LOTTA COME AMORE: LcA giugno 1986

Segni del nostro tempo

Anche soltanto a prendere nota della semplice cronaca quotidiana, questi nostri tempi manifestano "segni" di sconcertanti contraddizioni.
Gli opposti s'incontrano e si scontrano in un intrecciarsi da capogiro. In tutti i campi, in tutta la realtà del vivere e convivere umano,
Chiaramente dove più l'avvicendarsi di uno spiraglio di speranza e di uno spalancarsi di disperazione, avviene, è in politica, cioè là dove si raggrumano, si sciolgono e si rannodano, i grossi interessi, le pesanti ambizioni, le programmazioni più spietate.
L'economia evidentemente segue gli alti e bassi della politica e simultaneamente li determina appoggiandosi e provocando armamenti senza limiti con un ricorso ormai inesauribile e irrefrenabile al "pozzo della scienza" del cervello umano, delle possibilità tecnologiche e delle strategie più impazzite.
Tutto bene e ormai sta dilagando, almeno dalla nostre parti del mondo occidentale, una strana euforia determinata dall' assuefazione al benessere fruttificato dal progresso scientifico, tecnologico, economico... Si è andata quasi maturando una sicurezza, che tutto, a parte qualche complicazione qua e là per il mondo, tutto in definitiva non può che andare per il meglio.
Anche la pace, pur con la depressione dei movimenti pacifisti, si va, via via, rassodando anche se non risulta chiaro se per gli incontri di Ginevra o la ripresa della deterrenza.
Tutto va bene, insomma anche a voler essere pignoli.
Soltanto che un mattino ti svegli e senti raccontare che la Nasa - il complesso tecnologico e scientifico più avanzato del mondo - ha fallito miseramente un suo lancio spaziale: lo Shuttle è esploso dopo due minuti di volo verso lo spazio disintegrando i sette cosmonauti.
La pietà e la commozione ci hanno forse impedito di renderci conto quanto l'orgoglio gonfiato dalle conquiste della scienza sia stato tragicamente umiliato o, se non altro, ridimensionato.
U n'altra mattina ci si sveglia con la guerra sotto casa. La VI flotta americana rafforzata da squadriglie di caccia bombardieri sempre americani, levati in volo nientemeno che dall'Inghilterra, bombardano quartieri popolari delle coste della Libia.
Come risposta due missili affondano nel mare di Lampedusa.
U n segno evidente che i potenti non possono essere che ridicoli ma nel frattempo sono pericolosi per una schizofrenia storicamente congenita con il potere.
Un' altra mattina vieni a sapere che una centrale termonucleare è esplosa in Ucraina, a Chernobil. Migliaia di kilometri e poi in URSS. Soltanto che la nube radioattiva, come i missili, non rispetta i confini. Un pericolo più o meno mortale vaga in balia del vento e la preoccupazione è una sola, con tutta la scienza che impera nel mondo, sapere da che parte tira il vento.
Governi, centrali della scienza, ricerche, analisi e scatenamento dei mezzi d'informazione.
Radioattività. Iodio 131. Cesio 137. Nanocurie: e la scienza dilaga finalmente a illuminare i livelli popolari.
Niente insalata, la verdura a foglia larga. Anche le mucche diventano un pericolo perché mangiano la verdura a foglia stretta.
Poi le pecore e i conigli, i giardini pubblici e i gerani alle finestre.
S'impone (da questi cenni di cronaca spicciola) una considerazione, ovviamente per chi la vuoi fare. Ma certi "segni" è voler essere ciechi a non vederli.
Al punto in cui siamo (e la prospettiva di progresso, dicono, è oltre l'immaginazione) la nostra civiltà di potere economico, politico, militare, scientifico, tecnologico ecc. è fondata sulla "sicurezza". L'inganno è sempre più evidente a tutti i livelli.
L'insicurezza fisica, psicologica, personale, collettiva ecc. sta insidiando il vivere e il convivere in misure tali che, ormai è dimostrato, l'unico rimedio privato e pubblico è quello dell'assuefazione.
Quanto più l'insicurezza è totale tanto più l'assuefazione produce e rende rassegnati, tranquilli, indifferenti.
Così è con le 50.000 testate nucleari. Con le 350 centrali nucleari in Europa. Con le nostre 3 funzionanti e quelle in costruzione.
Forse tutto è soltanto questione d'abitudine. E la Fede?
Forse la Cristianità (la Chiesa può essere altra cosa) si ritrova dopo tanti secoli, come all'inizio: deve affrontare e cercare di "cristianizzare" un mondo pagano (non ateo, bei tempi quando c'era l'ateismo!) Mondo pagano perché dominato da ben identificate divinità dotate di onnipotenze tali da "creazione" di altra umanità, di umanità cioè mai esistita, totalmente diversa e che si continua a chiamarla umanità, così, unicamente per comodità.
Fra le due umanità, quella creata da Dio e quella che sta creando l'uomo, la cristianità (ogni cristiano) è chiamato a decidere una scelta.
Anche la Chiesa deve fare la sua scelta, tanto più che non scegliere è scegliere.
La fede cioè quella "luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo" è per chi ha occhi per vedere e vuole vedere "tutto ciò che deve accadere fra poco" (Ap.22,6)

La lettera di Arturo

Cari Amici:
nella mia ultima permanenza in Italia (8 aprile - 8 giugno) ho scoperto il senso di essere un ponte fra l'Europa e il terzo mondo. L'aver guardato costantemente l'Italia dall'America latina, e il guardare periodicamente l'America latina dall'Italia, mi ha aiutato a vivere la problematica che vedo trattata ottimamente nell'ultimo numero di "Bozze" che porta come titolo "Pentirsi della conquista".
Credo sia molto importante creare fra i due mondi una nuova relazione e ve lo vorrei spiegare prendendo come paradigma la mia esperienza americana. Questa esperienza di vita in America latina si potrebbe dividere in tre tappe: a)guardare l'Italia dall'America latina con NOSTALGIA. La mia vera terra è quella non questa; sono qui per una missione provvisoria con gli occhi fissi sul ritorno. b) Progressivamente si compie la conversione culturale, l'identificarsi con quelli che sono "altri", ed è la tappa della COLPEVOLEZZA "Guarda quanto male vi abbiamo fatto". E come conseguenza guardare l'Europa con rancore e con la volontà di caricare l'Europa di un complesso di colpa: vi dobbiamo una riparazione. c) Ma questa America latina deve situarsi sempre in una relazione di vittimismo e di rivalsa? Sto scoprendo la tappa della COMPLEMENTARIETÀ. È urgente aiutare ora il dialogo fra le culture. L'America latina non deve continuare ad essere il mendicante che tende la mano alla parte sazia e sufficiente, ma deve dare la sua partecipazione attiva alla ricerca di salvezza dell'umanità, che è la meta più urgente della nostra storia. Vedo, senza timore di ingannarmi, che la nostra è la cultura della SOLUZIONE e quella è la cultura della SALVEZZA: le due si devono incontrare e completare.
È stato per me importante vivere due vicende italiane, quella del metanolo e quella della nube radioattiva. L'avvertimento del metanolo dimostra quanto sia fatale, portatrice di morte, l'obbedienza alla legge di mercato che è il dogma in discutibile della società capitalista. Partecipe di questa vergogna nazionale, ho pensato spesso alle parole di Paolo: la legge è morte. La nube radioattiva ci ha persuaso quanto sia pericolosa la nostra sufficienza tecnica, il credere ciecamente che basti la nostra capacità di risolvere tutti i problemi. Torno con più esperienza nella "mia" America latina e mi propongo di continuare la funzione di ponte finché ne avrò la possibilità.
Credo che l'esperienza della nube atomica abbia svegliato in noi europei la coscienza di appartenere a una cultura disumana perché tutti i ragionamenti pro e contro la nube radioattiva non ci hanno mai fatto calare nella questione di fondo. Nel dibattito l'ho sentita appena sfiorata da un fisico americano, Robert Pollard: "Provi a fare questo esperimento: dica ai suoi ospiti che nella coppa delle caramelle ci sono 999 caramelle buone e una al cianuro. Una probabilità su mille pare rassicurante, non le pare? Tuttavia nessuno toccherà le caramelle". L'argomento pare convincente, eppure non convince nessun paese.
l reattori nucleari ormai sono fuori discussione, si parte dalla necessità di costruirli, poi si vedrà come non farli pericolosi. In fondo dimostriamo di non amare la vita: l'amiamo come concetto, come astrazione, come diritto, ma non come realtà. Il fatto che ci scagliamo contro l'aborto che attenta il diritto alla vita, che non ci scagliamo con altrettanto vigore contro la fame dei bambini che sono già al mondo, significa che siamo più sensibili alle astrazioni che alla realtà. E allora sul terreno delle astrazioni hanno più argomenti gli scienziati che i moralisti. Se veramente siamo difensori della vita, bisogna che difendiamo quella concreta dei poveri; dei bambini di quelli che vogliono sopravvivere in un terzo mondo che è il mondo sfruttato, oppresso. E quando una teologia e una pastorale della liberazione cerca di far giungere ai fratelli di fede il clamore degli oppressi, che, secondo il racconto dell'Esodo, giunge all'udito di Dio, bisognerebbe che questo clamore non si trasformasse in una curiosità. Ho avuto spesso l'impressione che la teologia della liberazione si allineasse alle novità di libreria per l'arco di tempo abituale per le novità e che sfuggisse alla grande maggioranza che questa teologia portava il gemito dei poveri, era il seguito dell'Esodo. La mediazione dell'America latina dovrebbe aiutare il pubblico di cultura europea a scoprire la vita, come vita concreta e non come astrazione. Il secondo decreto sulla teologia della liberazione prova che sappiamo trasformare la liberazione in libertà cioè un processo reale storico, pagato col sacrificio della vita, autenticato dal martirio, in una idea astratta che non fa male a nessuno, sappiamo imbalsamare un essere vivente e metterlo in un museo. Non sono negati i concetti fondamentali della teologia della liberazione solo che sono svuotati di vita e allineati in una vetrina per soddisfare la curiosità estetica dei visitatori del museo. La teologia della liberazione scritta dalla vita, entra nell'accademia teologica e muore, ma al di là dei mari vive, e questo continuerò ad annunziarlo. So che la mia voce si sperde, ma lo Spirito del Signore può darle vigore ed efficacia.
Vi devo tendere la mano, perché abbiamo dato inizio ad una cooperativa di lavoro; che ha reso necessario l'acquisto di terre e quindi la necessità di un capitale considerevole, ma vi prometto di inviarvi altra ricchezza. Paolo tendeva la mano a una chiesa e scriveva: "Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e ci sia uguaglianza, come sta scritto: "Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno" (2 Cor. 8,1.3) E anche questa è complementarietà.
il vostro amico

Arturo

Le ragioni della speranza

Ci sono fatti ed avvenimenti, a volte del tutto inaspettati e non programmati, che portano nella nostra vita il soffio meraviglioso della Speranza. E parlando di Speranza, intendo proprio il dono di Dio (una delle tre "virtù teologali" dell'antico catechismo) che entra nella storia personale di ciascuno per le vie misteriose degli incontri, dei rapporti, della comunione fra le persone che incrociano sulla medesima strada su cui ci troviamo a camminare.
Questa Speranza, per me, ha il sapore di quella che deve aver traboccato il cuore e l'anima dei due discepoli che, come racconta il vangelo di Luca, se ne andavano tristi e quasi disperati verso il villaggio di Emmaus: tristezza e disperazione per aver visto morire sulla croce colui nel quale essi avevano creduto di aver trovato risposta all' attesa secolare della Salvezza promessa ad Israele. Un sogno straordinario che aveva attraversato velocemente (anche se era durato alcuni anni) la loro vita ed era affiorato nella loro storia (ma era storia dell'umanità) come una sorgente purissima fra le sabbie del deserto.
La scoperta inattesa che Gesù di Nazareth, il Crocifisso dal potere della legge romana e dalla inspiegabile durezza del tribunale di Gerusalemme, era vivo e divideva il pane con loro al tramonto di una giornata colma di amarezza e di angoscia, era la sorgente di questa Speranza.
Il soffio della "Nuova Pasqua" cominciava ad agitare le acque della storia umana.
È molto bello scoprire (e sapere che non è illusione o vuoto sentimentalismo) che c'è ancora Qualcuno che ci cammina a fianco, quasi in incognito, e dolcemente ci offre di bere ancora una volta alla fonte della sua Speranza. È molto bello accorgersi che la strada di Emmaus è realtà di oggi, della propria vita, della piccola storia personale che viviamo: come all'improvviso, dietro una svolta del sentiero su cui si cammina con amarezza e con angoscia, è straordinario sentire riemergere con forza e con prepotenza l'acqua di quella medesima sorgente.
Mi è capitato (è passato quasi un anno) di celebrare un matrimonio in un "carcere speciale": un luogo dove non avrei mai pensato di trovarmi a vivere e ad accogliere il sacramento dell'Amore fra un uomo e una donna. Un luogo certamente dei meno adatti a far nascere il seme della Speranza. Eppure a me è accaduto proprio il contrario. Andare è stata una grossa fatica: e non per il lungo viaggio notturno. La fatica nasceva dal profondo del cuore, dalla radice stessa dell' anima, per l'insormontabile difficoltà a credere che fosse possibile fare festa e raccogliere nel mistero di Dio un amore fiorito attraverso le porte sbarrate, i vetri della sala-colloqui, le alte mura e le cancellate automatiche, gli uomini armati a custodia di altri uomini e donne chiusi nelle celle e nei vari "bracci". Un mondo che mi pareva potesse parlarmi di tutto, meno che di Speranza.
Devo invece riconoscere di essere stato travolto da un miracolo che rimane vivissimo dentro di me (e sono sicuro anche dentro di loro) e che ha rappresentato e rappresenta come la concretizzazione dell'Amore di Dio, della "grazia".
Nella cappella del carcere, ancora da terminare e da arredare, ci siamo ritrovati in una strana "assemblea": gli sposi, pochissimi parenti ed amici, i compagni dello sposo, un buon numero di guardie, alcuni del personale interno. La celebrazione della messa è stata certamente molto particolare: una "liturgia" un po' fuori delle regole ecclesiastiche, ma intensamente ricolma di dolcezza, di amicizia, di tenerezza, di fiducia, di straordinaria ed inaspettata comunione.
Mi sembrava di essere come "fuori" dalla storia, come se d'un tratto non ci fossero più intorno né alte muraglie, né cancelli ferrati, né porte sbarrate. Semplicemente un uomo e una donna che decidevano di essere - per la vita - una cosa sola, una coppia, due vite che si fondevano in una; due storie che si univano insieme per costruire, nella fatica e nella speranza, una storia sola, nuova, diversa. Una pagina nuova che veniva iniziata per una narrazione tutta da creare, da inventare, da far nascere e crescere. E intorno quella strana assemblea che partecipava a questa festa, a questo semplicissimo ed insieme straordinario avvenimento.
Mi è venuta in mente, all' improvviso, la novella di Rodari "Una viola al polo nord": la Parola di Dio non era più soltanto quella delle bellissime pagine della Bibbia, ma anche tutto questo mistero di amore che fioriva dentro uno spazio che sembrava assolutamente incapace di generare l'amore, come una terra da tutti creduta negata alla fioritura, un ventre di donna sterile per ogni nascita.
Nel posto più adatto per la disperazione e la violenza, ho visto quella mattina spuntare timido ma tenace il germoglio di una storia d'amore e di tenerezza, di comunione e di pace, che per lungo tempo era rimasto nascosto nell'attesa di poter uscire alla luce del sole.
E abbiamo fatto festa: durante il "rinfresco" sembravano un normale gruppo di amici che brindavano alla salute degli sposi, come avviene in tutti i matrimoni "all'aria aperta". E sembrava del tutto normale che allo stesso tavolo della festa ci fossero guardie e detenuti, amici di "fuori" e di "dentro", a celebrare insieme un amore che aveva attraversato le sbarre ed era riuscito a nascere e a fiorire fra le pietre.
Mi venivano in mente certi fiori che ho visto sempre con meraviglia in alta montagna: fiori bellissimi, dai colori stupendi, nati nella spaccatura di una pietra, là dove il loro seme portato dal vento ha potuto trovare un piccolissimo pugno di terra nel quale morire e rinascere moltiplicandosi.
Certo, so bene che questo è stato solo l'inizio (ma anche la continuazione) di una storia che ancora deve camminare nella fatica e nella ricerca di una pienezza di vita, di libertà, di amore non più racchiuso in un cerchio di ferro e di pietre. Ma la Speranza di quella mattina sento bene che non può essere stata l'illusione di un momento privilegiato o l'emozione sentimentale di un avvenimento particolare, presto destinata a cancellarsi. Non so quale sarà la sorte di quella "viola" nata non si sa come al polo nord di una vicenda umana sulla quale io non ho alcun potere: sono però assolutamente certo di aver sentito vicinissimo il respiro del Signore risorto, il calore del suo fuoco che mi bruciava dentro l'anima, lo zampillare fresco limpido dell' acqua della sua Speranza.
Ho capito allora che era vero quello che uno dei "compagni" aveva letto, nella commozione più profonda, alla prima lettura, dal Cantico dei Cantici:
"Mettimi un sigillo sopra il tuo cuore, come un sigillo sopra il tuo braccio, perché l'amore è forte come la morte... Le sue fiamme sono fiamme di fuoco, un fuoco di Dio.
Le grandi acque non potranno spegnere l'amore, né i fiumi sommergerlo".

don Beppe

Insieme e grandi nella speranza

18 Aprile 1985 Santa Rosa di Cuevo
Il "Corregidor" della comunità, una vecchia quercia india, ci sta parlando davanti alla tomba di Padre Marcos Orsetti da Camaiore, ultimo prete di Santa Rosa, delle "Missiones Francescane" nel Chaco e particolarmente a Santa Rosa sull'esempio di quelle fondate nel Paraguay dai Gesuiti.
I Guaranj (gente della selva) abitano la regione centrale del continente sudamericano: di cultura evoluta e fieri, una fierezza che ostacolava però le mire espansionistiche del colonialismo spagnolo. I Guaranj avevano civilmente accolto i bianchi ed i bianchi li ricambiarono organizzando "le encomiendas" i feudi che utilizzavano indiani schiavi, strappati alla libertà dei boschi, per un lavoro sotto la sferza degli aguzzini.
I gesuiti nel 1610 fondarono "le reduciones", singolari collettività agricole che ammettevano indigeni soltanto e tenevano lontani gli europei: in queste comunità il lavoro, gli attrezzi per la terra, il cibo appartenevano a tutti e la "proprietà di Dio" serviva a mantenere gli orfani ed i vecchi. Nel 1767 - dopo un secolo e mezzo di lavoro animato da una fede senza fanatismo e da spirito umanitario - colla soppressione dei gesuiti (e delle Missiones Francescane poi) queste comunità del cattolicesimo latino-americano che avevano sfamato un popolo ed avviato un cammino di cultura indigena con un promettente sviluppo di artigianato furono abbandonate alla brutalità dei bianchi i quali, come in tutte le altre parti dell'America Latina, saccheggiarono le fattorie, uccisero i Guaranj, distrussero perfino le biblioteche dei missionari. Il "Corregidor" sta parlando, il toscano stranamente silenzioso, Padre Franco, ascolta pensieroso, ha le braccia conserte, segue il suo sogno: restituire oggi nel 1985 agli indios Guaranj la loro terra, aiutarli nel ricostruire la loro dignità e fierezza barbara-mente distrutte, dare impulso ai valori comunitari potenziando le radici della loro civiltà tenacemente difesa conservata amata nella schiavitù. La terra è un dono di Dio ed è di tutti. È un bene naturale che appartiene a tutti e non un prodotto del lavoro. Ma è soprattutto il lavoro che legittima l'uso della terra: "deve essere fonte di libertà per tutti, mai di dominazione e di privilegi. È un dovere grave e urgente farla tornare alla sua finalità primigenia" (PUEBLA).
Padre Franco venne nel Luglio 1985 in Italia per comunicarci il suo progetto da tempo sognato e calibrato nella realtà boliviana e per sollecitare una nostra fraterna collaborazione: "pensare all'acqua che viene qui (in Bolivia) e torna poi alle vostre sponde è l'immagine più adeguata per una risposta a queste condizioni. Quell'acqua la incontrerete ben diversa da come l'avete vista la prima volta, e questa sarà tanto più utile, umile preziosa e casta quanto più sarà acqua di corrente. Ci noterete differenti da come ci avete conosciuto, cambiati sicuramente dai grandi avvenimenti della chiesa latino-americana e dalle nostre comunità, sofferenti e sperdute nell'impari lotta internazionale ma grandi nella speranza. I poveri ci hanno indicato cammini nuovi di umanità... la vita per noi è stata meravigliosa!". Viaggiava per questo progetto di evangelizzazione e. promozione umana nel Chaco boliviano, portato via dalle acque del fiume Nachauzu, è stato ritrovato solo dieci giorni dopo, il Venerdì Santo: aveva solo 37 anni!
Questa nel 1966-67 era zona di guerriglia condotta dal "Che".

19 Aprile 1985 Camiri
Stiamo cercando i biglietti per l'aereo, prossima meta Sucre: mi inoltro tra i banchi del mercato della città. Europei, meticci, legati ad un miraggio che si va spegnendo, il petrolio. I vantaggi dell'oro nero sono per i conquistatori di sempre, all'indio, a parte qualche briciola, la povertà e la pazienza. Mi ha commosso la pazienza dei poveri, di tutti quelli che non sono gente "l'indio non è gente". Mentre in Patagonia vedevi solo gli Europei dominatori e sterminatori di una civiltà e di una presenza; qui una civiltà e una presenza non sono state sopraffatte. Non siamo assolutamente nelle condizioni dell'Etiopia - vita reale della donna, denutrizione, tisi lebbra e malaria - però in Etiopia il popolo indigeno ha una sua dignità mentre qui l'indigeno non conta assolutamente nulla, discendenti degli Inca, sono emarginati in casupole di fango negli altipiani di La Paz, Sacre, Potosì e Cochabamba e i discendenti dei Guaranj nei boschi del Chaco Boreal: tutto è dominato dai "criollos" e dai meticci; innumerevoli spuntano da ogni parte come campi di margheritine i bambini e bambine, bellissimi con quegli occhi tagliati e pieni di garbo, sui loro volti di bronzo, sofferenza ed una immensa pazienza.
Qui in Bolivia si pazienta e si attende!
Siamo all'aereo porto di Camiri, sono le sette e trenta: un vasto campo, la pista del decollo e dell'atterraggio è segnata da due bidoni dipinti in calce, è incerta la venuta dell'aereo, Padre Ignazio spiega: "È importante sapere dove abita la fidanzata o sposa del pilota" dopo diverse comunicazioni di un addetto che scruta il cielo per vedere tra gli squarci delle nubi da dove verrà l'aereo, si assiste all'atterraggio perfetto di un Fokker giallo: fortuna sono dei piloti abilissimi! Alle 12.30 si decolla per Sucre, altitudine 2800 metri; si sorvolano per un'ora le Ande. Questo è il regno dei Chechua, dei lama, del vento, delle patate, il regno della solitudine e dell'antico sogno nuovo, la libertà. Sucre, capitale ufficiale e reale per bellezza, della Bolivia è "muy linda", sembra intarsiata d'argento. Siamo accolti alla Recolleta di San Antonio, convento del 1600, vi si domina la città. Sorridendo il "padrecito" sottolinea che questo è il vespaio da cui partirono i frati per tutta la Bolivia, e attualmente è, sotto, un museo di uomini aggiaccati e, sopra, un museo di uomini ritti.

20 Aprile 1985 Sucre
Alle nove accompagniamo Silvano ed Umberto nella piazza della "flota" per il viaggio in autobus, meta Potosi, la città mineraria per eccellenza, e la Paz, la capitale. Ci ritroveremo all'aereoporto di Cochamba. Il convento della Recolleta, coi suoi tre chiostri, è molto bello, ha un piazzale in pietra, vasto e austero, coi portici per i pellegrini, ma insiste nel ricordarmi una piazza d'armi. Antico l'interno coi suoi chiostri francescani che non comunicano la pace e la dolcezza ma angosce e tristezza: ti verrebbe la voglia di fuggire. Si respira aria di restaurazione e di inquisizione. Alle 14.30 ce ne andiamo via; durante il viaggio il taxista, aveva con sé una bambina di quattro anni, (il padrecito sceglie sempre i taxisti più scalcinati... sono quelli che più hanno bisogno... ) ci diceva: "per noi poveri è sempre più duro vivere in Bolivia". Alle 16.30, dopo una lunga attesa, "mettiamo le vele" per Cochabamba, un'ora di volo e di trepidazione su quegli altipiani meravigliosi e come adagiata dolcemente in una culla di luce, ci attende Cochabamba. Con affetto fraterno ci accolgono i francescani trentini Padre Angelo e Padre Silvano e Padre Lorenzo, un toscano che insegna alla Università sociologia: l'importante lavoro giuridico in appoggio alla rivendicazione per la terra degli Indios (applicazione della riforma agraria 1952-54).

21 Aprile 1985 Cochabamba
Alle 8.30 Santa Messa in un "barrio" con Padre Angelo e Tarcisio.
Tutti i presenti seguono con attenzione e partecipazione comunitaria: tema dell'omelia "segni di morte e di resurrezione nella vita personale - comunitaria - boliviana". Si svolge un dialogo simpatico e serio tra il sacerdote, i fedeli e la parola di Dio.
In tutta la Bolivia le chiese sono molto affollate con un tipo di religiosità simile alla nostra in Italia. Una signora dolcissima, Donna Rachele, mi ha detto: "Benvenuto padrecito dall'Italia". Abbiamo visitato quattro nuovi "barrios" con un centro sociale di una comunità di base: lavoro silenzioso e costante dei padri insieme ai fratelli e sorelle boliviani per una liberazione che nasce dal basso, non dalle cattedre (le cattedre raccolgono, rispettano e aiutano).

22 e 23 Aprile 1985 Cochabamba
Padre Silvano, da quaranta anni in Bolivia, nella solitudine degli altipiani, con una vita semplice ed umile, è felice di aver ritrovato per il dono di Dio - Concilio Vaticano II - la freschezza del Vangelo. Appena sacerdote si trovò nel dramma della guerra, era cappellano militare in Jugoslavia: ne fu segnato dall'angoscia con marchio di fuoco. In Bolivia ha ritrovato dei valori di umanità perduti nella disumanità della guerra.
Qui a Cochabamba siamo nella capitale della produzione della "coca" di cui la Bolivia ha il monopolio mondiale. Per la "coca" si intrecciano negli ultimi anni tutta una serie di questioni politiche e sociali (alleanze fra capi di governo militari e grossi produttori, rapporti con gli U.S.A.). Basta riflettere: 1979 - 7.000 tonnellate di "coca" / 1981 - 80.000 tonnellate di "coca". Nel 1974 furono uccisi qui a Cochabamba, 100 campesinos perché si erano ribellati al raddoppio dei commestibili: da questo momento i vescovi cominciano a criticare apertamente il governo. All'areoporto ci accompagnano Padre Silvano e Padre Dario, un "marcantonio" dal cuore d'oro, è un giovane frate, parroco fra i Chechua, di cui ci hanno detto un gran bene.
Sull'aereo per Santa Cruz delle 17.40 ci aspettano Silvano ed Umberto, reduci stanchi da La Paz. Alle 19 siamo a Santa Cruz, gentilmente Fra Diego ci ospita.
A cena ritroviamo i padri polacchi di Sucre: Tarcisio ci invita ad andarcene nei nostri appar-tamenti "non è aria per noi!"

24 e 25 Aprile 1985 Santa Cruz
Con Fratel Diego, il simpatico ed accogliente francescano bavarese, alle prime luci dell'alba, fra le strade deserte ancora di Santa Cruz della Sierra ho accompagnato Padre Tarcisio all'areoporto di "Viru Viru": commossi ci siamo abbracciati, ci rivedremo "ishalla"; nelle rughe della fronte dell'amico brillava ancora di più la speranza per un'umanità diversa, un'umanità di uguali, di fratelli e sorelle secondo il sogno del "Fabbro di Nazareth", dai boschi e dalle praterie del Chaco boliviano un fraticello contribuiva come una goccia in un mare immenso per la forza di Dio a realizzare la profezia del "Medico argentino, il CHE": "Quando i cristiani oseranno dare una testimonianza rivoluzionaria integrale la rivoluzione latino-americana sarà invincibile".
Oggi è l'anniversario della nostra liberazione e della fondazione dell'O.N.U.

Carpenteria in Etiopia

Tra una ventina di giorni partirò in aereo per Addis Abeba. Duecento Km. a sud, ad Assela, resterò per una paio di mesi abbondanti. Presso Padre Silvio in una missione che raccoglie oltre un centinaio di ragazzi e ragazze. Una scuola di arti e mestieri per offrire, da un punto di vista educativo, una consapevolezza di sé e per rispondere ad esigenze essenziali della vita della comu-nità. Il gruppo A.T.M. (Amici Terzo Mondo) di cui fa parte don Rolando mi ha offerto questa possibilità caricandosi delle spese oltre ad un rimborso per il mio mancato guadagno di piccolo artigiano. Dovrei iniziare con un piccolo gruppo di ragazzi della comunità di Padre Silvio un lavoro di carpenteria con gli attrezzi a suo tempo inviati dall' A.T.M.
Praticamente non farò niente di diverso da quello che sto facendo ora. Spero solo... di lavorare di meno. O meglio, con minore affanno. Ed anche se le condizioni saranno sicuramente tutt'altro che simili a quelle di Viareggio, credo che la serenità di questi due mesi di lavoro in Etiopia mi venga dalla consapevolezza che, ancora una volta, sto per vivere un tempo in cui sovrabbondante sarà quello che riceverò in rapporto al poco che potrò dare.
E innanzitutto questo tempo in cui mi troverò in una condizione di solitudine. Una solitudine non certamente fisica, ma dettata dalla lontananza, dalla lingua, da una realtà tutta diversa. Una solitudine desiderata - anche se mi costa - per guardare più a fondo dentro di me, per lasciare che emerga quello che appartiene al mio divenire. E la difficoltà di comunicare non mi sarà di peso proprio per questa presenza di me a me stesso: non superbia e chiusura narcisistica, ma attenzione interiore che rende profonda la comunicazione non attraverso le parole, ma il gesto, il corpo, lo sguardo che abbraccia lo stesso orizzonte.
Ed insieme alla solitudine la sensazione di una pagina nuova che si apre. Oh, intendiamoci prenderò il biglietto andata e ritorno! Ma non si parte per un lungo viaggio senza che ci accompagni un nuovo essere delle cose, una valutazione diversa dei rapporti vissuti. E questa disponibilità ad entrare nel nuovo mi appartiene senza forzature, ma con molta speranza. Sento che è cosa da coltivare con attenta sollecitudine proprio per fedeltà agli affetti, le amicizie, gli impegni che fin qui mi hanno accompagnato.
Ma l'Africa, l'Etiopia, il Terzo Mondo... sono forse un fondale a problematiche tutte personali ed interiori? Un fondo di tinta neutra per una vicenda tutta intimistica?
No. È realtà concreta di cielo e terra, volti umani, storia che affonda le sue radici oltre i segni di questa nostra occidentale civiltà. È mano cui voglio avvicinare la mia, aperta il più possibile in modo che sia chiaro che non contiene nient' altro che il desiderio di stringerne un' altra.

Convegno Pretioperai 1-4 maggio a Firenze

Al posto delle mie solite riflessioni, mi è sembrato giusto rileggere agli amici la relazione che ho letto nel secondo giorno del Convegno Pretioperai che si è tenuto a Firenze nei giorni 1-4 maggio.
È chiaro che la relazione racconta di quello che l'incontro ha significato assai più interiormente che nel concreto dei problemi che investono il mondo del lavoro. Ma ormai mi sono abituato ad ascoltare "le voci" che mi rimbalzano nella mia interiorità e a raccogliere i riflessi della realtà nella quale vivo, in questo specchio interiore.
Chissà come è possibile: ma è vero che mi sembra di ascoltare e di vedere assai di più e quindi di partecipare più intensamente.
Tutto questo per chiarire che la mia relazione non riflette se non la visione del ritrovarci noi pretioperai nei confronti delle novità che travagliano il mondo del lavoro e nei confronti delle novità(!?!) che sta perseguendo la Chiesa...
Il convegno di Firenze è stato come il raccogliersi di una coscienza, seriamente informata e responsabile, a giudicare questo nostro tempo considerato più nel domani per il semplice motivo che il domani è conseguenza di questo nostro "oggi".
E che questa coscienza sia la coscienza di un gruppo di preti è sempre costatazione esaltante, allietata da profonde speranze...
La coscienza di questa fede: Dio è padrone dell'impossibile.
La coscienza di questo Amore: perché Dio è Amore e l'Amore è più forte della morte civile e più forte della morte ecclesiastica.

Un lungo cammino

Umilmente e quasi sussurrando le parole. Ma non perché il respiro si fa sempre più affaticato e stanco e tanto meno perché si affievolisce la forza interiore o si annebbia la trasparente chiarezza del pensiero. Ma unicamente perché i tempi si fanno, ad ogni giorno che passa, più sopraffacenti, l'assedio si stringe, gli spazi diminuiscono, che quasi sembra di non trovare più i venti centimetri quadrati dove posare i piedi.
Alla mia età, data la lunghezza della strada percorsa e i lunghi tempi consumati, non è evitabile l'impressione - e non sto qui a dimostrarne la giustificazione - che il cammino nel quale stiamo camminando è obbligato a camminare in un tracciato a imbuto: ad ogni passo si restringe, sempre più la strada si snoda costretta fra terrapieni che la opprimono, la soffocano a destra e a sinistra, così che quasi perfino la visione del Cielo azzurro ha perduto la sua vastità quasi a renderne impossibile la visione contemplativa della sua spaziosità.
No, non stiamo vivendo a cuore morto. Ma è unicamente perché per una profonda, misteriosa vitalità interiore, un'effervescenza di convincimenti, fino alle misure della sicurezza, ci anima dal di dentro di quelle scelte che si confondono e sono tutt'uno con la propria identità personale. È andata rafforzandosi e siamo alle misure estreme, quella fedeltà a se stessi a seguito della quale, il giocare tutto, ma realmente tutto è cosa straordinariamente semplice: cioè è come respirare, come continuare a vivere.
Può essere che nei confronti della realtà attuale e tanto più in quella di domani, come dal giudizio della storia di questo nostro tempo tutto fa prevedere, può essere che questa fedeltà, questa linearità e coerenza, sia come cadere non tanto in un precipizio, quanto nel vuoto, nell'inutile e cioè nella perdizione.
Non ha importanza quando si porta, vivente acceso fiammante, nel proprio destino (e cioè nella ricerca di risposta alla volontà di Dio) il convincimento che questa è la ragion d'essere della propria vita e del proprio rapporto con resistenza, la costatazione di camminare verso il vuoto, l'inutile.
Può essere (e non occorre poi tanta fede per crederlo) che questo camminare, questo cadere nel vuoto, possa essere assai più importante e valga assai di più che il costruire grattacieli, la potenza economica, politica, realizzare organizzazioni da sopraffazione, dilagare il mondo con la propria presenza, volando dovunque.
C'è un'esigenza, un bisogno vitale, nell'anima dell'uomo, nell'anima dei popoli, di una profezia, cioè di una rivelazione, nel senso più biblico della parola, di verità coperte e sempre più sopraffatte, ma che non possono essere dimenticate. Di una profezia e cioè che siano visibili agli occhi e da poter toccare con le mani, valori che è assurdo pensare che abbiano a sparire o che possano essere sostituiti. L'umanità e tanto più la chiesa, quella gerarchica, ma anche in conseguenza, quella periferica, stanno perpetrando il peccato più mostruoso, anche perché raffinato di cultura, di scienza, di progresso ecc., il peccato del surrogato, assai più micidiale di quello dell' idolatria. È nella lotta a questo disorientamento, a questa sofisticazione che sta la profezia del non adattamento, allineamento, della rassegnazione. La profezia cioè della dissociazione, della ribellione, della diversificazione...
La profezia della liberazione perché siano ritrovati e risultino aperti ed evidenti gli spazi dove unicamente l'uomo è uomo e l'umanità umanità e anche, e soprattutto, Dio è Dio.
La parola di questa profezia attualmente è il vuoto, l'inutile, I'emarginato, il non meritevole nemmeno di uno sguardo, di un'ombra di attenzione.
Perché la libertà è dentro questo vuoto, la dignità umana è sotto la scorsa di questo inutile, la speranza va scavata sotto la crosta.
E anche Dio e Gesù Cristo va scoperto e amato nelle profondità, al di sotto della religione e della sua chiesa. Così per l'uomo, per l'umanità.
Mi rendo conto quanto sia "velato" (ma poi non troppo) il mio discorso, ma è perché sono certo che in ognuno di voi è la luce accesa dello Spirito di Dio e la dolce, adorabile sapienza che proviene dalla grande fatica del lavoro, della solitudine, della stanchezza, dalla estenuante prova alla quale è continuamente sottoposta la fede e la Speranza. E tanto più è la coscienza quotidiana, ma ancora di più in certi momenti, è quel camminare a vuoto, inghiottiti dall'inutile, ad ottenere in voi l'illuminazione nelle penombre e spesso nel buio di questo nostro tempo.
Penso e credo che questa illuminazione interiore di ognuno di noi doni e ravvivi in questi giorni del nostro convegno, uno schiarore da essere luce accesa così che illumini tutta la casa: non intendiamo lasciarla illanguidire e spengere, né vogliamo tenerla nascosta sotto il moggio.
È per questo che siamo qui.
È per la coscienza e il senso di responsabilità, di avere pane di grano da offrire a chi ha seriamente fame. E vino genuino di vite, senza metanolo, per un buon bicchiere a chi desidera ravvivare lo Spirito. Pensiamo di essere, e non è certamente presunzione, quella libertà e semplicità di fede da donarci la chiarezza d'idee e il coraggio del cuore per interrogare i progetti: quei progetti di nuova esistenza e di novità di rapporti umani che il tempo storico nel quale ci troviamo a vivere, apre e sulle quali ormai, come autostrade a senso unico, l'umanità è obbligata, costretta a percorrere il suo cammino.
È forse questo il nocciolo, il midollo di questo nostro convegno.
Perché forse proprio noi, gente del vuoto e dell'inutile, per le nostre radici e il percorso esistenziale vissuto, abbiamo e siamo quella Fede, unicamente ormai capace d'interpretazione di questi tempi e d'immaginazione, di fantasia per quelli futuri.
Per grazia di Dio, non è la Fede religiosa, della religiosità: quella della volontà e della ricerca, a costo di tutto (anche della dimenticanza del Vangelo) di cristianizzare il mondo, sottomettendolo ad un magistero equivalente a supremazie assolute. Non è la Fede sacerdotale espressa attraverso la sacramentalizzazione fatta più di ritualità che di miracolo di Dio, attraverso la Parola, ad ogni giorno che passa, sempre più parola d'uomo che di Gesù Cristo...
Non è la Fede che della sua trascendenza vuoi farne strumento, potenza per determinare e costruire il regno di questo mondo in progetti scopertamente temporalistici...
Non è la Fede degli anni'50 (tanto per stare vicino a noi) messa in crisi dal Concilio e ripristinata d'autorità alla Domus Pacis (tanto per ricordare qualcosa di vicinissimo a noi..).
Nei confronti di questa Fede siamo dei miscredenti, degli apostati, degli spretati e non per nulla, per quello che dalla Chiesa clericale dipende, la strada sulla quale camminiamo si fa sempre più stretta, a imbuto.
La nostra Fede è Fede liberata a seguito di quella liberazione avvenuta oltre i cancelli della fabbrica lasciandoci alle spalle la sagrestia. E per un sacerdozio a servizio e in comunione del "regale Sacerdozio" del popolo di Dio unicamente partecipe del Sacerdozio di Cristo.
La nostra Fede laica perché non ideologia, non assolutizzazione e nemmeno magistero... semplicemente servizio e gratuità.
Una Fede che sappia indicare con la chiarezza del Vangelo dove è l'ultimo posto, anche perché li è l'abitazione di Dio.
Ma non è nemmeno la fede per la liberazione, per la dignità umana, nella progettualità del progresso scientifico, tecnologico, nel potenziamento, fin quasi all'assolutizzazione, della ragione economica, del potere politico e conseguentemente militare.
Dovunque è in aumento, in crescita paurosa, la devozione del computer e la religione, la fede nei robot sta realizzando i suoi popoli, disciplinatamente perfetti nella sottomissione e nell'obbedienza a garanzia di produttività.
Non siamo dei nostalgici, è chiaro, ma gente che ha amato e ama la classe operaia, ha creduto e confidato disperatamente nel sindacato e nella viva e sofferta attesa dell'alternativa di sinistra.
Ma anche qui forse la strada sulla quale abbiamo camminato e camminiamo, è a imbuto.
Con la differenza che qui disgraziatamente non si tratta soltanto di noi, ma di tutto il mondo del lavoro: mondo del lavoro e cioè quello operaio dipendente, quello artigianale, agricolo, del diploma. E tanto più in maniera e misura sconcertante, la disoccupazione, questo capro espiatorio sempre più sacrificato alla divinità della tecnologia e della produttività.
Non abbiamo perduto questa Fede: diversamente non saremmo qui a scavare, al di sotto della sopraffazione, le radici di possibilità di rapporto umano fra mondo del lavoro e "civiltà tecnologica", fra la dignità dell'uomo del lavoro e "emarginazione e sfruttamento" come è scritto nel manifesto del convegno.
Non abbiamo perduto questa Fede, ma è giocoforza costatare che forse anche questa Fede operaia non basta più: a meno che non riesca a indicare, adesso come una volta, possibilità e capacità di lotta.
Quale Fede allora per interrogare i cosiddetti progetti?
Il problema è complesso e ci auguriamo che il coraggio col quale l'affrontiamo in questo nostro convegno, sia premiato, se non altro, per l'individuazione di prospettive o almeno di chiare e fondate speranze. Perché più che tutto oggi forse c'è bisogno e urgente, di speranze. Se non altro e prima di tutto di speranza che l'umanità non cammini più verso l'autodistruzione e che i pazzi che la governano non siano pazzi del tutto.
Vorrei concludere queste mie lamentazioni di Geremia profeta, con le parole che sono incise sul monumento della Pace innalzato ad Hiroshima: "lo ho in cuore sogni eterni, come un bambino che non sa odiare".
Non so quanto la Fede in Dio e nell'umanità può aiutare nell'interpretazione dei progetti... ma meno ancora forse è possibile intuire se e quanto nei progetti vi è o vi può essere Amore.


SIRIO POLITI
Viareggio


Dialogo pretioperai italiani e commissione C.E.I.

dal dicembre 1981 al febbraio 1985
INIZIO DEL DIALOGO
In occasione del Convegno nazionale dei PO a Frascati (5-8 marzo 1981) Mons. Battisti, Presidente della Commissione Cei per i problemi. sociali e del lavoro, invia una lettera in cui afferma che i Vescovi italiani prestano particolare attenzione all'esperienza dei PO e dichiara la volontà al dialogo, rilevando però due "nodi", come condizioni per una corretto sviluppo del confronto: la salvaguardia del primato del sacro ministero e la necessità che l'esperienza PO diventi espressione di chiesa.
Durante il Convegno viene data una risposta: si assicura la piena disponibilità al dialogo, richia-mando però la necessità di superare rotture ed emarginazioni; e quanto ai "nodi" si sottolinea che non devono essere precondizioni al dialogo perché "sia la fedeltà a Gesù Cristo nella comunità dei credenti come la fedeltà alla classe operaia costituiscono una radice permanente della nostra vita."
(Cfr. Bollettino di collegamento, anno 3° n.2).

1° INCONTRO:
A Roma, 5 dicembre 1981, presso la sede CEI. Sono presenti una decina di PO, mons. Battisti (Presidente della commissione), Giachetti, d'Ascensi e Charrier.
I vescovi presenti si sono limitati ad "ascoltare e capire" la situazione del movimento operaio e la "storia" delle nostre scelte di incarnazione per condividere esistenzialmente la condizione della gente che lavora.

2° INCONTRO:
a Bologna, 27 febbraio 1982. Sono presenti 18 preti operai, mons. Battisti, Giachetti e Liverani. L'incontro avviene in un clima di schiettezza e rispetto reciproco. Si evidenziano due punti di vista chiaramente diversi: i Vescovi rilevano la necessità di conoscere il senso che ha avuto e che ha per molti di noi la militanza nelle strutture storiche della classe operaia (i famosi "nodi"), mentre i PO affermano il loro diritto dovere di fedeltà alla scelta fatta di incarnazione in condizione operaia.
Al termine si concorda il tema per il prossimo incontro: "Quali le condizioni per l'evangelizzazione della classe operaia e quali i prezzi da pagare? Quale l'evangelizzazione alla chiesa dalla classe operaia?"

3° INCONTRO:
A Bologna, l0 dicembre 1983. Sono presenti 16 PO, mons. Quadri (nuovo Presidente della commissione), Battisti e Charrier.
La riflessione e il confronto si incentrano sulla comunicazione preparata dal coordinamento na-zionale dei PO.
(Cfr. Bollettino di collegamento N°3 - 1983 e N°2 - 1984).

4° INCONTRO:
A Bologna, 23 febbraio 1985.
Sono presenti 15 PO, mons. Quadri, Battisti e Charrier.
Questo incontro è stato preceduto da uno scambio di lettere e documentazioni (Fiat, Zanussi) tra la segreteria dei PO e mons. Battisti al fine di definire l'argomento su cui far convergere le riflessioni e il confronto. Viene individuato il seguente tema: Le nuove tecnologie e le conseguenze che dalla loro introduzione derivano nella fabbrica e nella società.
Al termine dell'incontro viene ufficialmente rivolto ai PO l'invito a partecipare al Convegno di Loreto.
(Cfr. Bollettino di collegamento N°l - 1985 e N°2 - 1985).

ATTUALMENTE:
Il nuovo Presidente della Commissione, Mons. Charrier, ha fatto conoscere alla segreteria dei PO la sua volontà a continuare il dialogo, invitando a programmare un nuovo incontro.


Chiesa della pace o Chiesa delle stellette?

Un libro di Giuseppe Socci

Quindi un Vescovo, quindi 250 sacerdoti, una curia, un organico pastorale, un Seminario per avviare le vocazioni al Sacerdozio guerriero. Il tutto con le stellette dell'esercito.
La Chiesa nelle caserme e le caserme nella Chiesa.
Con la protezione del santo patrono, S. Giovanni da Capestrano, un guerriero religioso e un religioso guerriero del 1400, è stata ravvivata la pastorale all'ombra dei cannoni e dei missili, per le reclute, i permanenti, le gerarchie, il ministero della difesa ecc. Anima e fede di questa pastorale è Mons. Gaetano Bonicelli, il Vescovo più pubblicizzato dal quotidiano cattolico "Avvenire" e sempre fedelmente con le stellette.
Una sua "pastorale" per il Natale dell'85, scritta più con la spada che con il cuore, non è stato possibile sopportarla serenamente, almeno da parte nostra, accaniti sostenitori della sintesi di ogni male che è la guerra e che guerra significa e guerra comporta.
Don Beppe l'ha sottoposta questa lettera ad una esegesi puntigliosa, caustica, come è nel suo stile, ma altrettanto serena e persuasiva.
Don Sirio ne ha scritto l'introduzione semplicemente prospettando la facilità e il dovere ecclesiale della cancellazione dalla realtà pastorale della Chiesa, del Vescovo militare e del rientro nelle rispettive diocesi dei 250 preti cappellani militari, rimettendo alle diocesi e alle parrocchie la cura spirituale dei soldati, ma è chiaro, non quella dell'esercito.
Naturalmente, per onestà, è pubblicata la lettera-pastorale del Vescovo con le stellette: può essere una curiosità conoscere cosa pensa e scrive un Vescovo che nel frattempo è un generale di corpo d'armata, alla sua chiesa che è nelle caserme.
Chiude la pubblicazione la narrazione e con i relativi documenti dagli Atti dei Martiri, del processo e del martirio di S. Massimiliano, un giovane cristiano di 21 anni, obiettore di coscienza al servizio militare, nel terzo secolo.
Può essere che sia un Santo che non rientra nella pastorale delle caserme come invece è celebrato il santo patrono. Pensiamo però che in quest'epoca del nucleare S. Massimiliano sia un giovane santo di grande attualità e da pregare con particolare fervore.
Pubblica il libretto, su carta riciclata la rivista "Qualevita ", piccolo ma significativo gruppo editoriale diretto da Pasquale Jannamorelli di Sulmona.
Avremmo desiderato inviarne una copia ai Vescovi della C.E.I. ma non possiamo sostenerne la spesa. Preghiamo gli amici di farlo avere al loro Vescovo, Arcivescovo, Cardinale: una presentazione a mano sarebbe ottima occasione per un colloquio sulla pace, disarmo, le responsabilità della Chiesa ecc.
Richiedere a: EDIZIONI QUALEVITA Via Buonconsiglio, 2
67030 Torre dei Nolfi (AQ)

Esperti in umanità

Una diocesi per le stellette.
A proposito della nuova normativa introdotta con una Costituzione Apostolica, per i Vicariati Castrensi. I titolari con dignità episcopale, potranno erigere seminari.
Offriamo esperti in umanità al vescovo della diocesi con le stellette in Italia mons. Gaetano Bonicelli generale di corpo d' armata e presidente in Italia del centro di orientamento pastorale.
"Spirituali militum curae" - Maggio 1986. Nella costituzione di queste diocesi si parla anche di seminari per la preparazione dei futuri cappellani militari, penso che vi sia bisogno di professori e di direttori spirituali per gli aspiranti, possiamo presentare alcuni dandone delle referenze, questi vengono dal Sud America, purtroppo non sono esperti nella teologia della liberazione ma nella teologia della morte. Da Nunca Màs (speciale ASAL-Rapporto della commissione nazionale sulla scomparsa di persone in Argentina) pag. 288
"Nel 1977 ero agente della polizia della provincia di Buenos Aires. Alla fine del 1977 o agli inizi del 1978 vengo chiamato nell'ufficio del commissario generale, in presenza del padre Cristian Von Wernich... e sono invitato a dire se con un colpo di judo riesco a stordire una persona, rendendola incosciente, nel piccolo spazio della parte posteriore di una macchina...
In un' altra occasione ci viene detto che sarebbero stati prelevati dalla sede della brigata di La Plata tre sovversivi "quebrandos" (vinti sottomessi), i quali avevano collaborato con la repressione, per essere inviati all'estero, secondo quanto era stato loro promesso... Usciamo dalla sede del comando con tre macchine.
Nella sede della brigata investigativa di La Plata ci aspettava il padre C. Von Wernich, il quale aveva parlato con gli ex sovversivi, li aveva benedetti, ed aveva organizzato per loro una festa d'addio... Nella macchina n.3 in cui mi trovavo, c'era pure il padre C. Von Wernich... quando il giovane di circa 22 anni vede l'arma, si lancia contro ed inizia una colluttazione; mi vedo quindi obbligato a dargli vari colpi in testa col calcio della mia pistola, provocandogli varie ferite; egli sanguina abbondantemente, tanto che il sacerdote, l'autista e noi due che ci trovavamo vicino veniamo macchiati... I tre veicoli raggiungono una stradina laterale, in terra battuta, affiancata da alberi e li si trova l'ufficiale medico dott. Bergè. Si fanno scendere i tre ex sovversivi (due donne e un uomo) che in quel momento erano ancora vivi. Li buttano sull'erba ed il medico fa due iniezioni a ciascuno di loro, direttamente al cuore, con un liquido rossiccio che è un veleno. Due muoiono, però il medico li considera morti tutti e tre. Vengono caricati su un furgoncino della brigata e portati ad Avellaneda. Noi andammo a lavarci e cambiarci perché eravamo macchiati di sangue. Al comando di polizia... il padre Von Wernich mi parla in privato, perché ero rimasto molto impressionato per i fatti; mi dice che ciò che avevamo fatto era necessario, che era un' azione patriottica e che Dio sapeva che era in favore del paese." (Pag. 288/289).
Ecco un' altra testimonianza a pag. 291.
"Il padre Amador ci manda da monsignor Grasselli, allora segretario del vescovo castrense (=diocesi con le stellette ndr) il quale ci dice che i ragazzi si trovano in un periodo di riabilitazione in "case" create a tale scopo e che sono ben trattati".
Ecco dal racconto di una madre un esempio di come riabilitavano e trattavano bene i ragazzi: "Fu spaventoso: di un giovanotto di 22 anni, studente di ingegneria e lavoratore, robusto (praticava il canottaggio) di bell' aspetto, rimaneva un corpo lacerato, selvaggiamente torturato, con bruciature in tutto il corpo, con la bocca maciullata, senza alcun dente, con labbra e gengive bruciate, era privo degli occhi e nei polsi aveva delle piaghe impressionanti, che indicavano il lungo tempo in cui era stato tenuto ammanettato."( Pag. 459).
Mons. Frassell: "Afferma che Videla (presidente dell'Argentina dal marzo 1976 al marzo 1981, "trentamila desaparecidos sono il prezzo che si è dovuto pagare", condannato all'ergastolo) è l'anima caritatevole che ha preparato questo piano per salvare le anime... dice che coi giovani lavorano psicologi e sociologi che ci sono gruppi di medici per la salute; a coloro che sono irrecuperabili è facile che qualche misericordioso faccia una iniezione e così possono dormire per sempre". (pag. 291).
Questi patriottici cappellani danno esempio con la loro presenza di vita militare e impegno cristiano "nelle carceri di Caseros, nel marzo del 1980 fui sottoposto a sessioni di tortura dal capo della caserma Requisa, insieme al capo del centro, alla presenza del sacerdote Cacabello, perché mi ero rifiutato di collaborare con loro" (Pag. 291).
Quest'altro insegna la prova più impegnativa dell'amore: servire!
"Le domeniche il cappellano Pelanda Lopez mi faceva una breve visita in cella, parlando brevemente con me: arrivava a giustificare la tortura. Una volta un prigioniero gli disse: padre durante gli interrogatori mi stanno torturando terribilmente; la prego di intercedere affinché non mi torturino più. Pelanda Lopez rispose: bene figlio mio, però cosa pretendi se non collabori con le autorità che ti interrogano." (Pag. 292). ,
C'è anche l'esempio di un vescovo zelante: "ricordo che durante la mia permanenza in carcere il vescovo di Jujuy monsignor Medina celebrò una messa e durante l'omelia disse che era al corrente di ciò che stava succedendo, però che tutto ciò era per il bene della patria, che i militari agivano bene, che dovevamo comunicare tutto ciò che sapevamo e che per questo lui era a nostra disposizione per le confessioni" (Pag. 292).
Ci si domanda: cattiveria di uomini o inserimento cieco in un sistema di oppressione dove non si può stare se non opprimendo unendoci agli oppressori? Questi cappellani militari argentini e il vescovo Medina hanno deriso degli inermi, si sono inseriti nella storia per bestemmiare il regno di Dio. Il loro modo di agire ha reso ridicolo il Dio di Gesù Cristo e non hanno certamente insegnato con la vita.
"Cari giovani: siete l'alba del nuovo giorno. Scendete dal cavallo della vostra indifferenza per gli altri. Abbiate il coraggio d'impegnarvi fino in fondo, subito, dando senso pieno anche al vostro servizio per la patria. (Lettera pastorale di Gaetano Bonicelli, vescovo castrense "Vita militare e impegno cristiano").

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