Eccoci di nuovo, ancora una volta, con queste nostre paginette: un piccolo, impercettibile segno del nostro vivere. Un'umile riprova della nostra fedeltà, fedeltà a Dio dal quale tutto - e quindi abbiamo fiducia anche questa nostra vita, queste scelte interiori e pratiche di tipo d'esistenza - nasce e cresce e ha vitalità.
Perché confidiamo che le nostre scelte non siano determinate «da carne e sangue, da volontà di uomo, ma da Dio». E così tanto che anche la continuità del progetto confidiamo che sia opera di Spirito di Dio, nella ricerca di una fedeltà al Mistero di Gesù Cristo che crediamo e .affermiamo unico Maestro.
E' fedeltà agli uomini, all'umanità e alla sua storia. Perché nella ricerca di Dio sta la pienezza della ricerca dell'uomo. Dell'uomo che è il se stesso per una compiutezza di valori fino ad ottenere quella misura di statura, di cui dice S. Paolo e che è chiaramente ritrovabile nella compiutezza della statura umana e divina di Cristo. E degli uomini che sono gli altri. Quelli con i quali si vive e si condivide la vita, quelli che incontriamo sulla nostra strada nel lungo camminare che va dalla nascita alla morte - e anche prima e anche dopo, perché la nostra età non è misurabile anagraficamente, non è chiusa fra date, a meno che non ci riferiamo all'età di Dio che è senza principio e senza fine. Siamo nati nel suo pensiero e viviamo della sua vita che non ha passato e futuro, una storia legata a un divenire, ma ad una realtà eternamente presente.
Fedeltà dunque ai valori costitutivi dell'esistenza umana e della storia dell'umanità. Non siamo quindi «fluttuanti come nuvole portate dal vento o foglie cadute dall'albero» ma stabilità e sicurezza. Non ci muove quindi la storia e la sua volubilità, nonostante il nostro coinvolgerci nel gran fiume, a misura di ogni rischio e decisamente al di là di ogni sapienza e saggezza umana.
Viviamo in tempi paurosamente o, se si vuole, meravigliosamente raccorciati. I cento anni sono in questi nostri tempi, dieci e dieci sono un mese e forse un giorno. I problemi e le vicende si aggrovigliano e si ammatassano in nodi vorticosi come mulinelli. Il cielo della storia è imperversato da una tempesta dopo l'altra e squarci di sereno sono rari e a zone geografiche molto ridotte e sempre oscurate da correnti di nebbia risalenti, quando di qui e quando di là, da questo povero mondo assolutamente senza pace.
La fedeltà. Splendido valore, chiarezza fondamentale nei confronti di se stessi e degli altri e quindi della storia Ma fedeltà a chi e a che cosa?
Si, è certo, fedeltà a Dio per la sicurezza della sua fedeltà. Perché su Lui ci possiamo giurare. Quanto Dio è Amore - e è essenzialmente Amore per la sua natura divina - altrettanto è fedeltà. Ed è bellissimo sapere che una fedeltà esiste, concreta e anche storica, nell'oggi perché ugualmente fedeltà ieri e domani. Fedeltà in eterno, cioè presenza perfetta di fedeltà perché la parola non è conclusiva e basta, come chiudere un libro, dopo l'ultima pagina.
E' in questa fedeltà di Dio e a Dio che riposa il nostro ottimismo di credenti. Ottimismo esposto logicamente alla prova e alla tentazione come tutti i valori di Dio discesi nell'uomo e determinati del suo essere umano, che lo si voglia o no ne costituiscono la sostanza più vera, ma anche ottimismo che nella sofferenza e nella lotta si conferma e si rafforza, perché il pagare prezzi e anche prezzi elevatissimi, non è intaccare il valore, ma semmai renderlo ancora più valido e più prezioso.
E' di qui la ricerca incessante e anche faticosissima, di scoprire dove è nascosta la fedeltà in modo che sia ritrovabile e diventi motivo di gioia e di forza.
E questa fedeltà è nel nostro cuore. Che non accetta patteggiamenti e compromessi. Ma è criterio sicuro e tranquillo di giudizio. Perché provoca l'Amore e dove è Amore è fedeltà, esattamente come nel Mistero di Dio.
E dove è fedeltà costruita sulla fedeltà di Dio è sicuramente perseveranza. Cioè continuità non soltanto nonostante tutto ma anzi attraverso tutto. Non sentiamo infatti il mondo nel quale viviamo un nemico e il nostro tempo come opera diabolica. Non per nulla continuiamo a pregare, e semmai con particolare insistenza e forza, «venga il Tuo Regno» per la precisa coscienza che anche in questi nostri terribili giorni, il dominio di Dio si sta imponendo sempre più e la proposta di Gesù Cristo sta sempre più manifestandosi come l'unica via. l'assoluta verità e totalità di vita.
Offriamo ai nostri amici questa chiarezza di fedeltà in una tenace e serena perseveranza per una Fede e un Amore a tutta prova.
Niente di eccezionale e tanto meno di clima eroico: è la semplice virtù di quella povertà che lascia cadere come fardelli pesanti e inutili, le grandiosità di formidabili successi, le giornalistiche ricerche di strepitosi effetti, per un cedere dolcemente all'invito: «venite un po' in disparte e riposatevi un poco» perché ci ostiniamo a credere che la gioia più profonda e più appagante è nel fatto che «i nostri nomi sono scritti nei cieli».
Vorremmo tanto che queste paginette fossero quest'umile e povera testimonianza. O almeno un segno, un cenno, un gesto...
Ve le offriamo con sereno e affettuoso spirito fraterno nella fiducia di trovare in voi un riscontro, una comunione di fedeltà in cammino sulla via della perseveranza per un ritrovarci insieme nel tempo e nello spazio di Dio e in un abbraccio che abbracci l'umanità tutta.
«Bisogna insegnare a dire di no, a gridare di no, uno, due, a folle, a popoli interi...
Quando i popoli impareranno a dire di no sarà solo allora pace, giustizia, libertà, perché prima bisogna essere NO per poter capire e decidere di sì».
Queste frasi le sono andate a ricercare su un testo scritto da Sirio e rappresentato alcuni anni fa a più riprese dal nostro gruppo teatrale di felice memoria. Mi sono venute in mente a proposito di tutta una realtà attuale in cui non si ha quasi più la forza per dire di no, ma - a me sembra - neppure la voglia di dire di sì. Poi questa faccenda del sì e del no appare chiara quando è tratteggiata nel chiaroscuro di un discorso appassionato, di una dimostrazione per successive evidenze, ma appare assai meno chiaro nella ricerca quotidiana, nel passare dei giorni, nell'usura della propria identità, nella stanchezza di una continuità di rapporti.
A livello di parole d'ordine, di slogan, il sì e il no sono emblematici di posizioni precise, chiare, inequivocabili. Costituiscono elemento di sicurezza, di identificazione. Abbiamo assaporato l'ebbrezza della manifestazione di massa, di popolo che diventa un sì e un no vivo e palpitante, una parola in cui scorre il sangue e lo spirito della vita. Ora non è più così, o comunque lo è molto meno. E' necessario allora rinnovare le parole d'ordine, aggiornare gli slogan?
Non sembra davvero risolutivo rispolverare striscioni e cartelli. La gioia di ritrovarsi insieme sulle strade, nelle piazze per un grido unito e appassionato, è momento di grazia che non può essere programmato a comando. E' il momento in cui il popolo rappresenta le proprie aspirazioni, le sensibilità più vere e nascoste, e le rappresenta perché le vuole vivere.
Ecco, noi abbiamo fatto le rappresentazioni di quello che vogliamo e di quello che non vogliamo: poi si spengono le luci dei riflettori e si accende la luce del sole che segna lo scorrere dei giorni. Occorre rinnovare le rappresentazioni, ma non si può pretendere di vivere come a teatro, anche se questo singolare teatro che è chiarezza di coscienza nel cuore della gente è legato strettamente alla vita.
Abbiamo gridato i nostri sì e i nostri no, abbiamo gridato anche per chi non ha voce, anche per chi non può o forse neppure vuole dire di sì o di no. Ma non dobbiamo dimenticare che ciò che diciamo è quello che vogliamo vivere.
Essere sì, essere no: questo è il compito quotidiano che ci attende nella realtà quotidiana che smorza ogni urlo anche il più forte. E innanzitutto renderei conto di quello che oggi in noi è si o no al di là degli slogan: a cosa noi diciamo sì o no con i segni concreti delle cose che facciamo, dei rapporti che abbiamo. E' una verifica difficile, molte volte arida. Di certo molto poco riposante. Perché mettersi in discussione oggi con tutto un qualunquismo ben più che strisciante, con uno spessore di nebbia che impedisce precisi e chiari punti di riferimento, non può essere come fare una passeggiata.
Intanto questo taglio di vita viene (mi verrebbe da dire pesantemente) criticato da quanti, sia pure «da sinistra», temono l'assenza o comunque la perdita di valori fondamentali. Si accompagna a questo giudizio l'interessata approvazione di quanti mettono davanti a se il dubbio come metodo per poter affermare tutto sommato il diritto a mutar direzione a seconda di come soffia il vento.
La strada è indubbiamente segnata da solitudine, attraversata da ostacoli che ne riducono il respiro a momenti personali, disseminata di paludi stagnanti di psicologismi, ma attualmente a me sembra quella più sincera.
In pratica, cosa vuoi dire questo? E' una terza via, una mediazione tra il sì e il no, un «forse tutto sommato, ma»?
Non direi davvero perché il sì e il no conservano tutta la loro luminosità cristallina. E' come lasciarsi illuminare o forse meglio lasciarsi mettere in croce sui legni del sì e del no che attraversano la nostra esistenza. E' alzare gli occhi oltre la stretta linea delle parole già fatte per poter prendere sempre nuovi punti di riferimento, per una rotta che non è fedele a nessuna stella ma al vento che gonfia la vela e muove la barca.
La parola è sempre meno importante.
L'albero mostra i suoi frutti: non vogliono, non pretendono di convincere nessuno, non sono apologetici: spiegano semplicemente a chi io sto dicendo di sì e a chi di no.
Non mi è impedito di partecipare ad altre rappresentazioni, con pochi o con tanti compagni che sia, ma si riduce il distacco tra la manifestazione e la vita. E questa riduzione non avviene su un piano quantitativo: non misuro la forza della rappresentazione con la coerenza di vita, perché se lo facessi dovrei ritirarmi nel deserto e star zitto per il resto dei miei giorni. Il distacco si riduce perché la luce che mette sempre più a nudo la povertà della vita è la stessa che illumina la rappresentazione sempre più completa di una umanità finalmente liberata.
Da una parte la pochezza di un'esistenza, dall'altra la ricchezza di una speranza gridata a piena voce: non c'è ostilità, non c'è confronto di giudizio, solo la pace di essere contenuti nello stesso respiro, avvolti dallo stesso calore, segnati dalla stessa luce.
Luigi
Cari amici, parlare o scrivere può essere anche un mestiere, come il conferenziere di professione o come quel nostro (grande) scrittore vivente che ogni giorno né una di più né una di meno, scrive puntualmente cinquecento parole.
Può essere anche una pericolosa e disonesta alienazione: mettere in parole la propria incapacità di azione, tradurre in fiato di voce o con una biro (meglio ancora, modernamente, con una Olivetti) la propria pigrizia, se non la propria vigliaccheria nei confronti di iniziative di azioni, di lotte concrete, pagate a suon di rischio, magari di galera o peggio ancora. E può essere ancora, il parlare e lo scrivere, tentativo di sopraffazione, ricerca di dominio, con poca spesa e forse anche guadagnandoci su qualcosa, oltre alla gloria, anche di quattrini.
Ma speriamo che possa anche significare questo benedetto vizio di parlare in pubblico e di scrivere, come un lasciar parlare il cuore, l'aprirsi dell'anima perché dalla sua pienezza trabocchi l'urgenza di un dilatarsi creando spazi più vasti dove il respirare di se stessi e di altri, sia più facile e più vitale.
E' da un pezzo che mi sto ponendo questo problema: se possa sentirmi giustificato ancora (e gli anni sono tanti e le gioie e le amarezze, gli entusiasmi e le stanchezze) a parlare e a scrivere. Perché sto continuando a parlare in pubblico. E sto insistendo, quando me ne capita l'occasione, nello scrivere.
Ogni volta che mi invitano a parlare, non so dire mai di no. A volte mi sembrerebbe doveroso rifiutare e per mille motivi, tra i quali l'impreparazione, l'impossibilità di mantenere un livello di informazione, se non altro quella spicciola, quotidiana, la difficoltà di uno svolgimento logico, ordinato, insomma, la mancanza assoluta del 'mestiere'. Non so mai se dopo aver parlato, ho comunicato idee, convincimenti, risoluzioni, qualcosa che arricchisca, accenda, provochi. Forse lascio soltanto delle impressioni, come quella di uno che crede in quello che dice, ne prova tutta lo passione, e più ancora offre lo testimonianza che quello che riesce a dire non sono soltanto parole, ma prezzo di carne e sangue, compromissione totale, un mettere di contro e un giocare ogni cosa senza riguardi o sottintesi, fino al tutto donato. E rimango sempre con l'angoscia di essere e di avere così poco, che mi viene, ogni volta, davanti alla gente, lì seduta, che mi ascolta, una bruciante vergogna come di mani vuote davanti a chi chiede qualcosa, come una sorgente d'acqua disseccata o con appena un niente di filo d'acqua ed ecco, lì, chi è riarso di sete.
E mi metto a parlare come un bambino smarrito e mi viene da chiedere semplicemente perdono per osare di mettermi davanti a della gente, a parlare, come se avessi qualcosa da dire realmente, come se rappresentassi e significassi qualcosa. Mi assale uno stranissimo pudore, quell'immenso rispetto per la gente da accendermi nell'anima un incredibile desiderio come di abbracciare tutti, di voler loro un bene senza fine e allora mi metto a parlare lasciando parlare l'Amore intensissimo, lo Verità che mi si agita dentro, la Speranza viva e tenace che intravedo e che mi consuma di passione.
Se poi parlo di Dio (e quando non parlo di Dio? E come potrei non parlarne?) allora - certo non posso proprio dire, disgraziatamente, che è Lui che parla con le mie parole - allora il perdermi è dolcissima passione di agonia adorabile perché avverto con estrema chiarezza che le parole sono niente o non sono che ripetere con monotonia di cantico dolcissimo, Santo, Santo, Santo Dio dell'universo.
Le parole non possono essere più di un fiore nel prato, di stelle nel firmamento, o gocce di sangue versato nella gloria, o agonia di ansia contemplativa adorante.
Eppure ogni volta è l'angoscia di parlare in pubblico, un rischio misterioso per incertezza di me e coscienza d'indegnità, di cui sento il terrore e poi per quel pudore davanti alla Verità. Perché la parola pone scopertamente e immediatamente davanti alla Verità, senza veli e nascondimenti. Può vincere questo senso di pudore l'Amore alla Verità, perché l'Amore giustifica l'amplesso. Ma quest'Amore è connaturato soltanto con Dio e in Lui soltanto è la Parola. Amore e Parola sono Dio. E Parola pronunciata sulla terra è unicamente Gesù Cristo, la Parola di Dio che si è fatta carne e è parlata fra gli uomini.
Ogni altra parola o è segno, almeno ombra di quella Parola, eco fedele, anche se appena sussurrata o in qualche modo sinonimo. modulata su quella vibrazione oppure è menzogna, inganno, assurdità, fiato di voce. "Io vi dico che nell'ultimo giorno vi sarà chiesto conto anche di una sola parola detta inutilmente".
E questo giudizio mi pesa sull'anima un po' sempre ma specialmente quando devo parlare in pubblico perché ogni volta sento con impressionante chiarezza che quelle parole sono giudicate, una per una, dalla Parola. E' unicamente da quella Parola che le parole acquistano senso e hanno significato. A quella Parola devono ritornare con fedeltà, come l'interpretazione alla. Verità, l'acqua che scorre alla sorgente, il compiersi al suo principio. Perché diversamente è lo smarrirsi, il disorientamento, l'illusione, la menzogna. E sono menzogna non soltanto la falsità, la doppiezza, ma specialmente quando le parole sono a se stanti nei confronti della Parola e di chi la Parola è segno e dono. Perché il pronunciamento della Parola è soltanto di Dio, le parole ne sono un eco fedele anche se con risonanze immense, misteriose o balbettamenti penosi e linguaggi di una Babele caotica, impazzita.
Di questo mistero ne discorreva già il profeta Isaia nelle sue stupende intuizioni: «Dice il Signore: come lo pioggia e lo neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato lo terra, senza averla fecondata e fatta germogliare ... così sarà della Parola uscita dalla mia bocca, non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata». Sono stato risucchiato in questo flusso adorabile di Parola fra cielo e terra, terra e cielo: vorrei non avervi mescolato niente di mio in questo scendere, dilatarsi e risalire della Parola pronunciata dal Mistero di Dio. Ma so che non è così ed è motivo di profondo sgomento per me, anche se è vero che ho sempre cercato, ma è perché mi è stato donato, di coinvolgermi nella potenza della Parola gettandovi dentro tutta la mia passione, un credervi e un consentirvi totalmente, così da rimanerne traboccato e sopraffatto: e le parole sono il traboccamento di questa pienezza, le cicatrici brucianti di questa violenza.
Così è per lo scrivere. Anche se con più calma e quasi visione interiore più distesa, più a perdita d'occhio. Perché la pagina bianca davanti è come la polvere della piazza sulla quale Gesù scriveva: è cercare di raccontare quello che a viva voce è forse impossibile.
Scrivere è parlare nella solitudine. E' raccogliere e ascoltare nel segreto profondissimo dell'anima e gridare quando nessuno ascolta. Soltanto un' eco si ricama sulla carta. Come sangue che fila giù dalla ferita e lascia segni dove passa. Un cammino lungo e faticoso sulla distesa assolata, a perdita d'occhio di solitudine e uno cammina da solo e lascia segni dei suoi piedi e della sua fatica di viandante sulla sabbia, non si volta indietro a guardare il tracciato delle sue impronte, a rileggervi la sua fatica ansiosa, la speranza e la disperazione. Perché scrivere è inondare il foglio di anima, lasciar dilagare lo spirito in una effusione di se fino al dono totale. E' diventare filo di scrittura, un disegnare l'invisibile, lasciar cadere nell'abisso il lento liquefarsi del proprio mistero e di quello del mondo.
Scrivere è silenzio. Solitudine. L'ascoltatore rispettoso. Attesa trepidante.
Sussurrare la risposta. Lasciare che la fiumana sia incontenibile dalle sponde. E che il fuoco divampi a bruciare la foresta.
Stringere tutte le mani. Un abbraccio a misure universali. E percepire la voce dell'umanità. Quella silenziosa timida, infinitamente paziente. La voce della moltitudine, a scroscio di marosi a frangersi sugli scogli. O per lo straripare, finalmente, dei fiume della storia.
Questo scrivere le parole ascoltate nel terzo cielo che orecchio non ha mai ascoltato e parola ha mai raccontato. Sono parole che possono essere scritte, se scrittura non è vocabolario, grammatica, sintassi, cultura e scienza, nemmeno teologica, ma profezia, cioè manifestazione del nascosto, rivelazione del segreto, visione dell'invisibile, racconto del Mistero dell'uomo e di Dio.
Allora è il momento di prendere la penna colmata d'infinito e la carta come la volta del cielo e scrivere il numero delle stelle e raccontarne la luce. Mettersi ad andare avanti e indietro nel deserto della vita e scrivere sulla distesa di sabbia la sua storia. Dal principio fino al compiuto. Ascoltando con attenzione e rispetto il fragore delle mareggiate, la dolcezza del vento maestrale, guardando e descrivendo l'orrore spaventoso della tempesta, lo scivolare sul filo dell'orizzonte, della vela.
Perché scrivere è raccontare. Di sé, degli altri, dell'universo, dell'indicibile e del filo d'erba, delle civiltà e del bambino nella culla, del respiro del vivere quotidiano, dello sdipanarsi inesauribile del tempo. Di te e di Dio...
Mi capita qualche volta di rileggere cose che ho scritto e sono contento di non riconoscermi fino al punto di rimanere sorpreso e stupito delle cose che leggo, come se fossero di un altro e sono veramente di un altro, di un me stesso in altro tempo. Allora vuoi dire che sono in ricerca e penna e pagina sono il segno di un camminare incessante. Non so bene dove, ma forse lo so: al di là di me stesso, del tempo, dello spazio, verso dove sento che è il compiuto, il principio e la fine, il punto perfetto nel quale è nascosta la Verità mia e di tutte le cose. Giorno dopo giorno con serena e tenace fedeltà. E penna e pagina ne sono un segno, quasi una risposta.
Perché ogni parola che fiorisce come un ricamo sulla trama della vita e della storia, è parola e pagina di diario. E ogni giorno devo voltare pagina e vorrei, con preciso impegno, non ripetermi, anche se gli strumenti dell'armonia sono sempre gli stessi.
Perché scrivere, è vero che è raccogliere tutto il passato per viverlo intensamente nel presente proiettandolo nel futuro.
Ma è anche vero che arrivare in fondo alla pagina è un po' come morire e cominciarne un'altra, bianca e tutta disponibile, è un po' come una risurrezione, un inizio di vita nuova, di una meravigliosa, adorabile avventura.
* * *
Cari amici, ecco che ho scritto tutto quello che mi passa nell'anima in questo momento. Non è stato per dirvi qualcosa di me (e chi sono io?) ma per parlare anche di te, anche se non fai il conferenziere o lo scrittore. Ma anche tu parli e anche tu scrivi. quindi penso che offrirti queste mie riflessioni ti può significare qualcosa nel tuo parlare (o nel tuo non parlare) nel tuo scrivere (o nel tuo non scrivere).
Ma più che tutto volevo dirti che una buona misura di utopia è indispensabile nella vita e più ancora giova assai una vera e propria pazzia. Cioè lo capacità di credere anche all'incredibile e di giocare disinvoltamente e infantilmente ogni cosa nell'impossibile. Diversamente che cosa rimarrebbe da dire, di cosa potremmo parlare e su quale argomento scrivere, per raccontare cosa?
Eccoti queste paginette: spero che tu le trovi traboccate di dolcissima pazzia. E se ci è stato dato di conoscerci e di parlarci, ho fiducia che tu abbia potuto concludere: ma questo tipo è un po' pazzo. E Dio voglia che lo possa diventare del tutto; perché qui sta il difficile.
Ti abbraccio.
Sirio
Vorrei scrivere molto a lungo (ma forse sarebbe doveroso fare qualcosa di più che scribacchiare delle parole) ma oltre a tutto non ne ho nemmeno la possibilità pratica di pagine disponibili. Ma poi anche perché spesso la sofferenza diventa angoscia e quindi quasi disperazione e rabbia.
Riporto qui, ma non è per polemica, santo cielo, un brano del discorso di papa Giovanni Paolo II ad una rappresentanza di cappellani militari, che a conclusione di un convegno di "aggiornamento", guidati dal generale di corpo d'armata mons. Schierano, vescovo castrense, sono andati a farsi benedire dal Papa.
L'amarezza che mi dilaga nell'anima è tale che sarà meglio che non aggiunga commenti. Vorrei soltanto, se potessi, pregare il papa che parla così a preti e a vescovo «in armi» nell'esercito, a rivedere i suoi discorsi che fa qua e là nel mondo perché la dottrina sull'uomo è assolutamente incompatibile con la cultura, la storia, i significati fondanti di ogni esercito, cioè dell'uomo che ha in mano armi e armi, come Lui sa bene, capaci di distruggere l'umanità intera dodici volte e di fare della terra la luna. Forse era più pastorale manifestare ai cappellani militari non «grande gioia e contorto», ma amarezza e disappunto, dal momento che ancora alimentano quella strana, assurda e sacrilega mescolanza di cannoni, di aerei da caccia, corazzate. missili e atomiche con cristi e madonne, sacramenti e sacerdozio...
Poi vorrei scrivere del Vescovo di S. Salvador mons. Oscar Arnulfo Romero, ucciso dal governo militare il 25 marzo scorso, la sera dell'Annunciazione. I segni della sua morte sono tale un annuncio da far tremare, se avessimo il coraggio di raccoglierli. I vescovi italiani hanno pensato meglio di lasciarli cadere e anche la Chiesa, quella che venera i martiri di duemila anni fa, ha trovato "eccessivo" questo vescovo, assassinato all'altare mentre nella Messa alzava il calice del Sangue di Cristo. Non so cosa penseranno di questa cristianità e dei suoi vescovi, il vescovo Ignazio, Policarpo, Cipriano... e tutti i vescovi martiri!
l) Discorso del Papa ai cappellani militari.
2) Subito dopo il motivo dell'assassinio del Vescovo Romero.
3) Poi la lettera inviata dal Vescovo al Presidente degli USA Carter «in quanto cristiano e difensore dei diritti umani». Di questa lettera il M.I.R. ne ha diffuso un ciclostilato da inviarlo a Carter e le parole sono scritte col sangue dopo il 25 marzo.
Il Papa ai cappellani militari
da "Il Nostro Tempo" 3febbraio 1980
Giovanni Paolo II ricevendo in udienza i cappellani militari d'Italia riuniti per un convegno di aggiornamento così ha detto tra le altre cose:
«Grande è la mia gioia e il conforto nell'incontrarmi con voi, e di cuore ringrazio pertanto l'Ordinario Militare, Monsignor Mario Schierano, come ringrazio Voi, per questo vostro atto di profonda devozione verso la mia persona.
Con affetto saluto ognuno di Voi, cari Cappellani militari, e vi esprimo il mio sincero compiacimento e la mia stima più cordiale per il lavoro che, con sacrificio e preoccupazione. svolgete a vantaggio delle Forze Militari nelle unità territoriali dell'Esercito. nei Reparti dell' Aviazione, nei Dipartimenti marittimi e nelle Specialità dei Carabinieri, della Polizia e della Guardia di Finanza. Il vostro impegno pastorale merita il plauso e la comprensione di tutti.
E salutando voi, qui presenti, intendo anche raggiungere col mio affetto tutti gli ex Cappellani Militari, che hanno speso la loro vita sacerdotale in questo importante settore, e particolarmente coloro che nell'ultimo terribile conflitto, in tutti gli eserciti combattenti, hanno accompagnato i loro soldati, con l'angoscia nel cuore per tanta strage così ingiusta e crudele, confortandoli nei campi di battaglia e della prigionia.
E un riverente pensiero e una preghiera di suffragio fraterno si elevano pure per la schiera dei Cappellani. caduti compiendo il proprio dovere, vittime anch'essi insieme ai giovani a loro affidati.
Vorrei che voi portaste il mio saluto a tutti i giovani d'Italia. che avvicinate, seguite, amate, durante il servizio militare. Fatevi interpreti dell'affetto e della benevolenza del Papa! Dite a tutti che il Papa li ama e li ricorda nelle sue sollecitudini e nella sua preghiera».
Il Vescovo Romero a Carter
San Salvador, 7 febbraio 1980
Ecc.mo Sig. Presidente
degli Stati Uniti d'America del Nord
Jimmy Carter
White House
Washington
U.S.A.
Sig. Presidente,
in questi ultimi giorni è apparsa sulla stampa internazionale una notizia che mi ha molto preoccupato, secondo la quale il Suo governo studierebbe la possibilità di un aiuto ed un appoggio economico.
Per essere Lei cristiano ed avere espresso la volontà di difendere i diritti umani, oso esporle il mio punto di vista pastorale su questa informazione e farLe una concreta richiesta.
Mi preoccupa molto la notizia secondo cui il governo degli USA sta studiando il modo per favorire il rafforzamento militare di El Salvador inviando gruppi di militari e tecnici per addestrare in logistica, comunicazione e servizi segreti, 3 battaglioni salvadoregni.
Nel caso che questa notizia comparsa sui giornali corrisponde a verità, il contributo del Suo governo, anziché favorire una maggiore giustizia e pace in El Salvador, acuirà, senza dubbio, l'ingiustizia e aumenterà la repressione contro il popolo che molte volte si è organizzato per lottare affinché fossero rispettati i suoi fondamentali diritti umani.
L'attuale Giunta di Governo e soprattutto le Forze Armate e i Corpi di Sicurezza, purtroppo non hanno dimostrato di avere la capacità di risolvere nella pratica politica e strutturale, i gravi problemi nazionali.
In genere sono ricorsi soltanto alla violenza repressiva, producendo un bilancio di morti e feriti molto maggiore che nei regimi militari immediatamente precedente, la cui sistematica violazione dei diritti umani è stata denunciata dalla CIDH.
La forma brutale con la quale i Corpi di Sicurezza hanno recentemente derubato e assassinato quelli che occupavano la sede della Democrazia Cristiana, malgrado che la Giunta di Governo e il Partito - forse - non autorizzarono la suddetta operazione, è una dimostrazione che la Giunta e la Democrazia Cristiana non governano il paese, ma che invece il potere politico si trova nelle mani di militari senza scrupoli che sanno soltanto reprimere il popolo e favorire gli interessi della oligarchia salvadoregna.
Se è vero che nel novembre scorso «Un gruppo di sei nord-americani è stato in El Salvador
( ... ) fornendo maschera antigas e giubbotti antiproiettili per un valore di duecentomila dollari, e insegnando come si usano per combattere le manifestazioni». Lei stesso dovrebbe essere informato che evidentemente a partire da quel momento i Corpi di Sicurezza, adesso con maggiore protezione personale ed efficacia, hanno represso con più violenza il popolo utilizzando armi mortali.
Pertanto dato che come salvadoregno e Arcivescovo della Arcidiocesi di El San Salvador ho l'obbligo di vigilare perché regni la fede e la giustizia nel mio paese, io Le chiedo che se in verità vuole difendere i diritti umani:
- Proibisca questo aiuto militare al governo salvadoregno;
- Garantisca che il Suo Governo non intervenga direttamente o indirettamente con pressioni militari, economiche, diplomatiche, ecc. nel determinare il destino del popolo salvadoregno.
In questi momenti stiamo vivendo una grave crisi economico-politica nel nostro paese, però non c'è dubbio che è sempre di più il popolo ad acquisire coscienza e ad organizzarsi e con ciò ha cominciato a divenire capace di essere il gestore e il responsabile del futuro di El Salvador e l'unico in grado di superare la crisi.
Sarebbe ingiusto e deplorevole che per la sicurezza di potenze straniere si frustasse il popolo salvadoregno, si reprimesse e impedisse di decidere con autonomia sulla linea economica e politica che dovrebbe seguire la nostra patria.
Sarebbe come violare un diritto che noi Vescovi latino-americani riuniti a Puebla abbiamo riconosciuto pubblicamente: «La legittima autodeterminazione dei nostri popoli che permetta ad essi di organizzarsi secondo il loro modo di essere e il cammino della loro storia e di cooperare in un nuove ordine internazionale». (Puebla 505).
Spero che i Suoi sentimenti religiosi e la Sua sensibilità per la difesa dei diritti umani La muoveranno ad accettare la mia petizione evitando con ciò un maggiore spargimento di sangue in questo sofferto paese.
Con Osservanza
Oscar Arnulfo Romero, Arcivescovo
Quindi la morte
La domenica 23 marzo il vescovo Romero riferendosi alle decine di persone uccise nelle ultime settimane nelle campagne, si era rivolto agli ufficiali e ai soldati per ricordare loro, che non potevano obbedire a ordini contrari alla legge di Dio e per supplicarli di «non uccidere», di non obbedire a nessun ordine di uccidere, ricordando che anche i contadini assassinati erano loro fratelli. Il colonnello Marco Aurelio Gonzales, portavoce delle forze armate, aveva immediatamente definito un crimine questo appello all'obiezione di coscienza che rappresentava certamente il superamento di un limite non tollerabile dai militari.
(Osservatore Romano, 26 marzo '80).
L'arcivescovo veniva assassinato il giorno dopo.
Non so se sarai venuto a conoscenza di un fatto abbastanza spiacevole avvenuto recentemente in Brasile. lo mi trovavo nei paraggi e l'ho seguito particolarmente. Un Arcivescovo Cardinale di 77 anni è stato assaltato denudato ferito non gravemente, ma in varie parti e abbandonato sul ciglio di una strada, proprio come il famoso commerciante che andava da Gerusalemme a Gerico, che il Vangelo ha immortalato. Il vecchio cardinale ha avuto un momento straordinariamente felice, unico nella storia della sua vita: tutti da destra e da sinistra si sono sentiti uniti in un impeto di costernazione di simpatia e di condanna dei soliti ignoti che hanno perpetrato il delitto.
Il cardinale ha fama di essere un uomo di grandi virtù personali, un uomo all'antica come si dice, ma un ringhioso e a volte ingiusto difensore di una certa ortodossia. In altre parole è ammirato per la sua vita privata, discusso per le sue posizioni ecclesiali o dottrinali. In quel momento tutti hanno dimenticato il "carabiniere" e sono stati travolti da un'onda di simpatia e di commozione davanti all'uomo. Ma i giornalisti indiscreti qui come da tutte le parti, immediatamente hanno demitizzato la figura del cardinale facendogli perdere una buona occasione. Il Brasile vive un momento simile a tutti i paesi del mondo in cui si presenta una scalata alla delinquenza specialmente del settore giovanile e non si vede come arginare la violenza. Naturalmente una "destra" numerosa e forte, rimprovera il governo di essere fiacco di non prendere provvedimenti seri e si arriva a proporre la pena di morte.
Il cardinale si unisce a questa schiera; per la verità non parla di pena di morte, ma lascia pensare che non avrebbe argomenti validi per opporsi. Io che amo la chiesa e non trovo ragioni per non amare fratelli e padri che non pensano come me, dico: "Peccato, che bella occasione perduta".
Un giornalista serio commenta: "Il cardinale nella sua reazione non ebbe mezzi termini. "Se ero armato avrei sparato sui miei assalitori," - disse. "Senza esitare" - accentuò. Io lo vidi alla televisione trovando quasi puerile l'inchiesta del reporter. Legittima difesa è legittima difesa - dichiarò. Non potrei non ammirare la totale franchezza di Dom Vincenzo (così si chiamano i vescovi in Brasile battendo lo stile barocco e seicentesco che non dovremmo più chiamare spagnolesco per amore alla verità, perché è bene italianesco). Dopo essere stato ferito, irrispettato, denudato dai suoi assalitori, poteva, pur collaborando con gli agenti investigatori del delitto, dire qualcuna di quelle frasi bigotte e insipide in cui non crede. Dom Vincenzo non è un ipocrita, al contrario. Ma sarà interamente un cristiano? Si chiede un giornalista. O professionalmente cristiano come pare attestare il suo abito e il cappello?... Viene opportuno ricordare qui che quando fu vittima di un attentato ugualmente brutale, nel quale perdette la vita, il generale Muricj non tralasciò di ricordare l'abbandono in cui crescono i bambini poveri e abbandonati del Brasile. Dom Vincenzo è un uomo franco e coraggioso, ma trovo che un cappello di cowboy non gli starebbe male ... ".
Queste le parole del giornalista arricchite di osservazioni prudenti e serie che comparto e di cui ti faccio grazia per mancanza di tempo.
Ma questo episodio mi ha messo sulla scia di riflessioni che voglio compartire con te. Perché questo cardinale che pure è un uomo di orazione, e di vita moralmente coerente, perché ha perduto un'occasione di evangelizzare tutti quelli che avevano gli sguardi rivolti a lui, un po' come al Cristo sulla croce? Perché uomini di chiesa hanno idee giuste, ma una prospettiva sbagliata. Ti do degli esempi con cui cerco di chiarire il mio pensiero.
Una ragazza figlia di una famiglia poverissima delle mie parti è andata al servizio in città. La madre ha saputo che è rimasta incinta e che ha praticato l'aborto. Il suo disperato commento è stato: "Ma perché avrà fatto questo. Non sapeva che la sua famiglia era disposta a ricevere il figlio. Che infelici siamo noi poveri." Quindi il discorso della donna coincide con la condanna del Papa, non dice: - ha fatto bene ad abortire; ma la sua osservazione è profonda e umana. Perché non è ricorsa alla sua famiglia? E che disgrazia essere poveri. Questa donna si sentirebbe distrutta se le dicessi: - tua figlia è un'assassina - perché di fatto non lo è.
Altro esempio. Una giovane sposa mia vicina che vorrebbe aver figli, un giorno, ignorata da tutti, ha perduto il figlio che attendeva. Nessuno se ne è accorto e si è saputo perché lei lo ha raccontato. Un'amica ha avuto il bimbo morto dopo una settimana di vita: tragedie, pianti, singhiozzi, fotografia del neonato per ricordarlo sempre. Facevo notare alla madre che è un angelo in cielo, che anche lo sua amica ha perduto un bambino, ma lei mi diceva con gli occhi pieni di lacrime: - quando i bambini si sono visti, è un'altra cosa.
Perché, nelle nostre diatribe antiaborto dimentichiamo le migliaia, i milioni di bambini che muoiono dopo essere usciti alla vita, tutti quelli cui neghiamo la possibilità di uno sviluppo normale? La chiesa ha il diritto e il dovere di richiamare con forza all'obbedienza della legge divina, è parte essenziale della sua missione; ma non dovrebbe mai dimenticare che la legge uccide e perché la legge non uccida bisogna ripensarla dall'uomo e con l'uomo. L'aborto è un assassinio - la proprietà un diritto - la delinquenza deve essere castigata - la persona ha diritto di uccidere per legittima difesa -sono frasi che io sento come tremendi colpi di frusta che calano su gruppi umani indifesi, non ascoltati, emarginati socialmente e sommersi nella convinzione di essere irrimediabilmente indegni e definitivamente condannati in questa vita e nell'altra. Gesù non ha certamente dato luce verde all'adulterio, non ha dichiarato lodevole la prostituzione o il furto, ma quando questi tremendi colpi di frusta che, in un caso erano pietre, stavano per cadere su una schiena piegata, ha trattenuto queste pietre con un metodo che dimentichiamo sempre di applicare: quello di vedere la legge dalla parte dell'uomo. Per le parole di dom Vincenzo tutti quelli che temono la scalata della violenza si sono fregati le mani e di fatto hanno riportato diverse volte sui loro giornali come una sentenza di un saggio: - Se avessi avuto un'arma avrei sparato - Vedete? Lui avrebbe sparato. che aspettate?... Gesù non avrebbe dato ragione agli assalitori di dom Vincenzo: semplicemente, come nel caso dell'adultera, avrebbe detto al gruppo che freme d'impazienza: - Signori non sarete voi la causa di questo assalto, non sarete voi i veri assalitori?
Ma questo non possono dirlo gli uomini di chiesa, perché abitano con quelli che invocano dal governo pronta e profonda giustizia, e non con quelli che devono essere lapidati o torturati, o uccisi perché rei contro lo legge. E questo dice chiaro che uomini di chiesa non abitano dove Gesù sceglierebbe la sua abitazione.
Arturo Paoli
Grazie anche a te
Ho ricevuto il bollettino Lotta Come Amore e vi scrivo per esprimere alcune riflessioni in riscontro a ciò che ho letto in esso.
A prescindere da una valutazione dell'aspetto economico, che non sono in grado di fare, ritengo che questo giornalino sia valido per il suo contenuto e valga perciò la pena continuare a pubblicarlo. Il motivo decisivo, in tal senso, è che chi lo scrive abbia realmente qualcosa da comunicare, come mi pare sia il vostro caso, di vissuto in prima persona, senza porsi troppo il problema della utilità, almeno immediata, verificabile. In fondo, si tratta di gettare e rigettare il seme, senza sapere se vi saranno frutti.
L'elemento positivo che trovo in ciò che scrivete è la capacità e la volontà di conciliare il radicamento nella realtà con l'utopia, cioè essere profondamente inseriti nel mondo con le sue contraddizioni e ambiguità, vivere il quotidiano nel suo grigiore e squallore e sapere, allo stesso tempo, vedere "altro e oltre" nel presente banale, continuare a credere nel sogno di un orizzonte più lontano, cercando di prefigurarlo già "qui e ora". Non so se questa vostra apertura ostinata al domani sia per istinto di autoconservazione o per una incrollabile fiducia che, nonostante tutto, merita proseguire nella lotta. Comunque, sentire ciò che dite fa bene, non sul piano del buon sentimento superficiale, ma in profondità, in questi tempi in cui si fa a gara nel "catastrofismo" a tutti i livelli; senza voler negare la tragicità dell'esistenza.
Tuttavia, per chiarezza, devo dire che non sono dalla vostra parte, rispetto ad un ideale confine tra vita e nulla: sono per e nel nulla e, ovviamente, non sono neppure credente. Questa condizione di nulla non è una scelta, compiuta magari per il gusto morboso del "negativo", ma è uno stato che ci si trova dentro, meglio la si scopre come la propria vera realtà interiore e solo allora la si assume su di sé, con il compito di viverla sino infondo in tutte le sue conseguenze.
Ad un certo momento, urge la necessità di fare silenzio, attenzione, per eliminare tutto il superfluo, la zavorra che ci soffoca, per essenzializzarci, ricercando il centro attorno cui ogni cosa deve ruotare, per toccare il fondo di noi stessi. E cosa si scopre? Un abisso che dà le vertigini: il centro non esiste. c'è solo il caos; il fondo è "senza fondo" e tutto risulta superfluo, lo stesso fatto di esistere! L'immagine più appropriata è quella del deserto di ghiaccio.
Allora, se non si vuole vivere ancora nella menzogna, o anche solo nell'illusione, bisogna riconoscere che la propria verità interiore è il vuoto totale: situazione descritta con precisione nella "lettera" dell'ultimo bollettino. Non si può neanche dire d'aver perso una fede, ma solo di averla cercata invano e che il proprio sforzo di dare consistenza e fondamento all'esistenza non è approdato a niente: si è chiesto pane e si sono avute pietre, cioè menzogna.
Credo di appartenere ad una generazione di nichilisti totali, non credenti integrali, che non hanno il "cielo" (la fede in Dio), ma neppure la "terra" (la fede nell'uomo, nel suo valore). Allora, occorre prendere' coscienza di tale nichilismo, spesso inconscio, e fare "terra bruciata" dentro e fuori di noi: non per un gusto macabro della distruzione e dell'autodistruzione (benché ci sia anche questo), ma per l'assoluta impossibilità di credere. Nel vuoto non si edifica e l'auto fondazione alla lunga non regge. Assumere e vivere questo vuoto equivale ad affermare l'unica verità, per quanto amara, desolante essa sia, e ogni ricerca di senso è un ostinato tentativo di darsi una "menzogna vita-le", anche banale, per rimanere in piedi. Tale ostinazione è una sorta di "volontarismo antologico": una volontà che la vita continui ad essere a tutti i costi, che a volte avverto pure in ciò che scrivete, eppure, benché accetti lucidamente questa situazione, ripeto che sentire le vostre parole fa bene! Pur essendo estranea alla vostra proposta, specie nella sua dimensione cristiana (ho sperimentato sulla mia pelle che la "Parola" è più menzogna di tante parole, che vogliono essere solo umane), intravedo in essa ciò che avrebbe potuto essere, una possibilità di vita per chi ne ha ancora voglia. Sapendo cosa significa, non ritengo giusto togliere agli altri la loro ragione di fondo e a chi è disposto a giocarsi su un'utopia, voi potete dare qualcosa. lo ho solo la mia miseria, la mia umanità lacerata, di-strutta, che non ha nulla da offrire:può solo ferire, produrre macerie. L'annientamento si ha diritto di esercitarlo solamente su di sé.
Di fronte alla vostra "utopia", mi trovo come un bambino, che, dopo aver intensamente amato i suoi sogni, scopre che il mondo reale è lo totale negazione di quei sogni, i quali sono ora per lui inaccessibili, una porta sprangata; il bambino sa, e io con lui, che quel mondo è la sua strada e la percorre, ma il suo cuore è rimasto e rimarrà sempre presso quella porta chiusa, benché sappia che non busserà mai, perché non si torna indietro, e camminerà nel mondo estraneo a tutti e a tutto, con una struggente nostalgia per ciò che ha perso, con una ferita eternamente sanguinante. A ciò si aggiunge, oggi, l'aggravante che per molti non c'è neppure il rimpianto per il tesoro perso, mai posseduto, ma solo bramato, ricercato invano.
Le mie sono risposte assolutamente negative, ma se la vita ha un senso e vale viverla, allora, per uscire dalla palude, non basterà il "sano realismo": occorrerà un immane sforzo per ripristinare il legame con la fonte della vita, comunque si concepisca tale fonte. Si richiederà creatività, fede incrollabile, temprata sulle prove del deserto, coraggio di sognare e vivere l'utopia sognata di fronte a tutta la ragionevolezza del mondo, affinché il possibile e l'impossibile si facciano reali.
Soprattutto, dovrà nascere nel cuore dell'uomo un fuoco inestinguibile, che scuota, incalzi, non dia tregua: la fede in un "amore lontano", che attende con trepidazione e nel quale l'uomo potrà riposare e trovare finalmente pace.
Può nascere tutto ciò? lo penso di no, ma se è possibile, anche voi potete fare qualcosa con la vostra testimonianza. E allora, per quanto contraddittorio possa apparire: GRAZIE!
Con stima e simpatia, cordiali saluti.
La Preghiera
Castelgandolfo, 25 aprile 1980
In varie occasioni lungo questi anni di lavoro operaio discutendo con i compagni di lavoro mi è stata posta una domanda precisa: «Ma tu preghi ancora?», «Che vuol dire per te pregare?».
Questa domanda semplice e puntuale mi ha accompagnato giorno dopo giorno nella mia ricerca di preghiera anche per poterne parlare con quanti mi chiedevano.
E' certamente una domanda poco filosofica e intellettuale, ma senza altro molto teologica e pratica. Una domanda che nasce dal fallimento di certe risposte date con formule preconfezionate, buone per ogni stagione e ogni età; spesso separate nettamente dal quotidiano di ogni uomo e da un riferimento diretto alla costruzione del Regno di Dio.
Una domanda che viene posta perché si constata che forse c'è ancora spazio nella vita di alcuni uomini per l'Assoluto, il Gratuito, cosi come il Cristo ha annunciato il volto paterno di Dio. E' una domanda che nasce dalla constatazione che qualcuno prega, non dice solo formule di preghiera, ma si ferma in preghiera e avvolge in questo atteggiamento di fondo tutta la propria vita a partire dal quotidiano.
Mi sembra pertanto che simile domanda sia motivata e articolata, espressione di una autentica ricerca.
Non penso che sia possibile dire che cosa è per me la preghiera, quanto invece descriverne la prima influenza nella mia vita.
In primo luogo è accoglienza gioiosa dell'amore che Dio ha per me, per tutti gli uomini, per ciascuno uomo. Disponibilità quindi ad essere amato, a gioire, a ringraziare!
Accoglienza non di qualcosa, ma di qualcuno che dà gioia e orienta la tua vita.
Tale atteggiamento non è di qualche momento di preghiera, ma entra sempre più in tutti i momenti della giornata, nella lotta, sul lavoro, nelle sconfitte, nel giornaliero, ecc.
E' così che la mia vita si trasforma in ricerca dell'incontro con Dio, costruito in una accoglienza quotidiana dei fratelli, degli ultimi, di me stesso, della creazione...
In tale accoglienza viene costruita lentamente ma costantemente una Comunione sempre più completa e totalmente umana, una Comunione gratuita a imitazione di quella che il Padre ci ha offerto nel suo figlio Gesù.
Baldassarre
Il 19 marzo si è finalmente concluso il processo contro gli antinucleari, di cui conoscete la storia raccontata su queste pagine.
La fatica è stata enorme fino a delle stanchezze tremende e immensa la trepidazione. Gli avvocati sono stati bravissimi e hanno condotto il processo con sottile sapienza e profonda passione: con un impegno veramente non soltanto professionale.
Quando il giudice ha letto la sentenza è stata un'esplosione di gioia e di intensa commozione: abbracci, strette di mano, lacrime, un gridare festoso...
Riporto qui la pagina conclusiva della sentenza. Gli avvocati e i giornalisti l'hanno definita una sentenza storica, un'introduzione di nuovi rapporti fra manifestazioni popolari e giurisprudenza, un'affermazione della supremazia della coscienza, un riconoscimento della legittimità di una lotta contro, il nucleare data la sua ancora non garantita non nocività nei confronti della salute e della sicurezza...
Devo però subito aggiungere che dopo un paio di settimane di tutta quella gioia e gloria, mi è pervenuta la comunicazione di appello contro questa incredibile sentenza, da parte del pubblico ministero del trib. di Grosseto e della procura generale di Firenze... e quindi tutto ritorna in tribunale!
La lotta quindi si sposterà da Grosseto a Firenze. Ancora non è stata comunicata la data. E Dio ce la mandi buona anche a Firenze e senza vento!...
«Il Tribunale, visti gli articoli 54 e 59 C.P. e 479 c.p.p. assolve dal commesso delitto di blocco ferroviario, loro contestato, Iacomino Maria, Innocenti Mauro, L'Abate Alberto, Leonardi Anna Luisa, Marasso Giuseppe, Marchi Maria Cristina, Politi Sirio, Pucci Giannozzo, perché non punibili per avere agito in stato di necessità putativa».
Cari amici,
Dina Mendoza, segreteria del Comitato di Solidarietà per il popolo di El Salvador,
(presso Lega Internazionale per il Diritto dei Popoli - Via della Dogana Vecchia, 5 - 00186 Roma) ha lanciato un S.O.S. di drammatica urgenza presentando l'attuale situazione del suo Paese.
Dopo l'assassinio di Monsignor Romero, le stragi sono aumentate: si calcola che ogni giorno vengono uccise, spesso dopo spietate torture, tra le 40 e le 60 persone. Una delegazione di sindacalisti italiani, presieduta da Alberto Tridenti, Segretario Generale della FLM, che si è recata clandestinamente a El Salvador il 1.5 scorso, ha assistito ad alcuni atti della repressione e può darne ampia testimonianza.
Aumenta a dismisura la mortalità per fame e malattia in un paese in cui 40 bambini su 1000 muoiono nei primi tre anni di vita ed il 70% dei superstiti sono gravemente denutriti. Secondo notizie certe, (già rese pubbliche da Mons. Romero pochi giorni prima della sua morte), la Giunta Militare e la classe capitalistica si preparano ad un genocidio sistematico; 40 «consiglieri militari» sono giunti dagli Stati Uniti, e nel vicino Guatemala si stanno addestrando due eserciti di mercenari, il cui nucleo è costituito da criminali della famigerata Guardia Civile nicaraguense, fuggiti con Somoza. 600 famiglie, colpite dall'uccisione del padre, sono acquartierate nell'interno della Cattedrale e dell'Arcivescovado ai San Salvador, e necessitano di cibo, vestiario, medicinali. L'unica speranza per il Paese viene da una mobilitazione dell'opinione pubblica internazionale. Grande importanza avrà a questo scopo la sessione del Tribunale dei Popoli che si svolgerà a luglio a Città del Messico. Tutti i partiti popolari, le forze sindacali, le associazioni cristiane si sono uniti in un Fronte Ampio democratico.
Che cosa chiedono i salvadoregni?
• Di far circolare in tutte le sedi queste notizie sul loro Paese. Il Comitato è del tutto privo di mezzi finanziari. chiede dunque di essere aiutato nell'opera di informazione e sensibilizzazione dell'opinione pubblica italiana;
• di scrivere al Papa perché soprattutto in occasione del suo imminente viaggio in America Latina e nel ricordo del martirio del suo confratello nello Episcopato Mons. Romero, denunzi pubblicamente le stragi attuate dalla Giunta Salvadoregna e chieda l'impegno di tutti i cattolici nell'opera di soccorso delle vittime;
• di raccogliere fondi per il finanziamento del Tribunale dei popoli;
• di raccogliere e inviare urgentemente aiuti economici alle 600•famiglie ospitate dall'Arcivescovado di San Salvador;
• di inviare lettere di solidarietà (soprattutto da parte di comunità cattoliche) al Ve-scovo Ausiliare di San Salvador, l'indirizzo: Mons. Ricardo Uriaste - Arzobispo Interino - Arzobispado de El Salvador - San Salvador C.A.
• Di scrivere al Presidente della Repubblica Italiana; testo possibile: «Egr. Sig. Pre-sidente Lei sa bene quanto sia drammatica la situazione del popolo di El Salvador. Dopo l'assassinio di Mons. Oscar Romero, la Giunta Militare di Governo moltiplica gli atti di barbara repressione del Fronte Ampio Democratico, l'organismo che federa tutte le forze popolari di El Salvador. Siamo certi che l'autorevolezza ed il prestigio che le derivano dall'essersi sempre battuto con estrema energia in difesa della democrazia e della libertà, conferirebbero alto valore ad un Suo intervento, nella forma e sede che Ella riterrà più opportuna, in sostegno del popolo di El Salvador. Con ossequio. E ai Presidenti della Camera e del Senato; testo possibile: «Egr. Sig. Presidente, Lei sa bene quanto sia drammatica la situazione del popolo di El Salvador. Dopo l'assassinio di Mons. Oscar Rornero, la Giunta Militare di Governo, moltiplica gli atti di barbara repressione del Fronte Ampio Democratico, l'organismo che federa tutte le forze popolari di El Salvador. Siamo certi che l'autorevolezza ed il prestigio che Le derivano dal ruolo di garante che Ella svolge nell'applicazione continua della democrazia nelle attività parlamentari, conferirebbero grandissimo valore ad un Suo intervento pubblico, nella forma e nella sede che Lei riterrà più opportune, in sostegno del popolo salvadoregno. Con ossequio.
• Di scrivere ai deputati, ai senatori ed ai parlamentari europei, ai quali abbiamo dato il nostro voto, o che conosciamo, perché chiedano al Governo Italiano e al Parlamento europeo la rottura delle relazioni diplomatiche con il Governo Salvadoregno. Un testo possibile: «Onorevole, Lei conosce certamente la drammatica situazione del popolo di El Salvador. Dopo l'assassinio di Mons. Oscar Romero, la Giunta Militare di Governo moltiplica gli atti di brutale repressione sulla popolazione indifesa. La preghiamo di volerei far sapere quali iniziative Ella ha preso o intende prendere perché il Governo Italiano intervenga con tutti i mezzi - compresa la rottura delle relazioni diplomatiche - per isolare il Governo di El Salvador. Tutte le lettere, come già fatto in altre occasioni, debbono essere autografe o scritte a macchina in una sola copia, firmate con nome, cognome, indirizzo e professione. Se possibile sarà gradita la segnalazione al nostro gruppo del numero di lettere inviate. Saranno graditi anche eventuali suggerimenti per una maggiore divulgazione del problema salvadoregno presso l'opinione pubblica. Ovviamente, ogni lettera può essere firmata da più persone.
Rede Radié - Gruppo di Genova
Il nostro aspetto di lavoro artigianale va avanti assai bene. Siamo in continua crescita di lavoro e di attività. Per l'artigianato del ferro oltre al solito lavoro di arredamento, ultimamente abbiamo realizzato un grande portale per chiudere una cappella in una chiesa di Lucca: strutture leggerissime in ferro e figurazioni bibliche in una serie di medaglioni sempre in ferro. Non sia per vantazione (la modestia non è una virtù artigianale) ma è venuto fuori un lavoro di particolare pregio. Altro lavoro in ferro ma questa volta molto pesante, l'abbiamo realizzato ultimamente per chiudere il pronao della chiesa di S. Antonio di Viareggio. Tre enormi cancelli del peso complessivo di una tonnellata e mezzo ma nostante le pesantezza l'ornamentazione della facciata ne ha guadagnato come sistemazione artistica e architettonica. Per la prima volta come decorazione abbiamo usato anche il rame. Sirio, che ha iniziato in questi tre mesi questo laboratorio artigiano del rame, ha mo-dellato tre grandi medaglioni che sono stati inseriti nei grandi lunotti delle cancellate guadagnando moltissimo in preziosità artistica.
Quindi al lavoro del ferro a poco per volta si sta aggiungendo quello del rame e proprio in questi giorni avrà inizio anche il lavoro della falegnameria: un nostro amico comincerà questo artigianato per noi molto importante anche per poter arrivare a produrre delle combinazioni di lavoro con il ferro, il legno, il rame e poi, prima che sia possibile, anche con la ceramica.
Già da alcune settimane ha avuto inizio nel nostro capannone artigianale un corso di scuola-lavoro per giovani handicappati e non. Il corso è stato organizzato dall'Unità Sanitaria Locale a seguito di fondi erogati dalla regione toscana. Anche la gestione è affidata all'Unità Sanitaria: noi offriamo uno spazio per il laboratorio di ceramica e tutta la nostra collaborazione: non abbiamo richiesto alcun rapporto finanziario.
Siamo semplicemente contenti che il nostro immenso capannone si stia sempre più popolando di lavoro e di rapporti umani. E' chiaro che sta crescendo anche quella rumorosità attività e impegnata in una musicalità spesso piuttosto assordante ma pur sempre armoniosa di vita e di buona volontà.
Ultimamente abbiamo fatto domanda al ministero della difesa di avere la convenzione col nostro centro artigianale per un servizio civile vissuto con noi. Ci sono già due giovani che ci hanno chiesto di trascorrere il loro servizio civile lavorando nei nostri artigianati. Vorremmo poter offrire, per quanto ci è possibile, possibilità di trasformare quello che doveva essere un servizio militare, in una esperienza di lavoro artigianale, realizzando così concretamente una lotta contro il sistema culturale, economico, politico, militare... dominante nel nostro tempo, attraverso alternative di liberazione e di pace. Ci auguriamo vivamente che gli uffici di Levadife del ministero della difesa, riescano quanto prima a risolvere le complicazioni burocratiche e, se è il caso, indisponibilità non soltanto procedurali ma forse anche di non proprio buona volontà.
Ci stiamo avviando verso le ferie e forse mai come quest'anno sono particolarmente attese e sospirate. Perché spesso la fatica è realmente tanta e si accumula inevitabilmente, perché oltre al lavoro in officina, c'è poi tutto il «lavoro» interiore e di rapporto, d'impegno sociale, d'incontro con gli amici, di ascolto di chi ha bisogno di parlare, di partecipazione ai problemi locali e a quelli più a largo raggio ma che non possono non trovare accoglienza e totale coinvolgimento. E le ferie non rappresentano un periodo di riposo inteso come un tirarsi fuori dai problemi, un periodo di assenza, una pausa di servizio ecc. ma semmai un periodo nel quale è possibile abbandonarsi a quello spazio nel quale è forse più facile, più spontaneo e immediato l'incontro con Dio, la comunione universale nel cuore dell'umanità, per una libertà di consegnarsi incondizionatamente alla propria interiorità fatta di sogni, d'ideali, di dolcissime, innamoranti utopie e pazzie...
Dalla fatica dei nostri lavori artigianali e dalla fatica del nostro ostinarci a credere l'incredibile e del nostro sperare anche l'impossibile... auguriamo a tutti voi, cari amici, riposanti e meravigliose ferie.
C.A.V. (Centro Artigianale Viareggio)
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455