poveretta di fronte all'oltraggio
della vergogna e dell'umiliazione,
cede alla forza violenta
e tra le mani sanguinanti
mostra.. un pugno di frammenti di vetro!

La incitarono a spiegarsi,
ma ella disse con tono umiliato:
"Signore.. Sempre ho pensato
che tutto il bene che si fa,
deve farsi in segreto;
e se quei vetri ho raccolto
fu in un atto di affetto
perché ho dovuto pensare
che essi potessero ferire
i teneri piedini di un bimbo".

Viaviana Valera B. (Chile)

Dal periodico "AMICIZIA" studenti esteri / Marzo - Aprile 1985

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