LOTTA COME AMORE: LcA ottobre 1980

Al rientro dalle ferie

Il periodo delle ferie è particolarmente importante, assai più di quello che normalmente immaginiamo o addirittura sogniamo, Riposo, distensione, aria buona, montagna, mare ecc.; ma le ferie sono importanti perché significano e offrono una vita diversa. Il fascino del nuovo e dell'imprevedibile.
Perché il bisogno di rompere la stretta delle abitudini, a un certo punto diventa irresistibile. La normalità è soffocazione: va forzata e vinta con un po' di eccezionalità. Anche lo stesso rischio, almeno di un margine di non programmato, acquista grosse importanze. E il rivoletto, sempre quello, del quotidiano, bisogna assolutamente che sfoci nel gran fiume, anche se è quello autostradale e si perda nel gran mare nonostante che sia quello di spiagge affollatissime.
In fondo la preziosità delle ferie più che in tutto, forse è nascosta in una vera e propria liberazione. La casa è una prigione, il lavoro un'oppressione, il quotidiano una schiavitù, le abitudini palle al piede... E forse anche sempre le solite, stessissime persone, diventano un peso, levano il fiato. Si restringono i margini della fantasia, si spengono le spinte all'inventività, svaniscono i motivi d'interesse. E tutto s'intristisce. Il cuore si raggrinza in malinconie senza fine e la stanchezza, strana, inspiegabile e irrimediabile, affligge fin nel profondo dell'anima.
Si esce fuori dal «buco» speranzosi per le ferie e vi si rientra convinti di essere diversi, certamente rinnovati e ravvivati.
Entra in gioco immediatamente, bastano pochi giorni, il problema della continuità della liberazione, la necessità di mantenersi assolutamente diversi.
E' chiaro che la realtà esterna, le condizioni di vita nelle quali ci troviamo, non possono cambiare. Difatti il ritorno dalle ferie si chiama con una brutta parola «il rientro». Il buco è lo stessissimo buco e forse ancora più fondo e chiuso, perché vivere, ad ogni giorno che passa, è più duro e pesante: la storia che viviamo non è avviata all'alleggerimento dei problemi, ma ad un appesantirsi pauroso. E lo stiamo sperimentando in questo inizio d'autunno. Basta pensare alla situazione drammatica della casa con la totale sparizione del rapporto di locazione che era l'affitto. La tragedia immediata e violenta dei licenziamenti, il dilagare della cassa integrazione, la crisi dell'industrializzazione, arrivata a livelli fallimentari. Il terrorismo, i sequestri di persona, l'inflazione, l'irresponsabilità di una politica che si ostina cecamente e assurdamente, a camminare sulle strade a senso unico del clientelismo e della burocrazia, puntando impudicamente, come sempre, al privilegio. Meno male che i giornali costano 400 lire e quindi viene da comprarne di meno, perché meno le cose si sanno e meno ci si pensa e quindi si sta più tranquilli. Più tranquilli anche perché quello che la televisione e la radio, portano nel buco, di quello che succede fuori, è poco più che qualche accenno e debitamente addomesticato a forza di pubblicità sempre più disumanizzante e di programmi fasulli. Verrebbe da pensare che la continuità della liberazione sia proporzionale alla crescita del fregarsene di tutto e di tutti. Che la tranquillità e la «pace» personale sia possibile soltanto se è fondata sulla pietra angolare dell'indifferenza. Che il qualunquismo, anche quello più pacchiano e stupido, sia la via larga sulla quale soltanto può correre indisturbata, a vetri rialzati e ben sigillati, la propria autosufficienza...
Questo convincimento che ormai non è mentalità ristretta a singoli casi, ma cultura generalizzata, stile normale di vita, tipo di convivenza a tutti i livelli, è l'insidia che sta avvelenando spaventosamente il nostro tempo. E' uno dei tanti inquinamenti che dilagano il corrompersi e il deteriorarsi dei valori umani, di cultura e di civiltà fino ai limiti della distruzione del vero valore di umanità.
Si tratta di un autentico impazzimento dell'idea di liberazione.
Perché è venuto il tempo e verrà sempre di più, nel quale la salvezza sarà a misura universale o sarà la perdizione. L'uno non conta più, si impone inevitabilmente la totalità. Perfino la sopravvivenza umana non è più sicurezza di un popolo o di un continente: o è a livelli mondiali o cammina tutta sull'orlo dell'abisso della distruzione.
Tutto quello che avviene in ogni angolo della terra, è avvenimento di quello che avverrà su tutta la terra.
La fame che imperversa su un terzo dell'umanità nessuno pensa che è minaccia per l'umanità intera, perché è dimostrazione e riprova dell'incapacità umana a vincere e dominare questo flagello: quindi tutta l'umanità ne sarà vinta, o prima o poi.
E' dimostrata ormai l'impossibilità di vanificare il potenziale degli armamenti e di quelli nucleari in particolare, anzi sempre più si fa strada il convincimento - autentica, criminale pazzia - che la pace è possibile soltanto proporzionalmente all'equilibrio del terrore. Bene, questa convinzione porterà inevitabilmente alla distruzione del mondo. E chi allora potrà salvarsi?
Così ogni problema - da quello dal moltiplicarsi delle dittature militari, a quello dell'industrializzazione, dello spompare le risorse naturali, dell'inquinamento galoppante, dell'assolutizzarsi ad ogni giorno che passa della ragione economica, del benessere a costo di tutto ecc. - ogni problema manifesta con estrema evidenza, l'assurdità, la vera e propria pazzia, del decidere di scegliere il particolare, il personale, il privato ecc. come realtà di valori nella quale operare o anche soltanto sperare, la propria liberazione.
Volere o no, la storia ha condannato il nostro tempo, al collettivo, al comunitario, all'universale. La terra su cui si poggiano i piedi non sono i dieci centimetri quadrati, ma tutto l'orbe terraqueo. L'aria che si respira è quella della fascia di ossigeno che racchiude la terra, sempre più ristretta dall'eccessività di ossido di carbonio.
E' proprio vero che il famoso «buco» nel quale si ravvoltola il nostro vivere quotidiano, è una prigione soffocante. E' vero che il bisogno di una liberazione è come la volontà di strapparci il cappio dal collo.
L'importante però è non sbagliare nell'identificare la vera liberazione. Perché l'errore potrebbe. essere come quello del pesce che incappato nei tramagli crede che il divino colarsi lo liberi. Oppure come per il baco da seta che pazientemente si costruisce il suo bozzolo d'oro per morirvi. Leggi di natura, d'accordo, ma per l'essere umano potrebbero essere leggi di natura, per esempio, la fraternità, la solidarietà, la libertà, la giustizia, l'uguaglianza ecc. e anche, perché no, la lotta, perché questi valori decisivi per la dignità umana, perché l'umanità non sia disumanità, siano affermati nella storia, diventino cioè la «storia».
Non è possibile concludere queste «divagazioni» del dopo ferie, al rientro nel proprio buco, senza un pensiero - ma è nostalgia profonda, misteriosa che sale su dai secoli - a Gesù Cristo, che questa dignità e libertà umana ha tanto sognato. E sono duemila anni e quanto mare di lacrime e di sangue ha affogato la terra e tutto pare che sia ancora e forse nemmeno, all'inizio. Perché?


Vita e lavoro

Durante le ferie, anche se consumate rapidamente nel giro di pochi giorni, è difficile che mi venga in mente il lavoro. Ed anche se ci penso, lo faccio liberato dai problemi concreti che frustano la vita di tutti i giorni. Non questo o quel lavoro che sto facendo, ma il lavoro nella mia vita oggi. Ne farei tanto volentieri a meno! Essenzialmente è solo questione economica, il prezzo di una certa libertà cui non saprei più rinunciare, anche se è semplicemente la libertà della sopravvivenza.
Col passare degli anni diminuiscono le possibili «convertibilità» e mi sembra sempre più chiaro che le modalità del mio lavorare si sono abbastanza stabilizzate. Questo evidentemente per la difficoltà oggettiva ad inventare un lavoro tutto diverso partendo da zero; ma anche per il risvolto positivo che la manualità ha assunto nella mia storia personale.
Una diversa consapevolezza di me, del mio corpo, del tempo, dello scorrere della vita, del morire. Una conoscenza che genera sicurezza: non quella arrogante e padrona del futuro di una intelligenza che indirizza la vita, ma quella dimessa ed offerta giorno per giorno per aprirsi con fiducia alla vita.
Dunque, dicevo all'inizio che il lavoro non è la mia vita: tutt'altro. La mia vita è fatta anche di lavoro: questo sì, e non soffro in gravissima misura (è già grande privilegio) quella scissione tra lavoro e vita che è alla base di alcune delle grosse contraddizioni che affliggono questo nostro tempo. Non soffro quindi (almeno nella misura in cui la sofferenza diventa patologica) per il fatto che il lavoro mi porta via una bella fetta della giornata o perché mi obbliga (almeno in una certa misura) ad una continuità e ad una concentrazione che asciuga lo zampillo della spontaneità.
Soffro, invece, quando questo lavoro accolto nella sua dimensione di necessità elementare, si carica oltre misura di significati, di motivazioni, di intenzioni che finiscono per distorcere il senso più ovvio del lavoro stesso. Sembrerebbe a prima vista un arricchimento del valore del lavoro il sostenerlo con la nobiltà di profonde motivazioni, ma non so quanto questo presunto innalzamento comporti poi rovinose cadute. Di certo pericolose distorsioni e strumentalizzazioni quando si tenta di trasportare a livello ideologico ciò che può essere cammino nella storia di una coscienza.
Perché certo ora non posso davvero negare di aver attinto a diverse riprese a motivazioni di varia natura per sostenere il mio ingresso incerto e traballante nel mondo del lavoro, le frustrazioni del quotidiano monotono e freddo, la durezza e l'umiliazione di alcune condizioni oppresse di fatica. E certo ne avrò fatto qualche volta dottrina. Ma non credo di essermi fermato per la soddisfazione della mia coscienza.
Quello che mi ha aiutato, forse più di tutto, sono stati i miei occhialetti cerchiati d'oro, il parlare complicato e difficile, il carattere poco socievole: tutti difetti che in fondo si sono rilevati degli utili pesi per non galleggiare nel vuoto di sterili entusiasmi, di incontri troppo facili, di conversioni senza ostacoli, di abbracci interessati.
Ma probabilmente ha vinto in me l'interesse a capire, a cercare di accogliere e vivere più che la convinzione di una missione da compiere, la coerenza e la fedeltà a determinate scelte. Non dico questo convinto di sottolineare una contraddizione tra questi due modi, ma forse solo una subordinazione dell'uno all'altro.
Per esempio, mi vengono poste ogni tanto le domande tipo: «ma col lavoro che fai ti c'entra fare il prete?» accettando così come dato di fatto indiscutibile la divisione tra il mondo del lavoro e il mondo del sacro. E questa accettazione di fatto potrebbe essere giustificata abbondantemente dalla situazione ancora esistente per cui effettivamente il mondo del lavoro e la religione sono profondamente separati. Ma la cosa che lascia più perpìessi è la pacifica accettazione che una persona possa trovarsi a vivere due realtà così lontane senz'altro problema che quello del tempo, delle ventiquattrore in cui sistemare le cose da fare. Stravaganza, eccentricità, gusti sui quali non si discute...
C'è anche chi sapendo quanto sia faticoso e difficile condurre una doppia vita, chiede: «ma ti accolgono come prete?», sottintendendo i compagni di lavoro, un po' tutto l'ambiente operaio. E questa domanda non ti taglia a fette come la precedente, ma dà per scontato che vi siano motivi sovrapposti al lavoro, che lo giustificano nell'ottica della missione, del sacrificio o del nascondimento. Ed anche qui la cosa che mi lascia perplesso è la pacifica accettazione di un unico modello di sacerdozio da cui si parte per giustificare i comportamenti «strani» del prete che veste panni di lavoro ed entra come un qualsiasi operaio in fabbrica o in officina.
Ecco io mi trovo sempre a disagio quando devo rispondere a queste domande perché mi chiedono di collocarmi vedendo le cose da un punto che non è proprio il mio punto di vista. Perché io non mi vedo separato o kamikaze, non mi sento né prete a tempo parziale né «missionario» nella giungla retributiva.
Certo che «strano» devo proprio risultare. Prima mi lamento che sono quattordici anni che sono prete senza avere mai avuto un incarico che fosse uno, poi, quando mi offrono una parrocchia in cui andare solo il sabato e la domenica e gli altri giorni posso fare quello che mi pare, tiro le cose in lungo per non dire subito di no.
lo non ho il problema di fare il prete perché c'è un vescovo cattivo che non me lo vuole far fare, oppure perché c'è un vescovo buono che mi dice che c'è un quartiere con un seminterrato dove può andar bene la figura di un prete che anche lavora.
La sera vado a letto, dopo aver lavorato e quindi mangiato, incontrato e scontrato persone, momenti di poesia e ore di prosa, tragedia, commedia e farsa, e mi ritrovo io, la mia vita, gli altri, il mondo, la storia, l'umanità e la mia fede, Dio, Gesù Cristo. La mattina mi alzo e mi ritrovo davanti le suddette cose con una vita da vivere, una fede da spendere, un sacerdozio da «ministrare».
. Quello di cui sento il bisogno è di un uomo, una donna, un vescovo, una chiesa con cui confrontare questa mia vita, questa mia fede, questo mio sacerdozio per potermi convertire e rendere grazie con sempre maggiore sincerità a Dio del dono della vita, del dono della fede.
Perché ormai sento chiaramente che vita, fede e sacerdozio non corrispondono più a dei ruoli da rendere compatibili, ma espressioni di una stessa realtà da consumare ogni giorno senza metterne da parte neppure una briciola.

Luigi

Preti operai e F.L.M.

Fratello carissimo, ti scrivo per parlarti del mio nuovo lavoro a tempo pieno nell'organizzazione sindacale della F.L.M. Sono infatti sempre più convinto che ogni nostra scelta di preti operai ha un chiaro risvolto politico ed ecclesiale.
Senza dubbio ciò è la conseguenza della nostra vita di militanti della classe operaia e di credenti in Cristo Gesù, e si innesta nella linea dell'Incarnazione: assumere in pieno la laicità delle cose, del mondo della storia, e allo stesso tempo camminare in attesa di cieli nuovi e terre nuove. Prendere sul serio la classe operaia e il Regno di Dio, assumendo fino in fondo la realtà degli uomini sapendo che essi sono chiamati a divenire figli di Dio, popolo di Dio.
Più passa il tempo, più sono convinto che occorre portare la sfida della contemplazione all'interno della vita politica e sociale, e allo stesso tempo riportare nella contemplazione la vita degli uomini e dell'intero universo.
Certamente non è questo un momento politico entusiasmante a tal punto da invogliare a lavorare a tempo pieno nel sindacato. Le difficoltà che la crisi produce rendono più profonde le divisioni all'intemo del movimento sindacale e sempre più lontane le soluzioni ai gravi problemi dell'occupazione della democrazia, della qualità della vita e del lavoro. Allo stesso tempo però tutto questo aiuta a sfatare il mito che avevamo ideato attorno agli anni '70 sulla classe operaia, anche se per alcuni ciò comporta la perdita di fiducia e di speranza e induce al riflusso. In questo quadro la mia scelta vuole caratterizzarsi come modo concreto per «annunciare la speranza» con la vita, con le scelte e le lotte che si fanno giorno dopo giorno. Mentre cammina accanto e all'interno di tale speranza la grande speranza del Regno di Dio che viene. Non vuole essere questa mia scelta un andare comunque contro corrente, quanto piuttosto un riaffermare la forza della mia speranza.
Intorno agli anni '70 i militanti sindacali sentivano una forte carica ideale che animava la ricerca e la lotta per un diverso modo di lavorare e di vivere, per una pratica reale dell'internazionalismo e per l'attesa del socialismo. Oggi possiamo dire che la realizzazione e la pratica del socialismo incontra seri ostacoli, mentre l'attacco del capitalismo si è fatto più duro nella situazione di pesante crisi che stiamo attraversando.
Di fronte a tale analisi, pure sommaria e incompleta, penso che occorre accettare in pieno le contraddizioni, gli errori, le difficoltà del movimento operaio. Oggi più di ieri sono convinto che occorre sporcarsi le mani, continuare a stare dentro a questa storia, se vogliamo viverla pienamente come storia nella quale Dio opera la sua salvezza. La mia scelta vuole essere anche una riaffermazione dell'incarnazione, della storia, della vita nuova alla quale siamo chiamati in Cristo Ge-sù. Non credo che possiamo permetterei il lusso di scandalizzarci di fronte alla fase di difficoltà, talvolta di regresso, che il movimento operaio vive, pena offrire la chiara conferma che non abbiamo sposato fino in fondo la causa della classe operaia e che ne siamo ancora estranei.
Dal momento in cui ho iniziato a fare militanza sindacale, eletto dai lavoratori, la mia decisione non dipende più solo da me stesso. I lavoratori e l'organizzazione mi chiedono di mettere a servizio del movimento operaio l'esperienza sindacale acquisita in questi anni. «A servizio dei lavoratori», in un compito che mi porta ad avere rapporti con una base molto più vasta di quella della mia fabbrica. Anche come prete senza peraltro offrire servizi sacri, ma condividendo ricerche, speranze, lotte, sconfitte, vittorie... nella strada comune lungo la quale Cristo si affianca a noi e porta con noi il peso quotidiano, mostrandoci il suo Volto, e donandoci la sua Pace!

Baldassarre

Viaggio in Tunisia

Cari amici,
non so quanto sia giusto, ma forse è conveniente non guardare troppo per il sottile e quindi vi racconto qualcosa delle mie vacanze. Se non altro avrà il valore che hanno le cartoline illustrate che riceviamo durante le ferie dagli amici: un pensiero gentile, un ricordo affettuoso, come dire, in questa vallata stupenda delle Alpi ti ho pensato, accanto a questo rudere antico o mentre contemplavo quest'opera d'arte, mi sei venuto in mente. E nello stesso tempo vi è anche un palpito di Amore: sarei stato tanto felice che anche tu avessi potuto godere queste meraviglie, pensa se le avessimo viste insieme... Una cartolina illustrata, spesso assai stereotipata, un saluto, un nome, tirato là, confidenzialmente!
lo non ho inviato cartoline, altro che, e pochissime, ai miei parenti, perché ci tengono tanto. Ho pensato però di scrivere qualcosa delle mie vacanze.
Perché qualcosa di particolare mi è stato dato veramente di vivere. Quel qualcosa e qui sta ciò che più di tutto ha contato nelle mie vacanze, quel qualcosa che ha forzato il mio piccolo mondo interiore e quello di vita vissuta, ad allagarsi, a dilatarsi in vastità senza misura. E' caduta la mia prigione quotidiana, come mura che crollano e mi sono ritrovato in distese immense, a perdita d'occhio. E' stato importante e penso decisivo per tanti aspetti, ritrovarmi solo, anche se con amici carissimi e in tutto estremamente premurosi, come sperduto, smarrito, letteralmente sopraffatto dall'affollamento di gente così diversa o dalla distesa di steppe sconfinate, di deserti senza fine, dove non è un ciuffo d'erba e tanto meno un albero. Ho vissuto molto intensamente e quindi con profonda sofferenza, la solitudine dell'essere umano: quei punti neri lungo le piste del deserto, quelle case, un cubo di qualche metro, bianco di calce e tutto riarso intorno da un fuoco di sole che non la-scia cenere ma polvere gialla, o accucciate una accanto all'altra nei villaggi, come a sostenere un peso insopportabile, riunendola insieme, di miseria. O nei vicoli delle città, gente ammassata, variopinta eppure tutta incredibilmente uguale, a vendere o comprare le cose dei poveri o sul limitare dei negozi per turisti; in implorante attesa che quelli della macchina fotografica si degnino dare un'occhiata e spesso è di stupida sufficienza, alla monotonia della chincaglieria esposta.
E poi bandiere al vento, innumerevoli oltre ogni immaginazione. Sventolanti dovunque a quel vento caldo di un sole di fuoco, come fiamme di un incendio a riardere ancora di più strade e case e piazze incenerite. Bandiere rosse con un disco bianco e dentro il disco la falce di una luna rossa e una stella. Un socialismo di cui forse quella falce senza il manico e la stella rossa, sono, più o meno, tutto. E manifesti attaccati ai muri, uno accanto all'altro, in lunghe file e con sempre la stessissima faccia, sorridente a denti falsi. Piccoli, grandi, grandissimi e sempre terribilmente gli stessi, gli stessi fino allo sgomento. E sulle piazze, sui gloriosi piedistalli, il solito «grande combattente» a cavallo di bronzo. Esattamente come Garibaldi o Vittorio Emanuele Secondo. In quei giorni del mio viaggio «il padre della patria» compiva 77 anni e di sfuggita mi è capitato di vedere alla televisione muoversi quella faccia dei manifesti e mi è sembrata come un'allucinazione: dopo mi erano diventati ancora più opprimenti, come uno che ti segue e ti osserva continuamente...
Un 'esperienza lunga una quindicina di giorni ma la sua intensità si aggravava di giorno in giorno scavandomi sempre più nell'anima questo sentimento stranissimo di solitudine. In quei giorni come non mai ho sentito anche fisicamente quanto la condizione del vivere umano sia la solitudine. Il vuoto dentro e il vuoto fuori. Perché tutto quello a cui viene dato un senso, un valore è artificioso, una sforzatura, una falsificazione più o meno cosciente. La realtà più vera del vivere è il deserto, dove nemmeno alberi occupano un posto e domina impietoso il sole e l'arsione rende l'acqua miraggio o miracolo.
La vita è un dono offerto per guardare intorno, accogliere nell'anima e nella carne il Mistero e poi la carne il vento se la porta via nella polvere e l'anima se la riprende l'infinito Mistero.
Tutte queste cose le leggevo come scritte, ma ne sentivo anche il racconto ascoltando il vento, nella povertà cenciosa di uomini sdraiati nella. polvere all'ombra rada di un olivo o di uno scheletrito eucaliptus o all'ombra riquadrata e afosa del cubo delle case. Ma più che tutto nelle donne, eternamente rassegnate, ravvolte dal velo bianco ingiallito, dal capo ai piedi, trattenuto sotto il mento con una mano, o se le mani sono occupate, stretto tra i denti. Senza sorriso, con un camminare ancheggiante come se l'andare o il venire portasse la fatica di un peso millenario per strade non tracciate. Cammelli, asini, donne, vecchi, sono la stessa, identica immagine di un'infinita rassegnazione, segnata di dolcezza negli occhi misteriosi, come se lo sguardo venisse da un altro mondo, dove regna soltanto la pazienza, quella che aspetta sempre e non si stanca mai.
E pensavo a Dio. Immediatamente e senza possibilità e volontà di distrazione. Dio pensato su questa terra riarsa che chiede soltanto acqua e non le viene concessa, è tutt'altra cosa che pensarlo nella nostra terra fatta di verde, nelle nostre case dove il rubinetto dell'acqua è a portata di mano e la doccia e la vasca da bagno. Anche in se stesso sembra tutt'altra cosa, tanto più in rapporto a noi, che Dio lo consideriamo a nostro uso c consumo. Di fatti su questa terra Dio è Allah e da dopo il settimo secolo ha soppiantato, spazzato via il Dio dei cristiani. Forse per questa terra a vastità sconfinata, mare di sabbia, ribollente di fuoco di sole, va bene Dio fatto Allah, l'assoluto, l'indiscutibile, il supremo. Ma io pensavo al mio Dio, Padre, Figlio, Amore. Venuto anche Lui a camminare nel deserto, a morire di sete, sotto il sole e sulla croce. E guardavo quei poveri uomini, quelle povere donne e i loro bambini a razzolare nella polvere assolata e i vecchi cenciosi a trascinare l'ultima e più pesante fatica. Mi pareva impossibile che fra il mio Dio e Allah non vi fosse un'intesa, un ravvicinamento, un'identità, l'unico Dio, ragion d'essere dell'esistenza, perché quella povera gente sono creature, carne e anima, traboccate di sofferenza, vinte dalla privazione: eppure cuori ansiosi di Amore, bisogno di tenerezza come di un oasi dalle fresche acque e dalle palme cariche della dolcezza dei datteri.
Il popolo dei poveri non moltiplica gli dei, perché per i poveri, per chi non è niente e deve mendicare dal lavoro la vita e strappare dalla terra il sopravvivere, c'è un Dio solo, l'identico Dio per tutti, anche se i teologi e il clero gli mette nomi diversi a quest'unico Dio. Cercavo quest'unico Dio nello sbaluginare del sole sulle sabbie infuocate, tra le file degli innumerevoli olivi, nella solitudine di quegli uomini e di quelle donne, nel bianco accecante del cubo delle case. E anche nei vicoli delle città, affollate di povera mercanzia, tanfate di ogni odore, nel brusio indistinto della compra-vendita, in una lingua tanto dura quanto armoniosa.
Ma questo Dio, lo sentivo bene che non riuscivo non soltanto a vederlo, ma neppure a intuirlo, a immaginarlo. Ne stavo soffrendo terribilmente, anche perché non ne capivo il motivo di questo nascondimento. Ma poi, di colpo, ho capito. Non potevo vedere o anche semplicemente avvertire la presenza di Dio, il mio Dio o Allah che fosse, perché io ero un turista.
Questa storia del turista. Mi ha perseguitato e oppresso per tutta la durata del viaggio e anche adesso questa scolorita, squallida figura del turista me la sento appiccicata alla pelle come un vestito di cui non riesco a liberarmi.
Perché il turista che va a intenerirsi sulle rovine di antiche civiltà può anche essere cultura. o qualcosa del genere. Il turista che si ferma estatico davanti alle opere d'arte è commozione, del senso estetico, più che rispettabile. Ma il turista che va in cerca di spettacoli umani fatti di miseria, di vita dura, di fatica per il sopravvivere e al momento giusto si esalta così tanto da tirar fuori la macchina fotografica per il ricordo perenne da far vedere agli amici, questo turista è una figura disumana, dalla disumanità staccata, separata, quella disumanità che guarda e se ne va. Gesù l'ha descritta, da par suo, nella parabola del Samaritano.
Sono stato questo turista e ne chiedo perdono a quella gente. Ma, per grazia di Dio, mi è stato dato di capire, anche se a fatica, subito dopo i primissimi giorni. Perché mi hanno rubato, sfilandola dalla borsa, la mia macchinetta fotografica da buon turista. Passato il grosso disappunto per la figura del turista fatto fesso, a poco a poco ho capito e in breve tempo mi è stato dato di liberarmi dalla stupidità e di guardare la gente e le cose e la steppa e il deserto e le oasi con l'occhio fotografico, con l'attenzione distaccata dello spettatore .
Come una purificazione mi è scesa negli occhi, una capacità di visione nuova e quindi di rapporto vero, diretto, immediato. Senza diaframmi falsificanti e stupidità di intenzionalismi, anche se più o meno coscienti. Una disponibilità alla comunione per un dilatarsi di accoglienza, per un approfondirsi di partecipazione.
E sempre più mi cresceva nell'anima la pena di dovermene andare, perché dovevo rompere un'intesa, un essere ormai insieme. Quella la sentivo la gente vera, autenticamente umana, liberata e pura, da invidiarla profondamente. Così quella terra, ancora vasta e libera, segnata soltanto dall'orizzonte, paziente alla calura del sole e dolcemente riposata alla frescura della notte e al refrigerio della rugiada. I
E' stato per questa purificazione dal peccato del turista che piano piano mi è stato dato d'intravedere il Mistero di Dio, l'identità del mio Dio e Allah e cioè l'unico vero Dio. Quanto più mi è accaduto di questa comunione, di questo intenderci, di questo parlarci a cuore a cuore, fra me e quella gente, fra me e quella terra, tanto più è avvenuto l'avvicinarsi e l'unificarsi del mio Dio e di Allah, fino a diventare l'unico Mistero, infinito e inconoscibile, ma concreto e reale come è la storia, nel quale cercare di scoprire un filo di luce, un accenno di spiegazione, un palpito di Amore. Perché di questo Dio, io e quella gente abbiamo ugualmente bisogno.
Assoluto bisogno.
All'ultima sera, era la vigilia dell'Assunta e il giorno dopo il turismo si sarebbe concluso, abbiamo cercato e trovato una casa di tre suore: un sacerdote francese diceva la Messa. Appena dopo la Consacrazione, dal minareto vicino, la voce potente del Muezzin ha inondato l'aria, dolcemente rosata dal tramonto, di Corano.
Ho lasciato di seguire la liturgia accogliendo nell'anima quel canto dalle tonalità alte e basse, contorto, come camminare sul filo e precipitare, come volute che salgono contorcendosi e si distendono, si accartocciano e si liberano. Esattamente come la storia dell'umanità e quindi la storia di Dio.
Il Padre nostro, ma continuava quel canto, l'Agnello di Dio e il cielo e la terra erano pieni di quella voce, ho aperto la bocca e l'anima e il cuore dell'umanità e la crosta della terra, all'ostia; Corpo e Sangue di Cristo, e quel canto mi raccontava, che sì, realmente, questa vita è un grande Mistero.
La sera dopo, il sole scendeva ormai stanco per troppo fuoco, l'aereo ci ha inghiottiti e portati via. Quaranta minuti da Tunisi a Roma ma una separazione totale, come fra due mondi diversi, distanti fra loro a vastità stellari.

Sirio

L'uomo come coppia

Parlavo qualche tempo fa con un Vescovo amico di vari problemi della Chiesa e il discorso cadde sulle canonizzazioni, un tema non certamente di attualità «Come sarebbe bello - mi diceva il Vescovo - che la Chiesa canonizzasse una coppia». L'osservazione che accolsi sul momento quasi come una boutade è restata in me e si ripresenta fra le domande che il nostro tempo mi pone - perché la chiesa non ha canonizzato la coppia? - Gli uomini canonizzati entrano nella classifica dei confessori o martiri, a parte la categoria dei sommi pontefici evidentemente ispirata dall'intenzione di guadagnare fiducia al Vescovo di Roma, e le donne in quella di vergini e vedove; e il senso resta, anche se la nomenclatura si modifica in senso ottimistico. Pare che, per entrare nella fila dei santi, bisogna che il compagno o la compagna scompaiano: o fatto fuori dalla morte, o collocato nella fila parallela; insomma la fila che segue l'Agnello senza macchia, è una fila indiana e pare che uomo e donna per la mano, romperebbero la armoniosa struttura. La tradizione ecclesiastica ha lasciato senza sviluppo la storia della coppia-modello, e ha posto nelle due schiere parallele Giuseppe e Maria, lasciando ai pittori, cercatori inquieti della relazione, di rappresentare la felicità di stare insieme, come i pittori rinascimentali, o la trepida attenzione di Giuseppe consapevole di essere responsabile di una persona caricata di mistero più di qualunque altra donna. Forse Gesù avrebbe ragione di ripetere a molti padri della Chiesa e a molti biografi di Maria «che l'uomo non separi quello che Dio ha unito». Indulgendo nell'astratto, si potrebbe dire che la chiesa ha canonizzato la verginità e la separazione piuttosto che la relazione, ha fatto della santità una perfezione dell'individuo, piuttosto che una perfezione dell'incontro. Perché?
Ormai è luogo comune rifarsi alla influenza della cultura greca nel cristianesimo e addossare a questa tutte le fughe dei cristiani dalla storia concreta; ma nonostante la coscienza critica che abbiamo, il Vangelo resta incrostato in questa cultura. Parve che la chiesa avesse una volontà seria di accettare le conseguenze di una lettura del Vangelo separato dal contesto «greco» e nel Concilio Vaticano II si parlò molto di manicheismo, di astrattismo, però dopo quella primavera di speranze, siamo ricaduti o per paura o per comodità nei vecchi moduli di pensiero teologico di culto, di azione pastorale che ci illudevamo fossero distrutti. Il Concilio difeso a parole, è tradito nella prassi e nello spirito: mi azzarderei a dire ai responsabili della chiesa come a molti adulti che si lagnano della indifferenza dei giovani, che la credibilità può essere solo il risultato del peso che noi stessi diamo alle nostre parole, per la serietà con cui le pronunziamo e la coerenza con cui le traduciamo nella prassi. Una lettura «greca» della vita di Maria, trasmessaci dal Vangelo ha identificato Maria come «vergine» e «madre» definendo per sempre gli orientamenti della donna cristiana e riassorbendo completamente la relazione parallela, direi la santità come relazione, che è l'aspetto più marcato e più originale del Vangelo. Tutti i grandi temi o problemi che la storia ha presentato alla Chiesa nel nostro tempo, sono affrontati con una premessa incompleta. «Vergine Madre, figlia del tuo figlio»; il povero Giuseppe è volatilizzato e anche Dante è salvato dalla selva oscura, dai viluppi carnali da una vergine-madre e forse nemmeno lui, ha saputo scoprire la donna, compagna, aiuto simile all'uomo. E' 'vero che il Vangelo è molto sobrio nel parlare della relazione Maria-Giuseppe, e nel racconto dettagliato del fidanzamento insiste piuttosto sulla sofferenza causata dall'insicurezza che associa Giuseppe a tanti fidanzati, almeno a quelli che pensavano di fare una cosa seria, piuttosto che sulla gioia d'amarsi; ma non sarebbe questo passar oltre la relazione, un altro segno della lettura greca del messaggio di Gesù? Abbiamo in mano due certezze: la prima è che il senso della missione di Gesù è quello di «riconciliare» non solo l'uomo con Dio ma «quello che è in cielo e quello che è in terra». San Paolo ce lo ripete con un lusso di dettagli, forse perché conosce la tendenza spiritualizzatrice e idealista dei greci, che non è possibile non includere in questa riconciliazione tutti i fatti dell'uomo e della storia: la storia politica quella che frammentariamente ci è raccontata sui giornali è storia di riconciliazione, e ce lo ha ricordato eloquentemente il Concilio. Quando i cristiani si distraggono da questa storia tradiscono il Vangelo, anche se tentano di ricoprire il tradimento con una attenzione su-perconcentrata al culto. La seconda certezza è che Maria è la creatura che ha compreso più a fondo il pensiero del Cristo e che lo ha realizzato nella sua storia nel modo più completo. Quindi l'opera di Maria, ciò che veramente ha fatto lei, quello che porta i segni della sua personalità, deve essere questa «riconciliazione» questa amicizia profonda con l'uomo Giuseppe. Vergine l'ha fatta Dio senza di lei, madre è diventata sì certo per il suo consenso, ma una madre sola, una madre che non ha vissuto profondamente l'amore parallelo, quello di amica e di compagna, è una vera madre? La partecipazione di Maria al piano di Gesù non sarebbe questa riconciliazione che è il modello e la base di tutte le riconciliazioni? I santi e le sante che si sono sbrigati di mandare il consorte al cielo o in altro luogo, per avere lo spazio monastico, possono anche non avere all'attivo una relazione bene vissuta e realizzata, come possono avere alle spalle una storia di peccato riscattata da questo periodo di intensa vita «consacrata», ma questo non si può dire di Maria cui la chiesa da la prerogativa di essere entrata pienamente dal primo momento nella grazia che è identificazione col Cristo. Quindi non occorre fantasticare tanto, per pensare a Maria come donna in relazione, come coppia. Maria non ha certamente sopportato un marito per evitare uno stato civile infamante o per farsi dei meriti facendosi esempio di quel rassegnato martirio della donna cristiana, ma ha certamente realizzato la riconciliazione cioè quella comunione Con l'uomo liberata dalla paura, dalla brama di dominio e di possesso, dalla tentazione di costruire il muro protettivo, perché la famiglia non si apra al mondo.
Forse non sarebbe tanto importante per un giovane di oggi quella canonizzazione della coppia che proponeva il mio amico, ma bisognerebbe rileggere il Vangelo partendo da questa ipotesi, direi da questo canone interpretativo: il Vangelo non è un trattato di spiritualità, non è un codice morale, non è un metodo di preghiera, il Vangelo è una proposta, un progetto di riconciliazione. Il modulo del Vangelo è la parabola del figliol prodigo, riletta per quanto è possibile, fuori di un contesto greco: il padre rida al figlio le cose che aveva dissipato, «alienato» si direbbe oggi, la veste, i calzari, l'anello, gli alimenti e certamente una buona moglie dopo le donne allegre che aveva conosciuto, perché come si può immaginare un ebreo senza moglie? La scena non si chiude con l'abbraccio del padre; ma con la creazione di una cordialità con gli altri e con le cose. Il figlio maggiore osserva che il padre non gli ha mai permesso di mangiare un capretto con gli amici, perché scopre che il fratello ha degli amici e che le bestie che sono sulla tavola non sono solo oggetti di scambio ma sono i legami di questa amicizia e sono la stessa festa, è che lui non aveva scoperto gli altri come amici e le cose come beni da spartire, quindi questa riconciliazione che si festeggia oggi nella casa del padre, è la scoperta di relazioni nuove che lui scopre dopo una lunga convivenza in quel giorno di festa, con sorpresa e quasi con rabbia. A quelli che hanno isolato l'incontro col padre come un fatto individuale senza festa, senza amici, il Vangelo presenta una visione totalizzante, che si comprende solo quando si giuoca tutta la vita nella ricerca di relazione. In fondo nel suo piano di partenza il prodigo aveva cercato di aprirsi sugli altri e sulle altre cose: i suoi errori contengono la profonda verità dell'uomo.
Forse il mio amico Vescovo che vorrebbe canonizzare l'uomo in relazione, intuisce che alla generazione di oggi non interessa più la purezza dell'uomo solo. Tutta l'America è stata veramente scossa da un fremito di commozione profonda, mescolata di sdegno, di tristezza e di speranza alla notizia dell'assassinio nella cattedrale di San Salvador, non perché si fosse commesso un sacrilegio, che la vita di un Vescovo vale esattamente quanto la vita di una vecchia, morta sul selciato mentre piangeva intorno alla bara del Pastore ma perché la mano assassina stroncava una relazione di amore, una relazione politica che in questo grigiore, rappresentava un raggio abbagliante, capace di riaccendere la speranza dell'uomo.

Arturo Paoli

Ragionando sul nostro tempo

Nei tempi in cui viviamo determinati dai grandi poteri a livelli mondiali sempre più si va scoprendo la progressiva scomparsa dei valori sul piano personale o di groppo che sia e dei rapporti fra questi valori e la realtà storica.
Gli imperialismi economici, politici, militari, come piovre di misura spaventosa e così tanto come mai nella storia è avvenuto, stanno divorando i popoli e i continenti intesi come individualità. E questa voracità che assolutamente niente perdona, decisamente impietosa e insaziabile, sta arrivando e non poteva non succedere, fino all'inghiottimento, alla masticazione e alla digestione dell'individuo, della povera persona umana e della sua espressione di cultura e di civiltà dei singoli popoli.
Chi non sente i denti, canini e molari (per continuare ormai l'orrenda immagine) masticare ogni giorno di più, la propria carne e tanto più la propria anima, cioè il se stessi nella propria essenzialità personale, nelle componenze anche fondamentali della propria caratterizzazione personale, individuale e collettiva?
Chi non se ne avvede di essere «mangiato» vuoi dire che è tanto «distratto» da non accorgersi nemmeno della frantumazione delle ossa e del vanificarsi del proprio spirito. Ma anche questa «distrazione» rientra nella astutissima scaltrezza, nella micidiale perfidia del «mostro»: il crotalo cioè il serpente a sonagli, prima avvelena narcotizzandola la sua vittima e poi a poco a poco la succhia e la inghiotte.
Le forze politiche a livelli mondiali si stanno una dopo l'altra allineando al sistema e da speranze rivoluzionarie, cioè di resistenza, di opposizione, di alternativa, si organizzano in altrettanti «mostri» disponibili allo scontro ma soltanto per dividersi «la preda» o riservarsela intera alla propria voracità.
L'allineamento delle potenze mondiali è tutto sulla strada maledetta dell'imperialismo, cioè del mostro divoratore.
E' chiaro che non sono un uomo di cultura, ma non vedo e non accetto che a chi è soltanto popolo, uomo della strada, non debba essere concesso di osservare il mondo in cui vive e di non giudicarlo, non abbia il diritto di resistere all'universale «distrazione» e di non rendersi conto di quello che gli sta succedendo. Dopo tutto si tratta della sua pelle e non solo della sua. Molti anni fa con la solita ingenuità del povero popolo, le speranze e le attese si erano aggrappate e disperatamente, alla Russia e al simbolo di alternativa che con la rivoluzione comunista, rappresentava per il povero popolo. Poi le speranze si sono andate spostando verso la rivoluzione, certo anche quella culturale, cinese. Si sono agganciate, anche se terribilmente restringendosi, queste speranze, alla rivoluzione cubana. Tutto si è riacceso a vampata di entusiasmi al tempo della guerra del Vietnam. Anche se attenuandosi e annebbiandosi queste povere speranze, se non altro per impedirsi di sconfortarsi, si sono rifugiate alle possibilità di resistenza del non allineamento. Ma tutto si è andato spengendo come al calar del sole la sera e raffreddando come quando è sul finire la buona stagione e si avvertono i primi brividi invernali. Siamo attualmente, noi gente della strada, ridotti a guardare e quasi con una punta d'invidia, anche se si tratta soltanto di disperazione, ma la storia dei nostri giorni non offre proprio altro, alla violenza della riscossa islamica. Perché, volere o no, la rivoluzione islamica dell'Iran e lì accanto la resistenza armata dell' Afghanistan, sono lotta di popolo contro i due imperialismi che attualmente schiacciano il mondo. Tanto più, oltre a tutto il resto, per il fatto che hanno la potenza militare di volatilizzare ogni forma di esistenza e quindi l'umanità intera, in pochi secondi.
Più viva e appassionante, fino a suscitare lo stupore del miracolo, è l'esperienza liberatrice e costruente del popolo libero, del Nicaragua e dei popoli dell'America Latina. Se non altro per mantenere acceso il barlume di una fiducia che, in fondo, ancora esiste, può esistere la ribellione, questa adorabile virtù dei popoli oppressi.
L'analisi della speranza-disperazione potrebbe continuare raccontando delle grandi ideologie che hanno scosso la storia, aprendo strade nuove di pensiero e di progetto politico. E la loro progressiva degradazione fino allo sciacquarsi, diluite incessantemente e inesorabilmente dal loro diventare cultura: proprietà cioè della speculazione intellettuale degli addetti ai lavori del pensiero e strappate sempre più alla forza rivoluzionaria del popolo e in particolare della classe operaia e contadina, per incasellarle in sistemi (quanti?) d'interpretazione ideologica e quindi, logicamente, partitica.
Ogni rivoluzione trova disgraziatamente i suoi teologi e i suoi esegeti cioè i suoi affossatori. Dove è il corpo, lì, si radunano le aquile, o meglio, secondo altre traduzioni del Vangelo, gli avvoltoi.
Tanto più che in questo nostro tempo che viene indicato, come sua peculiarità e gloria, tempo di liberalizzazione, di democratizzazione, sta crescendo paurosamente il «rifiorire» dell'autorità, e quindi dell'autoritarismo, cioè dell'uomo eccezionale che sa tutto e deve poter tutto. Sarà finito forse il tempo (sembra, ma non è vero) delle dittature vecchio stampo, ma è fenomeno ancora attuale anche se in forme raffinate e quindi insidiosissime, delle mitizzazioni, delle sovranità più o meno dispotiche.
Anche e soprattutto perché «il mostro» incentiva paurosamente nelle masse il sistema eternamente furbastro e assassino, della delega; propinando nel frattempo la tentazione della passività attraverso l'incantesimo del benessere.
Le forze di contrasto, di opposizione, di resistenza.. E quali? E dove?
Qualcosa di diverso. Un semplice tracciato per una via diversa. Un cartello che indichi un'altra strada. Un'alternativa di pensiero e di progetto concreto... E di dove potrebbe venire, chi lo può congegnare e quale lotta per attuarlo?
Impressiona molto, fino allo sgomento, il fatto di non sapere, di non riuscire a immaginare in quali forme e di dove possa venire, questa alternativa e con quali forze e attraverso quale lotta sia ipotizzabile una sua affermazione storica.
Anche il sognare semplicemente e ingenuamente un mondo e un avvio di storia diversa, rischia una pericolosa disincarnazione, un chiudersi nel proprio guscio pascendosi di vuote utopie e lacrimando sulla disgrazia universale.
La stanchezza per un rapporto di forza con la realtà nella quale viviamo, è facilmente spiegabile, ma proprio in proporzione alla sua giustificazione storica, non può e non dev'essere perdonabile.
Fare il gioco del nemico è strategia assurda e condannarsi alla sconfitta. Dare spazio e demolire ogni arginatura è favorire lo straripamento della fiumana. Fuggire a rintanarsi nelle proprie sicurezze è condannarsi alla morte del topo.
Il pericolo più insidioso che la speranza corre nel nostro tempo è la scissione fra il personale e il collettivo, il particolare e l'universale, l'accurata e vigilante separazione tra il mio e il tuo, il se stessi (e qualsiasi cosa di rapporto con il se stessi) e gli altri. L'emarginazione è fatica che non conosce stanchezze, questa strana istintività al rigetto di tutto quello che non è diretto e immediato interesse. La mentalità corrente e la norma di comportamento alla quale è fedeltà assoluta e cieca obbedienza, è questa: via, fuori, tutto quello che non tocca la mia pelle.
Non è problema di crudo e antipatico egoismo, quell'istintività dell'assolutizzazione del se stesso, che rabbrividisce chi si mette sulla via della santità o anche soltanto di un onesto rapporto umano. Si tratta invece di un nuovo tipo di personalità plasmato dalIa corrente cultura consumistica e quindi di una condizione di vita e convivenza umana onestamente e seriamente normalizzata, rispondente perfettamente alla realtà del nostro tempo che logicamente, come ogni civiltà che si rispetti, costruisce l'uomo, il suo vivere e il suo convivere, secondo precisi imperativi d'interesse o meglio, di sfruttamento.
Il risultato è doppio, ma sono due strade che sfociano nell'unica autostrada a senso unico.
L'affermarsi del «mostro» imperialista e il progressivo dominio assolutizzato del capitale.
L'inesorabile demolizione e soppressione della persona e quindi lo spengersi perfino della speranza.
Cosa fare? E' l'interrogativo immediato e inevitabile, più che giustificato, come per chi sta per soffocare e chiede aria da respirare. Tutto il resto semmai è da vedere dopo. Si diceva già prima che questo nostro tempo è già arrivato al punto di rarefazione atmosferica per cui anche una respirata di ossigeno è quasi impossibile: anche lo stesso sognare un «cosa fare» rischia l'assurdità.
Eppure anche in questo deserto d'idee e di progetti, è assolutamente doveroso, perché vitale, camminare. Se non altro il sole di giorno e le stelle di notte potranno pur dare un orientamento. Gli uccelli migratori seguono l'orientamento connaturato alla loro istintività, così i banchi di pesci nelle profondità del mare. La natura imprime negli esseri viventi leggi determinanti il loro vivere. La degenerazione avviene soltanto strappandoli dal «habitat» naturale e imprigionandoli in sistema di vita imposti...
Forse per me, per te (per ogni essere umano) la prima cosa da fare è riconquistare la libertà personale. Bisognerebbe molto riflettere su questa libertà e quindi sulla propria liberazione. Non è semplice e forse non è possibile che s'impari molto a leggere o a sentirne parlare. Sta il fatto che nessuno respira con i polmoni di un altro e anche nel tempo dei trapianti, come sembra che sia il nostro, il principio vitale ognuno ha il suo strettamente personale. L'anima è il se stessi più profondo, inconfondibile e insostituibile.
Liberare la propria anima, riconquistandola a se stessi, è la prima decisiva cosa da fare.
Non so bene quanto tutto quello che sto scrivendo possa essere leggibile e quanto possa interessare. Forse è utile soltanto a me questo mio scrivere: non è cosa di poco conto. Se poi succede che questo scrivere sia come parlare con qualcuno, cammin facendo, ne sono contento e allora a questo mio ipotetico compagno di viaggio vorrei dire: alla prossima occasione, riprenderemo il discorrere...

Sirio

San Romero d'America

«L'angelo del Signore dette l'annuncio la vigilia
Il cuore del Salvador segnava
24 marzo e l'ora dell'agonia
Tu offrivi il Pane, il Corpo vivo
- il frantumato Corpo del tuo Popolo;
il suo vittorioso Sangue
- il sangue contadino del tuo Popolo massacrato
che tingerà come vino inebriante l'Aurora scongiurata!
L'angelo del Signore dette l'annuncio la vigilia
e il Verbo, ancora una volta, si fece morte nella tua morte
Come ogni giorno si fa morte nella nuda carne del tuo popolo

E si fece vita nuova
nella nostra vecchia Chiesa!
Siamo nuovamente in piedi per dare testimonianza,
San Romero d'America, pastore e martire nostro!
Romero della pace quasi impossibile, in questa Terra di guerra.
Romero, rosso fiore della incolume Speranza di tutto il continente.
Romero della pasqua latinoamericana.

Povero glorioso pastore,
assassinato a pagamento,
a dollari,
in valuta pregiato.
Come Gesù, per ordine dell'Impero.
Povero glorioso pastore,
abbandonato
dai tuoi stessi fratelli di Pastorale e di Tavola.
(Le curie non potevano comprenderti:
Nessuna Sinagoga bene installata può comprendere Cristo).

Ma era con te la massa dei poveri,
in disperazione fedele,
pascolo e anche gregge della tua profetica missione.
Il Popolo ti ha fatto santo.
L'ora del tuo Popolo ti ha consacrato nel «Kairòs».
I poveri ti hanno insegnato a leggere il Vangelo.

Come un fratello
ferito
da tanta morte di fratelli,
sapevi piangere, solo, nell'Orto.
Conoscevi la paura, come un uomo in lotta.
Ma sapevi dare alla tua parola,
libera,
un suono di campana.

E hai saputo bere
il doppio calice
dell'Altare e del Popolo
con una sola mano consacrata al Servizio.

L'America Latina ti ha già innalzato nella sua gloria del Bernini
- nelle spumeggianti onde dei suoi mari,
nella cornice antica delle sue Ande,
nel baldacchino arioso delle sue foreste
nel canto di tutte le sue strade,
nel calvario di tutte le sue prigioni,
di tutte le sue trincee,
di tutti i suoi altari...
Nell'altare sicuro del cuore insonne dei suoi figli!
San Romero d'America, pastore e martire nostro,
nessuno
farà tacere
la tua ultima omelia!


Mons. Pedro Casaldaliga
Vescovo di Sao Felix do Araguaia


Amici in Africa

Carissimo, la mia salute fa giudizio e acquisto forza sempre di più; se va avanti così, penso che starò ancora un bel po' in Africa, poi l'avvenire è nelle mani di Dio. Partita il 10 novembre dello scorso anno, con il cuore angosciato per ovvi motivi, sull'aereo ho sentito una gran pace invadermi e la certezza della presenza del «Dio fedele». Così, quando all'atterraggio a Bujumbura, l'Africa mi accolse con il suo... «caldo» abbraccio, mi sono sentita felice. Poi il periodo di reinserimento è stato duro, fisicamente e moralmente, ma... ce l'ho fatta; ormai vado proprio bene, anche se devo andare più piano di prima e se gli acciacchi della vecchiaia si fanno sentire... !!! Ho fatto un'esperienza quest'anno: quando i momenti erano più duri... anche per colpa mia e del mio caratterino... il Signore, invece di «sgridarmi» aumentava le sue tenerezze, attraverso la tenerezza degli amici di comunità e della gente: è stata una lezione, io che sono sempre piuttosto rigida nel portare avanti dei «principi»... E con questo metodo, mi ha fatta camminare e molto, cerco ora di diventare anch'io «tenerezza» per gli altri e vedo che le cose vanno molto meglio! Ho ripreso il mio lavoro di animazione; i giovani, coi quali avevo iniziato la coscientizzazione prima della malattia, mi aspettavano e ho avuto una gioiosa sorpresa: hanno camminato da soli e molto!
Le ire del «potere» non sono mancate, alcuni hanno pagato con prigione e battiture lo... sbaglio di «aver aperto gli occhi» e quello di «aiutare gli altri ad aprirli»; invece di mollare, dopo il primo momento di sgomento e paura, si sono uniti di più tra di loro e vanno avanti. Per equilibrare l'apertura di un gruppetto, la massa è ancora immersa nella paura e nell'esitazione; ne abbiamo avuto conferma recentemente quando abbiamo tentato un'azione di protesta non-violenta contro i soprusi sempre più gravi, convinti che la gente ci seguisse. Invece ci siamo ritrovati, noi quattro, quasi soli,... qualche metro più avanti, in corsa,... mentre la gente arrancava e, forse per la fatica, stava per fermarsi. Le autorità che ci vorrebbero buoni in chiesa ad «interessarci di Dio»... dicono loro... erano soddisfatte, ma per poco tempo. Si è deciso di andare più piano e di intensificare la coscientizzazione a più largo raggio, perché la partecipazione del popolo diventi maggiore. Con il consiglio parrocchiale (che non sono come quelli italiani... ma molto, molto più furbi...) si è preparata una traccia di riflessione che si può sintetizzare in queste tre domande: 1) Qual è la situazione attuale? (analisi e ricerca comune); 2) Dio cosa pensa della situazione? (confronto con la Parola); 3) Secondo te, cosa ci è possibile fare concretamente, oggi per liberarci e liberare il Paese dal male? Questa traccia è stata data a ogni comunità di base (sono più di 70, circa 4.000 persone); per un periodo lungo... i ritmi dell'Africa sono lenti... tutti dovranno riflettere, cercare, rispondere, secondo la loro mentalità e sensibilità.
Poi, di nuovo con il consiglio parrocchiale, da tutto questo rapporto si preparerà un piccolo documento che sarà una direttiva di azione per le comunità. Nato da loro, coi loro ritmi, le loro indicazioni è una presa di coscienza che darà i suoi frutti; crediamo sin questo il «camminare insieme» che vogliamo vivere e che per questa realtà Zairese e africana, ci sembra la più valida. A volte sono stufa e siamo stufi! Fare un bell'ospedale, una bella scuola, malgrado le «grane» darebbe più soddisfazione; senti che hai realizzato qualcosa e la gente plaude... In questo stile, invece, del vivere «con» e del formarci insieme una coscienza nuova, bisogna crederci e molto, perché sono cose lente... di generazioni.
La situazione dello Zaire è disastrosa e non si vede bene come uscirne... come si uscirà. Anche se diversa dalla realtà italiana, hanno in comune l'angoscia, la paura, l'incapacità a cambiare, eppure io continuo ostinatamente a credere in quei segni di speranza, dei quali «il» segno è la Risurrezione di Cristo, dopo la croce, dopo l'offerta totale di sé, perché «altri avessero la vita». E in questa luce andiamo avanti, Luisa, io, Carlo, Giovanni. Sin che annunciamo la «Buona Notizia» attraverso la Parola, o attraverso la medicina preventiva, o attraverso le lotte di liberazione dal «marcio» attuale, ci pare di essere ancorati a Dio, Padre, sorgente di vita, Amore... e all'uomo, sua immagine! Non è, credilo, né una fede, né una speranza ebete...; nascono invece da una sofferenza quotidiana, che sovente è solitudine e nausea..., ma a volte facciamo anche l'esperienza di un Dio che colma e che «è con te», e sono momenti in cui non puoi fare altro che rendere grazie. A fine settembre arriveranno con noi Marino e Bruna, due coniugi di Varese col loro piccolo Simone di due anni. La comunità si... ringiovanisce e si allarga... ! Con l'affetto di sempre

Emma

"NO" alle armi nucleari

Quelli che si oppongono alle armi atomiche ricevono la risposta che queste armi fanno parte d'un insieme più vasto; perciò non si potrebbe isolarle facendo una lotta separata contro questo solo tipo di armi.
In effetti occorre tener conto di questo fatto. Inoltre occorre avere una posizione coerente sia con lo stile di vita che con le scelte politiche. La soluzione di questi problemi è la coscienza. La coscienza viene fuori quando un altro uomo mi guarda e il linguaggio del suo viso tocca il mio essere in maniera tale che, da uomo che cerca di andare a fondo della sua vita, io mi converto in un uomo che si mette al servizio dell'altro. Nel mondo degli uomini questo è diventato vero con Gesù, che si fece servo (Mt 20, 26-28) e che l'ha reso possibile anche per noi che vogliamo seguirlo. La coscienza è implicata anche nelle vittime e dalla maniera con cui diventano vittime: non rivelano forse la vera natura di ciò che avviene in noi e attorno a noi?
La coscienza in coerenza con la fede, nella quale noi ci confidiamo a Dio, impariamo a distinguere la sicurezza di cui noi uomini abbiamo bisogno e che noi possiamo difendere, di ciò che si chiama anche sicurezza ma che in effetti è cattivo uso della forza sugli altri. La coscienza ci fa anche penetrare la natura della coscienza e le conseguenze della violenza nelle relazioni tra uomini e tra i popoli. La coscienza infine ci permette di distinguere i mezzi che possono efficacemente servire un fine giusto, da quelli che non lo possono fare.
La fede e la coscienza assieme ci mostrano dove si trova la salvezza e quali cammini ce ne distolgono spingendoci verso la guerra.
L'arma atomica non deve essere isolata dall'insieme nel quale nasce, ma comunque essa richiede una posizione speciale. Le ragioni sono: la distruzione di massa che provoca con la sua forza esplosiva, con il calore e con la radioattività che produce, il che la rende un mezzo inaccettabile di una difesa giusta.
Questo «no» all'uso delle armi nucleari conduce anche a rifiutare il sistema del terrore, che è basato sulla minaccia e il fatto di essere pronti a utilizzarle. Questo comporta anche un «no» allo sviluppo attuale della corsa agli armamenti, che tende ad integrare, sempre più l'arma nucleare nello stesso sistema di difesa: perché questo conduce al loro impiego effettivo.
Ma inoltre, quando noi ci opponiamo in maniera speciale alle armi atomiche, dobbiamo restare coerenti con tutto: l'arma atomica rivela fino a qual punto gli uomini sono capaci di andare, e non si può bandirla senza coinvolgere anche le cause che la fanno sorgere.
L'esistenza degli uomini ha avuto sempre minacce, ma ai nostri giorni, il pericolo sorpassa tutto quello che c'è mai stato nel passato? Possa esserci accordata la grazia che in questa ora estrema si risvegli una saggezza e una forza morale che possa dare all'umanità la possibilità di sopravvivere e di imparare delle nuove strade per assicurare la giustizia e la sicurezza.

ERNST, Vescovo di Breda
SCHREURS, Vescovo di Hasselt



Gli amici ricorderanno la grande gioia con cui fu accolta la sentenza di assoluzione per la lotta contro le centrali nucleari nella Maremma: per rimangiarsi quella sentenza la Magistratura è ricorsa in appello. Il nuovo dibattito sarà celebrato a Firenze il 16 dic. P.V. La sera del 15 precederà un dibattito pubblico sempre a Firenze.

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