LOTTA COME AMORE: LcA maggio 1987

Riscoprire la semplicità

"Il regno dei celi è simile ad un mercante che va in cerca di perle preziose. Quando ha trovato una perla di grande valore. va a vendere tutto quello che ha e compra quella perla". (Mt. 13,45)
Questo "ri-scoprire" non è perché nei tempi passati esisteva la semplicità come una condizione normale di vita, di rapporti, quasi che la semplicità fosse l'aria che si respira. Come dire: una volta la gente era semplice, tranquilla, serena, si contentava di niente e tutto era felicità... Non è vero, anche i tempi passati non erano un idillio di semplicità, di schiettezza, di serenità, di pace. Ogni tempo, disgraziatamente, ha le sue "complicazioni": quel qualcosa di strano, d'incomprensibile, di assurdo che inquina maledettamente il clima, fino a stravolgerlo in un' aria irrespirabile, in un'acqua imbevibile, cioè a far si che la vita, il vivere e il convivere, diventino difficile, pesante, opprimente e cioè complicato. La storia insegna che la semplicità è un assurdità. Il facile è impossibile. Perfino il normale, la normalità è inconcepibile.
Vivere "come gli uccelli dell'aria e i fiori dei campi" è un sogno, un utopia che ha palpitato nel cuore di Gesù Cristo perché era Dio e cioè "non di questo mondo". Appartenere a questo mondo è essere oggetto della sua vicenda sempre così terribilmente complessa fino ad esserne inevitabilmente coinvolti e spesso travolti. È essere imprigionati dalla sua civiltà e cioè dominati da quella cultura, attentamente e intenzionalmente, organizzata, perché un individuo, una società, un popolo, una razza, una religione, non possa trovare nemmeno lo spazio - nemmeno il più piccolo spazio - per vivere con semplicità, cioè nella libertà, nella pace, la propria vita.
Pensare cioè liberamente, disporre di se e delle proprie cose indipendentemente, rifacendosi unicamente alla propria coscienza, e cioè agli ideali, alle utopie, ai sogni, costitutivi della propria verità e identità.
Perche fra semplicità e libertà la differenza, la variazione è minima e sta forse tutta nell'antecedenza. Sta il fatto che senza semplicità, cioè una voglia incontenibile, un bisogno irrimandabile di semplificazione, la libertà e quindi la liberazione può avere significati politici, novità di rapporti sociali, lotta con più o meno valenze e importanze storiche ecc. e può non comportare, non ottenere capacità di giudizio oggettivo, di linearità e onestà personale, chiarezza e trasparenza d'ideali e di comportamento pratico, concreto, di libertà, di giustizia ecc.
Difatti è a seguito di un'impostazione semplice delle vita personale che è possibile evitare quello scoglio o fossato che sia, dell'intenzionalismo.
È l'intenzionalismo, cioè il pensare, programmare, organizzare, concretizzare, l'impiego, l'utilizzazione del se stesso e del proprio intorno e contorno, a linee fisse e a finalità accuratamente, prestabilite e fissate, la complicazione più assolutizzata, un intreccio che ammette un unica soluzione, una trama che deve condurre, per amore o per forza, ad un solo, prestabilito scopo.
È di qui che la complicazione esige e comporta la violenza. Non può fare a meno dell'imposizione, della costrizione, della prepotenza. Cioè di interventi manovrati, di scelte e di respinte accurate, di aridità e spietatezze inflessibili.
In fondo la complicazione è solo un modo artificioso di affrontare la vita, l'esistenza, la realtà delle cose. È una volontaria falsificazione, una forzatura a significare ciò che non è vero, una volontà di soggettivizzare anche contro ogni oggettività. E perché questo stravolgimento della realtà sia possibile e giustificabile, il ricorso è alla trama, al rannodo, al rendere tutto difficile, misterioso, incomprensibile, e cioè terribilmente complicato.
E così tanto che soltanto il potere, l'autorità può sciogliere i nodi, soltanto la cultura, l'intellettuale, la legge, l'ecclesiastico, il magistrato ecc. (e cioè tutti quelli e tutto ciò che ha provocato la complicazione) possono risolvere l'intrico dei problemi, schiarire il torbido dei rapporti, offrire qualche spiraglio di luce e un po' di fiato alla speranza: sgombrare cioè o almeno ridurre la complicazione, così che un po' di semplicità possa tornare a sorridere.
Ma sono antichi sogni, fin da quando è l'uomo "sapiens'', continuamente accesi e puntualmente e spietatamente spenti. Tanto più in questi nostri tempi moderni dove la complicazione più intricata domina incontrastata la politica, l'economia, la cultura, la Chiesa, i rapporti sociali, la convivenza delle razze, dei popoli, fin dentro l'intimità famigliare, gli spazi dell'amicizia, l'interiorità e i comportamenti personali. Forse assai più di quanto s'immagina, l'umanità e la sua storia potrebbe realizzare il cambiamento da disumanità ad umanità, anteponendo, con scelta chiara e coraggiosa, la semplicità della comunicazione. Sarebbe forse una scelta come fra pace e guerra, libertà ed oppressione, fraternità e violenza...

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Riscoprire la semplicità vuol dire cercare seriamente la conoscenza dell'uomo. È ottenere una visione in trasparenza dei veri valori. E' creare la capacità immediata di scoprire la profondità del mistero umano cogliendo, nel suo fondo abissale, la più intima essenza della sua ragion d'essere e dalla radice della propria profondità risalire a scoprire, sempre nella trasparenza cristallina della semplicità, la meravigliosità del mondo circostante. È allora che può apparire l'ingenuo e dolcissimo incanto della bellezza, ascoltarne con rapimento la musicalità, avvertire il muoversi segreto del fiorire l'Amore. Perché la semplicità è il silenzio che sussurra la poesia più preziosa quella scritta nelle piccole cose, in ciò che è niente e colma di pienezza, fino al punto di comunicare la gioia di contentarsi di tutto .

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Riscoprire la semplicità è la via giusta da percorrere, con pazienza e dolcezza, per liberarsi dalla prigione del proprio egoismo, dall'intrico inestricabile nel quale ci ha raggomitolato la nostra grettezza, dall'infelicità della fatica, spesso drammatica, dell'assolutizzazione delle nostre idee, dei nostri piani congegnati nel buio fondo della nostra istintività orgogliosa, pretenziosa e spessissimo stupida assurda. Percorrendo la via della semplicità è sfociare dove il more può respirare liberamente, perché ogni senso proibito od obbligato cade, i confini si aprono, perfino gli orizzonti si dilatano... È il vivere allora nella spaziosità, senza timori e angosce, perché nessuna pietra è un inciampo, né uomo o donna un problema e meno ancora un nemico...

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Riscoprire la semplicità è il dono di grazia per ottenere l'incontro cuore a cuore con Dio. È trasferire nella propria interiorità e cioè nel vivo e vivente bisogno di Dio, di conoscenza, di comunione con Lui, fino all'ottenimento della misteriosa identità, la essenzialità dell'essere di Dio, cioè la sua semplicità.
L'unicità di Dio è la riprova della sua semplicità.
Il suo essere unicamente Amore è garanzia del suo essere semplice per una semplificazione incessante alla quale conduce il suo essere Amore.
È l'essere Dio principio e fine, inizio e compimento di tutte le cose che dona alla semplicità di essere l'unicità dell'esistenza: "cielo e terra passeranno, diceva Gesù, ma le mie parole non passeranno". Tutta l'inimmaginabile complicazione della storia passerà ma la semplicità, perché è Dio, non passerà .

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È in questa semplicità che può essere unicamente ottenuta una sincerità di fede. Tutta la complicazione religiosa (questioni teologiche, raffinatezze liturgiche, ritualità, devozioni, ministeri, clericarismi, cavillismo giuridico, moralistico, pastoralistico ecc.) non serve se non a complicare e cioè appesantire, soffocare la fede.
"Tu invece, quando vuoi pregare, entra in camera tua e chiudi la porta. Poi, prega Dio, presente anche nel segreto. E Dio, tuo Padre, che vede anche nel segreto, ti darà la ricompensa".
"Quando pregate non usate tante parole come fanno i pagani: essi pensano che a furia di parlare Dio finirà per ascoltarli... Voi dunque pregate così: Padre Nostro... ".
Forse la semplicità è tutta in quest' ultima parola.

Due lettere di Fratel Arturo

Cari Amici italiani
da molto non vi scrivo; la colpa è mia solo in parte, perché vorrei che i responsabili della rivista Lotta come Amore, mi avvisassero per tempo: so che don Sirio è stato ammalato per lungo tempo spero che ora stia meglio, lo tengo presente; lui sa che lo amo molto e lo raccomando al Signore e so che Lui lo ama certamente molto più e molto meglio di me. Non mancherebbero argomenti per scrivervi; sapete che quando scrivo sulla Rocca o su Nigrizia, mi sento in dialogo con voi quindi non è solo questa lettera il mezzo di comunicazione. È inutile che vi ripeta di avere poco tempo, perché il tempo è universale, e voi lo conoscete come me, e in fondo si tratta di saperlo usare e di distinguere quello che è più utile e quello che lo è meno: il tempo si piega alle nostre necessità.
Gli avvenimenti personali di questo tempo sono molti; le visite degli amici italiani che mi hanno portata tanta gioia anche perché ho sentito che i membri della mia comunità si sentivano bene con loro. Non possiamo nascondere che non tutte le visite sono felici perché una comunità specialmente una comunità in formazione come la nostra, ha bisogno di vivere in continuità con un certo ritmo. Guardando criticamente uno ad uno i membri della mia comunità non posso dire che abbiano delle esigenze di comodità, ma hanno certamente delle esigenze di incontrarsi, di pregare insieme, di critica e seriamente a fondo di certe scelte e certi comportamenti. Devo dire che le visite di quest'anno non hanno turbato questo ritmo e la loro presenza ci ha certamente aiutato. Forse la comunità è più matura e più capace di salvare il proprio spazio. Direi che stiamo passando un momento buono; tutti convenite che una comunità non è una cosa facile quando non vogliamo che sia un pensionato o un asilo di anziani; una comunità mista che mette a confronto le due parti dell'umano che spesso nella società in cui viviamo, sono incapaci di complementarità, è necessariamente dialettica, e non sempre -lo confesso - ho accettato con quell'abbandono che il Signore mi esigeva, le difficoltà che sorgevano; Oggi lo ringrazio perché comincio a vedere delinearsi la possibilità di contribuire al progetto-regno di Dio.
Il secondo avvenimento è stato quello del mio compleanno (30 nov). Lo sottolineo perché è un avvenimento che in questo momento mi causa una certa sofferenza. La notte del 29 stavo tranquillamente conversando con i miei fratelli, quando ho aperto la porta di casa e fuori stava attendendo una piccola folla (erano una settantina di persone) che rappresentavano le famiglie del barrio che erano venute in processione alla nostra casa portando delle torte enormi per festeggiare il mio compleanno. Nella mia lunga vita non ero mai stato festeggiato in modo così corale e organizzato: abbiamo scoperto poi che il mio compleanno era stato il contenuto di riunioni fra loro, di programmi decisi democraticamente. E mi ha commosso che operai che arrivano a casa stanchi e con molti problemi, abbiano trovato spazi per occuparsi del mio compleanno.
Nello stesso mese di novembre ero tornato in Argentina e avevo messo al centro del mio programma argentino, rinnovare la mia residenza visto che non sono riuscito ad avere un visto permanente in Brasile. Di fatto in Argentina è stato facilissimo e molto rapido il rinnovo della mia residenza e insieme mi sono arrivate molte offerte di partecipare a iniziative che mi attirano molto per il loro contenuto e la serietà dei promotori. Questo ci ha portato a progettare la possibilità di trasferirci a un luogo di frontiera che mi permettesse di tenere un piede in Brasile e uno in Argentina, Paraguay; Uruguay. Da lontano la vedrete come una pazzia; di fatto stiamo pregando e supplicando lo Spirito Santo di farci vedere se veramente Lui lo vuole e se lo vuole che ci venga in aiuto. Non si tratta solamente del trambusto che comporta un trasferimento di parecchie centinaia di chilometri ma anche della spesa e di molte altre conseguenze.
Ecco perché l'avvenimento del mio compleanno mi lascia una certa amarezza, perché non so se la gente sospetta qualcosa, o è semplicemente un frutto del tempo; il fatto è che ultimamente la gente si è attaccata a noi tenacemente e dimostra in tutti i modi che ci ama; sinceramente quando penso di dover dire che me ne vado sento stringermi il cuore. L'amore è sempre un gran pasticcio: si soffre quando non ci si sente amati troppo, chi ci capisce è bravo. Forse in cielo godremo l'amore senza problemi; ma esiste l'amore senza problemi? Se Dio è dovuto scendere in terra e assumere la problematica della nostra esistenza per vivere pienamente l'amore, questo forse vuol dire che la sofferenza è intrinseca all'amore; capite che se mi tormento con questa problematica è perché realmente sto soffrendo, anche se sono disposto, se Dio ce lo chiede, a rinnovare la mia sofferenza ormai periodica che è la separazione. Penso costantemente al Nicaragua alle sofferenze di questi popoli sudamericani in cui Dio - sono sicurissimo che in questo caso non nomino il suo nome invano - mi ha portato a vivere. Sono sicuro come dissero i Vescovi a Puebla, che il Signore passa in questo momento storico per l'America latina; la mia preghiera è fatta di questa condivisione. Sono sicuro che qui, da questo martirio nascerà una maniera più umana e più evangelica di vivere la nostra fede cristiana.
Non so se arriverò con la mia lettera prima delle feste: mi ripugna mandare bigliettini stereotipati di auguri, a parte che ora non potrei sobbarcarmi le spese postali, poi perché? Voi sapete che vi porto nel mio cuore e vi ripenso uno ad uno frequentemente e questo importa;
Vi abbraccio e ricordatevi di me
Arturo

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Carissimi amici italiani;
Vi scrivo nell'ultimo giorno di carnevale che mi concede una festa di silenzio, di solitudine, di pace. I sei della mia comunità attuale sono partiti per la "romena della terra" che quest'anno è convocata a circa quattrocento chilometri da qui, in una località che si chiama "Cruz alta". La comunità mi ha consigliato di rimanere per un impegno pastorale che non mi prende molto tempo, e mi permette uno dei tanti viaggi che faccio "in spirito" per essere fra voi.
La "romena della terra" è una convocazione della Chiesa brasiliana per celebrare la terra come fonte di vita, la solidarietà con i contadini che hanno urgente necessità della terra, ed esplicitare una esigenza fondamentale di giustizia, perché la terra sia distribuita a quelle famiglie la cui vita è direttamente legata alla terra. Noi stiamo facendo i nostri bagagli, e una comunità di quattro si stabilirà in un quartiere popolare (villa) di una diocesi vicina, Santa Cruz, e l'altra, pure di quattro, a Foz do Iguaçù, alla frontiera di Argentina e Paraguay: il Brasile comunica per il ponte della fratellanza con Paraguay e dell'amicizia con l'Argentina; il perché di queste diverse denominazioni fa parte degli imperscrutabili segreti politici. Ho scelto la comunità di Foz per comunicarmi più facilmente con l'Argentina, dove stanno sorgendo fraternità che scelgono il nostro stile di vita. Il luogo mi permette di seguire la dolorosa e difficile gestazione politica dei tre paesi.
Il problema economico si fa più drammatico di giorno in giorno: si toglie il pane ai figli per darlo... a chi? I poveri devono pagare debiti che non hanno contratto e non hanno goduto e non godranno mai. Si criticano molto le spese voluttuarie del carnevale, ma anche qua in Brasile dove il carnevale è una istituzione la cui esistenza è necessaria come e più di quella di Dio è certo che il popolo brasiliano ha bisogno di cantare, di danzare, di esprimere la gioia che sono il terzo globulo del suo sangue, ed è forse quello che più direttamente ha infuso la razza negra nella cultura e nella etnia latino-americana, e particolarmente in Brasile. È anche certo che la festa è essenziale per tutti gli uomini a qualunque cultura appartengano; ma la organizzazione del carnevale mette in evidenza che è la festa che va incontro all'uomo, più che l'uomo che va incontro alla festa. Il carnevale è una riproduzione di quello che avviene nella società tecnologica che ha trasformato l'uomo da creatore di forme, in un uomo che serve alla moltiplicazione di forme che obbediscono alle richieste di mercato. È la forma che rende l'uomo schiavo, sia che si tratti di un automobile, di un aereo, di un areoporto, o di un missile. Analogamente la festa va incontro all'uomo con i suoi progetti, le sue forme previste e accettate. per esigenze commerciali. Nella produzione l'uomo entra nel processo di alienazione, con sofferenza e lascia nel prodotto il suo gemito e la sua protesta; nella festa entra nel processo di alienazione con scoppi di risa e movimenti ludici, ma il risultato è simile. È molto probabile che fra i critici del carnevale si trovino persone che non mettono nella colonna di "spese voluttuarie" la spese immensamente superiori, che si investono per la fabbricazione delle armi.
La società ha bisogno di esseri svuotati delle vere qualità umane che fanno la sua essenza, quella di amare, di creare, di crescere infondendo forma alla natura. Non riesco ad esprimermi in forme più semplici; ma vorrei comunicare la sofferenza di vivere con una generazione convocata a essere libera e felice, e ha tutte le risorse per esserlo, e non ne è capace. Confidavo ad una suora italiana questa fatica di vivere oggi, e lei mi diceva che proprio per questo raggiungiamo la radice della passione di Cristo che da la sua vita per fare l'uomo libero e felice; e la croce sarà sempre il simbolo di una vittoria che passa per una sconfitta. Credo che il cristiano è sempre un uomo felice che vive in un mondo infelice, e non vi vive come estraneo, ma come uno che è immerso nel mondo e assume la infelicità del mondo. È il mistero della nostra vita. L'importante è che Dio alimenti la nostra fede e che ogni giorno ci dia il coraggio di scendere dal letto, salutare il sole che nasce, prendere il nostro bastone di pellegrino e andare dietro a lui che cammina con la umanità fino ai limiti del tempo. Che la pasqua, amici miei, ci trovi nella colonna dell'Esodo, nel posto scelto da Dio, camminando con ottimismo e speranza dietro al Cristo pasquale che come ci ricorda la chiesa, porta sul suo corpo le piaghe diventate gloriose perché segno di amore. Mi riempie di gioia profonda il sabato santo ricordare le "vulnera gloriosa" le piaghe gloriose del Cristo. Fra non molto ci incontreremo e il molto nel tempo è davvero poco, avanzando nella vita, è sempre più poco;
Vi abbraccio con affetto di fratello
Arturo

Nuovo indirizzo: Cx.P. 793 Bairro Maracanà 85890 Foz do Iguaçu PR. Brasil

Arturo

"Pulizie pasquali"

In queste ultime settimane c'è stato parecchio movimento nel capannone dell'A.R.C.A. in via Virgilio. E, all'interno, sono usciti spazi nuovi a disegnare la mappa di un progetto ancora tutto ideale, ma cui stiamo preparando il terreno.
Ci ha sorpreso ancora una volta la quantità di cose che riusciamo ad accumulare fino a muoversi a fatica in uno spazio che piccolo non è. Non buttiamo mai via niente e scavare - perché a volte si è trattato letteralmente di scavare in veri e propri ammassi di ferri, legni, e attrezzi più diversi - è stato per ripercorrere il cammino fatto: una memoria di questi otto anni affiorava qua e là negli. oggetti che impietosamente venivano caricati sul camioncino.
Può presentarsi a diverse interpretazioni questa nostra difficoltà a sbarazzarci delle cose: pre-ferisco non analizzarla ne sublimarla in valori ma solo addebitarla ad una grande pigrizia e allo spazio di cui disponiamo.
Ogni tanto comunque "facciamo pulizia"! E il desiderio di aria nuova è connesso con idee che ci vengono in mente e che approfondiscono, correggono e attualizzano quel progetto iniziale che ci ha portato a lavorare in Darsena.
Questa nostra iniziativa si è venuta man mano sempre più caratterizzando come un luogo d'incontro tra una piccola parte affiorante nel sommerso mondo dell'handicap. Un incontro di per-sone che superando anche momenti non facili hanno sviluppato prima di tutto un profondo senso di amicizia per avviare un concreto cammino di integrazione sul piano del lavoro quotidiano.
Ci sembra che oggi sia venuto il momento di tentare un passo ulteriore offrendo questa nostra esperienza per una maggiore articolazione del difficile problema dell'inserimento di chi è emarginato nelle strutture del vivere sociale. Non sappiamo ancora precisamente in che modo perché non vogliamo fare passi avventati e ci interessa valutare bene tutta una serie di condizioni di lavoro e di collaborazione.
Stiamo intanto predisponendo nuovi spazi ed energie dedicate a questo progetto. La parte occupata dal ferro battuto - il ceppo originario alla cui ombra han potuto svilupparsi gli altri lavori - è stata ridimensionata per lasciare posto ad attrezzi per lavorare il legno e anche metalli leggeri.
Un luogo non più caratterizzato a settori, ma collegato in modo da favorirne l'apprendimento di tecniche diverse e la costruzione di oggetti composti anche di più materiali.
Io sto esaurendo alcuni impegni di lavoro e, alla fine di giugno, potrò dedicarmi interamente alla impostazione e allo sviluppo di un progetto di lavoro in cui verranno coinvolti altri ragazzi con handicap e persone in grado di collaborare.
Dovremmo riuscire in ogni caso a uscire un poco di più dalle mura del capannone non tanto per "fare" altre cose, ma per sviluppare un confronto, offrire occasioni di provocazione ad una maggiore sensibilità e riflessione intorno ai temi della vita vissuta nelle condizioni e con le capacità più diverse.
Mi sembra che negli anni trascorsi lavorando a volte fino allo sgomento ci legittimiamo in questo desiderio umile, ma fermo, di una maggiore caratterizzazione politica del nostro lavoro. Politica, legata cioè alla città, al territorio, alla realtà concreta nella quale viviamo e della quale vogliamo essere partecipi: venti uomini e donne che, nei loro limiti e nelle loro capacità, vogliono crescere anche il numero per affermare un concreto diritto all'autosufficienza attraverso una seria impostazione di lavoro. Non un gruppo di "poveretti" assistito (e la parola ha il peso di una pietra tombale) da quattro cristiani di preti.
Un sogno? Senz'altro, un idealità da amare con profondo rigore e serenità di coscienza: senza pigrizie che lasciano accumulare "recuperi" di intenzionalità spiritualiste da "appassionati dell'opera buona", vecchia attrezzatura ingombrante della quale è sempre difficile sbarazzarsene perché viene molto apprezzata dalla gente cui fa tanto comodo demandare ad altri i concreti impegni di solidarietà.
Da queste pigrizie dovremmo guardarci - e non è mai così facile come sembra. Alla pigrizia che ci fa lasciare nell'ingresso del capannone fiaschi vuoti, cianfrusaglie varie, spazzature di carta e biciclettame forse possiamo più comprensibilmente lasciarci andare. Anche se poi siamo noi per primi a sputare sentenze sull'importanza delle piccole cose...

Luigi

Come un filo di paglia

Questa è una semplice "meditazione" a partire dal contatto con la materia umile e modesta che ogni giorno, nella mia vita di lavoro, passa (ed è passata) attraverso le mie mani. Mi piace partire da questa realtà molto materiale per cercare di comprendere il significato di ciò che appartiene al regno dello "spirito".
Da quando ho iniziato a vivere di lavoro manuale (nel 1968) la "materia" con cui mi sono guadagnato il mio pezzo di pane è stata varia e molteplice: all'inizio, per due anni, la terra. Come bracciante agricolo, insieme ad un mio carissimo amico e compagno di viaggio, le mie mani hanno imparato a manovrare la zappa, la vanga, le forbici per potare, la falce da fieno... e anche il trattore. Tutti strumenti molto consistenti, ben solidi per i quali erano necessarie le forze giovanili! Poi sono passato - nel procedere delle scelte e nell'andare dietro ai sogni - ad un elemento molto meno compatto, mosso, assolutamente mai fermo: l'acqua del mare. Vita di pescatore, sulle barche delle flottiglia peschereccia di Viareggio, dopo il mio approdo alla Chiesetta della Darsena. Le mie mani hanno imparato a manovrare le reti, i cavi, le cime; a scegliere i vari tipi di pesce, materia viva e lucente, riflesso straordinario della sovrabbondanza della Creazione, nella grande varietà delle sue creature. Anche se lo stare per molte ore sempre su di un elemento in continuo moto, non era molto consolante per il mio stomaco di "terrestre"... Così sono riapprodato a terra, alla solidità di uno spazio - sia pure vicinissimo al mare - dove ho preso familiarità con una materia molto più consistente: il ferro, per la costruzione di grosse barche da pesca. Tempo della mia vita operaia, come manovale nel cantiere navale. Materia dura, pesante, che dava l'idea di lavorare per qualcosa di molto sicuro, permanente, di lunga durata. Materia antica nella storia del lavoro, carica di fatica, di sudore, estratta dal buio delle miniere alla violenza della luce degli altiforni. Per me questo è stato il tempo del cartellino da timbrare, del pranzo consumato in fretta, dei problemi sindacali, dei rapporti stretti con i compagni, degli scontri per la salute e la sicurezza nel lavoro con una dirigenza tante volte poco chiara... E tante ore passate dentro i "doppifondi", per uno strano lavoropreghiera fatto di schiena piegata e di ginocchia indurite al contatto prolungato con la materia compatta e solida del ferro...

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Ora, da alcuni anni, attraverso le mie mani abbastanza segnate da questo scorrere di cose di vita, passa frusciando molto sommessamente un semplice "filo di paglia". È il mio nuovo mestiere di "seggiolaio", impagliatore di sedie per il riposo. della gente, secondo una tradizione contadina molto antica: una manciata di fili di paglia (un'erba palustre) che piano piano viene ritorta e intrecciata in modo da formare un unico filo che realizza, alla fine, il sedile della sedia. È partendo da lui, materia povera e fragile, che mi appare con chiarezza il senso "interiore" di una vita che molto probabilmente ha assunto sempre più le caratteristiche della povertà e della debolezza. E nello stesso tempo la fiducia, della speranza e della forza. Perché il piccolo e fragile filo d'erba che da solo non sarebbe capace di sostenere assolutamente niente, intrecciato con molti altri suoi compagni d'avventura e di destino, riesce a diventare capace di accogliere pesi notevolmente consistenti. Immagine di una possibilità - sempre tenue e umile - ma realizzabile, di una storia umana costruita non sui valori della potenza e del dominio, ma su quelli che nascono dalla comunione, dell' amore, dall'amicizia, dalla partecipazione fraterna al mistero della vita.
Quel filo di paglia che ogni giorno mi fruscia fra le mani mi sembra come una parabola del soffio dolcissimo dello spirito di Dio nello scorrere intricato delle vicende umane. Quasi un segno - umile ed insieme tenace - di un Amore che mi pare abbia sempre segnato il cammino, indicato la rotta, tracciato la pista.
E nello stesso tempo, quell'umile e fragile filo di paglia - che trova consistenza e robustezza nel non rimanere solo ma nell'unirsi stretto stretto a tanti altri fili suoi "fratelli" di destino - mi aiuta a riconoscere il valore di una vita spesa insieme a tanti altri nella ricerca - umile, fragile e tenace del regno di Dio.
Ho sempre più chiara coscienza di non essere altro - anch'io - che un semplice filo d'erba palustre, cresciuto nel vento, nel sole e nella pioggia della vita, carico di luce, di riflessi di cielo, di energie salite dal profondo della terra, colmo di una grande fragilità e debolezza. Però riconosco con altrettanta chiara coscienza che una mano paziente non si è stancata di stringerlo e intrecciarlo nello scorrere dei giorni perche ne venisse fuori qualcosa di buono. Non so davvero giudicare il risultato del lavoro instancabile dell'Artigiano che si è dedicato con tanto amore all'impresa.
Mi da coraggio e fiducia l'idea che quella mano non si stanchi di intrecciarlo, finché vorrà, insieme con molti altri fili perché ne venga fuori un "prodotto" a misura dei suoi progetti.

don Beppe

Pretioperai

Siamo molto contenti di comunicare agli amici di Lotta come Amore l'inizio della pubblicazione di un periodico intitolato Pretioperai. L'idea venne fuori l'anno scorso di maggio al Convegno Nazionale di Firenze. Un incontro intenso, programmatico. Fu avvertito il bisogno, forse anche la sensazione di un dovere, di comunicare, di allargare quella problematica che ormai investe e sempre di più, tutta la realtà di questo nostro tempo, e particolarmente quella del mondo operaio, del lavoro, della convivenza, niente escluso. Il tutto nella complessità della presenza del coinvolgimento della Chiesa attuale in una chiara, fedele ma anche spregiudicata visione di Fede. Quella Fede totalizzante che "illumina ogni uomo che viene in questo mondo".
L'esperienza pretioperai è ormai lunga di anni, ma particolarmente d'ideali, di utopie, di sogni. Anche di tanta, inesauribile fedeltà al mondo operaio, dei poveri, degli emarginati. Fedeltà, nonostante ogni impressione impietosa e facilona, alla Chiesa per un chiarissimo e trasparente rapporto di Fede. Non sta a noi, pretioperai, giudicare se questa lunga e tormentata esperienza, fa parte in maniera viva e vivace, della misteriosa ma anche storica, ricerca del regno di Dio nel mondo.
Ci è sembrato con tutta semplicità, che il mantenere la memoria di questa esperienza, attualizzarne la storia e comunicarne a cuore aperto la concretezza attuale e le prospettive future, fosse cosa buona: un raccontare cioè la continuità di quella fedeltà.
È già uscito il primo numero (o come si dice il numero "0").
Contiene gli atti del convegno di Firenze il cui tema fu "Civiltà tecnologica - Sfruttamento -Emarginazione: La Fede interroga i progetti".
Mi sono permesso - ma gli amici me lo perdoneranno data la mia particolare anzianità di preteoperaio - di pubblicare sul giornalino la presentazione della rivista che i miei fratelli e compagni mi hanno chiesto affettuosamente di fare.
Il periodico uscirà ogni tre mesi: due numeri avranno un interesse organizzativo proprio del movimento P. O. e due particolarmente di contenuto di ricerca, approfondimento, chiarimento circa la Fede, la realtà del mondo, la Chiesa.
Chi desidera l'abbonamento (15.000 lire) può utilizzare il c/c n. 10564268 intestato e Gianni Alessandria - Via Verdi, 34 - 26032 OSTIANO (CR).
Sirio

Può anche essere che siano maturati i tempi nei quali dire: pretioperai, sia come invitare a voltarsi indietro a cercare di intravedere nell' annebbiamento che gli anni inevitabilmente addensano sul passato, questi tipi di preti che indiscutibilmente hanno fatto parlare di sé, questi strani operai ritrovati spesso, gomito a gomito, dentro la fabbrica, sulle strade, nel sindacato.
Bisogna riconoscere che il tempo in cui viviamo ha la capacità di un rapidissimo invecchiamento d'ogni cosa. Ma non tanto perché sopravviene il di più, il meglio, quanto per un impellente urgenza di cambiamento, di mutazione. Non è un problema di decadenza di valori, dell'arrugginirsi di esperienze, di logoramento di rapporti con la realtà del vissuto. È piuttosto lo scivolare del tempo che nel suo fluire porta via veri e propri periodi di storia, momenti di particolare cultura, ricerche di radicali cambiamenti, sogni appassionati di novità vitali.
E insieme a quel blocco di storia, spariscono e si perdono uomini, movimenti, progetti, lotte... quasi da sembrare come se nemmeno fossero realtà storica, concretezza di vita, carne, sangue e anima di gente che a quel progetto si è appassionata e in quel sogno, tutto, assolutamente tutto ha giocato.
L' esemplificazione di questo susseguirsi, di questo incalzarsi, come le ondate di mareggiate incessanti, in questi ultimi quarant'anni, è nella memoria di chi in questi ultimi anni, poco alla volta, si è ritrovato ad essere un rottame alla deriva, se non proprio abbandonato sulla spiaggia a intorsarsi di pioggia o inaridire al sole.
La storia è un enorme forza di liberazione per la capacità che il tempo possiede di decantazione, di superamento, di dimenticanza di cancellazione. Può essere ugualmente seppellimento di morti e seppellimento di viventi. Cancellazione di ciò che va, bisogna che sia, dimenticato (anche se la memoria è fondamentalmente cultura) ma anche mantenimento davanti agli occhi, visivamente evidente, perche attualità decisiva di continua verità, di tutto quello che - piccolo, insignificante che sia - può costituire, essere speranza.
E la speranza non è necessariamente legata e dipendente dai particolari momenti, favorevoli o disastrosi, della storia. È una permanenza, fondamentalmente, una vita sempre presente, una provocazione tenace, che sta al di sopra dei fatti, delle vicende, delle persone. Perché è nella radice, è dentro il tessuto connettivo del vivere e convivere umano.
Chi ha avuto il dono di Dio di accogliere e di ascoltare e di obbedire a questa violenza interiore che l'ha costretto e spinto ad uscire di casa, abbandonando tutto, per mettersi sulla strada delle storia e viverne e condividerne l'avventura, sa bene che ciò che gli appartiene è unicamente la fedeltà.
E cioè la continuità di una presenza non determinata; costituita dal momento, ma di una accoglienza determinante una connaturazione, una precisa, inconfondibile identità.
Chi è sceso sulla strada ha scelto e deciso semplicemente di uscire dal cerchio del privato (qualsiasi privato compreso quello della propria salvezza) e di confondersi e perdersi nella folla, qualificata o anonima che sia. Non è pensabile, onestamente, che la permanenza possa essere dipendente da una soggettività o peggio ancora dalla giustificazione di un gradimento o dalla costatazione della sconfitta, dall'avvertenza dell'inutilità o semplicemente dal mutare delle stagioni.
Il voltarsi indietro non ha assolutamente senso. E tanto meno un arrampicamento per ritrovare condizioni di sicurezza o almeno di una passabile ragionevolezza.
Quando si è posto mano alla pazzia la razionalità più consigliabile è cercare di essere pazzi del tutto... Può essere che solo allora possano sopravvivere e maturare le condizioni ottimali per la testimonianza. Perché può avvenire che l'Amore (cioè la vera ragion d'essere della propria vita, l'unica, appassionante spiegazione del proprio destino) sia tutto nel rimanere: si, certamente, nel rimanere aggrappati allo scoglio e resistere alla mareggiate, ai marosi che da ogni parte schiaffeggiano e sbatacchiano, ma anche nel rimanere, lasciati andare,fra lo spumeggiare delle ondate, che inabissano e innalzano violentemente, affogati eppure sempre a galla, come un rottame.
Su questo rottame può esserci scritto un nome e può significare tutta una storia bellissima, così tanto da meritare di essere tutta o quasi raccontata.
Una rivista di più tra le tante che tentano di inculturare questo nostro tempo, quella che il Movimento (parola tanto per amor di sintesi) dei Pretioperai intende immettere sul mercato della cultura? Forse sarebbe assai riduttiva una valutazione del genere. E la pubblicazione potrebbe anche risultare contraddittoria a quel silenzio e a quella solitudine che è parte viva, anche se spesso è condizione significativa di oppressione e di emarginazione dei pretioperai.
E forse sarebbe un tardivo intervento, data la mutazione dei tempi nei quali ormai la parola è assai più del potere, di qualsiasi potere, ma particolarmente quello della Chiesa, dell' assolutizzazione economica, della ragione politica, della potenza militare ecc.
Si tratta invece di "ridarci un linguaggio quotidiano, che ci permetta di riconoscerci, di comunicare tra noi e con gli altri, non per opporci al linguaggio dei critici e della massa, ma per vivere la nostra vita e permettere che altri possa continuare ad incontrare la nostalgia". (Tognoni). Un raccontare quindi, come un diario, la propria vicenda interiore specificando quel niente e quel tutto che sicuramente ciascun preteoperaio vive nei suoi condizionamenti ma anche forse soprattutto in quella spaziosità di visione, di giudizio e di cocciuta presenza e condivisione; nella quale la realtà attuale dell'umanità arrotola e srotola la propria storia.
La giustificazione di tanto osare è tutta nella coscienza di respirare una libertà totalmente liberata. Di essere gente che sulla povertà non ha fatto mai sentimentalismi ma condizione reale di vita. La condivisione fino al coinvolgimento oltre ogni limite di partecipazione fino all'identità operaia. Il vuoto totale di ogni intenzionalismo. L'aver pagato sempre, senza preventivi e consuntivi, i prezzi delle proprie scelte. La serenità e la pace, al di la di ogni rammarico o rivalsa...
La pagina è indiscutibilmente bianca, assolutamente senza intestazione, riferimenti, timbri ecc.
Ciò che conta è essere una voce che grida: se poi questa voce che grida si perdesse nel deserto non ha poi tanta importanza. Anche perché i pretioperai ci sono abituati
È chiaro che questa pagina bianca può e deve essere sul tavolo di tutti, anche se più o meno ingombro d libri, riviste, giornali scartoffie. Perche questa pagina bianca è come la polvere della piazza sulla quale Gesù scriveva con il dito. È come una strada sulla quale il camminare dei piedi descrive, racconta l'avventura del proprio destino. È la scommessa del confronto del passato, del presente, del futuro, in quel rannodo, sia pur significato da parole scritte, ma che è tutto nella viva carne e in quel sangue che non è acqua: tant'è vero che i segni sono visibili, così tanto, da essere leggibili.
Il tavolo, carta e penna, certo non sono la fabbrica. Sono però ugualmente solitudine, Anche lo scrivere come il lavorare è raccogliersi nella propria interiorità e ascoltarsi e ascoltare. È fedeltà, continuità di quel silenzio della parola inghiottita, rientrata forzatamente nell' angoscia dell'ingiustizia, dell'assurdità, a covare attese d'intervento, di lotta, di ribellione. Scrivere è riscavare nel profondo, portare alla luce togliere la pietra sigillata di tanto sepolcro per una risurrezione.
È raccogliere nel segreto di un lungo, faticoso e trepidante sognare, le parole che mai forse hanno potuto essere gridate. Ora è possibile richiamarne almeno l'eco sulla carta. Come sangue che ancora goccia dalla ferita e scopre segni di cicatrice.
Ma carta e penna è anche uno scrivere le parole ascoltate nel terzo cielo che orecchio non ha ma ascoltato e parola ha mai raccontato. Sono parole che possono essere scritte, se scrittura "non" è vocabolario, grammatica, sintassi, cultura, scienza nemmeno teologica, ma scopertamente profezia cioè manifestazione del nascosto, rivelazione del segreto, visione dell'invisibile, racconto di misteri dell'uomo e di Dio.
È stringere tutte le mani. Un abbraccio a misure universali.
È percepire la voce dell'umanità. Quella silenziosa, timida, infinitamente paziente. La voce delle moltitudini, a scroscio di marosi a frangersi sugli scogli. O il rovesciarsi straripante della fiumana della storia a tentare di dilagare una nuova umanità su questa antica e sembrerebbe a volte decrepita crosta terrestre.

Sirio

Piccolo grande uomo

J. Popieluszko
14 settembre 1947 - 19 ottobre 1948
Da tempo nel maggio sono solito trascorrere una settimana con gli ammalati a Loreto. In quei giorni di amicizia limpida, gioiosa e di condivisione umile e serena temperata dalla forza della preghiera, da quel colle come terrazza sull'Adriatico luminoso, ritrovo con gioia e trepidazione la sintonia con il cuore dell'universo, coraggio di vivere e il filo di una storia nella fede. Povero cireneo riluttante a tante croci piombate nella carne e nel cuore di fratelli e sorelle, fedele, mi avvio nelle ore di silenzio per un viottolo scosceso verso un giardino di rose e di croci. È questa la storia che prediligo, la storia dei poveri e degli sconosciuti, di tutti quelli che hanno subito la prepotenza la crudeltà la violenza dei grandi, le ambizioni assassine dei potenti, lo strapotere di chi dopo aver mandato al macello i piccoli di nuovo abusa del loro soffrire e morire, ipocritamente, rendendo omaggi floreali e minuti di silenzio per coprire le loro orme di Caino. È il cimitero dei soldati polacchi motti in Italia nella guerra di liberazione.
La storia di un povero popolo reo di amare la libertà e la sua identità. Tutti giovani e giovanissimi. Fra loro un buon numero con la stella di David: un'altra storia di sofferenza di martirio e di olocausto. Il mio povero omaggio silenzioso è saldamente sorretto da quella croce che illumina nel chiaroscuro del tramonto tutte le piccole croci costellate da rose meravigliose, il crocifisso del Golgota, il mio signore e fratello universale è sorgente di speranza e pegno di liberazione.
In questi ultimi due anni il mio breve pellegrinaggio sosta su di una croce invisibile, la croce di tanti miei fratelli "servi inutili" che in ogni parte del mondo dall'Africa all'Asia dall'Europa all'America latina hanno reso testimonianza all'amore con il dono della loro vita. Questa croce qui nel cimitero delle rose ha il volto di un giovane minuto, esile, fanciullesco, dallo sguardo triste e buono, Jerzj Popieluszko, massacrato dal regime militare del generale Jaruzelki in Polonia, perche usava della sua libertà per la difesa dei deboli e perché costantemente ripeteva che ogni essere umano ha il diritto di rispettare la propria coscienza.
Jerzj uomo di Dio dolce e riservato e di risoluta volontà coraggio e determinazione era un autentico figlio di Polachia, regione della Polonia orientale: vicino a Okopj, villaggio nativo di Jerzj, si stendono gli sterminati territori dell'Unione Sovietica, la potente vicina della Polonia. La popolazione è pacifica e cordiale temperata da molte prove inferte dalla storia e risoluta nel suo attaccamento alla propria nazionalità polacca e al cattolicesimo.
In queste terre - vive una popolazione comprendente cattolici protestanti cristiani ortodossi ebrei e mussulmani - p. Jerzj aveva respirato ed incarnato il senso dell'ospitalità calda e cordiale di cui fu intessutala sua breve ed intensa vita. L'anno della sua nascita -1947- ebbero luogo le elezioni che avrebbero "democraticamente" deciso il futuro politico della Polonia. Elezioni svolte nell' ombra di estorsioni, terrore ed assassinio politico come ai giorni bui dell'occupazione tedesca. Jerzj appartiene alla generazione 'che secondo il partito comunista polacco doveva essere allevata secondo una linea di condotta atea per produrre il nuovo uomo comunista. I genitori di Jerzj lavorano la terra, vivono modestamente con il frutto del suo sudore: la sua vita, così come quella di altri ragazzi di campagna, era dura. Scuola e lavoro dei campi. Il papà e la mamma avevano poco tempo e predisposizione per coccolarlo ma Jerzj è cresciuto con profondo rispetto per loro e li ha amati teneramente. "Arriva di solito come un ciclone - da sacerdote - giusto il tempo. per prendere una tazza di te, volatilizzandosi dopo aver baciato le mani della madre ed avere abbracciato il padre portando con se una pagnotta di pane fatto in casa e delle salsicce"; in questa famiglia semplice credente e credibile maturò nel silenzio e nella solitudine le sua vocazione al sacerdozio.
Uno dei suoi primi insegnanti ricorda Jerzj come un ragazzo riservato, sincero, sempre pronto ad aiutare gli altri ma anche con forte spirito di indagine sempre alla ricerca di verità.
Per restare degli uomini liberi nello spirito, dobbiamo vivere nella verità.
Per tutta la vita p. Jerzj restò sotto il grande influsso di Massimiliano Kolbe (il santo francescano che dette la vita per un altro prigioniero nel campo di concentramento di Auschwitz): costituiva il simbolo della vittoria di un uomo che pur assoggettato dalla violenza è rimasto libero nello spirito. Jerzj ha cercato sempre di vivere secondo il credo di p. Massimiliano: "per restare degli uomini liberi nello spirito dobbiamo vivere nella verità".
I due anni di servizio militare obbligatorio - usati particolarmente dalla dittatura per indebolire la fede e la vocazione dei seminaristi - consolidarono e rafforzarono la sua decisione e il suo cammino al sacerdozio e fu a quel tempo che Jerzj perdette anche il rispetto per l'esercito comunista polacco. Nel maggio 1972 era sacerdote: uomo in possesso di un senso del dovere eccezionalmente forte che lo spingeva ad operare ben oltre i limiti della sua cagionevole salute (emofilia). Fu viceparroco in diverse parrocchie, cappellano degli studenti di Varsavia; organizzava conferenze dibattiti ritiri e campeggi estivi, durante gli scioperi all'accademia di medicina, nella primavera e nell' autunno del 1981, calma gli esagitati ma tiene alto il morale degli studenti. Cappellano della comunità sanitaria di Varsavia considerava l'aborto come violazione della legge naturale, universalmente vincolante, sia come l'infrazione. del quinto comandamento di Dio" tu non ucciderai". Fu lui a persuadere molti di loro che ogni legge umana che violi la legge di Dio è in realtà illegale; non solo non saremo obbligati a sottostare a simili leggi, ma non dovremmo sottometterci ad esse.

Solidarnosc
A trentadue anni il suo stato di salute esigeva una cura costante, gli fu consigliata una vita tranquilla, libera da ogni tensione con una dieta appropriata. Invece Jarzj stava per imbarcarsi in quella che doveva rappresentare la parte più attiva della sua vita. Era giunto il tempo della grande prova per tutto ciò in cui credeva, della sua aderenza alla fede. Nell'estate del 1980 al tempo della rivoluzione polacca ha avuto inizio la storia della missione di Jerzj fra gli operai. In agosto, tutta la Polonia teneva lo sguardo fisso ai cantieri navali Lenin di Danzica, dove il comitato interfabbrica guidato da Lech Walesa, per la prima volta nella storia della Polonia del dopo guerra si incontrava al tavolo dei negoziati coi rappresentanti delle autorità comuniste polacche. Come in tutte le altre grandi fabbriche gli operai cercarono di procurarsi un sacerdote che per loro celebrasse la messa festiva: fu scelto padre Popielutzko per questi "uomini d'acciaio": "finché vivrò non dimenticherò quel giorno e quella messa. Andai con grande apprensione. Già la situazione era di per se assolutamente nuova. Che cosa avrei trovato? Come mi avrebbero accolto? Ci sarà dove celebrare? Chi leggerà i testi e chi li canterà? Erano questi, che oggi mi appaiono ingenui, gli interrogativi che mi ponevo durante il percorso verso la fabbrica. E, già in prossimità del cancello ho avuto il primo moto di stupore. Una densa folla di uomini sorridenti e in lacrime allo stesso tempo. E applausi. Ho pensato che qualche celebrità stesse giungendo dietro di me. Quelli, invece, erano applausi per il primo prete che nella storia di questo stabilimento, ne avesse varcato la soglia. Io nel frattempo già pensavo: applausi per la chiesa, che per trenta e più anni aveva instancabilmente bussato alle porte delle fabbriche. I miei timori erano infondati, tutto era pronto: l'altare al centro del piazzale della fabbrica e la croce...
C'erano anche i lettori. Bisognava sentirle quelle voci maschie, avvezze a termini grossolani, adesso nel raccoglimento leggere i sacri testi. E dopo da mille labbra si è levato come un tuono "rendiamo grazie a Dio". "Si è dimostrato poi che sapevano cantare molto meglio che nelle chiese".
Da questo momento Jerzj fu il cappellano di Solidarnosc "uomini che avevano compreso come la loro forza si ponesse in Dio, nell'unità con la chiesa".

Il prete preso dalla gente per servirla
"L'attività di un prete è in un certo senso prolungamento dell'attività di Cristo. Un prete viene preso fra la gente e per la gente viene ordinato, allo scopo di servirla. Il dovere di un prete è, così, quello di essere sempre con la gente, sia nei momenti lieti che nei brutti tempi. Dovere di un prete è di essere con la gente quando maggiormente essa ha bisogno di lui, allorché viene offesa, degradata e maltrattata. Perché c'è sempre sofferenza e inquietudine là dove i diritti umani non vengono rispettati, dove non esiste libertà di parola e di opinione dove la gente viene imprigionata con le proprie convinzioni".
E c'è molta di questa gente in Polonia specialmente da quella notte di dicembre del 1981! Padre Jerzj ha pensato che probabilmente in quel momento essi avevano maggiormente bisogno di Lui, in quei tempi difficili mentre pregava per loro nelle celle delle carceri nelle aule di udienza in cui si recava per ascoltare i loro processi.

Mi trovo in ginocchio davanti a Dio, chiunque altro svanisce ai miei occhi.
Continuò a lottare e lavorare sempre in contrasto con il tempo. Carcere, intimidazioni e vessazioni della polizia, attentati alla sua persona non lo fermarono mai. Dava se stesso e tutto ciò che aveva "è meglio non dare a nove persone che hanno poco bisogno, piuttosto che rifiutare a uno che abbia veramente necessità di aiuto". Dal gennaio 1982 fu fedele alla "messa della patria" alle sette di sera ogni ultima domenica del mese. Parlava in modo coraggioso e diretto alla nazione terrorizzata dalla forza militare, di famiglie distrutte dalla legge marziale, di uomini imprigionati e messi sotto processo, colpevoli soltanto della loro determinazione di rimanere fedeli agli ideali di Solidarnosc. Raccontava dei tentativi di mandare delle creature sane nelle istituzioni psichiatriche, delle percosse e dei maltrattamenti cui sono stati sottoposti i numerosi prigionieri detenuti nei campi di concentramento disseminati in tutta la Polonia e dei numerosi crimini di Caino.
"L'uomo è grande perché porta in se la dignità di figlio di Dio. Croce è mancanza di verità... croce è mancanza di libertà. La dove non c'è libertà là non c'è amore non c'è amicizia né tra i membri della famiglia né tra i compagni della comunità nazionale né tra le nazioni. Per forza non si possono amare gli altri né si può essere loro amici. L'uomo di oggi è più sensibile all'azione dell'amore che all'azione della forza. L'audacia non consiste nel portare delle armi, perché l'audacia non dipende dal ferro delle armi".
Un cristiano è un uomo che sceglie tra la condizione di schiavo e quella di uomo coraggioso e giusto.
La vigliaccheria delle armi, l'ipocrisia dell'oppressione e dell'odio dovevano assolutamente sopprimere questa voce della verità dell'amore della libertà. La violenza è la forza di chi non possiede la verità. Con la violenza è possibile piegare l'uomo, ma non renderlo schiavo. questo piccolo grande uomo che si era obbligato non solo all'amore ma al coraggio, questo piccolo grande uomo che non ha avuto paura e non ha voluto tradire Cristo per qualche denaro di sterile quiete e aveva edificato con la sua vita la solidarietà dei cuori andò incontro al suo martirio "è meglio incontrare la morte per una causa che valga la pena di difendere piuttosto che stare comodamente seduti e rilassati mentre l'ingiustizia sta dando spettacolo di se". (Ammonimento per noi preti di oggi, che tutto siamo, teologi, liturgisti, uomini della missione, diplomatici, banchieri di Dio, direttori d'anime ma... di Gesù Cristo neanche l'ombra!)

I sicari mandati da Caino
Vennero in tre nella notte con bastoni, corde e sacchi di pietre per bastonarti, strangolarti e affondarti nelle acque di una diga... erano felici i fanatici di compiere il massacro, speravano nella "solita" ricompensa dell'elogio e della promozione... ho sotto gli occhi una fotografia del settimanale Gente: venerdì 19 ottobre 1984 "nella cappella dell' istituto di medicina dove è stata composta al termine degli esami necroscopici, ecco la salma di padre Jerzj sequestrato e assassinato da un commando del regime di Varsavia. Ciò che si sospetta viene adesso confermato da questo documento terribile: il trentottenne sacerdote, chiamato il parroco di Solidarnos è stato torturato con ferocia prima che i suoi rapitori aguzzini lo uccidessero e ne buttassero il corpo nell'acqua di un bacino artificiale lungo il fiume Vistola. Il volto appare trasformato in una maschera, con le ossa rotte in più punti. Anche le mani gli sono state spezzate durante le ore di sevizie che hanno preceduto lo strangolamento, come ha accertato l'autopsia. I tre assassini, funzionari-militari dei servizi di sicurezza hanno dunque voluto colpire nel modo più bestiale il religioso che era diventato nel paese un simbolo della vicinanza della chiesa agli operai del sindacato libero Solidarnosc. Le stesse autorità governative hanno dovuto ammettere che padre Popieluszko era da tempo nel mirino delle "squadracce della morte" del ministero degli interni.

Irriducibile nell'essenziale
Sono solo nel cimitero delle rose di fronte all'Adriatico; rivedo la tua croce carissimo fratello far siepe con altre croci di povera gente morta per la libertà e la dignità dell'uomo... sembrano difendersi dall'omaggio di corone di fiori e minuti di silenzio eseguito da mano di generale dalle lenti oscure venuto in questa estate a Roma per ossequiare ed essere ossequiato... una mano gelida come le acque della diga sulla Vistola. Padre ]erzj avevi detto un giorno citando un tuo poeta "la nostra vita è una postazione: se noi l'abbandoniamo, l'umanità la perderà per sempre", tu la postazione, benedetto, l'hai mantenuta... Irriducibile nell'essenziale Amore di Libertà.


(per notizie J. Popieluszko "Il cammino della mia croce"
G. Sikarska "Vita e morte di J. Popieluszko" Ed Queridiana)


Rolando

Appunti problema delle "Diocesi con le stellette"

Vorrei offrire alcuni "appunti" - nel senso di motivi di riflessione - riguardo ad una realtà molto "interna" alla chiesa cattolica (ma non solo): la presenza dei sacerdoti e vescovi nella struttura di molti eserciti, compreso quello italiano. Una presenza articolata secondo precisi accordi "concordati" fra gli stati e la Chiesa.

1) Ai primi di maggio '86 la S. Sede ha pubblicato la costituzione Apostolica "Spirituali militum cu-. rae": documento pontificio che "imposta in modo nuovo il servizio di assistenza spirituale pressò le forze armate di tutto il mondo" (monsig. Gaetano Bonicelli, ordinario militare per l'Italia).

2) Il giornale "Avvenire" ha dato molto risalto all'avvenimento (come del resto fa sempre per tutto il settore della "pastorale militare") con un commento giornalistico ricco di particolari e di evidente soddisfazione: "Questa nuova Costituzione è un documento di carattere legislativo... ma è soprattutto un ulteriore segno della particolare attenzione alla cultura spirituale dei militari che la Chiesa ha sempre avuto fin dai tempi dell'imperatore Costantino... "
(Avvenire, 6 maggio '86). Segue elenco dei Vicariati castrensi canonicamente istituiti: 12 nelle Americhe/ 3 in Africa/ 3 in Asia/ 2 in Oceania/ 9 in Europa. Molto interessante è il titolo dell'articolo sopra citato: "Diocesi con le stellette".

3) È senza dubbio da rilevare il fatto che da un certo tempo esiste un chiaro tentativo di "rinnovare il linguaggio" per presentare il legame pastorale che unisce la Chiesa alla realtà militare: l'espressione "Chiesa con le stellette" è tipica degli scritti del vescovo ordinario militare italiano. Molto indicativo mi pare anche un articolo scritto da un cappellano militare.

4) La promulgazione della Costituzione Apostolica sugli Ordinariati militari rappresenta a mio parere un aggravamento della situazione di "compromissione" con il "braccio armato"degli stati da parte della Chiesa cattolica: sarebbe sicuramente necessario allargare il dibattito, la riflessione, la discussione per esaminare tutta la questione a partire dal problema dei contenuti dell'evangelizzazione.

5) Mi sembra giusto - a questo punto - ricordare dei fatti molto precisi e concreti che hanno messo in evidenza il contrasto tra il "vangelo di pace" di cui la chiesa vuole e deve essere portatrice ed il "comportamento pastorale" (fra teoria e pratica):
A) Nella base missilistica di Comiso, il vescovo di Ragusa ha favorito, benedetto e difeso con un suo preciso documento, la costruzione di una grande Chiesa.
B) Il vescovo di Napoli card. Ursi ha amministrato il Sacramento della Cresima a bordo della portaerei statunitense "Kennedy", essendo suoi concelebranti 37 cappellani militari di stanza nelle basi Nato.

6) Da tutto questo risulta importante e doveroso porci delle "domande" cercando insieme le risposte "giuste" perché rispondenti al messaggio del Signore Gesù, alla sua vita, alle sue scelte, alla sua parola, di cui la Chiesa - Popolo di Dio - deve essere fedele e coraggiosa testimone.
A) Se dobbiamo essere la chiesa della pace di Dio, la chiesa di Cristo principe delle pace, che senso ha OGGI parlare di "Chiesa con le stellette" dandole anzi maggior forza e consistenza giuridica che nel passato?
B) Se pastorale vuol dire annuncio evangelico per la costruzione di comunità cristiane e sostegno nella scoperta dei valori vissuti e proclamati da Gesù Cristo: non sarebbe giunta l'ora di dichiarare apertamente che fra la croce e la spada non vi può essere NESSUNA conciliazione?
C) Il "sogno di Dio" progetto di amore e di salvezza, nei termini in cui Gesù lo ha portato a compimento, come può accogliere il sogno/progetto degli uomini che confidano nella forza delle armi e quindi sul sangue del "nemico"?
D) Possibile che dopo i fiumi di sangue versato dalle guerre di tutti i tempi, l'esperienza storica unita alla parola di Cristo non sia ANCORA SUFFICIENTE a farci comprendere l'assurdità di voler ancora sostenere che "la guerra è una virtù" (= il sacro dovere di difendere la patria in armi)?
7) Alcune indicazioni propositive:
- Ogni caserma poggia le sue fondamenta su di un pezzo di terra ben delimitato; quindi le persone che in essa vivono e si "esercitano nell'arte della guerra" hanno già il loro parroco, senza stellette né gradi(quello della parrocchia territoriale)
- La Chiesa parrocchiale è la "casa comune" (per la sua stessa costituzione) di tutta la comunità cristiana: in essa tutti - compresi i militari possono pregare, lasciandosi illuminare e formare dalla parola del Vangelo, che sarà sempre "Vangelo di pace".
- Le caserme - di ogni tipo e specie - hanno già anche il loro vescovo, senza stellette (quello della
. diocesi territoriale) che dovrebbe essere in grado di proclamare a chi porta le stellette e a chi ne è privo, il comandamento, che non dovrebbe consentire facili aggiustamenti: "t« non uccidere"
- Sembrerebbe cosa naturale che la comunità cristiana riuscisse ad ottenere da chi ne ha il dovere l'abolizione della Costituzione apostolica del maggio '86 e lo scioglimento definitivo degli ordinariati militari. Per rompere con chiarezza le catene del compromesso che tengono prigioniera la pace di Cristo

Giuseppe Socci - chiesetta del porto
Viareggio (LU)


La condanna a morte di Paola Cooper

Un gruppo di amici ci hanno telefonato e scritto approvando l'iniziativa di mandare telegrammi al Presidente Cossiga per un suo interessamento teso a scampare dalla sedia elettrica la sedicenne Paola. Lamentano però amaramente che noi non manifestiamo altrettanta premura per i condannati nei gulag sovietici e contro l'occupazione militare dell'Afganistan da parte dell'URSS.
Può essere che meritiamo questo risentimento. La cosa chiara però è senza dubbio questa: che non facciamo assolutamente distinzioni fra violenza e violenza e tanto meno preferenze o giustificazioni. Forse ci occupiamo assai più dei problemi di questa nostra civiltà occidentale, è chiaro, perché ce ne sentiamo responsabili sia nel bene che nel male essendo compromessi e coinvolti dal mondo occidentale.
Non ci sembrerebbe giusto, per esempio, venir disapprovati perché ci occupiamo quasi esclusivamente della chiesa cattolica e meno assai dell'Islamismo o del Buddismo. Gesù direbbe (tanto per fare un riferimento biblico senza ovviamente voler insinuare che il regime sovietico sia una pagliuzza!) "Percbè stai a guardare la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello e non ti preoccupi della trave che è nel tuo?... (Mt. 7,4).
Ci permettiamo di citare un ottimo, appassionato articolo di "Avvenire", quotidiano cattolico, del 15/7/86 circa il dramma di Paola Cooper.

"Problemi di cultura? Forse sì. Anche il tipo delle pene inventate dagli uomini appartiene alla cultura e non alla natura, fosse pure ridotta ai primitivi istinti animaleschi della vendetta. C'è nella vendetta una brutale ritorsione irrazionale del render male per male, dolore per dolore, morte per morte, secondo un istinto oscuro, notturno che accende la riflessione cosciente. C'è invece nella pena la decisione volitiva, ragionata, analizzata, che vuoi approdare a qualcosa che definisce come "bene", come "giustizia"; e dunque la morte inflitta come pena diventa un rito giustiziale, celebrato e consumato nel sole, in lucidità e determinazione, persino rintuzzando le ripugnanze emotive.
E' questo che dà il brivido nella "morte giustiziale" che si prepara per Paola Cooper, poco più che una bambina. Nel rifiutare la pena di morte in linea di principio, nessuno può essere accusato di passionalità".



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