LOTTA COME AMORE: LcA ottobre 1987

Riscoprire la lotta

Lotta qui non è lo scontro fisico, nemmeno quello ideologico. Non si tratta, è chiaro, di scoprire o d'inventare metodi e sistemi per ottenere vittorie, affermazioni di sé, delle proprie idee, dei propri progetti in qualsiasi campo del vivere e specialmente del convivere e cioè nelle realtà sociali, economiche, politiche, religiose...
Queste lotte presuppongono valori d'importanza tale nei confronti delle realtà umane, per il bene dell'umanità, intesa come individuo e come collettività da meritare e giustificare la lotta, (qualsiasi lotta, forse, in casi estremi) capace di ottenere, realizzare quei valori fondamentali di dignità umana e di popolo.
Di questa lotta si dovrebbe trattare e discutere, in questa lotta ci si dovrebbe coinvolgere pagandone i prezzi, qualsiasi prezzo, se si abitasse in America Latina, in Africa, in diverse zone dell'Asia. Fra quei popoli cioè dove l'oppressione, lo sfruttamento, l'annullamento di ogni dignità umana é tale da esigere, comandare la ribellione, la lotta ad oltranza, quella che gioca e che affida anche nella morte e cioè anche dopo la morte per una continuità di lotta e una fedeltà alla speranza.
Ma noi abitiamo qui e in questo tempo, nel quale questa lotta non è pensabile né immaginabile. Non c'é da lottare per conquistare la libertà: è tutta a disposizione per chi vuol essere libero. L'uguaglianza è nella legge, garanzia dei diritti e dei doveri di ogni e qualsiasi cittadino. La dialettica partitica, lo dimostrano anche i suoi squallori, è sicurezza di una politica democratica...
La quiete (la pace è un altra cosa) e cioè l'ordine, il rispetto della legge, delle regole di civiltà ecc. regnano dovunque da noi, a parte gli "episodi" di violenza sempre concordemente qualificati come mafia, camorra o cose simili: dove ovviamente la lotta deve essere sostenuta dalle "forze dell'ordine" per la tranquillità dei cittadini.
Dunque (è chiaro che sono accenni) la lotta da noi è cultura che appartiene alla memoria, ricordi dei tempi superati di cui ormai non si racconta più nemmeno nelle scuole.
Che vuol dire quindi "riscoprire la lotta"?
Cose molto semplici e ovvie a pensarci seriamente.
E' un fatto che la lotta in una considerazione molto allargata, appartiene all'essere umano come ricerca del perfezionamento, come il progredire dei valori umani, come il desiderio, la volontà di essere più uomo.
La non lotta è passività, ripiegamento sul se stesso, rassegnazione, autodistruzione. Fuoco che illanguidisce e si spenge, acqua passata che non macina più...
Nei livelli individuali, nei valori costitutivi della persona, la non lotta conduce all'irresponsabilità della non qualificazione costruttiva della propria personalità e cioè dell'appiattimento, alla riduttività incessante, all'alienamento e cioè a "chi pecora si fa il lupo la mangia", come racconta la saggezza popolare.
La non lotta, questo rifiuto di essere vivi e viventi, è negatività sociale, irresponsabilità nei confronti della collettività, pretesa di convergenza sul se stesso, radicalismo egoista, avanzamento di ogni diritto e rifiuto di ogni e qualsiasi dovere...
Lotta è l'ossigeno che si respira, il cuore che palpita, il sangue che pulsa, la vita che cresce, il pensiero che si dilata, l'ideale che mette radici, l'utopia che sogna, la preghiera che chiede, il dialogo, la stretta di mano, il camminare insieme, l'appassionarsi ai problemi, il credere decisamente nei valori, l'accoglienza, la convivenza, l'ottimismo, l'umanità di ogni essere umano, in ogni popolo, cultura, razza, universalità...
Concretamente, oggi, qui da noi, nella nostra realtà personale e collettiva, di cittadini e cristiani, cosa vuol dire "lotta" e dove e come è possibile e doveroso lottare?
La risposta, è evidente, non può che essere complessa e particolarmente impegnativa. Ma può essere anche molto semplice, ovvia, per chi vuole, ha bisogno vitale di non arrendersi a discrezione del "nemico".
Perché la lotta è anche tentativo di non affogare, di non essere travolti dalla violenza delle acque del fiume e del mare aperto, capace di tutto inghiottire.
Sopravvivere oggi, nella realtà del mondo nel quale viviamo, non è miracolo di poco conto. Sopravvivere, s'intende, come uomini liberi, dove la libertà è possedere una propria identità personale e cioè pensieri che nascano dal se stesso, ideali raccolti nel cuore, trasparente possibilità di traduzione concreta di progetti sognati in fondo all'anima, il non rischiare con la necessità di essere venduti o comprati a prezzo sonante da questo o quel personaggio dalla voglia di accumular quattrini o dal prurito di carriere più o meno politicizzate... Ma l'esemplificazione del come è possibile perdere se stessi e cioè la propria verità e autenticità, è equivalente all'inesauribilità dei tentativi e dei mezzi a disposizione per la sopraffazione, lo sfruttamento, la strumentalizzazione, di cui il "progresso", la civiltà di questo nostro tempo, sovrabbonda.
Non arrendersi a questa "civiltà" così sottilmente e violentemente ravvolgente e coinvolgente, è già lotta e realmente nel concreto lotta dura, logorante.
Tutto un rapporto di resistenza e non soltanto passiva ma attiva, capace cioè d'inventare e di render vita vissuta, una alternativa di pensiero, di cultura, di esistenza diversa e nuova, questa resistenza è lotta, spesso conflittuata, sempre cocciutaggine di convincimento assoluto, identificabile con il se stesso, con la spiegazione della propria vita.
Di questa lotta il cristiano (la Chiesa) dovrebbe essere esemplificazione, riferimento visibile, come "la città situata sulla cima della montagna", direbbe Gesù o come "la luce accesa da illuminare tutta la casa" direbbe ancora.
Perché il Cristianesimo è progetto di umanità immaginato dal Cuore di Dio e "fatto carne" e storia in Gesù Cristo.
É chiaro che non può andare d'accordo con il "mondo".
Perché il Cristianesimo (e quindi la Chiesa) di per se stesso, per natura sua e per l'essenzialità della sua missione nella storia dell'umanità, è una lotta.
Una lotta di respinta
Una lotta di resistenza
Una lotta per l'alternativa
Una lotta implacabile come é implacabile l'amore
Una lotta che coinvolge il Cielo e la Terra come il Mistero di Dio.



Lettera di Arturo Paoli

Cari Amici d'Italia;
questa volta vi scrivo dall'Italia dove sto trascorrendo due mesi: quando riceverete questa, già sarò sul punto di salpare verso l'America (due novembre). Non è un tempo di vacanza questo ma ho scoperto da qualche anno che bisogna assimilare un metodo di vita che non abbia più bisogno di vacanza. So che quello che vi dico apparirà un'utopia, ma sono convinto che la relazione con lo Spirito del Signore, l'obbedienza docile alle sue esigenze che siamo in grado di scoprire, se vi prestiamo attenzione, ci introduce in una pace costante, in una unità interiore che ci rende capaci di essere molto attivi senza un eccessiva usura delle nostre energie spirituali o psichiche che alla lunga si svuotano provocando la morte molto prima della morte biologica. Difficilmente si riparano con le vacanze le devastazioni interiori prodotte dalle esperienze quotidiane spesso stressanti, se rinunziamo ad una difesa interiore tanto più necessaria quanto più impetuosa è l'aggressione.
Sento il bisogno e l'urgenza di comunicarvi questo, perché, rientrando in patria, ho avvertito subito che la contaminazione dell'ambiente con cui paghiamo la nostra vantata prosperità economica, è profondamente nell'essere intimo, nell'anima - se sopportate ancora questa parola - di molte persone che esprimono una cultura vecchia, stanca, senza speranza, magari in forme apparentemente vivaci. Quelli che ancora si professano religiosi e praticanti, vivono la loro religiosità come una delle tante attività rutinarie che bisogna affrontare nella vita quotidiana, o come un prodotto venduto in un supermarket. Ho sentito che l'Italia e per l'estensione l'occidente cristiano, si trova di fronte ad una scadenza: o la nostra fede matura in una relazione vera con lo Spirito di Dio, o siamo travolti nel rito ormai incontrollabile della produzione, che distrugge in poco tempo le nostre capacità creative e le nostre risorse interiori riducendoci a dei robots. Che questa relazione sia autenticamente vissuta deve apparire nella capacità critica di distinguere quello che è vero e autentico, da quello che ci tradisce sotto le vesti del necessario, e nell'energia di respingere quello che non è essenziale e che guasta profondamente la nostra anima. Agnes Heller ha parlato anni fa di una vera rivoluzione basata sulla scoperta dei bisogni essenziali, e la sua indicazione è certamente molto fine, e sostanzialmente evangelica, solo che ci lascia di fronte a questa domanda: "è possibile distinguere i bisogni essenziali?" Affermo che è possibile, alla condizione di vivere misticamente la nostra fede. II momento attuale ci lancia una sfida: o siamo dei mistici autentici o perdiamo la nostra vera ragione di esistere, e rifiutiamo il nostro impegno cristiano di contribuire attivamente alla nascita di una società della pace. I costruttori di pace di cui si parla nel famoso discorso della montagna, sono prima di tutto dei pacifici cioè degli esseri in pace, coerenti ad un metodo che impedisce alla guerra e alla agitazione di occupare lo spazio interiore, invadendo quell'intimità riservata alla relazione con l'Infinito che è Verità e Amore e Gioia profonda, i beni a cui i seguaci di Cristo hanno diritto. Un membro della mia comunità sudamericano che mi accompagna nel mio viaggio in Italia, visitando una certosa e scoprendo ad ogni passo i segni di un'arte e di una cultura ispirate dalla Bibbia, mi chiedeva continuamente a che serve tutto questo, e osservava con molta finezza che i viaggi dall'India e nell'oriente e il sospiro nostalgico verso una spiritualità più interiore e più vera contengono la denunzia di un rifiuto del contenuto mistico del messaggio di Gesù. Il mio amico, orientato a scoprire nella cultura spirituale latino americana la sopravvivenza di una cultura intrinsecamente mistica e comunitaria, mi chiede continuamente ragione di una fede vissuta in Europa come illuminismo teologico e razionalista, e come un moralismo formale. È come - mi diceva in una immagine abbastanza espressiva -, se voi, dopo aver sbucciato un'arancia conservate nelle vostre mani la buccia dopo avere gettato il frutto.
Come conseguenza di questo cristianesimo passato da messaggio di fede a civiltà cristiana, in Europa si parla di pace come smantellamento delle strutture di guerra o più modestamente delle riduzioni delle strutture di guerra, piuttosto che di trasformare delle relazioni umane che sono relazioni ostili, in relazioni pacifiche. Siamo incapaci di staccarci dagli oggetti per concentrarci sulla verità della relazione, e quindi restiamo sempre nella cerchia diabolica della produzione. Parliamo di pace e seguitiamo a produrre armi, ed è molto logico perché la nostra prospettiva è sempre la produzione. Il terzo mondo esiste per permettere ad un primo di estendersi e svilupparsi in una certa linea, ormai è una certezza diventata luogo comune. In America Latina assistiamo allo spettacolo quotidiano della rapina, dello spogliamento, e dell'assassinio, operato con tutti i mezzi dalle multinazionali che sono diventate gli strumenti della dominazione e sono protette da un ordine giuridico e politico che sta esclusivamente al loro servizio. Bisogna avvertire i fratelli cristiani che temono la guerra futura, che la guerra non è futura, esiste, è in atto. Se ne accorgerebbero se fossero stati formati ad una fede non diretta essenzialmente alla salvezza della propria anima e alla accumulazione dei meriti per il cielo, ma al progetto di Gesù di costruire il regno del Padre. La resistenza che troviamo in tante parti, non escludendo gli ambienti religiosi, alla rivelazione del Dio biblico il Dio dell'alleanza il Dio che ascolta il clamore del suo popolo, è evidentemente una della tante protezioni al diritto di conquista che l'Europa si attribuisce da secoli puntando sulla sua presunta superiorità. L'aggressione del terzo mondo è nascosta sotto il risultato economico della società capitalistica, e dalle espressioni di fede che non si concentra mai sul vero e unico frutto che attende lo Spirito del Signore dai suoi: una vera autentica fraternità e uguaglianza di tutti gli uomini tutti figli del padre a diritti uguali.
I miei ritorni in Italia mi convincono sempre più che il vero problema del mondo è il problema della pace e che noi, che siamo in grado di misurare la gravità della crisi dell'occidente cristiano, e di partecipare profondamente alle sofferenze di questa guerra non apparente, ma gravissima, abbiamo la responsabilità di aiutare i nostri fratelli a trovare la vera prospettiva della pace. Il punto di partenza della pace sta nella coscienza del conflitto esistente tra fratelli, e delle cause di questo conflitto. Un cristiano deve avere il coraggio di scartare sdegnosamente tutte le giustificazioni religiose, politiche, ideologiche e assumere nella sua nuda verità il compito affidatoci da Cristo; bisogna non divagare e concentrarci sulla nostra vera identità, come cristiani, costruttori di pace. È un compito difficile? Certo; Paolo insiste continuamente nelle sue lettere che è missione dello Spirito Santo soccorrere la nostra impotenza. Per questo vi parlavo prima di interiorità mistica, di una maniera profonda, personale di vivere la fede, per dare una risposta politica ad una società che, minacciata dalla guerra, sospira la pace. Continueremo a "sentirci" come si usa dire in Italia non col telefono, ma con gli scritti, e soprattutto con la comunione in preghiera, che costituisce quel vincolo che la lontananza rende più tenace e dolorosamente vivo. E questa è anche una scoperta sorprendente che rinnovo ad ogni ritorno in Italia. Vi abbraccio affettuosamente
Vs. f. Arturo


Progetto di lavoro a Foz do Iguaçu
Cari amici,
come già sapete, la nostra comunità si è trasferita in Foz do Iguaçu e, partendo da questa nuova realtà abbiamo elaborato questo progetto contando sul vostro appoggio:
Finalità:
- appoggio a 259 famiglie del movimento "Sem Terra", accampate nella fazenda "Padroeira a 75 Km. da Foz, che stanno lottando per la terra;
- appoggio ad una comunità di 70 famiglie di contadini in fase di organizzazione avendo ottenuto un po' di terra per coltivarla;
- appoggio tramite la pastorale indigena ad una comunità di Indios Guaranj.
Obiettivi:
1. sviluppo di un'unità di produzione alternativa usufruendo di 25 ettari di terra della diocesi di Poz.
2. interscambio di esperienza agricola e tecnologica e sperimentazione di colture alternative.
Facendo un po' di calcoli economici sono necessari sui 18.000 dollari, ma quello che appare prioritario sarebbe se la rete potesse garantirci il finanziamento per almeno 2 anni di 3 salari da 250 dollari (750 dollari al mese/oltre 8000 dollari l'anno). Due dei salari andrebbero a due famiglie di contadini che lavorerebbero fisse al progetto e l'altro per alcuni lavoratori stagionali nei tempi di raccolta.
Fino ad oggi è stata realizzata la preparazione della terra, l'inizio di una coltivazione e la recinzione di un pascolo.
La responsabilità è della "Fraternita Jerovia" formata da Arturo Paoli, Carlos Sosa, Sauro Grassi e Lucia Noemi Weiss (c.x. postal 637 - 85890 Foz do Iguaçu - PR - Brasile). Per informazioni e contributi in Italia potete rivolgervi a Antonio Vermigli, via Piave, 22 - 51039 Quarrata (PT) Tel. 0573/72297
Fratello Arturo


fratel Arturo

Il ricominciare

Da pochi mesi ho abbandonato il lavoro del ferro. Un lavoro che mi piaceva, nel quale mi sono molto identificato e che ancora sento "vivo" nelle mie mani. Perché allora decidere di smettere? Uno psicologo potrebbe trovare tutta una serie di spiegazioni del mio "inconscio" malato. Ed alcune di queste molto probabilmente risponderanno a verità. Sta il fatto che nella mia vita è ricorrente il "ricominciare" senza che un nuovo inizio comporti necessariamente la fine traumatica del periodo precedente. Non è tanto in me la voglia di rifarmi di una fase negativa quanto l'esaurirsi di motivazioni e quindi la caduta di tensione che mi toglie energie e mi avverte - come un campanello di allarme - della necessità di cambiar rotta. Necessità per me, necessità soggettiva beninteso, perché quasi mai si sono avvertiti i segni di una necessità oggettiva scaturita da eventi positivi o negativi che mi hanno costretto a nuove strade. E quando questo è accaduto ed ho subito il cambiamento ed ho dovuto "ricominciare", non ho potuto fare a meno di riconoscere che in quel caso era il campanello d'allarme che non aveva funzionato oppure, come a volte mi accade con la sveglia, il campanello aveva compiuto il suo dovere, ma io immerso nel sonno di un inutile "continuità", l'avevo messo a tacere senza neppure rendermene conto.
Perché, ad essere sincero, - ma non succede forse un po' a tutti? - io invidio quello che non ho e porto dentro la sete di una permanenza, di una immutabilità, di una continuità oltre il tempo e lo spazio. Il desiderio che il mondo si fermi e non continui a proporre cambiamento. Ho invidia o meglio, ho sincera ammirazione per coloro che nella propria vita riescono a privilegiare il valore della "continuità" e la custodiscono come valore importantissimo che, sia pure attraverso i cambiamenti che soprattutto lo scorrere del tempo impone, offre di se una chiara e luminosa identità. Questa mia "carenza" si produce a volte in comportamenti o in sentimenti dei quali non posso certo andare orgoglioso.
Così nel tempo di questo mio ultimo cambiamento. Non solo di lavoro evidentemente, ma non perché cambi ora qualche cos'altro, ma perché quando si cambia - ed ancor più quando si "Ricomincia" - un po' tutta la vita é coinvolta e non può essere altrimenti. Si stabilisce una vulnerabilità che è come quella del bambino in fasce. Il nuovo nato va custodito con attenzioni che alterano i ritmi consueti della giornata, sconvolgono le abitudini le sistemazioni, disorientano gli amici e così via. E - di contro, tanto per continuare il paragone, - il neonato si manifesta subito altamente recettivo a nuovi stimoli, nuove sensazioni, vulnerabile a tutto ciò che lo circonda. Sta succedendo così anche a me. Senza enfasi o depressioni: sono fasi della vita e mi sento già così tanto fortunato ad attraversarle senza esservi costretto da violenze storiche che macinano l'esistenza di tantissima gente.
Che cosa cambierà in me? Francamente non lo so ora che il progetto per un lavoro con gli handicappati da affiancare a quello già esistente nel nostro capannone di via Virgilio sembra essersi allontanato nel tempo. Sono come a "bagno maria" fino agli inizi del nuovo anno. Tengo caldo questo progetto e se si concretizzerà, bene, altrimenti, nel frattempo, maturerà qualche altra cosa. Certo, anche ora non sto con le mani in mano ma non interessa che io scenda in dettaglio. Quello che importa è comunicare insieme all'apprensione e all'incertezza (chi non ha mai provato la sensazione di avere sbagliato binario aspettando di prendere un treno alla stazione?) una serenità ed una fiducia di fondo. Sento che qualcosa si sta muovendo e ne sono felice. I segni di nuovi incontri, di rinnovati spazi interiori, le piccole cose che danno respiro alle idealità e alle utopie: è come un nuovo amore che sta nascendo. L'animo del fanciullo che non si arrende tira fuori la testa oltre le pesanti responsabilità che le constatazioni del mondo di oggi propongono. Fa soffrire questo fiorire di attese personali, direi quasi "private", nel contesto di una pesantissima aridità di valori e di progettualità collettive. Ma è sofferenza per ciò che pare assurdo e stonato rispetto alla necessità di tenere duro, alle fedeltà piccole e grandi, alla continuità del "bene", eppure risulta incontenibile come la febbre che, secondo i buoni medici di una volta, andava "covata" lasciandola esaurire nel suo scopo di essere segnale del passaggio della malattia. Come a volte mi dice Caterina, io do di me un'immagine "rigida" come di un uomo tutto di un pezzo, di una "colonna" della situazione, mentre nella realtà risulto molto più "flessibile". Io, che a volte tendo a pavoneggiarmi di fronte a questa mia carissima figlia, le rispondo che la mia altezzosa stabilità può forse indurre in errore, ma tutto sommato è sufficiente pensare che anche una antenna ha caratteristiche simili. Un'antenna pronta ad accogliere e ad entrare in sintonia con ogni segnale che il tempo che passa e la vita propongono. E magari fosse sempre vero...
Mi perdoneranno gli amici abituati a vedermi trafficare con il ferro e con il fuoco appena all'ingresso del capannone: l'antenna ha deciso di rispondere in prima persona agli ultimi segnali: si "ricomincia"!

Luigi

Un monastero chiamato vita

Questa è una specie di "storia interiore" - quasi una parabola - che vorrei cercare di raccontare a me stesso e agli amici che leggono queste nostre umili pagine, nelle quali però, a forza di inchiostro, scorre un pezzetto della nostra storia. Una storia fatta di cose molto piccole, come rivoli d'acqua che scorre a volte in montagna fra le foglie del bosco: ma da sempre la storia di una vita umana segnata dalla voglia di donarsi in pura amicizia e amore, in offerta serena del poco che si ha, perché vivere sia condivisione di ideali, di sogni, di umanità liberata dalla paure e dalle angosce di fraternità e di pace. Sempre a seguito del misterioso "inizio" che ha segnato la propria vita fino a spingerla su strade che allora - sono passati per me quasi trent'anni - sembravano come piste appena tracciate nel deserto. Poi il filo misterioso a preso a dipanarsi lungo lo scorrere del tempo ed ora mi ritrovo a descrivere questa briciola di storia che è la mia vita / nostra vita: questa "parabola" di cui parlavo all' inizio, sperando che la parabola non abbia un senso matematico ma un buon sapere evangelico.
Quando lavoravo in cantiere navale, come semplice manovale di seconda categoria, avevo la precisa sensazione - timbrando di corsa il cartellino ed entrando deciso con i miei compagni per la fatica quotidiana - di vivere come in monastero, in convento. Mi ha sempre accompagnato questo sentimento interiore di vivere il mio sacerdozio in uno "spazio sacro" che le mura assai alte del cantiere delimitavano anche materialmente. Anche se da un lato lo spazio si apriva verso il mare, esso era sempre ben circoscritto dalla diga del molo che riduceva il senso d'apertura verso l'infinito. La giornata era scandita in modo preciso, segnata nei minimi particolari, con le sue regole da osservare con attenzione, obbedendo agli ordini dei "superiori" e - in ultimo - al grido lacerante della sirena (una campana laica) che decideva l'inizio e la fine dell'impresa giornaliera. Il ritorno alla chiesetta della Darsena, con i piccoli spazi di preghiera, mi riconduceva all'interno del misterioso "silenzio di Dio" entro il quale sempre più mi pare si svolga non solo la mia vita, ma quella di tutti.
Poi la cronaca della mia esistenza è mutata; ma ripensandoci ora assai spesso, mi pare di capire con sempre maggiore chiarezza di avere avuto un "regalo" molto bello, che mi riempie il cuore di gratitudine e di pace. Perché in fondo è ciò che mi sembra di aver sempre sognato e desiderato fin dall'inizio: come un "monaco", un testimone dell' Amore di Dio per il mondo, per tutti e per ogni creatura, per il cielo e per la terra, per un filo d'erba come per la più splendida delle montagne, ma soprattutto per i piccoli ed i poveri. Vivere tutto questo dentro un monastero grande come la vita, che avesse per tetto il cielo e per muro di cinta l'arco di una giornata. Come unica, regola l'amore appassionato per tutti, camminando sulla pista tracciata dal Signore Gesù, nella fatica e nella speranza, nel dubbio della fede, nella lotta e nel riposo, nella fiducia di poter costruire un mondo diverso e nell'impotenza di fronte alla durezza della realtà. E la "campana" che regolava tutto doveva essere costruita col bronzo dei mille suoni che giungono incessantemente da ogni angolo del mondo, da ogni storia, da ogni vita, dai silenzi e dalle grida della moltitudine dei fratelli e sorelle, compagni di viaggio e di destino.
Mi rendo conto con molta chiarezza di essere uno strano monaco e di vivere in un monastero difficilmente inquadrabile nelle regole ecclesiastiche: cerco di non pormi neppure il problema di un "giudizio", lasciando tutto nelle mani di Colui che credo mi abbia spinto a forza sul sentiero che portava dentro alla mura di un simile "convento". Sono consapevole della responsabilità che tutto questo indubbiamente comporta; ma prevale il senso di profonda gratitudine per il dono ricevuto. Con tutto il carico di "pesantezza", di debolezza e fragilità (veramente portiamo un tesoro prezioso in vasi d'argilla!) sono felice di questa strana e misteriosa consacrazione monastica che sento tuttora viva e presente nella mia piccola storia. E con grande gioia mi pare di poter ridire ancora una volta il mio "si" al mio Abate

don Beppe

Che Guevara e il '68

Quest'anno, ora nell'ottobre, sono vent'anni dalla morte di Che Guevara. La ricorrenza non può non costituire un occasione di memoria qualificata in bene o in male a seconda del rapporto di giudizio con il personaggio. Accogliere o respingere spesso sono soggettivismi di nessun conto e ognuno la pensi come vuole.
Ma Che Guevara è uno di quei fatti storici che non soltanto segnano e specificano un tempo storico, un epoca. Chi "ha vissuto" allora, più che ricordarla questa "presenza storica ", l'ha sofferta con passione, ne è rimasto contagiato, ne ha sognato gli accesi sogni, vi ha ravvivato le speranze. Forse come mai in questi nostri tempi, così duramente segnati dalla maledizione dei "personaggi". E specialmente perché sul suo nome e la sua leggenda, si radunavano liberamente le speranze, uscivano gli ideali dal privato per incontrarsi e confrontarsi nelle piazze "a cantare" il palpitare del cuore, a sognare nuove spaziosità dove finalmente respirare la libertà.
Non era sinistrismo, anche se le bandiere erano rosse, ma straordinariamente di più di quelle di sempre. Non era cristianesimo ma semplicemente altro.
Tanto meno partitismo, aggregazionismo.
Era semplicemente e appassionatamente l'uscita dal privato, dal ghetto personale o di gruppo, dal chiuso dei sotterranei dalle strumentalizzazioni e oppressioni, culturali, sociali, politiche, religiose e uscire coraggiosamente all'aperto. Si, è vero, senza sapere dove andare, al di là di ogni programmazione, sulla fascia dello slancio e la spinta di un inesauribile stupore.
É innegabile che in quegli anni (brevi come una ventata improvvisa) fu scoperta una nuova terra dove abitare in modi assolutamente nuovi. Quasi come toccare con mano l'utopia, ma ancora più avvertire concretamente e in parte già poter vivere, il sogno come realtà.
É ai 18-20 anni di allora e "ai puri di cuore" e agli "innocenti di mani" di quel tempo, che appartiene l'esplosione di quella fioritura della stagione di Che Guevara e del '68.
Il "mondo" è stato a guardare con più o meno preoccupazione e sgomento. Perché l'umanità sa accogliere e subire la violenza, la sopraffazione, lo sfruttamento, la guerra. Ma non sa capire e tantomeno accettare i tempi favorevoli alla giustizia, alla libertà, all'uguaglianza, alla pace.
E quindi tutto è stato più o meno violentemente risucchiato dalla "saggezza", ingurgitato dalla voracità degli interessi economici, tutto è stato maledettamente strumentalizzato per le pazzie ideologiche e le criminalità più assurde dall'autonomia, B.R. partito armato...
É proprio triste ma forse la storia di sempre insegna che gli uomini non sono disposti ad accettare di poter essere uomini.
20 anni fa (si, certo può essere discutibile) fu un occasione, una provocazione, se vogliamo, di nuova umanità,decisamente fatta spengere o addirittura trasformata in pazzia criminale.

* * *
Ecco vent'anni dopo. Il mito di Che Guevara si è spento perfino nella memoria storica. É chiaro che non è una notizia da mantenere viva e che possa significare qualche valore.
É nel bagaglio della memoria individuale, ma forse accuratamente rimossa o relegata alle "pazzie" giovanili, di chi ne aveva incollato il poster famoso sulla parete della propria carnera, magari dove prima era il crocifisso e di chi, a pugno chiuso, levato in alto, ne invocava il nome scandendone le sillabe, nelle agitate moltitudini giovanili.
Chissà perche i "sessantottini" sono così silenziosamente scomparsi. É vero che il tempo tutto cancella e che gli anni tutto seppelliscono. Ma si è trattato innegabilmente di una cultura, di una vera e propria agitazione rivoluzionaria. Come un ribollimento improvviso a scuotere le fondamenta di basamenti culturali e di costume ormai consacrati dalla immobilità. Acque stagnanti per acquitrini dove, con acquisizione e possessi ormai definitivi, si acquattavano da sempre interessi di capitale, di potere, di dominio: e le acque si sono agitate hanno ribollito d'improvvisi entusiasmi nel tentativo appassionato di farne acque correnti, irriganti ogni arsura, ogni deserto.
Una poesia giovanile, certamente, un'utopia da ventenni, senz'altro, una pazzia, un'assurdità, un'appassionamento collettivo, un'epidemia di entusiasmi, il fascino di un nome-simbolo, un sogno imprecisato e imprecisabile di novità... si, certo, ci sta tutto in questa esplosione giovanile non spiegabile allora e non spiegabile oggi, dopo vent' anni, ma è chiaro e incontrovertibile che tutto il fenomeno Che Guevara e '68 è stata una LOTTA.
La parola vien subito da respingerla e non soltanto perché può esser parola-sintesi di ogni male, di ogni orrore e crudeltà, ma anche perché può significare esattamente il contrario: una coscienza chiara, cioè, della propria dignità, una volontà di respingere l'ingiustizia e l'oppressione, la ricerca appassionata della libertà... L'incontro collettivo, la solidarietà, l'unità delle forze.
Il superamento del privato, dell'individualità, il giocare tutto del se stesso per la collettività. L'universalizzazione degli ideali, il senso profondo di essere umanità, il non creare il successo quanto la linearità, la coerenza, l'onestà...
Lotta è sintomo di Fede, è motivata dall'Amore, è realtà di Pace, È speranza di novità.
L'uomo è Uomo in proporzione alla sua lotta: alla quantità e misura della sua lotta. Così un popolo: la sua civiltà o è significativa di un momento di lotta incessante o è acquietamento, passività, egoismo collettivo, immobilità dell'ingiustizia.
La lotta di per se stessa è condizione di costruttività, di creatività. È intervenire sul nulla, sul vuoto, sull'inutile, sul deviato; inquinato, imputridito... a ritrovare, a inventare, a scoprire, a realizzare o se non altro, a sognare, la novità, un cambiamento e cioè una rottura e un inizio, come dire una risurrezione: questa lotta suprema della vita che vince la morte.
Il '68, qualsiasi possa essere il giudizio storico, per chi ha vissuto quegli anni, è stato un momento di lotta, come forse mai nella storia. Senza particolari, raffinate libresche illuminazioni e provocazioni, è fiorita, e non per nulla dalle folle giovanili, una lotta capace di scoprire e selciare vie nuove da percorrere, senz'armi, senza violenza, senza prepotenza, ma cantando e sbandierando bandiere rosse, gridando a pugno alzato, unica indicazione di forza, un nome, quello di Che Guevara, un sogno tradito e falciato a morte ai margini di un villaggio boliviano.

* * *
Ogni volta che una lotta di liberazione si spenge o viene soffocata, muore un po' di umanità. Rimane certamente un fuoco acceso perché a nessuna forza diabolica o no, è permesso di estinguerlo, ma è sotto la coltre di cenere della storia e di spessore sconcertante. Spesso occorrono secoli e forse millenni e avvenimenti e sovvertimenti tali come quelli che hanno scosso e scuotono la crosta terrestre. Perché la "civiltà" cancella, fino alla scomparsa perfino della memoria, tutto ciò (uomini e avvenimenti) che significano e segnano, novità di umanità o ne fa monumenti decorativi di bronzo o di pietra, da collocare sulle piazze, alla pioggia e al vento.
Il '68 è stato cancellato perfino dalla memoria. Che Guevara fortunatamente non è né di bronzo né di pietra, anche se è vero che non è nemmeno un ricordo scolastico.
Il borghesismo è rimasto a guardare insospettito, l'ha sepolto sotto le sue frane. Il partitismo politico che l'ha accuratamente tenuto ai margini, l'ha diffidato come confusionismo politico e popolarismo pericoloso, aspettando pazientemente che l'ossigeno venisse a mancare a questo immenso profondo respiro di libertà e di creatività.
La teorica micidiale del terrorismo e la criminalità politica organizzata, vi ha piantato maledettamente le radici traendone frutti orrendi di pazzia sanguinaria, ottenendo quel crimine d'identità fra il '68 e il terrorismo. Buon gioco per le cosiddette "forze sane" per la soffocazione totale di ogni respiro di lotta, di ogni sogno di novità.
Vent'anni sono pochi per un'epoca. Pare ieri, appena a voltarsi indietro per chi ha e vuole e può avere memoria. E sono mille anni sulla misura di distanza segnata non dal tempo, ma dal cambiamento di realtà di vita individuale, collettiva, politica, sociale, culturale, religiosa... .
Attivismo e passività. Protagonismo e piatteria. Lotta e rassegnazione. Coscienza e incoscienza. Creatività e nullità. Voler contare e svuotamento totale. Sapere e voler pensare, inutilità e stupidità il cercare di pensare. La costruzione di una società nuova, il livellamento pianificato. I giovani, umanità giovane e la realtà attuale di consumo capitalistico e di partito. Le piazze, le strade animate, accese di entusiasmi e deserte di vitalità, di cultura, di politica...
I tempi, d'accordo. Ma i tempi sono costruiti dagli uomini e rispondono, rispecchiano, sempre fedelmente, l'umanità e la non umanità o la disumanità del tempo.
Con il '68 e con il mito di nome Che Guevara si è concluso il tempo nel quale ha palpitato una lotta. Una lotta autenticamente umana e così tanto sorprendente di valori umani, che a ripensarci alla distanza, dopo vent'anni, c'è da riconoscere che non poteva avere continuità.
Non poteva: perché sarebbe successo che degli uomini, che sono pure capaci di tutto, sarebbero stati capaci di umanità. Ma di umanità pare che non ne vogliano sapere.
Per poterlo credere ed averne la speranza occorrerebbe il Cuore e l'Amore di Gesù Cristo. Ma nemmeno la Chiesa, storicamente, ha questo Cuore e questo Amore.

don Sirio

Alberi e mitra

C'è un fatto di cronaca che mi è parso particolarmente significativo e quindi prezioso da raccogliere e offrire, pensando che poche persone abbiano avuto occasione di conoscerlo. È un fatto successo il 25 Gennaio '86, in un piccolo villaggio palestinese dei "territori occupati" con la forza e il sopruso dall'esercito israeliano: ma il tempo non è la misura di tutto. Ci sono avvenimenti che per la loro carica simbolica attraversano il passare degli anni e restano ad indicare una via di libertà e di lotta per un'umanità sempre più fondata sulla giustizia.
Qattaneh è un piccolo villaggio della Cisgiordania, a circa 15 Km. da Gerusalemme; ai primi di Gennaio '86 l'esercito israeliano ha distrutto tutta una vasta piantagione di viti, mandorli e ulivi per preparare il terreno ad un nuovo insediamento su quello che il governo di Tel Aviv considera "terre israeliane". Ciò che è avvenuto come "risposta" alla provocazione del braccio armato dello Stato di Israele, merita un attenzione ed una considerazione tutta particolare, perché è un gesto che indica vie nuove (vie "profetiche") di lotta per la pace ed il rispetto fondamentale dei diritti dei popoli. Un gesto "povero" che non può essere misurato dai risultati, ma che rappresenta un germe di speranza all'interno di una vicenda segnata dal sangue, dall'odio, dalla vendetta, dal "fucile contro fucile", da massacri senza fine.
Il 25 Gennaio circa 200 militanti palestinesi, israeliani e residenti stranieri si sono uniti agli abitanti di Qattaneh per compiere un opera di resistenza attiva, nonviolenta ma profondamente concreta: armati di zappe e badili hanno voluto piantare sulla loro terra ferita dal potere militare e dal sopruso politico, 600 alberi d'ulivo. I soldati israeliani erano presenti all'appuntamento coi mitra alla mano. Un avvocato palestinese, membro del Centro per lo studio della nonviolenza, ha spiegato il senso dell' azione: "Questi alberi sono preziosi. come la vita. Siamo qui per costruire pace; non getteremo né pietre né useremo metodi violenti per difenderci, qualunque siano le provocazioni dell'esercito".
La vicenda degli "alberi per la pace" è finita male: i soldati, non rispettando un accordo raggiunto dopo una faticosa e paziente trattativa, sono tornati il giorno dopo ed hanno sradicato tutte le piante d'ulivo. Un gruppo di militanti non violenti palestinesi ed israeliani sono stati messi sotto processo per "violazione di terre dello Stato".
Non so come sia finito questo processo che ha avuto luogo il 24 Maggio di quest'anno. Ma in tutta l'amara vicenda dei rapporti fra il popolo palestinese e il popolo israeliano rimane - come un piccolo seme - questo "fatto" veramente significativo: in esso è racchiuso un atteggiamento di vita, di amore, di lotta pacifica, di resistenza nonviolenta all' ingiustizia.
Non so neppure se nella terra tormentata della Palestina-Israele gli ulivi riusciranno a spuntarla sui mitra di uno degli eserciti più agguerriti e meglio equipaggiati del mondo. La storia del popolo ebraico, però farebbe pensare (magari molto alla lunga) ad una possibilità di vittoria per gli alberi della pace, se questa lotta diventasse una tenace ed instancabile lotta di popolo. Una possibilità di vittoria non secondo la ragione politica, ma secondo le ragioni di una Speranza che è possibile raccogliere nel cuore stesso di tutto il messaggio della Bibbia. Il progetto di Dio - proprio del Dio d'Israele - non passa per il filo delle spade ne per i cingolati dei carri armati o i vettori dei modernissimi missili. Certamente è impossibile sapere il prezzo richiesto perché quegli alberi morti rinascano ad una nuova fioritura in una terra abitata dalla giustizia e dalla pace. Il prezzo pagato finora, in una lotta atroce e fratricida, è stato già assurdamente altissimo. Ma la speranza riposa proprio su un altro "fatto" straordinario ed unico accaduto in quella Terra misteriosa e tragica: ciò che era stato ucciso può risorgere. Colui che fu crocifisso su di un albero per la salvezza di tutti custodisce dentro di noi la faticosa Speranza di un "mattino pasquale" per i due popoli che in quella Terra vivono da troppi anni una dolorosa "via crucis".

don Beppe

Viaggio in Etiopia

Assella 21 giugno 24 luglio 1987
Una goccia di rugiada
"Quello che puoi fare è solo una goccia nell'oceano ma è ciò che dà significato alla tua vita" (Schweitzer)
Le prime ombre del tramonto stanno calzando la terra che immensa si allarga dinnanzi alla nostra ansia di essere a casa prima della notte, il ruggito della Jeep fa eco all'impazienza di Josef, l'autista abilissimo che attraverso i boschi, valli, torrenti e campi seminati ci ha portati a visitare i comuni amici di Gambo dopo quattro ore di viaggio da Assella, la città della nostra permanenza in Etiopia per più di un mese.
La strada in terra battuta è costellata da bovini pacifici e solenni, dalle pecore svagate e incerte con i loro piccoli che come fuochi d'artificio saltano da un ciglio all' altro, gli asinelli dal passo lento e cadenzato con il basto e sguardo rassegnato rammentavano la lunga pazienza di un popolo, ombre bianche nella notte, in cammino sempre per la sopravvivenza, carico del faticoso peso della vita. Delle gazzelle si sono affacciate da un verde campo da pascolo, la loro curiosità è spezzata dal rumore ansimante del motore ed impennatesi velocemente riprendono il cammino nella brughiera. Questa domenica un po' "strapazzata" ha interrotto nella gioia dell'incontro con gli amici il nostro semplice lavoro di fabbri nella rumorosa e semplice tribù "piccoli principi etiopi". A Gambo - siamo nella regione degli Arussi - vi è un Ospedale Missionario con 3 medici volontari italiani ben tenuto ed efficiente, un villaggio per i lebbrosi con 3 suore a loro dedicate con competenza ed amore, ed un medico sacerdote francese specializzato in leprologia, P. Michel.
P. Monti e p. Renato ci hanno accolti con simpatia ed affetto donandoci un po' del loro tempo reso più prezioso dall' impegno domenicale. Alle dieci la s. Messa in inglese ed oromo: nella chiesa tipo occidentale a crociera greca, linda e ben tenuta, raccolti intorno ad un Crocefisso ed una Madonna col Bambino circondati dai fiori, bambini donne uomini giovani e ragazze nei loro vestiti dai colori intensi e vivaci ricordano un grande prato pieno di margherite. Al momento della Comunione il canto, l'attenzione semplice e meravigliata, di quegli occhi intensi pieni di dolcezza e di pazienza, le donne con il bimbo fasciato sulle spalle quei piedi scalzi sul pavimento rammentavano il brano di Isaia: "Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna; perché egli ha abbattuto coloro che agitavano in alto; la città eccelsa l'ha rovesciata fino a terra, l'ha rasa al suolo. I piedi la calpestano, i piedi degli oppressi, i passi dei poveri."

Cassim e Zelalem
Le giornate ad Assella sono ritmare dal lavoro, la nostra fatica è insegnare... una fatica grande per me che non conosco l'amarico né l'inglese. I ragazzi della carpenteria in ferro hanno avuto un'ottima e paziente istruzione nei 5 mesi donati da Luigi (1986): nella provvisoria ed accogliente officina in lamierino e legno. A distanza di 4 anni ritrovarmi di nuovo in questo piccolo villaggio dell'amicizia mi ha disorientato e commosso: nel 1983 vi rimasi per due giorni e i ragazzi erano 70, ora sono 180 ed un mese la mia permanenza. La prima settimana ho "navicato" con difficoltà: l'ignoranza della lingua, l'insonnia per l'altitudine (siamo a 2500 mt. di altitudine) la nostalgia della propria terra rendono profonda la solitudine. Mi avvicino un pochettino a tutti gli "emigrati" del mondo! In questa piccola città si sente ancora di più la nostalgia dell' amore.
Stiamo collaborando alla riparazione e costruzione degli infissi per la casa dei ragazzi.
Ho ritrovato l' antica officina di mio nonno Pietro e dei miei zii Rico e Salvatore. La ventola a mano della forgia con la chiocciola, il pavimento di terra battuta, il racimolare da ogni parte come merce preziosa gli scorci del ferro, l'economia sul carbone, i lavori di riparazione per le attività manuali: arrotatura di coltelli, la tempera e la costruzione degli scalpelli dei muratori, la riparazione degli strumenti da lavoro, la corona dei piccoli che guardano ammirati il lavoro dei loro compagni più grandi, un lavoro senza contare i tempi: unica marcatura del tempo: inizio alle ore otto e trenta - termine ore 12/ripresa 14,30 termine ore 17. Cassim, un ragazzino di 6 anni sveglio e sempre in guardia, trovato da P. Michel ai bordi di un bosco, si alterna con Zelalem alla manovella della forgia: con quel cappellino, scalzo preoccupato per le falene infuocate del carbone mi riporta a quei tempi della mia infanzia quando con il mio aiuto rendevo meno faticoso il lavoro del mio nonno.
Ora vicino alla pensione mi fa gioia di poter restituire in piccolissima parte ai poveri un povero mestiere imparato da povera gente.

Accoglienza e Amore
Al centro della "città dei piccoli principi" vi è una cappellina, il suo atrio è di legno, sposato con il verde di una palma e lo spreco di rosso e viola del bouganville; alla sera tutto si ravviva in movimento di ombra per la luna e la flebile luce di una lanterna in ferro dà un senso di attesa.
Mi attira il silenzio che la circonda e la pace che ti accoglie. Una luce nasce dal tabernacolo in legno e ferro: la firma è inconfondibile, Luigi, e i ragazzi della fucina! È un riassunto del mistero della salvezza e liberazione di ogni uomo, e ogni donna. Sull' altare una copia del Crocifisso di S. Damiano, sulla destra una icona: la Madonna con il Bambino che guarda intensamente la madre dal volto triste.
Ritornavo ai tempi - in quelli spazi di preghiera - della mia adolescenza: ecco l'aula della terza elementare, una statua della Madonna con il vaso dei fiori, da una parte collegata alla carta geografica dell'Italia la carta dell'Etiopia (allora veniva chiamata Abissinia) con le diverse bandierine che segnalavano l'avanzata delle truppe italiane nella guerra contro queste povere popolazioni. Aveva scelto, il fanciullo divenuto vecchio, di ritornare in questa terra per chiedere perdono dell'immenso dolore, della sofferenza degli assassinii compiuti dal mio popolo contro questi fratelli e sorelle inermi e indifesi.
Vi è una responsabilità nel male a cui non possiamo sfuggire, fa peso nel cuore come marchio a fuoco. L'essere cristiano e sacerdote ha reso ancor più duro e pesante il fardello di questa corresponsabilità e convivenza allo spirito di Caino avvallata da una pseudo giustificazione religiosa cristiana e consacrata con benedizioni alle partenze dei soldati e con Te Deum di ringraziamento al ritorno delle truppe vincitrici. Personalmente ho sentito questa esigenza di riparazione dal 1983 quando andai a far visita ai missionari e nell'impegno costante - anche se minimo - con gli Amici del Terzo Mondo in questi anni per la città dei ragazzi di Assella.
Puntuali alle 19 prima della cena arrivano alla spicciolata i ragazzi per la preghiera della sera: piccoli e grandi si inchinano riverenti, silenziosi prendono i loro libretti dei canti, i piccoli si accoccolano intorno all' altare e alla Icona della Madonna; eccoli i piccoli principi, alcuni dal passo svelto vestiti alla buona, chi scalzo chi con le scarpette "scalcagnate'', altri si affaticano sulle grucce, il cieco è condotto dall'amorevole compagno di turno, il sarto sempre impeccabile nel vestire si lascia condurre sulla sua carrozzella... il loro canto è intercalato da frequenti colpi di tosse, il vecchio Abba Eduard con la sua fisarmonica incita queste creature di Dio a riconoscerlo nella gioia e nell' amore come Padre Amoroso... mi sembra che il volto dell'Icona si distenda nella sua tristezza!
Alla mensa dividiamo la parca cena, il vassoio colorato dell'ingera fumante riunisce in gruppi di 5 i 180 ragazzi ricchi di appetito, desiderosi di amicizia e di gioia di vivere.
Ai più piccoli come in tutte le famiglie è concesso il bis.

Abba!
Può sembrare strano ma questa parola (Padre = Abba) rivoltami tantissime volte dai ragazzi mi ha commosso dal profondo del cuore. Buongiorno, buonanotte Abba; passavi con il secchia dell'acqua, te lo toglievano di mano, Abba - pensiamo noi -. Alla sera uscendo dal refettorio e dalla sala dei giochi o TV, ti accompagnavano per paura che tu cadessi. Hanno cercato di accerchiarmi con la sovrabbondanza del loro affetto e tenerezza. Continua ancora l'eco nel cuore di questa parola che colma di gioia un uomo di 62 anni! Zelalem non parlava, ma il suo sorriso tutte le mattine si univa alla gioia del sole nascente: era il suo buongiorno alla finestra della mia cameretta. Abì, nella sua tuta splendente di blu indossata per il footing dopo la sua giornata di spaccalegna, esprimeva nella semplicità della sua mente il suo inno alla vita. Noà, il solo che conosceva abbastanza l'italiano, traduceva ai ragazzi attenti i nostri costumi italiani, la vita della nostra gente e la descrizione di Viareggio, il suo mare, il Carnevale, la vita dei nostri ragazzi all'Arca, illustrati dalle fotografie... attentissimi si facevano quando raccontavo loro la meravigliosa storia di un Etiope - Bikila - nella maratona alle Olimpiadi di Roma, primo e scalzo al traguardo!
Questa piccola città dei ragazzi (1/3 sono Handicappati fisici) è indicazione della realtà dolorosa dell'Etiopia e della volontà di un popolo di intraprendere un cammino più umano. "L'uomo fu creato a immagine di Dio. Mi rifiuto di immaginare un dio ignorante, superstizioso, pavido, oppresso, infelice. Nel momento noi siamo creature non di Dio ma degli uomini" (NYERERE).
Statistiche recenti evidenziano il fatto che in Etiopia d siano un milione e mezzo di handicappati inferiori a 14 anni; mezzo milione di bambini ciechi, 150 mila lebbrosi, una mortalità infantile sotto i 4 anni del 143 per mille, un dottore ogni 80 mila abitanti. Di fatto solo una parte minima di questa massa di sofferenti viene raggiunta dalle opere assistenziali sia governative che volontarie.
"Noi cristiani vogliamo una liberazione integrale, ma non possiamo escludere la validità di una liberazione parziale e sappiamo che una vera liberazione spirituale non si ottiene senza rompere le catene della schiavitù e della miseria".

Amore per gli ultimi
Ad Assella si cerca di vivere con semplicità quello che diceva un missionario della Consolata P. Giovanni Bonzanino, morto improvvisamente a Shashamane in Etiopia il 30 gennaio 1983, dopo 30 anni di vita missionaria, di cui 20 in Kenya dove aveva vissuto la rivolta dei Mau Mau.
"Sono un missionario che vive dentro una rivoluzione. e mi sono convinto che l'esperienza missionaria, in questo contesto, richiede una forma nuova.
La rivoluzione è una fase storica dello sviluppo, forse la più sanguinosa della storia della nazione, e certamente difficile per la missione.
Talora però è necessario passare dentro questo ciclo terribile, perche l'uomo possa superare una fase disumanizzante e riuscire ad essere uomo. L'amore di Dio include la rivoluzione, anche se queste sono tragedie ordite dalle oppressioni. Se però una rivoluzione, soprattutto africana, allontanasse l'uomo da Dio, non farebbe giustizia all'africano, che Dio lo possiede e lo merita per quello che ha sofferto.
Per questo la missione deve cercare di permeare la rivoluzione. Perché questa realtà per quanto dura appaia, non rimanga senza Dio. Nell'edificazione di un vero sistema di sviluppo umano e di pratica di giustizia, Dio è la pietra angolare e un missionario non potrà morire in pace se, durante la sua missione nella rivoluzione, non sarà riuscito a cementare sia pure modestamente questa pietra".

Il più importante è invisibile
Hanno fatto festa per noi: si sono abbandonati all'allegria, hanno modulato in coro ed in assoli la voce in canti e in balli della loro immensa e svariata (40 idiomi) terra al ritmo dei tamburi rafforzati dal battito sincronizzato delle mani, ci hanno offerto dei fiori e dei doni del loro artigianato. Per me, il nonno, il corno lavorato per aiutarmi ad infilare le scarpe (senza chinarmi troppo!) un intarsiato scacciamosche riservato ai pensionati, un portafogli in pelle per racimolarci la magra pensione, a Luigi una borsetta come impegno a tornare fra loro.
Li guardavo raggianti di gioia di vivere e colmi d'affetto, un bellissimo mese di amicizia e di condivisione: ho letto come un piccolo bambino alcune parole di saluto che generosamente e affettuosamente Noà e P. Alvaro mi avevano insegnato a sillabare nel difficile amarico:
"Carissimi amici, Abba Silvio - Eduard - Alvaro - Domenico, vi ringrazio per questo mese si amicizia. vi porterò con Abba Luigi sempre nel cuore. Grazie".
Da quei volti ridenti si stagliavano Yob, Getachaw, Haulu, Akliln, Libay, Teddy, Taddesie, Daniel, Grum, Yottanny, Derese, Ameka, Pippo, Breket, Gezattagu, Girma, Alemayehn, i compagni forgiatori a cui ho lasciato - nel fuoco - un piccolo seme di un antico mestiere segno temprato della mia amicizia e da una richiesta di perdono.
Cassim desidera la mia papalina.. "Abba, cufìa": sono rimasto titubante per non fare preferenze, ma poi gliel'ho data per la sua gioia e per la mia!
In volo da Addis Abeba, Gedda, Roma pensavo ai 180 Piccoli Principi neri: non capivo la loro lingua così loro non comprendevano la mia, ma parlava il cuore.
Dov' è essenziale? non nelle cose ma nel cuore degli uomini e delle donne, in quel mondo invisibile che li unisce agli altri ed al mondo esterno: l'Amore
"Non si vede bene con gli occhi del cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi."
"Poiché il Piccolo Principe si addormentava lo presi tra le braccia e mi rimisi in via. Ero commosso. Mi sembrava di portare un tesoro fragile. Mi pareva anzi che non vi fosse nulla di più fragile sulla terra. lo guardavo alla luce della luna questa fronte pallida, questi occhi chiusi, queste ciocche di capelli che tremolavano al vento, e mi dicevo: ciò che io vedo non è che la scorza. Il più importante è invisibile." (Piccolo Principe)

Rolando

Diciamo di "sì" per non dire di "no"

Il M.I.R. (Movimento Internazionale della Riconciliazione) e il Referendum Popolare sul Nucleare.
In relazione al Referendum Popolare del 8/9 Novembre prossimo riguardo al problema dell' impiego dell'energia nucleare per scopi civili, il movimento Internazionale della Riconciliazione esprime ancora una volta la sua chiara posizione CONTRO L'USO DELL'ENERGIA NUCLEARE, anche se per usi civili.
Con la profonda convinzione che la lotta contro l'installazione delle centrali nucleari sul territorio nazionale è lotta per la difesa della salute pubblica, per l'affermazione di un diverso modello di sviluppo economico e politico e per non lasciare alle generazioni future inquinanti e micidiali depositi di scorie radioattive, pericolo di morte per millenni.
L'amore per tutte le creature e lo spirito di fraternità universale che sono alla radice del MIR, esigono un pronunciamento schietto a favore di una civiltà che sia chiaramente "umana", di fronte ad una prospettiva tecnologica che pretende di anteporre il profitto al bene comune, fino alle misure di rischio della 'disumanità".
La fede nel Dio Creatore della vita ci spinge a rifiutare quelle forme di progresso che in realtà costituiscono un attentato alla Creazione e rischiano di provocarne la distruzione.
Non possiamo essere d'accordo - per motivi morali, scientifici, sociali con coloro che in nome del benessere e del progresso tecnico e industriale pretendono il diritto di mettere a rischio la salute e la stessa sopravvivenza non solo delle generazioni presenti, ma anche di quelle future.
Per questo, il nostro invito è chiaro: diciamo "si" al referendum abrogativo del programma nucleare, per dire di "NO" ad un tipo di economia che mette in pericolo la vita e la sopravvivenza sulla terra.
La segreteria del MIR
Viareggio 20/9/87
Il presidente del MIR
Sirio Politi

Minuti di silenzio

Un minuto di silenzio per ogni bambino ucciso
Per il sangue giovane sparso nel '76
Settecento minuti di silenzio
un minuto di silenzio per i bambini che muoiono

Un minuto di silenzio per coloro che sono morti
in prigione senza processo
57 minuti di silenzio
Tanto silenzio, tanti minuti
Vittime di un sistema violento
Un minuto di silenzio per ben 17 morti uccisi da
un esplosione che ha lasciato le strade rosse...
Un minuto di silenzio per i tre giovani impiccati
senza misericordia.
Il silenzio continua, i minuti passano...
Quante vittime, quanti morti?
Quanti minuti di silenzio?
Se noi sommiamo tutti questi minuti
quanto tempo avremo?
Ore, giorni, settimane, anni!
Se noi avessimo usato quel tempo per eliminare
1'ingiustizia...
Ma noi non avevamo tempo...
Nessun tempo per ascoltare le urla dei senza casa
Nessun tempo per porre fine all'oppressione
Non avevamo tempo..
Ora quello che ci resta.. .
sono minuti... di silenzio.

Poeta anonimo (Sudafrica)



La mia malattia

Mi sembra alquanto strano che mi permetta di raccontare qualcosa di questi due mesi particolarmente pesanti per me (e quindi anche per gli amici che mi sono vicini). Ma è anche vero che la malattia è parte integrante dell'avventura della vita. Non può essere vissuta privatamente, anche se, come è evidente, è un fatto strettamente personale.
Da mesi ormai i miei spazi si sono andati restringendo ad un letto di ospedale e poi qui in questo angolo della Darsena. Non credo però che la mia realtà interiore abbia perduto spaziosità. La malattia, l'essere ammalati, divide, separa, richiude materialmente e ripiega in una misteriosa sensazione di annullamento. Ma è anche esperienza di dilatazione interiore, quasi, e profondamente, espansione, universalizzazione.
Spesso sperimentare la limitatezza dona la conoscenza della totalità.
Una malattia strana, questa che mi è stata riservata. E ancora, dopo estenuanti ricerche, non è chiaramente diagnosticata. Forse una di quelle che arrivano puntualmente al momento del pensionamento, probabilmente per una giustificazione a smettere di lavorare, per una esortazione a voltare l'orientamento della vita là dove è il senso giusto e conclusivo.
La dolce bontà di Dio conosce bene i percorsi e è il suo Amore che li assegna: quindi tutto come a Dio piace.
Chiedo scusa agli amici che mi hanno scritto lettere se non hanno avuto risposta e a tanti altri che non hanno saputo più niente di me. Vorrei dire e con tutta sincerità e Amore che porto tutti fedelmente nel mio cuore. E' insieme che ho cercato di reggere, senza stanchezze interiori, nella serenità e nella pace, questo periodo particolarmente pesante della mia vita, come negli altri momenti di ricerca, d'impegno, di responsabilità, di lotta. Ringrazio Dio per quella misura di fedeltà che mi ha donato nella sua infinita bontà verso di me.
Anche il giornalino, questa lettera agli amici che è Lotta come Amore, ha risentito della mia malattia. Questo è il secondo numero in questo 1987! Non è che siano venuti meno i problemi, o mancate le nostre riflessioni. Da parte mia avrei potuto molto raccontare dell'esperienza ospedaliera, di questo mondo, estremamente misterioso, dominato dalla scienza e da uomini che la rapportano al povero malato, rapporto praticamente fondato sul potere e conseguentemente sulla paura, ma dove la sensibilità umana è totalmente inaridita nella ricerca scientifica.
Il discorso sarebbe lungo ma anche inutile perché se c'è realtà di problemi umani, sociali, politici e anche religiosi, dove la lotta per un cambiamento, una qualsiasi novità, qui da noi, è impossibile, anche nell'immaginazione, è nel mondo, accuratamente chiuso a doppia mandata, degli ospedali.
Per quello che mi riguarda questa esperienza della malattia e quindi ospedaliera, era necessaria per il compimento di quelle scelte che hanno determinato tutta l'avventura della mia vita. Dalla scelta di Gesù a quella della vita operaia, alle realtà di lotta lungo tutti questi anni, nella vita sociale ed ecclesiale, fino all'esaurimento delle forze fisiche e del vivere in un letto accanto ad innumerevoli altri letti.
Mi vengono alla memoria e le offro a me e a voi tutti, carissimi fratelli e sorelle, come saluto affettuosissimo le parole del profeta Geremia: "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto forza e hai prevalso" (20,7).
E alla sua fedeltà di Amore possiamo serenamente affidarci.

don Sirio

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