LOTTA COME AMORE: LcA ottobre 1979

I segni dei tempi

Questa nostra lettera agli amici è dopo l'estate, dopo le ferie, in questo autunno che, almeno fino ad ora, è sereno di cielo, di aria tiepida e frescolina, di colori che si accendono sempre più sugli alberi, Ma mentre ci scambiamo la dolcezza di questa poesia che, annebbiata e inquinata quanto si vuole, è pur sempre diffusa in un filo d'erba e in una stella per chi ha voglia, cuore, tempo per raccoglierla e goderla, forse sarebbe bene anche scambiarci quelle preoccupazioni che in un modo o in un altro, ci angosciano l'anima in questo autunno, cioè nella stagione di storia che stiamo vivendo.
Ma il discorso non potrebbe essere che molto complesso, assolutamente al di là delle possibilità concrete delle povere paginette di questo nostro foglio. Scambiarci, in chiara e serena amicizia, ciò che ci passa nell'anima mentre viviamo questo nostro tempo, diventa sempre più difficile, siamo alle soglie di una vera e propria impossibilità. E per molto motivi. Questi, per esempio. La sopraffazione degli esperti ai lavori, degli specialisti in materia. Cioè dei professionisti all'imbonimento dell'opinione pubblica.
Tutto va avanti sull'onda della pubblicistica, dal dentifricio ai profughi del Vietnam, dal riscaldamento della casa al Regno di Dio nel mondo...
La strumentalizzazione dei mezzi di comunicazione sociale, culturale, religiosa, politica ecc. Tutto è puntualmente a servizio del sistema, questo despota assoluto che domina a sopraffazione totale ma che è imprecisato e imprecisabile, fino al punto che se proprio, in questo nostro tempo, si volesse individuare quale è il nemico e dove si nasconde, risulterebbe introvabile, assolutamente misterioso, tant'è vero che se si volesse descrivere nemmeno una biblioteca riuscirebbe a darne un'indicazione. Qual'è il suo nome e cognome? Avvertiamo tutti il pericolo che sta correndo la libertà, ma dove si nasconde, chi è che lo rappresenta questo pericolo? Sappiamo bene che l'umanità nella sua sopravvivenza cammina sull'orlo della distruzione, ma chi è che segna questa strada maledetta? La Chiesa raccoglie in una parola, in un nome, la causa di ogni male, il diavolo, satana e va bene.
Ma dove e come il diavolo è storia, è vivente a schiacciare il bene col male?
Appena un accenno e serve soltanto a porre un problema che sta alla radice della possibilità di una alternativa. La diagnosi, anche nelle malattie della storia, è decisiva per cercare e ottenere la sanità. E anche trovando la piaga, chi è disposto a metterci il dito?
Perché tutti sappiamo che la strada sulla quale cammina o rotola, questa nostra civiltà consumistica, è strada chiusa, o prima o poi arriva al suo concludersi.
Eppure vi camminiamo tranquilli perché sappiamo semplicemente che non toccherà a noi questo precipitare nell'abisso, ma semmai alle generazioni future. E non cerchiamo di camminare meno in fretta o di cambiare strada e tanto meno di tornare indietro in un inversione di marcia che non sarebbe certo regresso ma il vero, cosciente, umano progresso. Non si tratterebbe di una regressione ma di una conversione: cioè purificazione dalla disumanità per un inizio di umanità diversa, nuova.
L'aumento dei prezzi è l'unico rimedio al quale il sistema politico ed economico ricorre. E il crescere del costo della vita è il segno dell'impazzimento di questo nostro tempo ormai irrimediabilmente tossicodipendente dalla impietosa, micidiale droga del denaro.
Altro punto di particolare riflessione, anche se terribilmente amara e sconcertante, è tentare d'intuire di dove può venire la salvezza; il risanamento da questo avvelenamento inarrestabile perché è marea implacabile che minaccia di affogare il mondo.
Questo nostro tempo è senza sacerdozio e senza profezia. Lo scrutare i tempi può essere onesta, oggettiva costatazione, guardare all'orizzonte per cogliere di dove verrà la salvezza è profezia. E il bisogno di questa lettura dei segni dei tempi è urgente, perché la Parola che illumina è vitale come il sorgere del sole al mattino, come il pezzo di pane e il bicchiere d'acqua per sopravvivere. Ma chi potrà fare e farà autorevolmente questa lettura dei segni dei tempi? Chi è che sa leggere il misterioso libro della storia. Chi può gridarne la Parola ai quattro venti del mondo?
Visioni, fantasticherie apocalittiche, è vero, e possono tranquillamente essere lasciate cadere, come stracci vecchi al vento, ma lo squallore, la banalizzazione artificiosa, strumentalizzata, di tutta una civiltà rimane, lo squilibrio sempre più evidente fra un benessere di apparenza e un vuoto pauroso di anima, lo stridio dell'opulenza contro il morire di fame, è sempre più sofferto fino alla ribellione sotterranea ma esplosiva, in questo nostro tempo.
E il cristiano?
Ai suoi tempi, ma è Parola per tutti i tempi, Gesù diceva, a chi gli raccontava di quei galilei che Pilato aveva fatto uccidere: «Pensate che quei galilei siano stati massacrati in quella maniera perché erano peccatori più di tutti gli altri galilei? Vi assicuro che non è vero, se non cambierete vita finirete tutti allo stesso modo. E quei diciotto che morirono schiacciati sotto la torre di Siloe pensate voi che fossero più colpevoli di tutti gli altri abitanti di Gerusalemme? Vi assicuro che non è vero: anzi, se non cambierete vita, finirete tutti allo stesso modo».
E' cristiano chi si carica del peso di responsabilità che il nostro tempo ha sopra di sé e lo porta con coraggio davanti a Dio e davanti agli uomini, nel tentativo, duro e pazzesco quanto si vuole, di purificazione e di liberazione. E poi di testimonianza che il cambiamento è possibile e quindi di indicazione del come può avvenire.
II cristiano è vocazione di alternativa e spesso inevitabilmente di diversità. Il che è tutt'altra cosa che separazione, astrazione, ma piuttosto è incarnazione, mettere dentro, innestare nella vita e nella storia, altri valori, scelte diverse per prospettive, progetti nuovi. Incidenza, anche a rischio di scontro, di respinta, di crocifissione, da ottenersi nella realtà del proprio quotidiano e in qualsiasi condizione di rapporto con la vita, le istituzioni, la cultura, la storia insomma.
Avere la Fede per un chiarimento di rapporto fra il proprio privato e l'universalizzazione, in modo da ottenere una sincerità, una coerenza onesta, è il minimo richiesto per l'autenticità di una scelta cristiana.
Anche la Chiesa è su questo punto che viene giudicata. Che sia trovata manchevole o no decide della sua incidenza o meno nella realtà della storia.
E noi?
Come sapete non siamo che un piccolo, sparutissimo gruppo, che arranca faticosamente per guadagnarsi qualche briciola di sincerità. E' troppo poco, ce ne rendiamo ben conto, per poter distribuire pane intorno a noi e rimediare la fame che avvertiamo imperversare nel mondo.
Forse non siamo nemmeno un'indicazione, un cartello stradale, come abbiamo scritto nel giornalino del giugno scorso.
Siamo non più di uno che lascia piccoli segni, a volte un po' convenzionali, quasi segreti, lungo la strada o sentiero sul quale cammina. O come chi cammina e lascia dietro a se le orme dei suoi piedi sulla polvere della strada.
Non è per indicare una via da percorrere e quindi nemmeno per ombra c'è l'idea di essere un'indicazione, stabilire un tracciato, fare una strada di terra battuta alla quale affidare il proprio camminare. No, no, niente di tutto questo.
Forse lasciamo dei segni e non cancelliamo le orme di dove passiamo nel nostro cammino di Fede, unicamente perché chi cerca di fare questo cammino possa sapere e quindi raccoglierne fiducia e coraggio, che da questa strada qualcuno è già passato.

Il tempo della Fede

Se una parola noi possiamo dire è una parola di Fede.
Non è molto facile in questi nostri tempi nei quali sacerdozio e profezia sono piuttosto rari che quasi si ha l'impressione di sparizione, precisare cosa significhi fede e tanto più cosa comporti come progettualità, cioè scelte concrete e comportamenti coerenti, il rapporto di Fede con l'esistenza, con la realtà storica.
Eppure è vero che la Fede è ancora e forse di più assai che nei tempi passati, categoria mentale, criterio d'intelligenza, potenza d'intuizione e progetto pratico, programmazione esistenziale, rapporto storico, piattaforma di umanità, tracciato sul quale può camminare e realizzarsi l'incontro, la comunione e cioè umanità nuova.
Bisognerebbe purificare l'idea di Fede e realizzarne il concetto limpido e chiaro, perché l'equivoco qui è complesso e inestricabile, lungo e aggrovigliato quanto la storia religiosa (e anche non religiosa) dell'umanità.
Impressiona sempre e quasi sgomenta tutte le volte che Gesù nell'imminenza di operare il miracolo, chiede di avere Fede. Cosa chiedeva chiedendo la Fede?
E cosa vuol dire quella spietata provocazione: se aveste Fede quanto un granello di senape potreste dire a quella montagna: levati di lì e gettati nel mare e la montagna obbedirebbe?
E' chiaro che non si tratta di un consenso d'intelletto e nemmeno di un'adesione di volontà. Non può essere semplicemente un fatto di rapporto passivo come un'accoglienza, un'accettazione di una onnipotenza nella propria impotenza, di un tutto nella propria nullità. Questa Fede potrebbe anche essere un rapporto di utilizzazione e di strumentalizzazione interessata. E' bello e dolcissimo che la creatura si rimetta totalmente alla volontà del Creatore, il figlio all'infinita bontà del Padre, ma forse la Fede richiede e pretende e quindi significa molto di più.
E' molto difficile precisare, anche perché si tratta di cogliere un valore che appare nei rapporti umani appena accennato, come intravisto, intuito ma assai raramente vissuto. Rimane vivo e desideratissimo nelle profondità di un sognare un progetto di intesa, di comunione, di Amore... ma poi svanisce e si dilegua al contatto della realtà: perché vivere è quasi sempre lo spengersi, il dissolversi del sognare. La vita è spesso come la sveglia che suona al mattino e richiama e getta nella cruda, aspra, impietosa realtà del quotidiano.
Ma raccogliendo queste «misteriosità» sommerse nel più profondo dell'intimo nostro, è forse possibile tentare di intravedere cosa possa significare Fede.
Bisogna fare un piccolo gioco interiore come quando si alza il binocolo da una valle, su, su, fino a inquadrare la cima della montagna. Uscire dalla valle, è vero, non è molto facile e innamorarsi della cima della montagna è rischio e fatica. Ma è di lassù che la visuale è a giro di orizzonte e è possibile cogliere la totalità.
E' indispensabile (ma è anche bellissimo) risalire alla cima della montagna che è Dio e guardare il mondo, l'esistenza e noi, dal suo essere l'Altissimo.
Perché Fede forse vuol dire scelta di visuale, criterio di rapporto, realtà di comunione, rifacendosi totalmente a Dio, cercando e trovando in Lui il principio e il fine e la realtà di cammino storico fra il principio e il fine.
Questo uscire da se stessi e da tutto quello che il se stesso significa e comporta, e risolversi e risolvere tutto (compreso il cadere di un capello e di un passero dal tetto) in Dio, può darsi che sia Fede.
E cioè, per essere esatti, l'inizio della Fede: il seminare il piccolo seme che porta in se la promessa dell'albero, il porre fondamento sulla roccia per la costruzione della casa.
Fede non è credere in Dio e accettarlo nella vita e nella storia. Può essere già molto ma certamente non è tutto, anzi tutt'altro. Non può determinare una passività, significare sottomissione, accettazione supina, rassegnata. La Fede in Dio che ridimensiona e riduce la misura incalcolabile di dignità dell'essere amano, non è Fede e nemmeno religione, certamente non è Cristianesimo.
Perché Fede è credere che Dio è in me e io sono in Lui. E se è vero che questa unità ottenuta non è per parità di valori nella realtà naturale, perché Dio è Dio e io sono non più dell'ombra che la luce proietta, è vero (se ho il coraggio e la voglia di felicità di crederlo) che l'Amore di Dio ha fatto (e è quello che l'Amore compie ogni volta che è vero Amore) che io sia accettato, accolto nel suo essere Dio. E non è, anche questa, accoglienza passiva, inerte, soltanto onorificata, ma attiva, producente e cioè, dato che si tratta di Dio, creativa.
Dunque Fede è credere a quest'unità fra Dio e me, il mio io e Dio: e quest'Unità è creazione nuova e quindi nuovo Amore, cioè Amore non prima esistente.
Un'immagine creata della Trinità increata. Una Trinità che cammina, vive, lotta, è felicità, soffre, muore e è resurrezione incessante.
Il mondo, l'universo era stato creato per ospitare quest'esistenza, immagine e somiglianza di Dio. Cioè per dare spazio a Dio, oltre al suo infinito, per vivere come una nuova dimensione, quella ottenuta dall'unità risultante dell'incontro di Dio e dell'uomo.
Fede cristiana vuol dire che ciò che nella storia non si è compiuto, in Gesù si è perfettamente e storicamente compiuto.
E questa compiutezza (questa totalità di pienezza e cioè la Verità) ottenuta in Gesù Cristo, è garanzia di un verificarsi, di un concretizzarsi, in ogni essere umano e nell'umanità tutta.
La storia è un velo (anche se spesso è coltre imbrattata di ogni orrore) che copre questa Verità che non cessa di palpitare misteriosamente una realtà di vita risultante da quest'unità fra Dio e uomo, Dio e umanità. Un velo che è come sindone con impressa la crocifissione incessante della storia, ma che è la stessa crocifissione di Cristo.
Fede cristiana è credere la realtà dell'unità di Cristo e dell'umanità: perché Lui è segno di ogni essere umano e dell'intera Umanità.
Un piccolo passo avanti: non sto scrivendo riflessioni teologiche in questa mattinata di settembre e il cielo è grigio e mi arriva fin qui sul mio tavolo il rumore dei cantieri navali e del porto e il brusio indistinto, confuso, di voci, di motori, di martelli e lo sciacquio del canale. Scrivo quello che mi viene su dall'anima e non faccio brutta copia e nemmeno cancellature, esattamente come quando scrivo lettere: non è mai uno studio e tanto meno tentativo di esposizione culturale, ma soltanto respiro di anima, l'aprirsi alla vastità, l'abbraccio universale...
Un piccolo passo avanti. La Fede è chiaro non è né può essere soltanto strumento di conoscenza per introdurci nello spazio del sapere di Dio e del suo Mistero. E' al di là dell'intelligenza, oltre, ma è anche tutt'altra cosa.
Tutto quello che riguarda e interessa Dio non può che essere secondo Dio: risente logicamente e porta in se, qualcosa (quanto?) di Dio.
Fede è rapporto fra Dio e Uomo, è comunione del divino e dell'umano. Di nuovo, Gesù Cristo, di questo Mistero (non ho affatto paura usare questa parola che non vuol significare buio, ma adorabile luce) è indicazione perfetta e realtà compiuta.
Tutto l'uomo è in Dio, tutto Dio è nell'uomo. Quindi Fede è credere che potenza, onnipotenza di Dio è in me, in te, in ogni essere umano (e in tutta l'esistenza) a compiere la creazione, a creare il compimento. Perché Dio ciò che inizia infallibilmente compie.
Fede è credere a questa Presenza creatrice nella propria vita e nella storia, è averne esperienza, seguirla nell'adorazione, offrirsi a gran cuore e coraggiosamente coinvolgersi nel suo Mistero di concretizzazione, cioè (Fede cristiana) Dio che si fa carne e abita in noi. Il regno di Dio è dentro di voi, diceva Gesù.
Fede allora non è idea, sentimento, religiosità, opera buona ecc. è il voler essere, con scelta cosciente e responsabile più che sia possibile, investiti e travolti dalla potenza creatrice di Dio, è la coscienza di giocare il se stesso e il proprio rapporto con la vita, con tutta la realtà del mondo, è il perdersi nel Mistero di Dio, fino al punto che la risultanza, la logica conseguenza, la semplice e adorabile fruttificazione, è la nuova creatura, questo Figlio di Dio, nato dall'intimità unificante dell'Amore di Dio e di me.
Fede cristiana è credere che ogni cristiano (colui che per il battesimo porta in se stesso, come suo unico destino, il Mistero di Cristo) ogni cristiano è Maria, la carne e il sangue che per la potenza di Dio ha generato «la nuova creatura» il compimento della creazione, Gesù Cristo.
Un altro piccolo passo avanti: vivere è camminare e così è della Fede, questo svolgersi a poco a poco, questo snodarsi di misterioso intreccio di Dio e di uomo per manifestare il meraviglioso disegno, questo andare avanti incessante fino al «tutto compiuto».
E il piccolo passo della Fede è la necessità inevitabile di compromettersi nel progetto di vita e nella sua realizzazione secondo la logica di questa Fede.
E questo compromettersi vuol dire che dominante e determinante nella vita è Dio.
Fede vuol dire fidarsi di Dio e consegnarsi a Lui nella sicurezza di costruzione di se stessi e di ogni rapporto, in pienezza, nella compiutezza più assoluta.
Perché Fede non è obbedienza alla legge di Dio, non è nemmeno fare la sua volontà, è voler essere creati, costruiti da Lui, è vivere la vita «scelta» da Dio e diventata per libera e responsabile accoglienza, la vita «scelta» da noi. Non la mia, ma la tua volontà sia fatta, diceva Gesù e erano parole che sudavano sangue e nel frattempo costruivano la sua gloria, cioè il compimento della sua Verità.
Tradurre questi accenni non direi nemmeno di riflessione, ma forse soltanto come fossero battiti dal cuore, tradurre queste visioni di Fede (visioni che chi vuole può considerarle sogni e null'altro) nello sbriciolarsi del quotidiano del proprio vivere, può comportare realmente riflessioni molto azzardate e anche strane.
Queste, per esempio.
La vita di un credente, di chi vuol essere realizzato dalla Fede, non può essere «normale» cioè secondo la semplice (o complessa!) logica umana. Il buon senso comune nella Fede è vera e propria incompatibilità.
La Fede è razionalità secondo la logica di Dio, i cui pensieri non sono i nostri pensieri.
Una scelta di Fede non può essere giudicata che una pazzia, una scelta rinunciataria alla dignità, alla libertà dell'uomo, un'alienazione, come si dice, forse anche una vigliaccheria o perfino una scelta di comodo, per via di quelle «consolazioni» che può offrire.
Una vita di Fede è non avere vissuto. E poi è separazione, irresponsabilità, camminare sulle nuvole, non compromettersi e non pagare di persona, come tentativo di sciogliersi dal rannodo soffocante della vita, della storia, più o meno un'evasione.
E molte altre cose ancora, evidentemente, in negativo, può significare una vita di Fede. D'accordo. Ma se tutto questo rammemora la Fede, è chiaro che non si tratta della Fede nata da Dio come luce e calore dal sole, non è chiaramente la Fede del Vangelo e quella alla quale provoca Gesù Cristo, ma è la Fede sciacquata dalla parola di uomini tanto più insipida e inquinata dall'alchimia dei loro interessi, ridotta e distorta dalla loro traduzione in racconto storico.
Perché nella percezione chiara e limpida della Fede, influisce come ostacolo quasi insuperabile, anche la paura.
Perché tutti più o meno, cominciando dalla Chiesa fino a ciascuno di noi, nonostante gli innumerevoli «Padre nostro», tutti manteniamo nell'angolo più segreto di noi stessi, la paura di Dio, un misterioso senso di sgomento, esattamente quello iniziatosi con Adamo quando si nascondeva fra gli alberi e i cespugli, agli occhi di Dio che lo cercava, perché era nudo. Nudi davanti a Dio, spogliati di ogni copertura e difesa, assolutamente abbiamo paura a trovarcisi.
Fede vuol dire «esporsi» a Dio, sapendo che è in questo perderci in Lui, la nostra salvezza. Fede è credere che Dio è l'unico. E' credere che Dio è Uno.
Unicamente, assolutamente Uno e che al di fuori non c'è altro. E che io, tu, ogni essere umano; è nascere da Dio e non da volontà di uomo e di carne. E che quindi vivere è unità di Dio e di Uomo perché vivere vuol dire essere Amore. Perché Fede risolve il suo Mistero nella realtà, concretezza, nell'essere carne e sangue, tempo e eternità, dell' Amore. Cioè di Dio, finalmente Dio, tutto per tutti.
Lo so bene che è balbettare come di fanciullo e sono sessant'anni ormai.
E ancora non ho la Parola e tanto meno la Parola che si è fatta carne.
Ma non ha importanza il non sapere parlare e tanto meno scrivere: a volte forse possono rimediare i gesti, quelli più semplici, come il guardare lontanissimo ad occhi chiusi, lo stare seduto come chi è nell'eternità, l'aspettare interiore nella pace inalterabile, soffrire dolcemente l'angoscia dell'impossibilità, della nullità, il tormento universale della storia e nel cuore e nell'anima è il mondo intero e la terribile e sconcertante marea eppure è fiume che scorre fra le sponde, della storia dell'umanità. E poi l'ascoltare il silenzio del Mistero e ascoltare l'assordante baraonda del nostro tempo, nel silenzio di quello spazio dove tutto si perde perché l'immensità tutto accoglie, giudica e ciò che non ha senso svanisce.
Perché Fede è vivere che di più non può essere dato e Fede è morire perché la Vita sia e sia in sovrabbondanza.

Comunità oggi

Raccolgo a cuore aperto queste parole di Dalmazio nel numero precedente di Lotta come Amore: «Da soli è impossibile vivere, in comunione è difficile perseverare: eppure senza comunione i singoli non vivono e senza il riconoscimento dei singoli le comunioni finiscono». Mi sembra che esprimano in modo conciso convinzioni espresse nel mio parlare di solitudine e di rapporti di amicizia. Ora poi, volendo affrontare una riflessione sulla comunità e trovando la cosa oltremodo difficile, l'aver sotto gli occhi quelle parole mi ha dato il coraggio di cominciare.
Per quanto mi riguarda la fatica non è tanto quella di ricucire un'esperienza comunitaria nata oltre quindici anni fa e passata attraverso vicende diversissime, quanto la difficoltà di decifrare il problema comunitario oggi, non solo per quanto direttamente ci riguarda, ma per la ricerca comunitaria in sé. Questo perché ciò che alcuni anni fa sembrava la chiave di volta, a livelli diversi, per un cambiamento profondo di persone e strutture, di fatto oggi appare come una strada chiusa al rinnovarsi di esperienze. La comunità non è più parola magica, evocatrice di rapporti diversi, sogno capace di ridestare energie sopite. Si potrebbe dare la colpa all'individualismo crescente, alla difesa accanita di spazi privati, all'annebbiarsi di prospettive e di progetti.
Secondo me, senza togliere niente ad un'analisi più completa ed esauriente, c'è un dato di fatto che fa da segnale al disagio che provoca oggi una proposta comunitaria: un generale spostamento dell'attenzione dal campo dell'essere a quello del fare. La resa di fronte all'esistenza di un muro divisorio tra il pubblico e il privato. La sfiducia, più o meno motivata, di poter realizzare uno stile di vita alternativo in una situazione come quella attuale così soffocante e massificante.
Ho discusso a lungo con Sirio, alla fine delle nostre ferie, sulla strada del ritorno. Una giornataccia, pioggia battente, raffiche di vento, e quindi tutta l'attenzione concentrata sulla strada e sull'argomento che stavamo affrontando. Sirio diceva che mancano i progetti, i contenuti. E' un vecchio chiodo questo suo. Lo capisco ed ha perfettamente ragione. Non ci si può mettere insieme per caso, in una dimensione tutta spontaneistica e idealistica. Però, secondo me, non è il vuoto di progetti, di contenuti, a provocare la difficoltà più grossa. Certamente, oggi come sempre, non è possibile nascondersi l'importanza di rispondere al fatidico «che fare?». Ma il disagio che impedisce anche a persone validissime di mettersi insieme per qualcosa di comune non nasce dalla difficoltà del progetto. Nasce dalla sfiducia nella possibilità di una autentica comunione nell'accoglienza reciproca. E' il « come» far comunità, come realizzare questo «riconoscimento dei singoli», che rappresenta, per me, l'ostacolo più grosso. Intravediamo il progetto, ma non ci aiuta la speranza di un rapporto reciproco, di un camminare insieme che non riproponga una divisione di ruoli, gerarchie più o meno riconosciute, la rinuncia ad un confronto per serrare le file di fronte ai contenuti che devono essere assolutamente salvati. Si ha la sensazione che contenuti e progetti non rappresentino i motivi di una ricerca personale messa in comune nella consapevolezza di un rispetto e di un'accoglienza reciproca, ma piuttosto comportino la necessità di strategie che condizionano ciascuno al suo posto: chi parla e chi ascolta, chi intuisce e chi accoglie, chi offre e chi è provocato. Importa solo che il progetto vada avanti e ciascuno si deve sentir realizzato non nella misura in cui si avvicina ad essere protagonista ma nella misura in cui l'obiettivo viene sempre più inquadrato.
Così spesso nell'ambito della famiglia, nelle assemblee di fabbrica e di quartiere, nella vita sociale e politica. Così nelle chiese, nella vita religiosa. Tutto uno sforzo di partecipazione, di ricerca comunitaria faticosa, sfibrante, spesso frustrante.
Mi sembra che il progetto che può accomunare uomini e donne non possa prescindere dalla ricerca di un nuovo modo di essere dove ciascuno possa sentirsi serenamente accolto nella libertà di un confronto. Dove non è affatto importante che facciamo tutti la stessa cosa, ma dove è essenziale che possiamo offrirci il senso di esperienze diverse. Perché ciò che veramente fonda comunione non è tanto far frutti dello stesso tipo e quindi cercarsi per delle somiglianze, ma aiutarci a capire qual'è il tronco cui siamo innestati, quale linfa ci vitalizza, quali radici ci donano stabilità.
Nell'accoglienza di un progetto comune abbiamo bisogno di sapere con chiarezza che non utilizzerà le nostre diversità per la sua realizzazione, ma al contrario fonderà le sue possibilità di riuscita proprio sulla diversità di ciascun partecipante quale garanzia della partecipazione di ciascuno nella pienezza del suo essere se stesso.
Se la ricerca comunitaria oggi segna il passo, forse ciò è dovuto al fatto che non abbiamo ben compreso che l'essere insieme non è per gridare più forte un'unica parola e neppure perché ogni parola possa inserirsi nella giusta casella di un discorso già scritto. La comunione è scoperta di un'armonia che innalza le nostre dissonanze al canto di una riconoscenza infinita.

Luigi

In una fabbrica di armi

Avverto dei segnali importanti all'interno della fabbrica, che certamente vanno colti per quello che sono, «segnali», ma anche per ciò che possono produrre se danno il via a serie riflessioni e maturazioni umane e culturali. Nascono senz'altro dal particolare momento che attraversiamo e allo stesso tempo sono il prodotto di intuizioni e obiettivi che la classe operaia persegue da qualche tempo.
Mi riferisco al «grave disagio morale dei lavoratori delle fabbriche di armi».
Da anni lavoro come operaio in una fabbrica di armi, ma solo da poco tempo ho iniziato a riflettere con dei compagni di lavoro del nostro essere, di fatto, a servizio della distruzione. Fino ad oggi l'aspetto «morale» del problema è stato regolarmente rimandato ad altro momento, ritenendo prioritario e pregiudiziale quello politico-economico (divisione capitalistica della produzione, difficoltà di riconversione). L'acquisizione del diritto all'informazione sui programmi aziendali, conquistata negli ultimi contratti, ci ha posti di fronte al fatto di avvallare o contrastare determinate scelte del capitalismo. Si impone pertanto con molta urgenza l'utilizzo di tale informazione: i lavoratori devono decidere cosa produrre, perché produrla, per chi produrre, oltre a come e dove produrre.
Nel dibattito all'interno del Consiglio di fabbrica cominciano a venir fuori questi aspetti del problema, e risulta a tutti evidente come la coscienza morale dei lavoratori che producono, non è meno importante del vantaggio economico delle aziende, né di quello sociale derivante dal problema della riconversione dal militare al civile.
E' la forza dirompente della coscienza dei lavoratori, che, in tempi sempre più ravvicinati, partendo da un netto rifiuto di tale produzione imporrà alle aziende una soluzione definitiva nella linea della riconversione.
Giorni fa un delegato sindacale mi diceva che per lui è assolutamente assurdo pensare di trovare la benché minima motivazione che possa giustificare e stimolare a lavorare in una fabbrica di armi.
Certo, sapere che il proprio lavoro, altamente qualificato, con l'utilizzo di tecnologie avanzate, viene usato dal capitale per la distruzione di altri uomini, o per la perpetuazione dello sfruttamento di lavoratori e di interi popoli, non è per nulla stimolante né entusiasmante, come, al contrario lo è il sapere che il proprio lavoro contribuisce allo sviluppo e al servizio dei popoli nei campi della medicina, della istruzione, dell'alimentazione.
Mi è capitato sovente di sentirmi interrogare da compagni e da amici, come riuscissi a conciliare l'essere prete e lavorare nella produzione delle armi.
Questa domanda, certamente stimolante, nasconde a mio avviso dei preconcetti, e inoltre pone male il problema. Presenta il prete come uno che non si deve sporcare le mani, l'uomo del sacro, al di sopra dei conflitti (salvo poi a benedire le truppe e le armi!). Il problema morale pertanto non interesserebbe i credenti in Cristo (né tantomeno gli uomini) ma il prete in quanto ministro della Chiesa. Inoltre la domanda posta in tal modo relega il problema dell'aspetto morale, astraendolo dal suo contesto politico-economico. Io penso che in questo, come in altre situazioni della vita di fabbrica, che come preti operai viviamo quotidianamente, venga chiamata in causa la nostra «laicità», il nostro essere dentro a una realtà di ingiustizia assieme ai nostri compagni di lavoro, con una attenzione agli uomini, a ciascun uomo chiamato a, vivere in pienezza la sua vita, e nella fede ad essere figlio di Dio. E' questa particolare attenzione che deve renderci allergici a umanismi e compromessi, pronti alla denuncia e alla lotta per una autentica liberazione.
Con questi sentimenti mi sento di combattere chi, anche nella Chiesa, lascia costruire le armi della morte, e arriva a benedire gli eserciti e le fabbriche di morte. Questa estate il Cardinale Poletti, Vicario del Papa per la città di Roma, ha partecipato a Roma alla inaugurazione di una fabbrica di armi e ha impartito la benedizione. Benedizione da parte di chi? su chi? per cosa?

Baldassarre

Parole di bambino

lo sono un bambino
tu sei un uomo, una donna
io non conto nulla
valgo soltanto in quanto consumo

Ma non produco niente
all'infuori di essere un bambino
che offre problemi da studiare
giornaletti a fumetti e gomma da masticare

Non so se ogni tanto almeno
non hai vergogna di te,
persona adulta, pensando a me,
bambino, fanciullo, ragazzo

Forse no, non hai vergogna
perché pensi che io non sappia
ma allora devo dirti le cose
tutte quelle che so e che penso

Tutte le cose orrende
che fanno miserabile il mondo
tu le fai passare per scienza
progresso, civiltà, religione

Stai preparando il mio futuro
che quando sarò cresciuto
l'aria sarà irrespirabile
l'acqua del mare un orrore

Morirò di sete nella mia giovinezza
perché avrai inquinato anche le sorgenti
alberi senza fiori e senza frutti
non più voli di rondini a primavera

Ma perché, o uomo, hai costruito
le bombe e i missili nucleari
chi ti da il diritto di impedirmi la vita
e di uccidermi la speranza di pace?

Io non ti ho chiesto mai
che il mondo sia tutto una fabbrica

Non è per amore di me
che costruisci i miei giochi
e fabbrichi quelle stupide bambole
è per amore di te e dei tuoi guadagni

Le merende al cioccolato
gli omogeneizzati al mio fratellino
quell'abbondanza tutta artificiale
non è per me ma per il tuo capitale

Quante stupidità mi dai a vedere
con quel riquadro che mi istupidisce
sei tu che al televisore mi costringi
togliendomi l'ultimo pezzo di prato

Alla scuola mi dai la cultura che vuoi
mi studi perfino prima di nascere
con la tua pedagogia sai tutto di me
e ancora non sai quanto mi scocci
e ancora non sai quanto mi scocci

Lasciami in pace a fare il ragazzo
a cinque anni non prepararmi motori
a tredici la motoleggera
il motocross ad anni diciotto

A venti un caporale, un sergente, un generale
carri armati e caccia bombardieri
testate nucleari e stare sull'attenti
per quei sette minuti della fine del mondo

Se studiavi un po' meno
io potevo essere un vero bambino
camminare sereno verso la vita
tenendomi per mano come un amico

Avrei avuto un papà, non un affarista
una mamma vera, non una femminista
un po' di verde, i passerotti la sera,
acqua di fiume e il guizzare dei pesci

Non ti fai una colpa, o adulto
di aver rovinato la mia fanciullezza
di avermi costretto ad essere esigente
duro di cuore e pieno di pretese?

Te ne accorgerai domani da vecchio
io allora sarò un adulto come te
e ti tratterò col cuore che mi hai costruito
senza poesia e senza pietà.

Sirio

C.A.V. Centro Artigiano Viareggio

Utilizziamo queste righe per informare i nostri amici dei primi passi di questa nuova creatura che occuperà una buona fetta del nostro quotidiano. Intanto avvertiamo che i traslochi sono stati fatti ed il 4 ottobre, con un incontro fraterno intorno ad una damigiana di vino tra quanti han dato una mano, è stato ufficialmente inaugurato il nostro nuovo ambiente di lavoro. Dal lunedì al venerdì, nell'orario di lavoro, ci troverete in via Virgilio, 222, a 550 metri circa dalla Chiesetta del porto.
A me, Sirio e Rolando si è aggiunto anche Beppino, non più determinato in modo totale dai suoi ragazzi e quindi abbastanza disponibile per riconvertirsi dal ruolo di casalingo tuttofare ad un lavoro e ad interessi diversi.
Siamo in quattro ad occupare uno spazio grandissimo voluto per un impegno allargato nella realtà del lavoro, quello artigiano in particolare. E lo sforzo nostro, attualmente ma per molti mesi ancora, sarà proprio quello di pagare il capannone nel quale siamo andati a lavorare. Iniziamo con il costo dell'acquisto di 53 milioni sulle spalle. Togliamone pure 10 frutto di risparmi e di offerte di amici. Ne rimangono sempre parecchi. Per ora abbiamo dato 35 milioni (25 prestati da amici). Dobbiamo ancora dare 18 milioni in tre rate da novembre a maggio dell'anno prossimo. Credo che questo quadro riassuntivo di una situazione economica che comprende anche una spesa ordinaria non indifferente sia di per sé eloquente più di ogni altro discorso perché possiate comprendere come le finalità di questa nostra iniziativa possono affermarsi solo con uno sforzo costante e dei tempi non proprio brevi.
La consapevolezza di dover reggere un impegno serio di lavoro non ci impedisce però un rapporto con l'ambiente in cui viviamo e la ricerca di strade per dare consistenza al nostro progetto.
Ci sono difficoltà che, allo stato attuale delle cose, sembrano insormontabili. La situazione economica non ci consente di caricarci di ulteriori spese (noi prendiamo già una paga rosicchiata all'osso): attualmente quindi è impossibile prendere apprendisti che, per contratto, dovrebbero essere pagati molto più di quanto lo siamo noi. Per lo stesso motivo appare improponibile la strada della cooperativa che aumenterebbe le spese di gestione e creerebbe complicazioni di crescita non affrontabili nella delicatissima fase di avvio. Questo per quanto riguarda il lavoro del ferro. Per l'apertura di altri settori, dobbiamo ancora chiarirci le idee sul tipo di proposta da fare ad artigiani che possono venire a lavorare all'interno del capannone (es. legno, ceramica, ... ).
Era apparsa la possibilità di ospitare una cooperativa di ceramica che avrebbe dovuto essere costituita da un gruppo di handicappati e dal loro istruttore con un congruo finanziamento per i primi due anni da parte della Regione Toscana. Nel giro di un mese i finanziamenti, specificati al millesimo in un apposito progetto, sono spariti facendo invidia ai più abili illusionisti. I genitori dei ragazzi poi, hanno manifestato una tenace opposizione a difesa dell'invalidità totale dei loro figli e della conseguente loro pensione al 100 per 100.
Non ci meravigliamo di queste difficoltà. Sappiamo di non essere i primi ad affrontarle: tutt'altro. Anzi saremmo molto contenti se siete a conoscenza di iniziative che possano assomigliare alla nostra e se ce ne date informazione, magari accompagnata da materiale stampato (statuti, programmi, ecc.)
Da parte nostra abbiamo intenzione di fare un incontro con i nostri amici di Viareggio per verificare la possibilità di formare un collettivo che possa portare avanti questi problemi di inquadramenti giuridici e di modalità operative sulla linea delle scelte e delle convinzioni che appartengono a questa nostra iniziativa.
Sappiamo che occorre rischiare su un terreno dove non è facile, né immediato inventare, ma dove è necessario comunque cercare soluzioni forzando la legge che di per sé delimita e difende, ma è sterile ed impotente a provocare vitalità nuova.
Per questo mi par di capire che abbiamo messo mano ad un lavoro nuovo, che non è la semplice e immediata continuazione, a dimensioni allargate, della condizione di lavoro precedente, ma la fatica di un impegno non assistenziale, ma schiettamente politico, improntato alla ricerca di nuovi rapporti e sensibilità, alimentato dalla forza dell'utopia, orientato dalla profezia.

Luigi

Processo per reato antinucleare

Sono molti gli amici che sanno già di questa mia incriminazione giudiziaria e individualmente o con lunghi elenchi di firme, mi hanno espresso la loro solidarietà. Siccome siamo arrivati al processo (tribunale di Grosseto, 14 Novembre) mi sembra giusto e doveroso raccontare come sono andate le cose.
In questo «pasticcio» che ho combinato non vi è assolutamente nulla di eccezionale, di eroico e nemmeno di contestativo.
Si tratta semplicemente di una fedeltà a quella lotta impegnata per una coerenza umile e lineare alle scelte fondamentali della mia vita, ai valori che credo e sento essenziali nel vivere umano, ai motivi di responsabilità determinati nella mia coscienza dalla realtà sociale, politica, culturale, religiosa ecc. proprio di questo tempo nel quale mi ritrovo a vivere.
Può darsi che chi verrà a sapere di questo processo lo giudichi una delle solite «avventure» che arricchiscono di tanta stranezza la mia vita. E può anche essere che il bisogno del «diverso» sia al fondo della mia coscienza alquanto inquieta e realmente mai rassegnata e abbandonata all'acqua del fiume.
E sarà colpa mia ma a volte mi viene da pensare che in fondo la necessità di gesti particolari e personali può essere determinata anche da condizioni di eccessivo e pacchiano tranquillismo che ristagna la convivenza attuale, dalla generale disponibilità a lasciar fare, dalla non volontà di coinvolgersi in problemi che dovrebbero trovare pronta reazione ed energica lotta di massa.
Se la casa brucia (certo, bisogna esserne convinti che la casa brucia!) è pazzesco stare a coltivare i gerani alla finestra.
Ora io sono convinto che questo momento di storia che viviamo è decisivo per l'ultima possibilità di un inversione di marcia che salvi l'equilibrio indispensabile al sopravvivere di una civiltà umana. E che dopo questo momento, la marea dell'industrializzazione, se non sarà bloccata, sommergerà, affogandola, l'umanità nella pazzia del consumismo, nella sopraffazione della ragione economica, nel dominio assoluto del dio denaro e quindi nell'annientamento ecologico e della guerra nucleare.
Da anni non mi sento in coscienza di stare a guardare. Ho semplicemente pietà delle generazioni che verranno e per quanto dipende da me, mi brucia nell'anima l'ingiustizia di lasciare un mondo molto peggiore di quello che ho trovato e di averlo spinto fin sull'orlo dell'abisso della Distruzione.
La creazione di Dio non mi sento nella mia Fede di abbandonarla alla Distruzione, questo demonio che imperversa nel mondo .
La redenzione, innestata dalla Croce e dalla Risurrezione di Gesù Cristo, nel cuore dell'umanità, nella mia Fede cristiana vuol dire la Vita che vince la Distruzione. E' Amore contro qualsiasi egoismo e tanto più contro l'egoismo del dio benessere che non riconosce, né accetta limitazioni alla sua insaziabilità.
Può sorprendere che nella lotta contro il nucleare io raccolga motivazioni e responsabilità di coscienza davanti a Dio e davanti agli uomini, dalla Fede. E' perché mi sono abituato a considerare Dio e ad adorarlo come presenza creatrice nel mondo. E penso che l'uomo è uomo nella misura con cui intuisce questa volontà creatrice e vi consente e vi si allinea con tutte le sue forze.
«Tu non uccidere» è comandamento fondamentale nel rapporto con tutta l'esistenza.
E' impressionante e sconcerta quanto la Chiesa, nel suo magistero, non abbia ancora seriamente considerato la micidiale immoralità del consumismo: questo distruggere sempre più impazzito, i beni che sono la ricchezza dell'universo e la sua vita.
L'essere prete per me vuoi dire l'aver assunto la missione di approfondimento incessante della conoscenza di Dio e di vivere la mia vita e quella dell'umanità e quella dell'universo nella luce del suo Pensiero e nell'adorazione della sua Volontà.
Da questo rapporto col Mistero di Dio nasce la mia precisa responsabilità di testimoniare tutto quello che la mia Fede mi chiarisce nell'anima nei confronti di questa visione sacra della vita umana e dell'esistenza dell'universo.
Questo ministero sacerdotale non può non richiedermi dei prezzi da pagare e io devo essere disponibile e pronto a questo pagamento, di qualsiasi genere e misura possa essere, con totale semplicità e serenità. Ciò che per altri può essere assurdità, per me può essere logica elementare, umile adempimento di un dovere.
La lotta contro il nucleare, centrale e arsenali atomici, il militarismo, l'industrialismo ecc. rientra nell'ambito di responsabilità della mia Fede cristiana e del mio ministero sacerdotale.
E' chiaro che il metodo di lotta è unicamente non violento, non segue e non obbedisce ai mezzi usati dal nemico, ma già la lotta è rottura di una storia di violenza e di sangue e inizio dell'obiettivo da conquistare e cioè un'umanità diversa e nuova.
La guerra si vince con la pace. La violenza si sconfigge con l'Amore. La sopraffazione del potere si vanifica con la libertà.
Queste poche idee, mi è sembrato di accennare prima di raccontare come sono andate le cose che mi hanno indotto all'incriminazione di cui sarò in giudizio davanti al tribunale di Grosseto.
Non ricordo bene il giorno, ma è nei primissimi mesi del '77. Promossa da un comitato di agitazione di Capalbio e di Montalto di Castro, i due paesi della Maremma minacciati dalla costruzione di due centrali nucleari, fu organizzata una manifestazione nella piazza antistante alla Ferrovia Scalo di Capalbio. Un mare di contadini in lotta per cercar di salvare la propria terra dall'assurdità di due centrali nucleari. Presso le amministrazioni comunali, provinciali, regionali ecc. sordità totale. Un popolo che non sa più a che santo votarsi perché siano almeno ascoltate le proprie ragioni.
La manifestazione. Uomini, donne e bambini con i cartelli del «no, alla centrale» ripetuto e descritto in mille maniere.
Discorsi, canti, c'era anche la banda musicale, scene teatrali improvvisate ecc.
I! rischio del folclore popolare è sempre il pericolo di ogni manifestazione non violenta. Perché sotto il folclore può non essere letto quel grido di rabbia che serpeggia in un popolo inascoltato. che chiede a vuoto il rispetto di un suo diritto.
Nasce l'idea di occupare la linea ferroviaria: occupazione intesa a costringere l'opinione pubblica all'interessamento del problema del nucleare e del progetto di costruzione di due centrali, a venti chilometri una dall'altra, in terra di Maremma.
Sono convinto che l'occupazione di una ferrovia sia azione limpidissima di lotta non violenta. Penso che provocare l'attenzione dei centri di potere sia giusto e doveroso. Che il fatto sia condannabile dal codice penale è comprensibile, in questo caso però i termini di reato non possono riscontrarsi per il motivo che l'azione è ordinata ad un bene pubblico di eccezionale valore. Le forze dell'ordine presenti non accennano per niente ad una opposizione e una grande folla si riversa sui binari. Non so se i treni sono stati fermati alle due stazioni vicine. Non ricordo nemmeno quanto l'occupazione sia durata, se un'ora o due. I giornali la mattina dopo titolavano i loro servizi a gran pagina. Dopo qualche mese la Regione toscana esprimeva parere sfavorevole per la centrale di Capalbio e cadeva il progetto.
Ma il maresciallo dei carabinieri ha fatto l'esposto alla magistratura denunciando l'occupazione. Ha scelto una ventina di nomi, quasi tutti contadini del luogo. Processo a Grosseto. Io vengo citato come testimone: un prete può sempre significare ordine e pace nell'aula di un tribunale...
Viene il mio turno per la deposizione. Il pretore mi fa giurare di dire sempre e soltanto la verità. Giuro. E mi domanda: lei si trovava alla stazione di Capalbio perché era venuto in treno da Viareggio? No, signor pretore, non sono venuto in treno.
Insiste: lei era in prossimità dei binari, perché aspettava il treno per rientrare a Viareggio? No, signor pretore, io ero sui binari perché.... e comincio a spiegare il perché della occupazione: non tendeva a voler intralciare il normale traffico dei treni, ma soltanto richiamare l'opinione pubblica sul problema delle centrali nucleari... Ma il giudice mi interrompe e dichiara solennemente: lei non è più testimone ma incriminato ecc. si cerchi un avvocato. Rispondo con tutta ingenuità: signor giudice, mi ha fatto giurare di dire la verità, io gliela dico e lei m'incrimina... e ora dove lo trovo un avvocato? Pensavo che mi occorresse subito questo avvocato!
Il 14 novembre il corso della giustizia per la manifestazione di Capalbio di tre anni fa, arriverà a conclusione.
Ho fiducia che questo processo aiuti in qualche modo la lotta che è diventata in questi ultimi tempi sempre più serrata e impegnativa, contro le centrali nucleari e quindi per un'alternativa al modello di sviluppo di questa nostra civiltà sempre più sull'orlo della sua autodistruzione.
E' poca cosa, da esser quasi ridicolo che processi siano imbastiti per simili reati, ma se questo «niente» richiederà un prezzo da pagare, eccomi qui, sarà pagato a gran cuore.
don Sirio

P.S. La sera antecedente al Processo cioè il 13 novembre, sarà organizzato un contro processo sempre a Grosseto in cui l'imputato sarà «il nucleare». Parteciperanno gli autodenunciati e i testimoni non graditi al processo del mattino. Confidiamo nella partecipazione di esperti, di giuristi, di rappresentanti di movimenti antinucleari e pacifisti, di amici...

Sirio

Comunità dell'Arca

Riceviamo una lettera per gli amici di «Lotta come Amore». Viene dal gruppo (sono tre famiglie per il momento) che ha segnato finalmente anche in Italia la nascita della COMUNITA' DELL'ARCA. E' gioia per tutti noi sapere che questo progetto di vita e convivenza alternativa ideato e realizzato dal gran cuore di LANZA DEL VASTO, ora è anche fra noi e potrà accogliere la ricerca di silenzio, di fraternità, di lavoro agricolo... la fatica cioè della costruzione di un mondo diverso, di chi crede e sogna una umanità nuova.
Per qualsiasi chiarimento, rivolgersi dove ormai ha iniziato a vivere la nuova comunità:
COM UNITA' DELL'ARCA Masseria Monte Sant'Elia 74016 MASSAFRA (Taranto)

Caro amico,
la COMUNITA' DELL 'ARCA d'Italia, nata nel novembre dello scorso anno, dopo dieci mesi di esperienza, di difficoltà, di sofferenza, ma anche di gioia e di speranza, è costretta a trasferirsi dalla provincia di Modena, ove attualmente si trova, nella Puglia ove si sono concretizzate le condizioni favorevoli per il nuovo insediamento.
Abbiamo individuato tre Masserie in vendita, di estensione e costi diversi: due nella zona di Martina Franca, a circa 30 Km. dalla casa natale di LANZA DEL VASTO, la terza presso Massafra.
Sono masserie povere sia per scarsezza di acqua che per il tipo di terreno che non ha consentito per il passato colture redditizie tipo uliveti e vigneti, ma solo cereali e allevamento. Questa povertà le rende più accessibili dal punto di vista economico e più idonee al nostro discorso comunitario.
Siamo orientati ad acquistare una di queste e trasferirci al più presto per poter iniziare là il nuovo anno agricolo.
Prima di prendere tale decisione abbiamo girato per mesi in varie regioni chiedendo terreni in affitto sia a privati che a enti pubblici. Ma inutilmente.
D'altra parte non avremmo neanche preso in considerazione questa ipotesi di comprare se una persona amica non avesse messo a disposizione una somma iniziale di circa 100 milioni, anche se non tutti immediatamente disponibili.
Questa offerta che pur ci consente di avere una buona base di partenza non riesce a coprire l'intero costo dell'operazione (circa 150 milioni).
In ogni caso noi dell'Arca abbiamo rinunciato fin d'ora a diventare proprietari della Masseria in cui andremo. Il M.I.R. (Movimento Internazionale della Riconciliazione) da noi contattato si è detto disposto ad accettare e a gestire la proprietà che la Comunità dell'Arca riceverà solo in uso con un patto agrario.
Ci troviamo quindi ora nella necessità di chiedere la solidarietà di tutti coloro che sono in qualche modo interessati al progetto della Comunità dell'Arca in Italia.
Crediamo opportuno passare attraverso due tappe:
1. Individuare amici che possono anticipare subito con un prestito la cifra che manca (circa 50 milioni). Cerchiamo amici e non banche, sia perché non abbiamo titoli per ottenere prestiti dalle banche, sia perché le condizioni e i tassi che esse praticano sono da noi insostenibili.
2. Organizzare una vasta sottoscrizione che coinvolga il maggior numero di persone, di associazioni, di gruppi, che con contribuiti a fondo perduto, piccoli o grandi che siano, ci consentano nel giro di qualche anno di restituire i prestiti che ci sono stati fatti.
LANZA DEL VASTO ci ha promesso il suo interessamento e un aiuto concreto.
INVIAMO QUESTA LETTERA A TUTTI GLI AMICI E GRUPPI PERCHE', NEL PIU' BREVE TEMPO POSSIBILE SI FACCIANO PROMOTORI DI INIZIATIVE ATTE A RAGGIUNGERE LO SCOPO E CHE COMUNQUE CI FACCIANO SAPERE QUANTO PRIMA SE ACCETTANO L'IMPEGNO E PIU' O MENO L'ORDINE DI GRANDEZZA CHE PENSANO DI POTER SOTTOSCRIVERE PRECISANDO SE SI TRATTA DI PRESTITO O CONTRIBUTO A FONDO PERDUTO.

Vangelo di oggi

(4) NASCITA DI GESU'

Gesù respinto a Nazareth
«.... Gesù entrò nella sinagoga. Gli fu dato il libro del profeta Isaia e apertolo, lesse:
Lo Spirito del Signore è sopra di me: perciò mi ha consacrato e mi ha inviato a portare ai poveri la buona novella, ad annunciare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi, a rimandare liberi gli oppressi e a predicare l'anno della liberazione di Dio. Si sedette e dopo molte cose disse: in verità vi dico nessun profeta è accetto nella sua patria, fra i suoi parenti, nella sua casa...
Tutti furono pieni d'ira e alzatisi lo cacciarono fuori della città e lo condussero fino sull'orlo di un precipizio per gettarlo di sotto. Ma Gesù passando in messo a loro, se ne andò».

Un giovane:
Lo so che avete perduto la stima di me. Mi trattate come se fossi un rinnegato, un traditore, quasi una vergogna per tutti. Perché?

Una voce:
Eri veramente un bravo ragazzo. Servivi la Messa tutte le domeniche, attaccato alla sottana del parroco più che a quella di tua madre. Avevamo speranza nel tuo avvenire, anche perché studiavi bene, potevi essere un avvenire sicuro per te, per la tua famiglia e anche per noi, per noi che siamo la tua gente...

Un'altra voce:
Poi ci hanno raccontato cose strane di te. Che tu parli di un'altra fede cristiana, che vuoi cambiare la Chiesa perché questa va tutta in malora, tradisce i poveri (e in fondo può anche essere vero!), sta dalla parte dei ricchi, dei potenti (... e anche qui potremmo essere d'accordo!), ma vai fuori del seminato quando, come si sente dire, parli di rivoluzione, che bisogna rovesciare tutto il sistema... è un po' troppo, figliolo caro, e cominci seriamente a dare dei sospetti...

Il giovane:
Molte cose sono cambiate, è vero, da quando ero ragazzo e sono vissuto qui in mezzo a voi. Ma poi la vita mi ha preso, ma più che tutto ho capito che se volevo continuare ad essere cristiano, non bastava più l'adattarmi alla Messa della domenica e alle associazioni della parrocchia che vanno bene fin quando si è ragazzi perché quello è il tempo di giocare a palla, ma quando si comincia a giocare questo terribile gioco della vita, allora il mondo diventa più grande e i problemi, se si ha coscienza, prendono e travolgono a costo di tutto... una crisi terribile, ma poi ho ritrovato una Fede, ho scoperto veramente il Vangelo e ho fatto le mie scelte...

Il parroco:
Dicendo queste cose tu offendi anche me e tutto quello che rappresento, come se il Vangelo che io e la Chiesa si predica non fosse quello vero...

Il giovane:
Sì, è quello vero, ma Gesù diceva: fate quello che dicono ma non quello che fanno. Il Vangelo non è parola da insegnare, è Parola da vivere e da insegnare, anche se chiede la sua fedeltà impegni terribili che possono arrivare fino alla croce.

Una donna:
Allora tu saresti come un santo... mi fai proprio ridere... conosciamo tuo padre, tua madre, sappiamo tutto di te... un santo! Sei un pericolo pubblico da quello che raccontano e da un pezzo in qua, per colpa tua, la polizia gira più spesso da queste parti.. ci stai scocciando, ragazzo, con la tua santità, il tuo nuovo cristianesimo, assai più di quello che immagini.

Una ragazza:
Mi impressioni, però, caro fratello, e può darsi che la tua fede sia quella giusta. Tu paghi di persona la fede che hai scelta. Quel tuo rifiuto di fare il militare per motivi di fedeltà alla tua scelta cristiana mi ha profondamente impressionata. Sappiamo che hai rifiutato offerte di lavoro che ti potevano aprire una buona carriera, anche politica, se venivi a compromesso con la tua coscienza e ti adattavi ad un cristianesimo fatto soltanto di preti e di frati, di vescovi e papi... E' giusta invece la tua scelta politica, perché ti sei messo dalla parte dei poveri, degli oppressi. Ha ragione lui, siamo noi che continuiamo in una fede che non va più in là dell'accendere una candela o di dare cento lire d'elemosina...
Per noi giovani ci vuol altro ormai, se proprio lo volete sapere...

Il Parroco:
Basta, io me ne vado perché vedo che non c'è più rispetto e carità e dove non c'è carità non c'è Dio. E ricordati, figliolo, che fuori della Chiesa non c'è salvezza...

Il giovane:
Ma io non intendo essere fuori della Chiesa. Voglio soltanto...

Una voce:
Vattene per il tuo destino e lasciaci in pace...

Il giovane:
Siete dei poveri, perché non volete essere liberi? L'operaio è schiavo del suo bisogno di lavoro, ma è libero per la sua lotta e verrà il giorno...

Una voce:
Non sei un profeta, né figlio di profeti... e in ogni caso non vogliamo profeti fra noi... noi siamo per l'ordine e il rispetto della legge...

Un 'altra voce:
Sei un sovvertitore del popolo, metti sottosopra la religione, uno scomunicato sei... via, fuori di qua...

Un'altra voce:
...prima che ti gettiamo fuori a pedate...
(è venuto fuori a poco per volta una specie di tumulto popolare).



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