LOTTA COME AMORE: LcA febbraio 1986

Questa nostra povertà

Iniziamo con il 1986 la continuità della pubblicazione di questo nostro giornalino che pur con una testata piuttosto ambiziosa e forse anche presuntuosa, è pur sempre un piccolo e povero foglio. E di questa povertà di Lotta e di Amore ne siamo sinceramente consapevoli specialmente in questi tempi nei quali la parola "lotta" è comunemente alquanto sbiadita e scolorita e l'altra "Amore" è sempre più fumettistica, da rotocalchi. Un piccolo foglio dunque che intende soltanto e con affettuosa semplicità raccontare agli amici che ci hanno dato il loro indirizzo, i sogni e le speranze, anche le delusioni e le amarezze, ma specialmente una visione della vita illuminata dalla Fede, in cui Dio, cioè, conta seriamente qualcosa e a seguito di lui, l'uomo, l'umanità
È un programma infinito e insieme molto umile tanto più per il fatto che è affrontato con mezzi decisamente poveri. E poveri non soltanto per le sedici paginette, la semplicità tipografica, la spontaneità dello scrivere ma specialmente perché siamo poveri noi che scriviamo e lavoriamo per la pubblicazione, la spedizione ecc. Siamo poveri economicamente tant'è vero che possiamo tirare avanti per la bontà di chi ci manda un po' della sua generosità e fin qui questa generosità è stata di misura tale da compensare anche chi non ci manda niente. Ma ci sembra che la cosa sia simpatica, tant'è vero che ci ostiniamo a non avere il conto corrente e a non scocciare nessuno con quella striscia di carta che vuol dire: mandami dei soldi. Perché la povertà è anche dignità e libertà. Difatti se verrà il giorno in cui non ci arriva quello stretto necessario per le spese, smettiamo di fare questa Lotta come Amore e continueremo a fare altra lotta giocandovi sicuramente tutto l'Amore.
Siamo poveri - e questa è la povertà autenticamente gloriosa, esaltante - perché non siamo niente e quindi non contiamo niente. Non abbiamo nemmeno l'ombra di un minimo di potere, nemmeno quello che può venire da una considerazione, da un apprezzamento, da una benedizione. Neanche un granello noi abbiamo di una qualsiasi autorità, non soltanto quella, ci mancherebbe altro, che vuol dire comandare, ma nemmeno quella che proviene dall'essere servi, servitori riconosciuti e accettati. Niente. Nemmeno siamo come quei cani che hanno un padrone, una medaglia al collo, qualificati perché di razza. Siamo cani senza collare sciolti, randagi, ad abbaiare alla luna piena. Assolutamente però senza museruola e senza l'obbligo di scodinzolare a nessuno. Liberi in tutto, perfino dai problemi che il nuovo concordato comporta per il clero in materia economica e circa la religione nelle scuole dello Stato, ecc.
Non sappiamo come e perché ma siamo cresciuti così, all'aperto e il vento e la pioggia, il freddo e il caldo, sono sempre stati e sono doni di Dio, cioè predilezione, abbandono, riconoscenza, accoglienza e offerta e cioè Amore.
È la povertà dell'aver venduto tutto, assolutamente tutto perfino l'ombra del privilegio, per poter cercare "il tesoro" nel campo del mondo, nella terra della storia, nella zolla di ogni essere umano... Quel tesoro, quella perla preziosa, per cui non è stupidità vendere tutto ciò che viene considerato come importante, decisivo, essenziale per ogni progetto, in questi nostri tempi, in cui "tutto" è in diretta dipendenza, come l'aria che si respira, dalla ragione economica, ivi compresa naturalmente l'evangelizzazione, la pastorale, l'azione apostolica, l'annuncio della pace e fors'anche la salvezza eterna. Perché alla povertà non crede più nessuno e più nessuno sembra affidarvi e tanto meno identificarvi il venire nel mondo del Regno di Dio.
Nessuno, nemmeno chi della povertà ne ha fatto un voto e chi dovrebbe darne testimonianza come di valore cuore del Cristianesimo.
È polemica? Pensiamo proprio di no anche se è vero che può essere Lotta: e come potrebbe essere diversamente se è vero Amore?
Ringraziamo a gran cuore gli amici che con la loro simpatia e la loro generosità condividono con noi questa Lotta e quest'Amore e a tutti auguriamo la pace, la consolazione, la benedizione della dolce Bontà di Dio per il nuovo anno 1986.

La lettera di Arturo

Siamo vicini al traguardo perché ho deciso di venire in Italia il7 di aprile. Non so ancora se decideremo se sia il traguardo ultimo, o quello di una tappa. Finiremo per lasciare la decisione finale a chi se la prenderebbe anche senza il nostro permesso.
Vi voglio mettere a parte di un fatto che mi ha commosso profondamente. Una notte mentre stavo pregando è entrato un giovane negro nel quartiere Giovanni Batista, noto per droga e qualcosa di più. Si mette a sedere accanto a me e mi chiede un po' di soldi per ritirare delle foto e fare dei documenti di lavoro. Mi alzo immediatamente e metto i soldi nelle sue mani. Mi guarda e mi dice in un tono secco. E se io usassi di questi denari per comprarmi la droga che direbbe? - Direi - risposi - che tu hai tutto il diritto di usare i denari come vuoi, ma ti porteresti il peso di avermi mentito. Ora è qui in casa da ieri e dice che non si è mai sentito tanto felice. Non ci facciamo illusioni perché una compagnia di cui fa parte non rinunzierà facilmente a lui, ma la grazia può far miracoli. Osservo che una persona sola non può far nulla, ma la nostra casa è piena di gioventù (10 in questo momento) e tutti l'hanno accolto benissimo. Lui come negro e drogato si è sentito sempre respinto, ed è la prima volta che "bianchi" e studenti lo trattano da eguale. Come dicevo sopra, la nostra casetta è al gran completo: in tutto siamo 14 o 15 un po' troppi, ma cerchiamo di difenderci. Cerco di difendere come posso, la mia privacy. Sono riuscito in questa settimana a scrivere un articolo su: la giustizia nel Sacramento della confessione. Ora attraverso un tempo difficile perché nella parrocchia di Oreste dove normalmente esercitano il ministero 3 preti e un diacono ora sono assolutamente solo. Faccio quello che posso.
Stiamo costruendo la nostra comunità e abbiamo bisogno di tanto Spirito Santo, Mi pare di aver scritto che il giorno di Natale una tempesta ha strappato il nostro tetto, e Carlo l'argentino lo interpreta molto ottimisticamente come una "Pentecoste minore": speriamo. Questa visione delle comunità sono sicuro che è veramente rivoluzionaria e darà un nuovo frutto alla Chiesa, me ne accorgo anche dalle difficoltà che incontra. Faccio esperienza che per realizzare una opera di Dio non occorre molta abilità: anzi meno abili siamo, più è possibile che la realizzazione sia importante. Occorre solo molta fede, una fede che non vacilli. Nello stesso tempo facciamo l'esperienza di una forza contraria che si oppone alla sua realizzazione. Non ho mai dato molta importanza al diavolo e non ho mai chiesto la sua carta d'identità: ma che una iniziativa dello Spirito Santo susciti una opposizione della forza del male è certo, lo sento sperimentalmente. Bisogna pregare e confidare: Dio trionferà, non è vero?
Martedì vado a Caxios per un corso di tre giorni alle suore e di li andrò a san Paolo per un incontro con i fratelli della nostra fraternità. Poi starò fermo - spero - fino a marzo anche perché viene molta gente a passare qualche giorno e a pregare con noi. Ora vado a celebrare la s. Messa per la mia comunità e vi abbraccio ad uno ad uno.

Arturo

Il portachiavi elettronico

Ieri sera nel tranquillo conversare durante la cena è venuta fuori la storiella di un portachiavi elettronico che se "chiamato" con un fischio appositamente modulato, risponde con una serie di bipbip. Un buon aggeggio per quelli che dimenticano sempre dove hanno messo le chiavi: una sorta di servizievole cagnolino che non ha neanche bisogno di essere portato fuori la sera a fare pipì.
Oggi, sulla spiaggia appena fuori del porto, mentre il sole tramontava disegnando lunghe ombre sull'arenile e tingendo il cielo di colori intensissimi, mi veniva dolcemente fatto rilevare questa mia fatica quotidiana, quasi ossessiva nei cercare di andare oltre nell'impegno fino a misure di dovere molto rigide. So bene di non essere un carattere facile, teso in uno sforzo di procedere oltre, non credo proprio per ambizione, ma per insoddisfazione sì. E non so quanta differenza in fondo ci sia se il risultato è una continua tensione con se stessi e nulla basta a sedimentare un po' di serenità. So di incutere soggezione per dei modi che possono apparire alteri, spietati nella constatazione e nell'analisi, distruttivi nella verifica delle esperienze di fronte alle idealità progettuali. Non so, non sto facendo e non voglio fare un esame di coscienza. Certo non sono un uomo libero: sono occupato, terribilmente occupato a "fischiare" in tanti modi e maniere: nascondendomi dietro l'ironia, caricandomi di impegni, combattendo con la solitudine cercando di resistere alle lusinghe di porti tranquilli o di navigazioni sotto costa. Non so ancora dov'è quella chiave che apre il mio tesoro, il mio "dio". E quindi non so ancora dov'è il mio "io". Ma "fischio" e continuo a "fischiare" anche se il tempo passa. Non nutro disperazione, ma speranza, e vivo - credo - oltre la barriera corallina di un carattere aspro e difficile, la dolcezza di spiagge baciate dal sole, di incontri e di momenti di rapporto limpidi e cristallini come di sogno. Profondità di affetto, vividi bagliori di amore. Un uomo, una donna, gente, umanità concreta dentro la quale vivo sempre più immerso e sempre. più preso, nello stesso tempo da questa ricerca di me stesso, di questa chiave che non risponde al mio richiamo con i suoni elettronici, ma con il soffio silenzioso di un'energia vitale.
È questa la mia fedeltà: è inutile chiedermene altra anche se credo di non essermi sottratto alle mie responsabilità. È cammino di fedeltà che intravedo portarmi via, ancora una volta, verso strade sconosciute ma su cui brillano le dolci lacrime della gioia.

Luigi

Il tempo favorevole

Vorrei fare delle semplici riflessioni sugli "appuntamenti" che lo scorrere del tempo, la cronaca e la storia della nostra vita spesso ci offrono e che possono essere appuntamenti perduti, incontri mancati, occasioni per scelte che potrebbero significare cambiamento, novità, conversione del cuore e dell'esistenza. Come cristiano penso sia giusto credere che il tempo non è "neutrale"; che non si debba vivere la vita comunque sia, ma che occorra lottare perché il buio faccia posto alla luce. Quindi credo sia importante prestare attenzione al procedere delle vicende umane, al complesso tessuto di tutto ciò che avviene, al dipanarsi di quel misterioso filo che è la cronaca d'ogni giorno: poiché certamente è all'interno di essa che passa il tempo di Dio, la spinta crescente del suo Regno, l'emergere lento ma inarrestabile di una umanità che sia sempre più quella sognata, annunciata, attesa dall'Amore del Padre. Non per niente il nostro essere cristiani è radicato in un fatto preciso di questa cronaca e di questa storia: quella "pienezza dei tempi" di cui parla l'apostolo Paolo riferendosi alla nascita di Gesù, all' entrare del Figlio di Dio nello svolgersi della storia dell'uomo.
Non sono un teologo e quindi non ho nessuna patente autorizzata per una riflessione organica, scientifica, culturale sui motivi, le ragioni, le verità della Fede; né pretendo assolutamente di esserlo. Questo scrivere sul nostro piccolo foglio non ha nessuna pretesa all'infuori di quella che nasce da un umile, ma appassionato desiderio di mettere in comunione con gli amici "lettori" qualche spezzone del suono racchiuso nell'intimo del cuore e dell' anima - magari in maniera confusa e forse anche contraddittoria - e che ispira il proprio cammino quotidiano.
Così, sollecitato dalla lettura di un documento molto serio di un gruppo di teologi sudafricani sul gravissimo problema dell'apartheid, mi sono trovato a pensare ad alcuni "momenti perduti" da parte di noi come Chiesa italiana, intendendo per "Chiesa" tutto l'insieme di credenti, il popolo di Dio con la gerarchia. Momenti perduti nel senso letterale del termine: appuntamenti mancati per una scelta seria in ordine ai valori del Vangelo; che sono poi valori decisivi per una storia umana che non sia più segnata dalla distruzione, dal compromesso, da una "giustizia dei farisei" buona in sé ma non sufficiente per la crescita del Regno di Dio.
* * *
Ho pensato a Comiso: il tempo dei missili a testata nucleare, il tempo di una scelta molto seria in ordine alla pace, di fronte ad un concetto di "difesa" basata sempre più sulla deterrenza, termine che significa "fare paura" all'avversario con mezzi e sistemi che sopravanzino il più possibile le sue capacità di offesa. Così, in una terra buona per il verde delle vigne e il profumo dell'uva, è fiorito un campo che segna la vittoria delle forze della morte: e all'interno di esso è iniziata - e va avanti - la costruzione di una grande chiesa. La prima pietra è stata solennemente benedetta dal vescovo di Ragusa e a niente sono valse' le proteste, anche recenti, di cristiani e sacerdoti della Sicilia (e di altre parti): il tempo è passato, è difficile - forse impossibile recuperare un simile appuntamento per proclamare che non può esistere comunione là dove gli uomini si mettono insieme non per costruire la pace, ma per organizzare sistemi di guerra. Le ragioni della vita non possono andare d'accordo con quelle della morte; l'amore per i nemici non può conciliarsi con la preparazione delle loro distruzione.
La città di Dio, di cui ogni chiesa materiale dovrebbe essere come il simbolo e l'indicazione, non può nascere dalle stesse radici di Babele, la città degli uomini che progettano il loro destino "senza Dio".
* * *
Poi c'è stato il concordato fra la S. Sede e lo stato Italiano. Forse, io sono un sognatore incallito, un piccolo visionario fuori dalle serie ragioni della storia. Ma continuo a pensare che anche questo è stato un "tempo mancato", un'occasione perduta per ridefinire finalmente un rispetto e una libertà radicale fra ciò che è lo Stato e ciò che è la Chiesa del Signore Gesù. Concordare, mettersi d'accordo, su che cosa? Come cittadino ho la Costituzione; come cristiano ho il Vangelo: il "concordato" - quando è possibile - è fra questi due termini, con precisa e indiscussa prevalenza del secondo. Poiché bisogna obbedire prima a Dio e poi agli uomini. Tutto il resto è sospetto fortemente di interessi di parte, di vantaggi, di privilegi materiali, morali, economici, politici... Così rimangono i compromessi di struttura; soprattutto il concetto di una "Chiesa-società" che sembra chiaramente rifiutarsi di scomparire come lievito nella massa, camminando fra la gente senza borsa, senza denaro di scorta, senza particolari appoggi e sicurezze che non siano quelli che le vengono dall'Amore premuroso del Padre e dalla potenza dello Spirito del suo Signore. Pugno di sale, luce accesa sulla collina, pezzo di pane sulla tavola del povero e dello sfiduciato, scalpello che rompe le catene dei prigionieri e degli oppressi, voce che grida la parola della giustizia e della pace: questa Chiesa è figlia dell'utopia e del sogno, oppure è il frutto della Fede nella presenza di Dio nella storia?
Il concordato del 1985 - dicono gli esperti - è un "nuovo concordato": certo è più moderno, più secondo i tempi, più illuminato e aggiornato.
Non so, però, quanto esso sia "nuovo" secondo la novità del tempo di Dio.
* * *
Non sono pessimista, nonostante le apparenze: vorrei essere "realista", cercando di vedere esattamente come stanno le cose nella loro verità quotidiana, precisa, senza maschere. Vorrei poter chiamare pane il pane e vino il vino; pace ciò che pace è veramente e guerra ciò che è guerra, violenza, sopraffazione. Vedere chiaro il tempo degli uomini, anche il "mio" tempo, e il tempo di Dio, il suo incessante bussare alla nostra porta, il suo instancabile tentativo di fare dei nostri cuori di pietra dei cuori di carne viva e ardente, e di ammorbidire la durezza delle nostre menti. Perché spesso é evidente il nostro essere "popolo dalla testa dura": popolo delle mezze verità, dei mille compromessi, dei facili applausi, della doppia lingua.
So benissimo - e questo mi dà coraggio e fiducia piena - che qua e là nell'intreccio della cronaca e della storia umana soffia con forza il vento dello Spirito: allora la parola diventa chiara, la verità e l'amore si fanno strada, la giustizia e la pace germogliano e fruttificano. La Chiesa, allora, diventa popolo di Dio in cammino nella libertà e nella limpidezza del Vangelo. Anche se ogni volta che questo miracolo si compie, subito appare l'ombra della croce. Forse è proprio per questo che abbiamo paura del tempo di Dio che si insinua come un cuneo dirompente nella apparente e falsa tranquillità del tempo della nostra vicenda umana. Le nostre tenebre - come dice l'evangelista Giovanni - hanno timore della luce che viene perché esse scompaiano.

don Beppe

Gli uomini si liberano insieme

Martedì 16 Aprile 1985
Stamani visitiamo il piccolo e bello ospedale di Gutierrez: reparto di chirurgia, sala parto, gabinetto dentistico, pronto soccorso e medicazione, reparto dei "ninos" con quaranta posti letto. Al completo i reparti sussidiari, cucina, lavanderia, centralina elettrica con generatore di corrente, gabinetto di analisi. Stanno costruendo in questo momento quattro nuove stanze per malattia tbc (purtroppo in forte espansione!), dall'altra parte della strada una simpatica residenza per allievi infermieri che poi opereranno neUe varie comunità per la prevenzione delle malattie, vaccinazioni, piccoli interventi, anche questa in costruzione.
Il viaggio verso Camiri (tre ore) è stato buono, il tempo nuvoloso ha dato delle apprensioni e ci ha permesso la normale gimcana sulla carrettera: scambio di impressioni sulla nostra prima parte del viaggio. La vita di Tarcisio è costellata da fatica-solitudine-lavoro-coraggio a continuare per i meravigliosi risultati della salute pubblica (sopravvivenza dei guaranj) ottenuti in questi dieci anni della sua presenza a Gutierrez (prima della espropriazione spagnola il nome del villaggio in guaranj era "paese della speranza che sorge"!).
Lungo il viaggio ci fermiamo per un'ordinazione di mattoni ad una antichissima fornace dalle attrezzature babeliane: come sempre il padrone è un meticcio furbacchione, la manovalanza indios tutti in orgasmo per avere una fotografia istantanea unica gloria per tutta una vita impantanata. Quei volti di bronzo lucidi dalla fatica ricordavano a noi discendenti dei bianchi colonizzatori: "un popolo che opprime un altro popolo non può essere libero, disse l'inca Yupanqui agli spagnoli. Noi contadini queduas e aymaras e guaranj diciamo la stessa cosa. Ci sentiamo economicamente sfruttati e culturalmente e politicamente oppressi. In Bolivia c'è la mancanza di reale partecipazione dei contadini alla vita economica politica e sociale del paese. La Bolivia sta entrando in una nuova tappa della sua vita politica, di cui una caratteristica è il risveglio della coscienza contadina" (Amodio). Arriviamo a Camiri, la capitale del petrolio, senza radici indie, è deposta in una conca, senza panorama, sua potenza e forza l'oro nero che sta scomparendo, famosa qualche anno fa come base dell'esercito boliviano per la lotta contro lo guerriglia del Che. Accolti come vecchi amici da p. Leonardo un frate della Verna ancora giovane silenzioso e premuroso, se tu chiudi gli occhi lo potresti rivedere piccolo seguace di Francesco sulle strade dell'Umbria, un fra Leone pecorella di Dio: con lui un veterano della Bolivia, P. Ignazio da Pietrasanta una vecchia quercia da gli occhi scintillanti ancora più vivi al sentire "la tua loquela ti fa manifesto". Tiene a precisare che il suo Ignazio è originario di Antiochia e non di Lojola.

Mercoledì 17 Aprile
Visitiamo il nuovo ospedale, è sorto da pochi anni con il contributo del ministero di sanità per la tenacia del padrecito, accoglie la povera gente perché nelle altre cliniche non vi era "posto per loro". Vicino un lindo convento per le suore spagnole infermiere. Per una carrettera abbastanza sconclusionata verso Santa Rosa. A Cuevo ci attende p. Franco, è un toscano stranamente silenzioso, gioiosamente ospitale nella sua casa, antica sede del vescovo trapiantato ora a Camiri. La bella chiesa dai toni solenni, la scuola delle suore ricordano gli splendori di un tempo: il dominio e l'oppressione militare sono rappresentati vistosamente dalla caserma di un CAR reg. di Artiglieria. Nella missione di Cuevo P. Franco sta preparando un alloggio abbastanza vasto per volontari laici: dovrebbero aiutare un pian di sviluppo della zona per i campesinos. Quello che più mi ha impressionato è stata S. Rosa, un chiesa sbandonata (senza sacerdote) presso un numerosa comunità di guaranj: tu cammini per un'ora sulla solita carrettera fra boschi di alberi simili ai nostri ma diversi, da questi arbusti fitti spinosi e inaccessibili per l'uomo sbucano vacche, vitelli, pecore, capre, maiali e maialini color mattone ed ogni tanto stormi di pappagalli variopinti e vocianti ed uccelli simili ai merli, lungo i margini della strada indios che vanno e vengono con taniche per acqua. Su di un colle come un castello antico dall'aria protettiva una chiesa dal tono romantico: è fatta di mattoni in terra e paglia cotti al sole, è rivestita da mattoni cotti alla fornace per difenderla dal vento e dalla pioggia. Ai suoi piedi campi di mais e prati per il bestiame, una immensa piazza di verde con le capanne dei guaranj. È una delle più antiche missiones dei francescani contemporanee alle missioni dei gesuiti del Paraguaj: quando i bianchi si resero conto che l'indios erano "gente come loro" e potevano in ogni campo rendersi indipendenti le soppressero scacciando sia i gesuiti prima che i francescani dopo. A proposito ho conosciuto a Camiri due gesuiti: uno avrà la mia età l'altro è più giovane, sono molto impegnati nella lotta cristiana per una vera liberazione evangelica dei guaranj. Uno si chiama p. Lucio e uno p. Gabriel. Hanno subito intimidazioni e minacce ma sereni e tenaci continuano nella loro costituzione e approfondimento delle comunità di base. Il vangelo è fondamento del loro lavoro. Altri purtroppo si dedicano unicamente ad un culto senza alcuna partecipazione alla vera situazione della gente. Non bisogna lasciarsi trarre in inganno dal fatto che in America Latina, Bolivia, spesso coloro che violano i diritti dell'uomo si presentano come i difensori della civiltà cristiana contro il comunismo. Il cristianesimo: la libertà. "II nucleo del vangelo è la vita in Dio, ma il centro di questa vita è la libertà stessa. Evangelizzare significa creare libertà nell'uomo che accoglie la parola di Cristo. Questa libertà è l'uomo nuovo, frutto della morte e resurrezione di Cristo è la nuova creatura dello Spirito Santo". (Agenda America Latina 1986).
"Ma la lotta per una maggiore giustizia e solidarietà nel nostro ambiente e nel mondo intero non potrà mai essere opera di uno solo o di pochi! perché nessuno libera un altro, nessuno si libera da solo. Gli uomini si liberano insieme. (P. Freire)

Rolando

Sogni antichi e sempre nuovi

Il seminario famiglia del Vescovo

Frugando in un cassetto, mi è capitato fra mano un ciclostilato un po' sgualcito: ho visto la data 8 settembre 1969. Mi ha incuriosito e ho cominciato a leggere. Ora ricordavo tutto perfettamente e leggendo mi batteva il cuore di emozione e trepidazione, come allora, quasi diciassette anni fa, quando scrissi questa lunga lettera che inviai poi a tutti i Vescovi italiani.
È chiaro che palpitava ancora nell'anima la speranza di un'alba nuova accesa dal Concilio e di rimbalzo si sognavano anche nelle Chiesa le "novità" del '68.
Ricordo che mi risposero su 250 (non ricordo bene quanti sono i vescovi in Italia) sei o sette, alcuni rallegrandosi ma non oltre il "sarebbe bello, ma...".
Non è certamente criterio di giudizio un sogno, un'utopia specialmente poi trattandosi di un povero prete operaio, sta il fatto però che nel ventennio del dopo concilio sono nate organizzazioni, sinodi, assemblee, convegni e conferenze, dichiarazioni e discorsi e parole anche nuove, mai ascoltate prima d'ora... ma l'istituzionalità della chiesa gerarchica e no, è sempre la stessa, ferma, stabile, immutabile, dogmaticamente "Pietra".
Mi è venuta la voglia di raccontare agli amici quest'ingenuità di tanti anni fa. È stata una lettera un po' troppo lunga, è vero, per i Vescovi, spero che non lo sia per tanti amici, anche per la loro affettuosa comprensione e gradimento generoso della mia infantilità di sessantaseienne...
Grazie.

Il seminario famiglia del vescovo

1 - Il mistero dell'ordinazione sacerdotale
Non so cosa penserà un Vescovo durante la liturgia di una ordinazione sacerdotale: non mi è mai capitato di parlarne e di domandare qualcosa di quello che sicuramente passa nel suo cuore e attraversa la sua anima quando sta comunicando vita sacerdotale ai giovani ordinandi, trepidanti ai suoi piedi.
Ma penso che il Vescovo in quel momento deve sentirsi passaggio misterioso di tutta la realtà di Dio, infinitamente ansiosa di comunicarsi agli uomini. Continuità inesauribile dell'unico Sacerdozio di Gesù Cristo che allarga il suo Mistero sacerdotale a uomini, quasi nella ricerca che il suo unico Sacerdozio di mediazione perfetta e totale fra l'umanità e Dio sia ancora di più fatto di carne e sangue, allargato e moltiplicato d'esistenza in ogni momento e in ogni angolo.
Perché l'andare al sacerdozio è qualcosa di questa terra, di questa realtà umana che accoglie e ridona.
Si offre, umile e buona. Ansiosa di essere terra abitata da Dio. Percorsa dallo Spirito Santo. Resa viva della vita di Dio.
È come quando la terra era informe e vuota e la tenebra ricopriva l'abisso. E alla Parola di Dio il cielo si aprì e la luce inondò l'universo di splendore.
È ancora Dio che chiama Abramo dalla sua terra e dalla sua gente e lo mette su una strada senza riposo, segnato da un destino di elezione, sul filo d'incontro, di comunione o di contrasto, fra il Cielo e la Terra.
È questa terra umana, capacità infinita di bene, che fatta corpo di donna e grembo aperto e pronto di madre, accoglie Dio e acconsente alla comunione, finalmente, di Creatore e di Creatura, nell'unità di nuova esistenza, Gesù.
Ora mi perdo a pensare a Gesù. Vedo la chiarezza del suo essere e colgo l'unità delle sue componenti.
Avverto limpidamente Dio e sento profondamente l'Uomo. E la comunione che compie l'unico essere. Confluenza perfetta, punto d'incontro, il nuovo principio di creazione del Cielo e della Terra. Sacerdozio completo e unico di tutto il Mistero. Lui ne è il segno e la realtà perfetta. La mediazione fra Dio egli uomini, nell'essere Lui l'Uomo, che è e realizza se stesso, come compimento assoluto del Pensiero di Dio che si esprime e si offre nell'Amore che crea.
Dopo e dalla Pentecoste in poi, quando lo Spirito di Dio s'impossessa di uomini per riprendere in modo scoperto e libero lo svolgersi e l'attuarsi del Regno di Dio nel mondo, qualcosa di misterioso -cos'è la vocazione? - porta corpi e anime sotto le mani di un vescovo, protese a convergere su quella povera vita tutta una storia di Dio che continua ad aver voglia di uomini, perduti dietro a Lui, portati via dalla violenza del Suo Spirito, mangiati come il pane e bevuti come il vino, Corpo e Sangue del Suo Cristo.
Mi pare che quell'uomo, il Vescovo, abbia qualcosa della luce al principio quando la terra fu chiamata ad essere realtà del Mistero di Dio. E che porti e significhi il Mistero del cercare uomini da caricare e colmare fino all'impossibile del peso indicibile di un Amore infinito sempre più impaziente di offrirsi, lungo secoli e millenni. E abbia qualcosa che richiama il pensiero della Vergine dal cui seno nasce ancora il Figlio di Dio. E è sicuramente globo di fuoco a spargersi in lingue di fiamma perché le parole diventino Parola di Dio, e uomini fatti fiamme vive accendano l'arsione del mondo in incendio di Spirito Santo.
È vero, tutto è realmente così. L'ho creduto seriamente quando sono stato generato sacerdote da questa paternità che riflette e rivive la Paternità di Dio, dalla quale tutto ha origine e nascita perché unico e assoluto principio Lui è.
E lo credo e lo sento vivamente anche dopo che gli anni mi hanno dato la crescita, fin quasi a ottenermi un vivere e un sognare da solo, indipendentemente da chi mi ha dato la vita sacerdotale.
Perché si cresce o ci si matura anche sacerdotalmente. Non si può essere sempre lattanti o portati fra le braccia. Difesi dall'autorità e protetti e custoditi dall'Amore paterno.
A un certo punto bisogna camminare da soli. Guadagnarsi il pane che si mangia col sudore della fronte, è necessario e bellissimo. Come anche il pagare duramente la Parola che si annuncia, l'offrire carne e sangue e anima insieme al Corpo e al Sangue di Cristo, e verificare continuamente e spietatamente la rispondenza, l'allineamento perfetto del proprio sacerdozio a quello di Cristo, perché realmente unico, come dev'essere, sia il Sacerdozio.
Il figlio nasce dalla paternità del cuore, e forse assai più che dalle viscere del genitore. Poi il concepimento, inizio di trasfusione di Amore. La nascita, realtà di vita da crescere nella continuità di quella trasfusione di Amore. Il portare alla pienezza della vita. Darne il mandato. Consegnarne la responsabilità. Conferirne la gloria...
E ha inizio la propria strada. Comincia a svolgersi il destino personale. A farsi sentire il peso della vita, specialmente quando sulla terra sovrasta tutto il Cielo, in attesa di scendere sulla terra, e la terra si tormenta per la terribile voglia di unirsi al Cielo.
Così è la maternità. Questa accoglienza misteriosa e infinita di cui è fatto l'universo. Che riempie di sé la terra sotto il sole e sotto la pioggia. Scava di abissi incolmabili di attesa, aperta e insaziabile, il cuore dell'umanità sotto l'infinita fecondità di Dio. E ogni fiore lo dice a primavera. Un passerotto lo canta sul tetto. Gli occhi ne parlano silenziosamente e ardentemente. Ogni donna ne è il segno potente, di questa accoglienza, e il suo grembo è in attesa - l'unico sulla terra - di carne e di anima e cioè di tutto il creato.
Così è della Chiesa: questa maternità che raccoglie la maternità di tutto l'universo davanti all'infinita, onnipotente Paternità di Dio, perché dal suo grembo - l'unico grembo sulla terra che aspetta carne, anima e Spirito Santo, dopo quello di Maria - nascano Figli di Dio e fra loro partecipazioni vive, continuità storiche senza soste, al Sacerdozio unico e sommo di Gesù Cristo.

2 - Paternità e maternità della chiesa
Sogno la Chiesa come ricchezza di paternità e di maternità. Ne porto la potenza generante nella mia carne e nella mia anima fino a provarne, quasi in modo fisico, sicuramente come una realtà costitutiva di me stesso, una partecipazione di autentica paternità e maternità.
Eppure - e son passati ormai tanti anni e sono cresciuto e ho vissuto la mia avventura sacerdotale quasi unicamente (specialmente nelle realtà più vere e responsabili) a seguito d'iniziativa personale eppure mi sento tanto figlio della Chiesa. Quasi come se fossi ancora un bambino.
È sofferenza d'angoscia indicibile ogni volta che la scopro e la sento matrigna. Burocrazia fredda.
Giuridicismo arido e spietato. Ufficialità e convenzionalità distaccata. Disincarnata dal tempo e dalla vita. Amministrazione delle cose di Dio e di quelle degli uomini con disinvoltura furbesca e saputa. E specialmente lontana dai suoi preti.
La Sacra Gerarchia. Autorità e responsabilità assolute. Tutto chiuso come il palazzo episcopale. E tanto più il Palazzo Apostolico. Rapporti di preti e Vescovi fatti di sistemazione parrocchiale, di convenienze servili, di speranze e intrallazzi carrieristici. Tutto a cuore arido per una strana e vicendevole diffidenza, quasi a difendersi uno dall' altro, coperto dalla sdolcinatura di riguardi e di falsità ossequienti.
E a cercare e sognare qualcosa che, chissà, forse lo Spirito Santo, ha smosso nel cuore, o la grazia dell'inquietudine agita dentro, non tanto sono le difficoltà pratiche che si parano davanti, che sgomentano e stancano, e tanto meno il prezzo - e a volte è altissimo - che deve essere pagato perché il sogno diventi realtà, quanto la immensa fatica di chiarire il problema col Vescovo, di avere la Chiesa con noi a rischiare qualcosa sulla nostra pelle, ad ottenere i dovuti, indispensabili consensi perché non ci si senta soli, individualità sterile e perduta a cercare un po' di Regno di Dio, ma ci si senta Chiesa.
Sono i momenti più duri, e ogni prete, a torto o a ragione non ha importanza, ha storie di lacrime da raccontare, parlando di sua Madre la Chiesa, o storie di vuoti, di solitudini paurose, di disperazioni cocenti.
Perché il padre non ci è padre, e la madre non ci è madre?
Perché questa nostra Santa Madre Chiesa lascia che i suoi figli si sentano orfani, dei senza famiglia?

3 - Come un orfano
Sono uscito di casa ed ero ancora un ragazzo. Quell'uscire di casa è voluto dire, lo ricordo bene, uscire dalla mia famiglia naturale. Con tutto l'affetto infinito che mi ha seguito, accompagnato, di mio padre e specialmente di mia madre, entrando in seminario io sono diventato come un orfano. E ragazzo solo, abbandonato ad estranei con mentalità così assurde, con regolamenti così aridi, in una enorme casa così anonima, sono cresciuto orfano. La Chiesa è stata un collegio spietato per demolirmi e poi ricostruirmi in meccanismi prestabiliti non so perché e non so da chi. Certo non da una Madre.
E l'orfanello è cresciuto, su su, piano piano. Si è lasciato fare docilmente tutto quello che i dirigenti del collegio hanno voluto. Dio solo sa perché sono rimasto all'orfanotrofio, nonostante quella voglia infinita nella carne e nell'anima di padre e di madre e di famiglia: una casa, una donna, dei figli, un semplice lavoro e tutta una primavera di poesia a cuore caldo di Amore. Dio solo lo sa: perché io so che è stato semplicemente una violenza della Sua onnipotenza.
Da anni il sogno del Sacerdozio. Profondamente sognato per una misteriosa voglia di Dio e per un inspiegabile Amore a Cristo, ma anche sentito, il diventare sacerdote, l'entrare nella grande famiglia che è la Chiesa. Un' altra esistenza fatta di rapporti nuovi e di partecipazioni intense e appassionate. Ma non sapevo nulla della Chiesa che stava per generarmi. Conoscevo il Vescovo per il terrore di quando veniva a scuola a interrogare sull' aoristo dei verbi greci e sulla metrica di quell'antipatico sciocco che era Orazio. Qualche conversazione se il mangiare era passabile, se avevo qualcosa di cui lamentarmi, E quelle cerimonie ufficiali e quei pontificali aridi e brulli come le prove generali, sul palcoscenico, a teatro vuoto. Tutto qui.
Ecco. Stendo le mani e chiama lo Spirito Santo perché dal seno della Chiesa germini e nasca un nuovo sacerdote. Mi chiede se gli prometto obbedienza e riverenza e io dico: sì, Ora tutta la liturgia è finita. E mi vedo camminare per la strada, solo, perché chi mi è vicino, fosse pure mio padre e mia madre, non possono più colmare la mia solitudine.
Uno solo sulla terra mi è padre e madre. Ma lui è chiuso nel suo palazzo. Legato dal codice di diritto canonico. Lontano in una astrazione di vigilanza, in una aridità amministrativa. Per anni e anni non mi dirà una parola materna. E bisognerà piangere per ottenere un po' di fiducia e non sentirsi soli nel rischio pauroso dell'avventura.
So bene di raccontare la storia del prete, non la mia soltanto. È la storia di quella solitudine in cui la Santa Madre Chiesa lascia inaridire i suoi figli prediletti, quelli che lo Spirito Santo, con infinito Amore e dolcissima cura, ha generato dal suo grembo materno.

4 - La chiesa matrigna?
Ma se raccontassi del mio sacerdozio in tutto quello che dalla Chiesa è dipeso, racconterei ancora la storia di un povero orfano, rimasto implacabilmente solo. Senza una casa anche se con una casa. Senza una famiglia anche se con la tavola apparecchiata. Senza Amore di Famiglia anche se di tanto Amore tutti mi hanno amato.
Ho camminato sempre da solo, notte e giorno. Mi sono logorato gli anni uno ad uno e rotto le mani dal lavoro, spezzata l'anima di dolore. E affiochita la voce a forza di chiamare. Ma un bicchier d'acqua non l'ho ricevuto. Una mano nella mia mano non l'ho sentita. E un po' di calore materno intorno al cuore e una parola di coraggio a spingere avanti, non mi ha consolato.
È così difficile che la Chiesa possa essere Madre non solo che mette al mondo e lascia poi degli orfani al proprio destino, ma Madre che custodisce a consola, che ci dà di vivere insieme e sentirci sotto lo stesso tetto e cullarci, poveri figli spesso tanto stanchi e oppressi, al battito del suo cuore?

5 - Il palazzo episcopale
Ho sognato - ma ancora ho gli occhi chiusi e continuo a sognare e vorrei che niente mi svegliasse, perché il sogno è troppo bello - ho sognato un palazzo accanto ad una cattedrale. È un vecchio palazzo con un ingresso fastoso. Uno scalone solenne che quando ne sali i gradini, ti svanisce la gioia dell'incontro e ti prende invece uno strano e stupidissimo timore. Vi è un grande salone in questo palazzo. Così immenso da dare l'impressione del vuoto, e difatti è quasi sempre vuoto, soffuso di penombra, pare una piazza deserta di notte. E tante altre sale tappezzate e con scaffali pieni di grossi libri vecchi che a sfogliarli c'è da starnutire. Qualche stanza è appena abitata dalla famiglia del Vescovo e pare che siano gente che vivono in un cimitero. Tutto è silenzio. Porte che si aprono e si chiudono sommesse. Passi silenziosi. Suona il campanello. Apre e pare che sia un'anima purgante che socchiude guardinga la porta.
Chi entra domanda la cortesia di essere ricevuto. Si siede accanto a chi aspetta, in coda ordinata e con un occhio leggiucchia senza interesse, come dal parrucchiere, una rivista ecclesiastica e con l'altro occhio sta attento alla porta, di là dalla quale, se la bontà di chi è avanti non è sfacciata, prima o poi si entrerà.
Così da secoli. Sempre meno, per la verità, dati i tempi moderni, ma la solitudine misteriosa del palazzo vescovile, con tutte quelle stanze vuote, è sempre la stessa. Perché è, oltre a tutto, un museo, un'opera d'arte. Solo il Vescovo vi può abitare, speriamo non perché è anche lui qualcosa del museo e tanto meno una preziosa e veneranda opera d'arte.

6 - La casa del vescovo
Ma un giorno le cose del palazzo sono cambiate. Il sogno si è fatto chiarissimo, fino nei particolari.
Ho visto anche le cose più minute, le novità anche più azzardate. Come se fosse meravigliosa realtà.
Non starò a raccontare come mi è apparso nuovo, estremamente diverso, il Vescovo stesso. Come uomo lo vedevo, fatto di pensieri precisi, di cose concrete, realmente vissute. Con un carico di responsabilità pesanti, ma visibili come pietre sulle spalle. Come un uomo che ha una famiglia da mantenere, da tirar su, fatta di figli vivi, che mangiano alla sua tavola e dormono sotto il suo tetto e sono tutti e ciascuno un problema terribile. Sorride franco ed aperto ed accoglie, ora, in una casa abitata, di là c'è una cucina enorme e gente che traffica. Parliamo ad una tavola, larga e forte, dove si vede che fra poco si apparecchierà per il pranzo. E saranno sicuramente non pochi a mangiare: le sedie sono molte intorno alla tavola.
Ha l'aria dolce e buona, forte e sicura, di buon padre di famiglia, il mio vescovo. E guarda le cose e gli si legge un'attenzione vigile negli occhi, come di una madre attenta a tutto, premurosa di tutto.
Nel sogno capisco bene che tutta la novità meravigliosa che intuisco successa nel vecchio palazzo museo-opera d'arte, è tutta in conseguenza che il Vescovo è diverso. È il Vescovo, successore degli apostoli, responsabile della Chiesa locale e autorità che nasce da Dio, è ancora e pienamente il Vescovo, ma è altro uomo. Uomo dove confluisce la Paternità di Dio e la maternità della Chiesa e quindi uomo vero, concreto, colmato di umanità, fino al punto che forse di più è proprio impossibile.

7 - Una semplice scelta personale
La sua decisione è stata chiara e coraggiosa. Non c'è stato bisogno del consiglio presbiterale, né di quello pastorale. E tanto meno della approvazione del Capitolo della cattedrale e dell'appoggio degli uomini di Curia.
Ha ascoltato il suo cuore e specialmente il cuore di Dio. E ha scoperto che la Chiesa è dolcissima Madre.
E il seminario è diventato la famiglia del Vescovo. Il suo palazzo la casa di chi vuole essere sacerdote e di chi lo è già, da pochi o da tanti anni.

8 - La dolcezza di un sogno
I sogni si sa come sono: accennano, a volte, la visione e poi lasciano intuire: difficilmente raccontano i particolari, all'infuori di quelli sui quali - per aprir l'intuizione - si soffermano.
Ho visto le sale abitate da letti (da qualche scaffale i vecchi libri erano stati tolti, e vi erano quelli nuovi dei ragazzi e le scarpe e i vestiti, tirati un po' là alla rinfusa). E poi tavole e sedie come per scuole.
Perché ogni mattina vi è scuola di tutti i corsi teologici e vi partecipano, oltre i chierici, anche giovani e ragazze della città. Ho notato che il campanello non sonava più, ma ho capito tutto quando ho visto il portone aperto e il via vai libero e spontaneo lungo il solenne scalone.
Vengono ad abitare dal Vescovo tutti quei giovani che intravedono per loro il sacerdozio. Hanno già fatto un corso di studi, oppure hanno le mani indurite dal lavoro: ciò che conta è essersi accorti che la propria vita è segnata e non si può non risponderGli.
Il Vescovo se li cova tutti con gli occhi. Non vi è un rettore in questo seminario: è assurdo questo incarico di supplenza artificiosa, questa nutrice che allatta figli non suoi, questa incubatrice che sforna a calore artificiale, questa caserma che prepara soldati per il giorno del giuramento e per la guerra.
E il Vescovo che tiene la casa e guida la sua famiglia. E il padre e la madre da cui nascono i figli e da lui devono essere allevati, cresciuti, preparati, e resi pronti perché attraverso le sue mani stese sul loro capo, passando per lui, dal primo giorno che gli sono nati nella sua casa fino a quel momento, lo Spirito Santo li tragga dal grembo della Chiesa, figli di Dio, Sacerdozio di Cristo.
Sono la sua famiglia e sua famiglia devono rimanere. E la sua casa, non come il palazzo del governo, è la casa di tutti i figli nati dal suo episcopato perché è la casa del padre e della madre. La casa dove si è nati e cresciuti segna indelebilmente tutta la vita di una tenerezza che non ci abbandona più.
I sacerdoti, ormai, è tempo che non vogliono più essere degli orfani, senza padre e madre e raminghi senza una casa che sia la loro casa.
I preti non accettano più di essere dei militari perennemente ai comandi e sbattuti qua e là, come quelli della polizia o i carabinieri, per coprire posti logistici o intervenire dove più c'è bisogno.
E Dio voglia che cresca il disagio di un imborghesimento vergognoso e miserabile fatto di sistemazione, di casa bella e comoda, di macchina alla porta, di privilegi sconcertanti, di solitudine rimediata lasciando incartapecorire il cuore e inaridire lo spirito. Perché ogni prete ricerchi la sua casa vera, suo padre e sua madre che lo ha generato, allevato fino a farne qualcosa di Dio e una realtà di Cristo.

9 - Padre vuol dire "padre"
E ogni Vescovo - sto sognando e i sogni sono sempre innocenti e ci rendono come bambini sinceri e aperti - ogni Vescovo, più che di ogni altro valore, ha bisogno di ritrovare la paternità-maternità che è il suo più vero e chiaro essere Chiesa. Sorgente della Chiesa, grembo fecondo della Chiesa, Amore, quindi, vivo e vivente, della Chiesa. Perché grazia di Spirito Santo è questa Chiesa nelle sue scaturigini misteriose che provengono dall'unica sorgente che è Cristo e si allargano a dilagare il mondo perché la terra non sia deserto riarso, come terra percorsa da febbre, ma terra buona, capace del sessanta, ottanta, cento per uno.
È assurda, innaturale aridità, una paternità-maternità puramente nominale, spiritualistica, sentimentale, devozionalistica. Vera soltanto sui libri e nelle meditazioni e nelle pie esortazioni. Padre è realtà e valore concreto. Madre vuol dire figli di carne e d'ossa. Che mangiano ad una tavola e dormono vegliati dall'Amore. Vuol dire figli che nascono non una volta sola, ma continuamente dalle proprie viscere e portano il proprio sangue nelle loro vene. E sono un allargare la propria vita, un moltiplicarla, un vivere perennemente, anche al di là della morte.
Paternità-maternità vuol dire caricarsi della responsabilità dell'esistenza, prendere e portare il peso di altre vite. Addossarsi altri destini. Personalmente, giocando se stessi, non attraverso altri, per seconde e terze persone. Perché certo valore che nasce dalla carne e dal sangue e dalla volontà di Dio, aderisce alle nostre ossa e è sostanza della nostra anima.
Tutto questo, e chissà quanto altro ancora, nella Chiesa del celibato non si sa o non si vuol sapere e è terribile, impressionante responsabilità, perché la verginità per il Regno di Dio vuol dire unicamente che i figli non sono dieci ma cento, che la sposa non è una donna ma la Chiesa, e quindi il caricarsi di esistenza è senza limiti, l'addossarsi altri destini è a cuore aperto. E il giocare se stessi è fino alle misure della croce.
Tutto questo va realizzato in forme concrete, reali, visibili, alla luce del sole.
È finito il tempo in cui i valori cristiani e di Regno di Dio erano santità personale fatta di preghiere, di ascetismi, di solennità austere, d'integrità insospettabili. E di autorità carismatiche fatte di Spirito Santo o a seguito di intrattabilità di carattere e di fissità prestabilite o di paure assurde.
Le cose, ora e sempre più, vengono chiamate col loro nome e bisogna che abbiano immediatamente la loro rispondenza concreta. Diversamente sono un'illusione pericolosa o peggio ancora, un tentativo, più o meno consapevole, di imbroglio.
Padre vuol dire padre e madre vuol dire madre. Non storielle sentimentaloidi e sospiri pietistici di spiritualità monacali.
E il Vescovo non è padre e madre se non ha la sua famiglia. E la famiglia vissuta personalmente.
Pagata duramente. Concepita e partorita dal suo seno che è la Chiesa, e allevata e nutrita, preparata alla vita giorno per giorno, fino alla maturità, al momento in cui, le mani tese sul capo di ognuno dei figli, l'investitura della missione sacerdotale, consegnerà a ciascuno il Regno di Dio come suo destino e i confini della terra come termine del loro cammino.
Il seminario famiglia del Vescovo.

10 - Il padre e i figli
Ora - e il sogno si faceva sempre più stupendo - ascoltavo il Vescovo parlare a tavola, durante la cena, coi suoi ragazzi di problemi di Chiesa, di Regno di Dio, e la conversazione era accesa, intensa. Appariva chiarissimo che il Vescovo non parlava per accondiscendenza coi suoi giovani, ma viveva con loro i problemi in discussione, in una ricerca autentica, come di uno che discute con altri per chiarire anche i propri pensieri. E i ragazzi, era evidente, parlavano responsabilmente, come di cose loro, che rientravano ed erano la loro vita e assorbivano ogni loro interesse. E poi i problemi dell'andamento della casa. La vita comunitaria. I problemi della diocesi...
Questo Regno di Dio. Questo misterioso e meraviglioso Regno di Dio. Nell'umanità di oggi. Nella realtà quotidiana. Nella concretezza delle cose.
Finita la cena, in fretta tutti si danno da fare per sparecchiare la tavola e sistemare la grande cucina.
Perché ogni sera la famiglia del Vescovo si apre all'ospitalità.
Finalmente l'immenso salone, vuoto e deserto come una piazza di notte, ha trovato come poter avere una qualche utilità. Tanti piccoli tavoli circondati di sedie. Scaffali di libri e di riviste addossati alle pareti. Tutto sistemato per un'accoglienza sbriciolata e semplice, aperta a tutti, fatta di conversazione, d'incontro spontaneo, di discussione serena.
Tutta la città è invitata a passare un'ora, la sera, con la famiglia del Vescovo. E la gente - sono quasi tutti giovani e ragazze - salgono il solenne scalone e senza suonare il campanello, eccolo là, il Vescovo a chiacchierare con tutti. Qualcuno lo invita in un angolo perché qualcosa di riservato ha da chiedere, un gruppo gli si fa intorno e pone problemi da chiarire. E i suoi ragazzi fanno gli onori di casa, semplici e schietti come tutti, disponibili e sereni.
Qualcuno mi diceva che sono stati diversi i giovani che dopo serate del genere hanno chiesto al Vescovo se li accoglieva nella sua famiglia, perché, sì, veramente, avevano visto e capito che il Sacerdozio è veramente una gran cosa e la Chiesa una meravigliosa famiglia.

11 - Perché si deve soltanto sognare?
E il sogno spostava ingenuamente e disinvoltamente luoghi e tempi. Si sa come succede nei sogni: avvengono accostamenti i più strani e impensati. Anche se è vero che i sogni sono raffigurazioni fantasiose di ciò che sta in fondo all' anima, o nel subcosciente, come dicono.
E nella impossibilità che ciò che laggiù in fondo all'anima giace, possa venire alla luce, almeno prende forma e immagine viva, e concretezza di visione, se non altro, nel sogno.
È una gran gioia sognare nella vita, nonostante che dopo il risveglio - è proprio impossibile ogni tanto non risvegliarsi, disgraziatamente - la realtà sia più pesante, più grigia, quasi più impossibile.
Ma a volte i sogni sono lunghi e durano da anni e non riescono al risveglio nemmeno gli scossoni più bruschi e violenti, nemmeno lo sbattere contro un muro o il cadere in uno stagno d'acqua gelata. Sono i sogni che sono una vita, hanno determinato scelte essenziali, decisive, hanno inciso qualcosa che ormai non si cancella più
Specialmente da quando è successo che il sogno è apparso come l'unica realtà e concretezza possibile.
Oltre il filo che separa sogno e realtà, la realtà sembra un sogno e il sogno è viva, meravigliosa realtà.
Potrebbe anche essere un mondo di sogni bellissimi, ma è avvenuto che gli occhi hanno realmente visto e le mani toccato, il cuore ha avvertito la serietà dei valori e dolcemente ha scelto che tutto è vero, le cose stanno veramente così. Non è un sogno, è la realtà. O meglio ancora è la Verità e quindi l'Amore.
Da allora si può e si deve liberamente sognare.

12 - Gesù e gli apostoli: il primo seminario
Sul lago, al far della sera, passava camminando lungo la riva e li chiamava: lasciavano tutto e andavano con lui. Ogni giorno il numero cresceva, una piccola folla ormai, raccolta di dovunque: dal rassettar le reti anche da dietro un tavolo di pubblicano o di sotto l'ombra fitta di un fico.
Un mattino - dopo una nottata di preghiera: era preghiera per la scelta e la chiamata di uomini dal destino segnato, per tutti i tempi - li chiama per nome, quelli che diventano la sua famiglia: la famiglia di Dio sulla terra.
Questi entrano nella sua vita e la sua vita è tutta per loro, quasi esclusivamente per loro.
Lungo le strade assolate, nei riposi della sera, accucciati insieme sotto le stelle. A tavola con lui quando è invitato, a frangere fra le mani le spighe durante il cammino per rimediar la fame.
Fra le folle, intorno a lui, raccolti a cuore a cuore, per dire loro tutto, spiegare ogni cosa, condividere i problemi di ogni giorno.
Li protegge sotto le ali di un Amore tenerissimo. li aiuta a risolvere le loro divergenze, a superare la loro rozzezza e ad ammorbidire la loro durezza di cuore.
Ogni giorno, ogni notte. Ogni strada. Ogni montagna. Al lago sulla barca. In città nelle sinagoghe.
Nella solitudine e fra le folle.
I suoi miracoli sotto i loro occhi. La sua stanchezza e tristezza a cercare la tenerezza del loro Amore.
Da dopo l'annuncio di Giovanni Battista e la prima notte passata con i primi due discepoli, Gesù non è più solo. Altro che in qualche nottata di preghiera, da solo, sulla montagna, dopo averli lasciati raggruppati a dormire, in attesa che lui ritornasse.
E solo sarà soltanto la notte del!' agonia, dell' arresto, dei tribunali, della condanna, della Croce. Perché quella era la sua ora - la loro ora sarebbe venuta più tardi.
E la Risurrezione è il ritrovarli, il riunirli, il rivivere insieme. E fra le ultime parole vi è la promessa di rimanere sempre insieme a loro: "ecco, io sono con voi ogni giorno, fino alla consumazione dei secoli".
"Mentre egli parlava alle folle, ecco che sua madre e i suoi fratelli stavano fuori, cercando di parlargli.
Qualcuno gli disse: "Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno di fuori e cercano di parlarti", Ma egli rispose I a chi lo informava: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?" E stendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la Volontà del Padre mio che è nei cieli, quello è mio fratello o sorella e madre". (Mt, 12, 46-49)
"Pietro prese a dirgli: "ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito". Gesù rispose: "In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia abbandonato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli e campi per me e per il Vangelo, che non riceva il centuplo fin d'ora, nel tempo presente in case, fratelli, sorelle, madri, figli e campi, insieme con persecuzione e la vita eterna nel futuro." (Mc. 10, 28-31)
È la storia meravigliosa, di una dolcezza e grandiosità infinita, del primo seminario, famiglia del vescovo.

13 - È soltanto un problema di amore
Questo dolce sognare per il troppo Amore che grida nel cuore. Amore di Chiesa viva, fatta di uomini veri impegnati nel nome di Dio e a seguito di Gesù Cristo, nei veri valori della vita fino a farne testimonianza non soltanto, ma realtà concreta, vissuta, del Mistero di Dio e continuità autentica del Mistero di Cristo.
Chiesa segno e realtà di Dio fra gli uomini. Argomento di autenticazione che i valori cristiani non sono a contrasto della vita, demolizione d'esistenza, spengimento del cuore. Ma potenziamento, valorizzazione, misure estreme di vita che di più non è possibile sulla terra. Accoglienza dell'uomo e suo sviluppo e crescita fino alla misura di Dio alla statura di Cristo. Cuore che si allarga al di là di ogni orizzonte e non si lega qui e là unicamente perchè l'infinito gli appartiene.
Questo sogno stupendo del seminario famiglia del Vescovo. la casa de Vescovo casa viva, calda, la casa paterna-materna di ogni sacerdote. Questa meravigliosa, adorabile Unità del Sacerdozio fatta carne e che abita visibilmente fra gli uomini.
Lo voglio poter dire a tutti, e con infinita gioia e gloria, chi è mio padre e chi è mia madre. Dov' è la casa dove sono nato e cresciuto e dove posso, ad ogni ora del giorno e della notte, ritornare: c'è sempre chi sulla porta mi aspetta e mi dice - e è parola vera - vieni, figlio mio.
Un po' di Amore vero, Santa Madre Chiesa, un po' di Amore vero, come quello di Gesù per i suoi apostoli. Anche se fra noi può darsi che vi sia nostro fratello Giuda.
Un po' di Amore vero.

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