Eravamo abituati a vedere il suo nome in calce a diversi articoli di questo giornalino. Ora lo apre, a dare quella notizia che mai avremmo voluto scrivere. Ma forse, tra chi riceve questi semplici fogli, c'è gente non ancora raggiunta dal triste e doloroso annuncio della morte di Sirio. Lui stesso aveva scritto, nel penultimo numero, della sua malattia. Con dignità e serenità, in un tempo in cui ancora stava lottando duramente per un vivere che sentiva ricco ancora di tanto amore e di tanta luce dentro di sé.
Dal tempo di Natale le sue condizioni sono andare ulteriormente aggravandosi ed è venuto il tempo di un vero e proprio calvario vissuto con lucida fermezza ed altrettanto ferma speranza. E si scusava con chi ne raccoglieva il lamento.
Ha ceduto il cuore soprattutto; quel cuore sofferente dagli anni giovanili e sostenuto poi, quasi miracolosamente, da scelte ideali che lo hanno impegnato oltre ogni misura nelle lotte, negli in-contri, nei rapporti personali vissuti sempre - come lui usava dire - «a gran cuore», «a cuore aperto». E a cuore aperto è stato operato a Pisa, in una condizione ormai disperata per le condizioni generali dei suoi organi seriamente compromessi. Nella notte tra l'11 e il 12 febbraio, dopo giorni di indicibili sofferenze per la strozzatura della valvola aortica, un intervento di oltre quattro ore da lui stesso accolto per tentare di fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di farla finita anche solo con quella immensa fatica appena a respirare...
Dopo l'operazione di sostituzione della valvola, Sirio non ha più ripreso conoscenza. Nella fredda solitudine della camera di terapia intensiva della cardiochirurgia di Cisanello, ha vissuto il suo ultimo eremitaggio. Chi lo ha visto - quasi di sorpresa, in quei giorni in cui eravamo tutti fermati da una porta chiusa, sospesi alla labbra dei medici - ha avuto l'impressione che dormisse: il volto sereno nella corona dei suoi capelli bianchi.
Dopo due giorni dall' operazione il filo di speranza coltivato in silenzio è andato via via indebolendosi e le notizie dei medici sono divenute sempre più scarne e imbarazzate. La notte del 19 febbraio siamo stati chiamati da un'infermiera: la pressione andava scemando, il polso si affievoliva sempre più. Abbiamo atteso alcune ore; senza parola. Appena prima dell' alba la porta si è aperta e abbiamo potuto abbracciare il suo corpo per l'ultima volta.
Un abbraccio caldo, affettuoso, semplice ed insieme intensissimo quello di tanti amici che lo hanno atteso alla Chiesetta dove è stato portato il giorno dopo, per quei legami burocratici che lo hanno oppresso oltre la fine. E le porte della sua casa si sono aperte ancora una volta ad accogliere gli amici e cioè tutti quelli che ne hanno varcato la soglia o si sono fermati davanti all'ingresso a riconoscere volti mai dimenticati di incontri antichi e recenti nella comune amicizia con Sirio. Ed anche il cielo si è colorato di azzurro e il sole caldo ha rivestito il mare dei colori della primavera.
Sono stati giorni molto belli, vissuti nella semplicità di segni capaci si suscitare gioia profonda nei cuori; e tanta, tanta pace. È apparsa piccola la morte, sopraffatta dal calore della vita: il suo spazio occupato dal dilatarsi di tanta serenità; Ed il dolore è stato accolto e sperimentato senza paura: come l'altra faccia dell' Amore.
* * *
Abbiamo voluto raccogliere in questo giornale i testi letti nella veglia della sera del sabato. Un incontro «laico» e cioè di tutti gli amici al di là di ogni distinzione, motivazione, segni o bandie-re. Abbiamo lasciato parlare lui. Alcuni amici del tempo del teatro hanno scelto pochi, ma signi-ficativi brani, poesie, canti scritti da Sirio. E ci siamo scambiati nel silenzio, insieme ad una stretta di mano, l'immagine serigrafata della sua Chiesetta aperta come una strada sul cammino dell'umanità.
Poi la cronaca della domenica: una folla ad accompagnarlo tra i cantieri della Darsena fin dentro il grande padiglione del Nuovo Mercato Ittico, ultimo campo di lotta di Sirio insieme con i «suoi» pescatori.
Ed i testi biblici scelti con sapiente e delicato affetto. Poi due testimonianze, tra le più significative.
Un numero di «Lotta con Amore» scritto ancora per la gran parte da Sirio. Un ultimo numero in questo senso: non potrà infatti essere più come prima. Era essenzialmente Sirio questo suo giornaletto: dagli anni lontani de «La voce dei poveri» fino alle diverse edizioni di «Lotta come Amore». Era la sua lunga lettera agli amici, la sua voce nella Chiesa la sua esperienza mai vissuta per sé stesso ma come dono umile e semplice da comunicare. E gli amici vi trovavano posto perché lui stesso sollecitava e gli piaceva che fosse come la voce di una famiglia: «dài ragazzi, bisogna scrivere qualcosa».
Continueremo la pubblicazione di questa lettera di amici agli amici perché un'amicizia continua ad essere vissuta; ed un impegno, una ricerca di vita. Come ci riesce, secondo uno stile che non sarà più il suo perché non possiamo cercare l'imitazione, ma l'autenticità di cui ci è stato maestro.
* * *
Ringraziamo qui tutti coloro che ci hanno sostenuto in questi giorni: con il pensiero, la preghiera, la presenza affettuosa e viva. Ad alcuni abbiamo scritto. Molti ci perdoneranno se lo faremo via via che l'occasione si presenterà. Intanto vi abbiamo tutti nel cuore come un grande, prezioso dono. Per aiutarci, tutti insieme, a continuare ad amare e lottare per amore. Perché la Fede sia provocazione vicendevole a crescere ad autentica misura di umanità. Perché la Speranza di un antico sogno renda nuova la Chiesa e il mondo. Perché l'Amore sia energia di novità e di verità nei rapporti umani.
Ora più che prima, con l'aiuto di Sirio.
Si è spento ieri, colpito da un male incurabile, don Sirio Politi. Nella Toscana di don Lorenzo Milani, la grande lezione di don Sirio ha segnato per decenni quell'incontro fra la terra e il cielo, fra 1'acqua benedetta e il sudore che rivela nel mondo i passi della lunga passeggiata del Dio dei cristiani.
Il cristianesimo non è amore o fratellanza, diceva un altro grande sacerdote. Altre religioni parlano di amore, altruismo, donazione. Il cristianesimo sarebbe una religione come le altre se dovesse consumarsi nei sentimenti e nelle buone azioni. Il cristianesimo succhia invece i propri umori da un uomo, da orme nella polvere, da bocconi di pane e da sorsi di vino: si è cristiani quando si è innamorati di Gesù Cristo. E di questo innamoramento don Sirio fu un segno instancabile su questa terra calpestata da quei passi lontani.
La spada fu segno di scandalo fra i suoi stessi confratelli. E la scelta di don Sirio - quella di vivere tra gli uomini come prete operaio, dividendo quella fatica che spesso vela lo spirito - gli procurò talvolta incomprensioni con le strutture gerarchiche. Ma i semi che spargeva a piene mani nel suo cammino non tardavano a produrre frutti: nei suoi scritti e nella sua vita si affollavano i discepoli e gli amici affascinati da quegli occhi luminosi, da quella allegria dell'amore, da quelle mani che battevano il ferro e scrollavano le api dell'alveare dai favi carichi di miele.
Ogni innamorato si identifica con la persona amata. E coloro che sentono la vocazione a imitare Gesù abbracciano il sacerdozio e salgono i gradini dell'altare per ripetere le prediche e le lezioni dei Suoi tre anni di vita pubblica.
Don Sirio aveva scelto altrimenti. Aveva scelto di viaggiare in quel tempo misterioso che tanto aveva affascinato François Mauriac: i trenta anni di vita privata di Gesù Cristo. Un tempo scandito dal lavoro, dalla fatica di vivere, dai gesti banali e semplici del quotidiano. Nel capannone di Viareggio in cui risuonavano i colpi del maglio le tenaglie di don Sirio non piegheranno più 1'asta addomesticata dalla fornace. Ma altri uomini e altre donne continueranno la sua avventura, e in quelle stradine della Darsena risuoneranno per molto tempo ancora i rumori di Nazareth.
Alcuni hanno scelto la vita di Gesù come modello esclusivo e vivono fra gli uomini senza mai rivelarsi. I Piccoli Fratelli, i seguaci di Charles de Foucauld, sono impiegati, manovali, domestiche, operai: la sera si ritrovano per una preghiera e una meditazione che non è mai pubblica. La Buona Novella non è per loro proselitismo ma solo esempio di vita. Don Sirio si sentiva molto vicino a questa predicazione silenziosa, ma era troppo figlio del suo tempo per evitare la lotta aperta. Ripeteva la vita privata di Gesù nel modo di essere in mezzo agli uomini, dividendo con loro i rischi e le pesantezze del lavoro manuale. Ma nei suoi libri e nelle riviste che animava, nelle corrispondenze fitte che intratteneva, nelle conferenze e nei «ritiri» non si sottraeva alla chiamata apostolica: gridava dai tetti quella fede che è essenzialmente un «voler credere», in cui la volontà non si dà una volta per tutte ma deve essere riconquistata ogni giorno. E scendeva volentieri in campo con la tonaca e il messale nelle grande cause civili: la pace, l'inquinamento, il nucleare lo vedevano in prima fila a dibattere e ad agire.
Il «maestro di musica», il grande personaggio di Herman Hesse che educa i discepoli di quella spirituale repubblica ove regna solo l'amore di conoscenza e bellezza, si avvicina al termine della sua vita.
E nelle sue ultime ore, racconta il grande scrittore, la fragile figura del vecchio si illumina , in una laica trasfigurazione, della luce trasparente dello spirito che fugge la carne stanca. Così vorrei ricordare, fra la terra e il cielo, gli ultimi istanti di don Sirio.
Fabrizio Galimberti
Un incontro di amici: la veglia di sabato 20 febbraio
Ci siamo incontrati 42 anni fa: Sirio giovane sacerdote già in discussione con la sua vita di parroco, io all'inizio della mia vita di donna e d'insegnante.
Nel lungo percorso ci siamo seguiti ora vicinissimi, ora separati dalle diverse strade intraprese, tuttavia sempre a conoscenza e consapevoli dei problemi e delle difficoltà l'uno dell'altro.
Ora, gli amici - forse per questa lunghissima consuetudini - mi chiedono di introdurre quest'ora di riflessione che ci lega nel comune dolore.
Ascolteremo Sirio.
Sarà tra noi attraverso alcuni dei suoi scritti, così densi e significativi, che hanno puntualmente marcato ogni momento della sua vita; sarà tra noi a testimoniare come ogni decisione, ogni svolta, sia stata sofferta, travagliata fino a raggiungere la consapevolezza della sua totale necessità
Sirio nel mondo del lavoro, qui nel quartiere che aveva scelto, dopo la quiete di Bargecchia per calarsi, lui, uomo di studio, nel mondo operaio, nel vivo, consapevole di esporsi alla critica, al biasimo, financo alla beffa di chi non riusciva a capire, o di chi capiva troppo.
Percorso necessario per fare suoi il travaglio e la sofferenza umana.
E da qui ricominciare.
Dalla scoperta della condizione operaia, dalla conoscenza della fatica, della povertà e del dolore alla consapevolezza dei grandi temi della vita contemporanea: l'antinucleare, il disarmo, la pace.
Sirio condannato per la vicenda di Montalto di Castro; Sirio, apostolo di pace.
Dopo un lungo periodo di lontananza, l'ho ritrovato, malato, ma così vivo, infinitamente ricco, vicino ai giovani ai quali sapeva e voleva dire tante cose ancora.
E tutto ciò è sembrato interrompersi, ma una pagina scritta più di vent'anni fa ci rimane - quasi testamento - a dirci il significato della lotta, del resistere; la volontà di capire sempre quale deve essere il nostro ruolo, senza finzioni "con autenticità", come Sirio soleva dire.
* * *
Abbiamo detto e letto poco, abbiamo appena sfiorato e meditato, noi laici, i problemi che ci hanno legato a Sirio, ma non possiamo trarre conclusioni, perché conclusioni non ci possono essere.
Sirio ci ha indicato una strada, una strada che non termina, sulla quale deve essere costante l'impegno di lotta: "..posso anche aver sbagliato tutto nella mia vita, ma non mi interessa perché anche se posso aver sbagliato, non posso credere a questo errore dal momento che mi ha costruito così profondamente e mi ha liberato da me stesso, dal momento che io non esisto più ma esistono i problemi degli altri, i problemi della vita, della storia, che mi sostituiscono in maniera piena e totale".
(Franca Papi)
(1956-59: la vita operaia. Testo letto nella veglia)
La mattina che sono andato al lavoro io volevo che gli operai sapessero che io ero prete; quindi sono andato vestito con la tonaca, sono arrivato al cancello dove c'erano degli operai in attesa che suonasse la sirena per l'inizio del lavoro. Arriva dunque questo prete, si avvicina; gli operai vedono che non passo davanti al cancello ma vado verso il cancello e quando sono lì a pochi passi si aprono in due gruppi e si ammiccano l'uno con l'altro con gesti molto strani: sono un prete e bisogna difendersi come da una specie di malocchio... hanno messo particolare attenzione che io non li sfiorassi... Il cancello era ancora chiuso e sono rimasto lì, solo, nessuno mi rivolgeva la parola.
Suona la sirena, si apre il cancello e io entro dentro e timbro per la prima volta il cartellino. Sono andato negli spogliatoi, mi sono liberato della tonaca e l'ho attaccata ad un attaccapanni, mi sono messo la tuta e ho cominciato. Anche la seconda mattina sono tornato con la tonaca poi in seguito sono sempre andato in tuta; solo in occasione di scioperi di manifestazioni, io partecipavo regalmente vestito da prete perchè era importante che un prete fosse visibile dentro le lotte operaie.
Sono passati molti mesi prima che io fossi veramente accettato dagli operai: nel primo anno direi che non ho molto legato perchè è continuata quella diffidenza iniziale che io capivo molto bene, che giustificavo pienamente anche perchè sentivo che io dovevo portare le conseguenze di una separazione del mondo operaio dalla Chiesa e della Chiesa dal mondo operaio. Quindi non potevo pretendere che la mia presenza potesse significare qualcosa di diverso. Poi qualcuno ha cominciato ad avvicinarsi e a chiedermi: «Cosa fai?» Oppure: «Perchè sei venuto?». Altri insinuavano: «Sei il ruffiano del padrone, sei la spia del Vaticano... se tu sei qui ci sono dei motivi perchè i preti sono disposti a stare bene, a non lavorare, a non faticare, a campare sui sacramenti...».
Io in quel periodo vivevo in una solitudine veramente paurosa: qui nella mia stanzetta e nella mia chiesetta ero proprio abbandonato a me stesso; il clero mi aveva segregato e direi quasi emarginato, non avevo rapporti e possibilità di discutere i miei problemi, né qualcosa che mi aiutasse a reggere questa situazione così pesante. Ero nella solitudine anche nella vita operaia perché per giornate intere io non scambiavo una parola; tutt'al più dicevo buongiorno a qualcuno... In quel tempo di lotta politica radicale i preti non potevano andare per le strade senza rischiare di essere umiliati. Però ho conservato molta serenità e molta pace anche se vivevo un'attesa molto penosa.
Le cose si sono poi scongelate pian piano; qualcuno ha cominciato ad avvicinarmi, ho detto dove abitavo, perciò potevano indagare cosa facevo, come vivevo, invitavo a discutere. Così certe cose hanno cominciato un po' a chiarirsi e c'è stato un avvicinamento da parte di qualcuno, ma nella massa è rimasta la separazione e la diffidenza dei primi giorni. Per l'amicizia di un ingegnere sono poi entrato in un altro grande cantiere dove le cose sono andate rapidamente cambiando, un po' perché tutto l'ambiente operaio sapeva di questo prete che lavorava, poi perché sono avvenute delle cose molto importanti.
La prima è questa: una fabbrica di riparazioni di vagoni è andata in crisi anche perché c'era il progetto dello smantellamento di tutta la fabbrica; gli operai hanno reagito barricandosi all'interno dell'azienda. Questa occupazione di fabbrica è durata praticamente quindici giorni. A quei tempi la solidarietà operaia era molto intensa e la città ha sentito molto la vicenda. Le mogli e gli amici degli operai avevano portato materassi, coperte, paglia, alimenti di prima necessità perché i 150 operai chiusi dentro la fabbrica, in questo volontario campo di concentramento, potessero resistere. Io sono andato e ho trovato operai seduti, lassù, sul muro di cinta; e sotto i picchetti di polizia e carabinieri. Ho chiesto alla direzione di poter entrare. Niente. Ho detto che il sacerdote è concesso anche ai carcerati e ai condannati a morte, ma nulla da fare. Sono ritornato nei giorni successivi nel pomeriggio dopo il lavoro per vedere, sapere; parlavo... Qualcuno ha avuto la buona idea di chiedermi se io la domenica avessi celebrato la messa nella fabbrica occupata. Ho riflettuto poi ho deciso di andare. Ho messo gli arredi sacri in una valigia, ma non mi sono presentato all'entrata principale ma nella parte della fabbrica che si affacciava sulla campagna. Mi sono presentato al muro, mi hanno calato una scala, vi sono salito e gli operai mi hanno aiutato a scendere dall' altra parte. Questa mia azione, che poi è stata qualificata come «il salto dal muro», è stata importante perché la cosa fu risaputa dall'opinione pubblica e da tutto l'ambiente operaio della città. Avevo infatti scavalcato una legge terribile, quella che separa così spaventosamente gli uomini. Celebrare l'eucarestia si collocava perciò molto bene in quella situazione di angoscia, lotta, sofferenza, oppressione.
Sceso dunque dall'altra parte del muro ho camminato qua e là guidato dagli operai a vedere la loro precaria e penosa sistemazione di occupanti. E mi hanno fatto vedere l'azienda: un' attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant'anni fa, un disordine inconcepibile che rendeva più esasperata la fatica quotidiana. La celebrazione della messa è stata molto bella, molto sentita anche dagli operai che non erano credenti. Gli operai avevano preparato l'altare con attrezzi di lavoro e lamiere; ed era bello aver visto questi uomini cosi pesanti, rudi, massicci, distribuire piccoli fiori su quelle lamiere... facevano tenerezza. Poi si sono messi tutti intorno all'altare intorno ad una tavola di famiglia. Un silenzio enorme. Ero felice che quella messa servisse a dei poveri, a degli operai: l'importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse il suo sacrificio di redenzione, che desse significato e valore infinito a questa povera vicenda umana, a questa situazione di ingiustizia. Ho parlato durante la messa in termini evangelici del valore che quella lotta operaia rappresentava per cui bisognava reggere, resistere e anche Cristo attraverso l'eucarestia significava in quel momento la sua presenza.
Dopo la messa un inviato della direzione è venuto a leggermi una dichiarazione nella quale mi si diceva che, a seguito della mia violazione di domicilio, l'azienda si riservava di prendere tutti i provvedimenti che riteneva opportuni. Enormi strette di mano mi hanno accompagnato al muro della legge che ho risalito, mentre stavo pensando se Dio era più di là o di qua dal muro.
Sirio
Vorrei ma non l'ho voluto
che i bambini di oggi
avessero il mondo del primo giorno
il primo giorno di mille migliaia di anni.
Sole nuovo ad attraversare
cielo tersissimo
o velato di nubi
non caligine da fumaioli.
La pioggia a scorrere
su foglie cadute
nate da primavere felici
e soleggiate di solleoni estivi
e le pozzanghere dove giocare
torbide di fango pulito.
A me questo mondo nuovo
fu consegnato quand'ero bambino.
Io ho visto l'acqua dei fiumi
le strade sterrate e bianche
i carri tirati dai buoi
il contadino a raccogliere
lo sterco dietro il cavallo
per l'insalata del suo orticello.
Il lavoro duro, quello della vanga
e la creazione fatta dal fabbro
le tavole uscite dal tronco
la nave dall'ascia sapiente.
Porto adorabile l'odore nell'anima
del pane uscito dal forno
rotondo e caldo allineato
sulla lunga tavola coperta
tenuta a bilico dal cercine
sulla testa impettita della donna.
Gli operai a covare con gli occhi
il tubo colmo di vino di vite
a parlare anarchico
di circoli di mutua assistenza
e santamente ubriachi
la domenica sera.
Il sillabario sotto il braccio
il quadernetto e gli zoccoli in mano
ragazzi di scuola
e scazzottate sul sagrato.
Tu non sai bambino di oggi
com'era l'acqua dei fossi
cristallina e verde d'acquatiche
i ranocchi e le anguille.
Non conosci il tozzo di pane
e la bocca affondata nel ruscello
e il nido di fringuello
sull'incrocio del ramo d'ulivo.
Tu hai incredibilmente di più
e infinitamente di meno
i miei cinquant'anni
hanno ammazzato il tuo mondo.
Il sole, l'aria, l'acqua
e perfino le stelle
perché i lampioni accecanti
le hanno spente su in cielo.
Ti posso dare aerei a razzo
bombe nucleari nascoste
dagli imperi che dominano il mondo
e il progresso che conduce alla morte.
Ora respiri petrolio bruciato
la tua casa è periferia di città
e senza un filo d'erba e un raggio di sole
la piazza dove giuochi la tua ribellione.
Ho ucciso spietatamente il tuo domani
e fatta tramonto la tua aurora
ti ho costretto ad essere adulto
ragazzo, di appena otto anni.
Non ti chiedo perdono
perché non puoi perdonarmi
lo so che mi maledici e mi odi
non ti ho dato quello che ho avuto
ti ho rubato quello che ti saresti donato.
È per via di te che ho terrore
e vergogna d'essere adulto
ho inventato il mondo .
e te lo lascio, ragazzo,
ma non è di più che un cimitero.
Dove i cipressi scheletriti
sono senza preghiera
la preghiera dei passeri la sera.
Sirio
(1976-1988: le lotte per la pace. Testo letto nella veglia)
Sono molti gli amici che sanno già di questa mia incriminazione giudiziaria e individualmente o con lunghi elenchi di firme, mi hanno espresso la loro solidarietà. Siccome siamo arrivati al processo (tribunale di Grosseto, 14 Novembre) mi sembra giusto e doveroso raccontare come sono andate le cose.
In questo «pasticcio» che ho combinato non vi è assolutamente nulla di eccezionale, di eroico e nemmeno di contestativo.
Si tratta semplicemente di una fedeltà a quella lotta impegnata per una coerenza umile e lineare alle scelte fondamentali della mia vita, ai valori che credo e sento essenziali nel vivere umano, ai motivi di responsabilità determinati nella mia coscienza dalla realtà sociale, politica culturale, religiosa ecc. proprio di questo tempo nel quale mi ritrovo a vivere. Può darsi che chi verrà a sapere di questo processo lo giudichi una delle solite «avventure» che arricchiscono di tanta stranezza la mia vita. E può anche essere che il bisogno del «diverso» sia al fondo della mia coscienza alquanto inquieta e realmente mai rassegnata e abbandonata all'acqua del fiume.
E sarà colpa mia ma a volte mi viene da pensare che in fondo la necessità di gesti particolari e personali può essere determinata anche da condizioni di eccessivo e pacchiano tranquillismo che ristagna la convivenza attuale, dalla generale disponibilità a lasciar fare, dalla non volontà di coinvolgersi in problemi che dovrebbero trovare pronta reazione ed energica lotta di massa. Se la casa brucia (certo, bisogna esserne convinti che la casa brucia!) è pazzesco stare a coltivare i gerani alla finestra.
Ora io sono convinto che questo momento di storia che viviamo è decisivo per l'ultima possibilità di un'inversione di marcia che salvi l'equilibrio indispensabile al sopravvivere di una civiltà umana. E che dopo questo momento, la marea dell'industrializzazione, se non sarà bloccata, som-mergerà, affogandola, l'umanità nella pazzia del consumismo, nella sopraffazione della ragione economica, nel dominio assoluto del dio denaro e quindi nell'annientamento ecologico e della guerra nucleare.
Da anni non mi sento in coscienza di stare a guardare. Ho semplicemente pietà delle generazioni che verranno e per quanto dipende da me, mi brucia nell'anima l'ingiustizia di lasciare un mondo molto peggiore di quello che ho trovato e di averlo spinto fin sull'orlo dell'abisso della Distruzione.
La creazione di Dio non mi sento nella mia Fede di abbandonarla alla Distruzione, questo demonio che imperversa nel mondo. La redenzione, innestata dalla Croce e dalla Risurrezione di Gesù Cristo, nel cuore dell'umanità, nella mia Fede cristiana vuol dire la Vita che vince la Distruzione. E Amore contro qualsiasi egoismo e tanto più contro l'egoismo del dio benessere che non riconosce, né accetta limitazioni alla sua insaziabilità.
Può sorprendere che nella lotta contro il nucleare io raccolga motivazioni e responsabilità di coscienza davanti a Dio e davanti agli uomini, dalla Fede. E perché mi sono abituato a considerare Dio e ad adorarlo come presenza creatrice nel mondo. E penso che l'uomo è uomo nella misura con cui intuisce questa volontà creatrice e vi consente e vi si allinea con tutte le sue forze. "Tu non uccidere" è comandamento fondamentale nel rapporto con tutta l'esistenza.
E' impressionante e sconcerta quanto la Chiesa, nel suo magistero, non abbia ancora seriamente considerato la micidiale immoralità del consumismo: questo distruggere sempre più impazzito, i beni che sono la ricchezza dell'universo e la sua vita.
L'essere prete per me vuol dire l'aver assunto la missione di approfondimento incessante della conoscenza di Dio e di vivere la mia vita e quella dell'umanità e quella dell'universo nella luce del suo Pensiero e nell'adorazione della sua Volontà.
Da questo rapporto col Mistero di Dio nasce la mia precisa responsabilità di testimoniare tutto quello che la mia Fede mi chiarisce nell' anima nei confronti di questa visione sacra della vita umana e dell'esistenza dell'universo.
Questo ministero sacerdotale non può non richiedermi dei prezzi da pagare e io devo essere disponibile e pronto a questo pagamento, di qualsiasi genere e misura possa essere, con totale semplicità e serenità. Ciò che per altri può essere assurdità, per me può essere logica elementare, umile adempimento di un dovere.
La lotta contro il nucleare, centrale e arsenali atomici, il militarismo, l'industrialismo ecc. rien-tra nell'ambito di responsabilità della mia Fede cristiana e del mio ministero sacerdotale.
È chiaro che il metodo di lotta è unicamente non violento, non segue e non obbedisce ai mezzi usati dal nemico, ma già la lotta è rottura di una storia di violenza e di sangue e inizio dell' obiettivo da conquistare e cioè un'umanità diversa e nuova.
La guerra si vince con la pace. La violenza si sconfigge con l'Amore. La sopraffazione del potere si vanifica con la libertà.
Queste poche idee, mi è sembrato di accennare prima di raccontare come sono andate le cose che mi hanno indotto all'incriminazione di cui sarò in giudizio davanti al tribunale di Grosseto. Non ricordo bene il giorno, ma è nei primissimi mesi del '77. Promossa da un comitato di agitazione di Capalbio e di Montalto di Castro i due paesi della Maremma minacciati dalla costruzione di due centrali nucleari, fu organizzata una manifestazione nella piazza antistante alla Ferrovia Scalo di Capalbio. Un mare di contadini in lotta per cercar di salvare la propria terra dall'assurdità di due centrali nucleari. Presso le amministrazioni comunali, provinciali, regionali ecc. sordità totale. Un popolo che non sa più a che santo votarsi perché siano almeno ascoltate le proprie ragioni.
La manifestazione. Uomini, donne e bambini con i cartelli del «no, alla centrale» ripetuto e descritto in mille maniere.
Discorsi, canti c'era anche la banda musicale, scene teatrali improvvisate ecc.
Il rischio del folclore popolare è sempre il pericolo di ogni manifestazione non violenta. Perché sotto il folclore può non essere letto quel grido di rabbia che serpeggia in un popolo inascoltato, che chiede a vuoto il rispetto di un suo diritto.
Nasce l'idea di occupare la linea ferroviaria: occupazione intesa a costringere l'opinione pubblica dell'interessamento del problema del nucleare e del progetto di costruzione di due centrali a venti chilometri una dall' altra, in terra di Maremma.
Sono convinto che l'occupazione di una ferrovia sia azione limpidissima di lotta non violenta. Penso che provocare l'attenzione dei centri di potere sia giusto e doveroso. Che il fatto sia condannabile dal codice penale è comprensibile, in questo caso però i termini di reato non possono riscontrarsi per motivo che l'azione è ordinata ad un bene pubblico di eccezionale valore. Le forze dell'ordine presenti non accennano per niente ad una opposizione e una grande folla si riversa sui binari. Non so se i treni sono stati fermati alle due stazioni vicine. Non ricordo nemmeno quanto l'occupazione sia durata, se un'ora o due. I giornali la mattina dopo titolavano i loro servizi a gran pagina. Dopo qualche mese la Regione toscana esprimeva parere sfavorevole per la centrale di Capalbio e cadeva il progetto.
Ma il maresciallo dei carabinieri ha fatto l'esposto alla magistratura denunciando l'occupazione. Ha scelto una ventina di nomi. Quasi tutti contadini del luogo. Processo a Grosseto. Io vengo citato come testimone: un prete può sempre significare ordine e pace nell'aula di un tribunale... Viene il mio turno per la deposizione.
Il pretore mi fa giurare di dire sempre e soltanto la verità. Giuro. E mi domanda: lei si trovava alla stazione di Capalbio perché era venuto in treno da Viareggio? No, signor pretore, non sono venuto in treno.
Insiste: lei era in prossimità dei binari, perché aspettava il treno per rientrare a Viareggio? No, signor pretore, io ero sui binari perché... e comincio a spiegare il perché della occupazione: non tendeva a voler intralciare il normale traffico dei treni, ma soltanto richiamare l'opinione pubblica sul problema delle centrali nucleari... Ma il giudice mi interrompe e dichiara solennemente: lei non è più testimone ma incriminato ecc. si cerchi un avvocato. Rispondo con tutta ingenuità: signor giudice, mi ha fatto giurare di dire la verità, io gliela dico e lei m'incrimina ... e ora dove lo trovo un avvocato? Pensavo che mi occorresse subito questo avvocato!
Il14 Novembre il corso della giustizia per la manifestazione il Capalbio di tre anni fa, arriverà a conclusione.
Ho fiducia che questo processo aiuti in qualche modo la lotta che è diventata in questi ultimi tempi sempre più serrata e impegnativa, contro le centrali nucleari e quindi per un'alternativa al modello di sviluppo di questa nostra civiltà sempre più sull'orlo della sua autodistruzione. È poca cosa, da esser quasi ridicolo che processi siano imbastiti per simili reati, ma se questo «niente» richiederà un prezzo da pagare, eccomi qui, sarà pagato a gran cuore.
don Sirio
(da AA. VV. «La resistenza in Versilia» - testo letto nella veglia)
Ogni volta - e quella sera con uno sgomento nel cuore e un cocente senso di vergogna ogni volta che penso ai morti della Resistenza e ai miei confratelli in modo particolare, mi viene su dall'anima con tanta angoscia di domandarmi: perché sono morti loro e io no? Non so cosa rispondermi. Ma penso che io non ero uomo vero, completo, pronto. Non mi sono nemmeno accorto che quello era il tempo di essere vivi fino a essere pronti a morire e non ho sentito il richiamo, a fascino irresistibile, della morte come a vittoria. Ero giovanissimo e appena mi ero affacciato, dalla finestra di scuola, al mistero della storia. Appena appena ero entrato con immensa timidezza nelle cose del regno di Dio...
Ma ora so. Tutto è chiaro adesso. E Dio e gli uomini e la storia e le vicende e i valori, le apparenze delle cose e l'essenzialità, ciò che salva e ciò che è perdizione. So cos'è la libertà, la giustizia, la dignità umana. Mi è stato insegnato dall' esperienza - spietata e meravigliosa come è sempre l'esperienza - che bisogna pagare con moneta fatta di carne e d'anima la ricerca dei valori assoluti, che intorno tutto, o quasi è lotta e contrasto e respinta più o meno violenta, che la solitudine rende deserto anche una città, che morire bisogna, anche se è morire a poco a poco, invece che fulminati dalla scarica di un mitra.
Ogni giorno, perché sempre, è lotta di Resistenza, di fedeltà assoluta a costo di tutto, di tenacia del cuore forte che non si arrende mai.
E ogni giorno in tutta la realtà di esistenza è dovere di affermazione dei valori supremi, quelli che reggono e determinano il vero, autentico esistere umano.
Allora la loro Resistenza è la mia Resistenza e la loro morte è nascita di vita incessante.
Sirio Politi
Spazi infiniti il suo cielo
silenzio di altezze profonde
e non sussurra alito di vento
movimento immobile eterno.
Pace prima del principio
eternità raccolta nell'attimo
e non muta ne trascolora
è nell'assoluto compiuto.
Desiderò volare e nacquero
i cieli trepidi di stelle
camminare e si distesero
valli si elevarono montagne.
Gli piacque sussurrare la parola
che racconta storie d'Amore
e il silenzio degli occhi
che guardano il mistero.
Novità di pace ogni mattino
primavera fioriva sui prati
stupore negli occhi di bambino
rannodo nello stringersi delle mani
Corro la notte a chiamare
le stelle perché le stelle
sanno che pace è scesa
dall'infinito cielo o la guerra.
Voglio sapere quale parola
mi parla la margherita nel campo
mi canta lo stormire
delle foglie e il volo del gabbiano
E il battito del cuore
acceso nell'abbraccio dell'Amore
l'ansia palpitante dell'Anima
a sognar profondità di Mistero
I cieli per guerre d'angeli
terra per campi di battaglia
uomini per stragi e sterminii
ferro e intelligenza per armi?
Sono stanco, Pace, di sognarti
gli occhi hanno pianto oceani
di speranza e la voce
che chiama è rantolo d'agonia
Eppure credo alla tua Pace, o Infinito
il Nulla non potrà mai più tornare
come tutto era prima del Principio
il tempo è entrato ormai nell'Eterno.
Sirio
(scritto 5 mesi fa. Testo letto nella veglia)
Mi sembra alquanto strano che mi permetta di raccontare qualcosa di questi due anni particolarmente pesanti per me (e quindi anche per gli amici che mi sono vicini). Ma è anche vero che la malattia è parte integrante dell'avventura della vita. Non può essere vissuta privatamente, anche se come è evidente, è un fatto strettamente personale.
Da mesi ormai i miei spazi si sono andati restringendo ad un letto d'ospedale e poi qui in questo angolo della Darsena. Non credo però che la mia realtà interiore abbia perduto spaziosità. La malattia, l'essere ammalati, divide, separa richiude materialmente e ripiega in una misteriosa sensazione di annullamento. Ma è anche esperienza di dilatazione interiore, quasi, e profondamente, espansione, universalizzazione. Spesso sperimentare la limitatezza dona la conoscenza della totalità.
Una malattia strana, questa che mi è stata riservata. E ancora, dopo estenuanti ricerche, non è chiaramente diagnosticata. Forse una di quelle che arrivano puntualmente al momento del pen-sionamento, probabilmente per una giustificazione a smettere di lavorare, per una esortazione a voltare l'orientamento della vita là dove è il senso giusto e conclusivo.
La dolce bontà di Dio conosce bene i percorsi e è il suo Amore che li assegna: quindi tutto come a Dio piace.
Chiedo scusa agli amici che mi hanno scritto lettere se non hanno avuto risposta e a tanti altri che non hanno saputo niente di me. Vorrei dire con tutta sincerità e Amore che porto tutti fe-delmente nel mio cuore. È insieme che ho cercato di reggere, senza stanchezze interiori, nella serenità e nella pace, questo periodo particolarmente pesante della mia vita. come negli altri momenti di ricerca, d'impegno, di responsabilità, di lotta. Ringrazio Dio per quella misura di fedeltà che mi ha donato nella sua infinita bontà verso di me.
Anche il giornalino, questa lettera agli amici che è Lotta come Amore, ha risentito della mia malattia. Questo è il secondo numero in questo 1987! Non è che siano venuti meno i problemi, o mancate le nostre riflessioni. Da parte mia avrei potuto molto raccontare dell'esperienza ospedaliera, di questo mondo, estremamente misterioso, dominato dalla scienza e da uomini che la rapportano al povero, malato, rapporto praticamente fondato sul potere e conseguentemente sulla paura, ma dove la sensibilità umana è totalmente inaridita nella ricerca scientifica.
Il discorso sarebbe lungo ma anche inutile perché se c'è realtà di problemi umani, sociali, politici e anche religiosi, dove la lotta per un cambiamento, una qualsiasi novità, qui da noi, è impossibile, anche nell'immaginazione, è nel mondo, accuratamente chiuso a doppia mandata, degli ospedali. Per quello che mi riguarda questa esperienza della malattia e quindi ospedaliera, era necessaria per il compimento di quelle scelte che hanno determinato tutta l'avventura della mia vita. Dalla scelta di Gesù a quella della vita operaia alle realtà di lotta lungo tutti questi anni, nella vita sociale ed ecclesiale, fino all' esaurimento delle forze fisiche e del vivere in un letto accanto ad innumerevoli altri letti.
Mi vengono alla memoria e le offro a me e a voi tutti, carissimi fratelli e sorelle, come saluto affettuosissimo le parole del profeta Geremia: "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto forza e hai prevalso" (20,7).
E alla sua fedeltà di Amore possiamo serenamente affidarci.
don Sirio
«PERCHE' mi avete fatto soffrire», dice Giobbe nella Bibbia. «Perché fate soffrire i preti-operai? chiede don Roberto Fiorini, mantovano, segretario dei preti operai, rivolgendosi alle gerarchie ecclesiastiche.
Il funerale di don Sirio Politi, l'uomo che nel 1956 aprì l'esperienza dei preti nelle fabbriche, non poteva essere un semplice commiato. Era scritto sul grande striscione steso sopra l'altare improvvisato nel nuovo mercato del pesce: «La morte non chiude la storia». La morte di don Sirio non poteva chiudere questa esperienza così originale né cancellare le tante sofferenze patite da questo sacerdote per !'incomprensione dei superiori. I preti operai non potevano dimenticarlo e don Fiorini lo ha ricordato alle migliaia di versiliesi che hanno dato l'ultimo saluto a don Sirio.
C'era la Viareggio delle istituzioni e quella popolare, c'erano i cattolici e la sinistra. In testa al corteo, partito della chiesetta dei pescatori i preti operai. Veniva poi la salma portata a spalla dietro i gonfaloni di Camaiore e Viareggio, la città natale e d'adozione, accompagnati dai sindaci Bonuccelli e Dettori. Fra le altre autorità, il sindaco di Massarosa Frati, gli onorevoli Caprili e Martini, e poi le migliaia di viareggini fra cui tutte le componenti della darsena, pescatori in testa.
Tutti hanno trovato posto nel grande salone del nuovo mercato ittico. La scelta non è stata casuale: Don Sirio si era battuto a lungo perché la struttura andasse finalmente ai pescatori. Quando iniziò a star male gli amici lo rassicuravano: «ti ci porteremo in barella». Don Sirio ci è arrivato invece in una bara di legno che è stata deposta ai piedi dell'altare dove ha celebrato la messa funebre l'arcivescovo di Lucca, Monsignor Agresti. Con lui era anche monsignor Bettazzi, vescovo di Ivrea Mons. Tommasi, vescovo di Pontremoli e tutto il clero viareggino.
Dopo il Vangelo, monsignor Agresti ha ricordato la figura di don Sirio: «Un prete che ha combattuto la sua battaglia fino in fondo, predicando il Vangelo dei poveri, della fatica, della pace. In una parola il Vangelo degli ultimi, di chi dura fatica».
Tutta la cerimonia è stata accompagnata dalle canzoni in nome della pace e della fratellanza che aveva composto lo stesso Sirio. A cantarle tutti quelli che avevano condiviso o comunque apprezzato la sua esperienza di vita e di fede. Un'esperienza umana che si è conclusa nel cimitero di Capezzano Pianore, là dove i familiari, tra cui i fratelli Livio e Aldo, hanno accompagnato don Sirio per il suo ultimo viaggio.
Corrado Benzio
«Nessuno intorno alla tavola è il maestro e nemmeno il padre nei confronti del quale si ha diritto di ricevere. E nessuno dei fratelli della comunità dell'eremo e della comunità degli amici ha da poter offrire né la parola né esortazione né testimonianza. Niente. Altro che la fame e la sete della Verità, l'accoglienza della Parola, la disponibilità, l'essere pronti, perché infinitamente consapevoli di un bisogno vitale, alla Comunione del Corpo e Sangue di Cristo e, nella comunione con Lui, alla comunione con i fratelli.
Per tutto, ma forse per una presenza sovrabbondante dello spirito di Dio, ogni parola che si ascolta è come se non fosse pronunciata da nessuno. Non è la parola di uno o dell'altro, ma semplicemente la Parola: ciò che viene aggiunto non è spiegazione ma l'offrire a quella Parola la propria carne e il proprio sangue, il tempo della vita e della storia, tutta la realtà dell'universo per la continuità della creazione e l'annuncio della sua novità incessante».
(Sirio, "Antico sogno nuovo")
TESTI BIBLICI LETTI NELLA MESSA DI DOMENICA 21 FEBBRAIO
Libro di Giobbe
Giobbe disse:
Pietà, pietà di me, almeno voi miei amici,
perché la mano di Dio mi ha percosso!
Perché vi accanite contro di me, come Dio,
e non siete mai sazi della mia carne?
Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro sul piombo,
per sempre s'incidessero sulla roccia!
Io lo so che il mio Redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
e i miei occhi lo contempleranno non da straniero.
Questa mia speranza è risposta nel mio seno.
Io ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono.
* * *
Seconda Lettera a Timoteo
Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione.
* * *
Prima lettera di Giovanni
Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo, anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.
* * *
Vangelo di Luca
Si recò a Nàzaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato, nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con funzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore.
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?». Ma egli ripose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accade a Cafàrnao, fàllo anche qui, nella tua patria!». Poi aggiunse: Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anche: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone.
Disteso e quieto era il mare e aste
di luce erano gli alberi
delle imbarcazioni, tutti
in festa i capannoni del Porto.
Primavera invadeva le strade
quasi Pasqua già fosse
alle porte: Qualcuno dunque
aveva volutamente
dispiegato un simile cielo
per questo tuo atteso viaggio
verso la punta sul mare.
Andavi come sempre avanti il corteo
Ora portato a spalla dai compagni,
dai fratelli preti-operai: rottami
del sontuoso mondo che sappiamo,
i testimoni più emarginati
per la volontà di credere ancora.
Amico che di una stella portavi il nome,
- la stella più radiosa della notte -
così rimarrai per l'umile gente,
i molti poveri accorsi a salutarti
dall'ultimo capannone, tua scelta
chiesa per i canti che amavi:
prima di vederti "passare
all'altra riva: poiché scesa
ormai era la sera..".
P. Davide Turoldo
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455