Noi di questa piccola, insignificante, comunità con queste pagine di questa lettera stampata, salutiamo con fraterno Amore tutti gli amici che, pure spesso in condizioni di vita diverse dalle nostre, guardano a noi come a qualcosa che significa per loro una mano da stringere con particolare calore di affetto e di fiducia, come dire: di voi ci fidiamo totalmente.
Non è piccola responsabilità per noi questa fedeltà a tutta prova e sappiamo bene quanto sia allargata a valori non soltanto umani di amicizia, di onestà, di disinteresse ma anche e particolarmente, a motivi di Fede, di coerenza cristiana, di comunione e partecipazione a tutta la realtà umana di questo nostro tempo.
Forse, a ben pensarci, non siamo più di un semplice cartello stradale, di una segnaletica affettuosa e premurosa, per aiutare il cammino ormai diventato sempre più traffico caotico, congestionato, sulla strada della vita, della storia.
Un'indicazione semplice e umile, come un richiamo di memoria, che questa è la strada giusta per arrivare là dove vuoi arrivare, qui puoi fermarti a magiare e a bere o se non altro a riposare un poco nella pace, perché è possibile parlare, scambiare quattro chiacchiere a cuore aperto e posare a terra, almeno per un respiro, quel grosso fardello che ti pesa sul cuore.
Ma non solo tutto questo e molte altre cose ancora, sarebbe bellissimo che fossimo, ma - ormai le immagini si accavallano, forse provocate dal clima estivo e di ferie - ma vorremmo, anche essere una specie di carta topografica e meglio ancora geografica, dove trovi il mondo intero disteso lì davanti e, almeno con il dito e più ancora con l'anima, ti abbandoni ad itinerari al di là di ogni orizzonte, a vastità universali, planetarie, fino a perdersi in quell'infinito che non è parola vaga e nebulosa a indicare l'inesistenza ma spazio concreto dove lo Spirito vive la vita.
E dove quindi ogni giorno e ogni notte palpita il suo più vero vivere la nostra esistenza. Essere segnaletica sicura e fedele a indicare la strada sulla quale camminare la fatica di ogni giorno, di ogni momento verso queste terre e questi cieli, non è impegno da poco anche se dolcemente esaltante. Tanto più che esige un chiaro e preciso rapporto estremamente complesso e difficoltoso fra condizioni spesso, chissà perché, inconciliabili o almeno così sembra.
La liberazione, cioè il raggiungimento. di un minimo di livello di dignità, di verità umana, è tutta nel demolire questa prigione d'inconciliabilità e nell'ottenimento di questo dolcissimo, adorabile equilibrio che vuoi dire integrazione di valori, pienezza di vita, verità di esistenza.
E più ancora vuol dire il cento per uno dalla buona terra della Fede.
I problemi nei quali affogano gli ideali più prestigiosi e anche i sogni più esaltanti si seppelli-scono miseramente, sono il quotidiano, i tempi lunghi (quanto?), l'eterno. In altre parole: il personale, il collettivo, l'universale. In altre parole ancora: il privato, il pubblico, l'umanità.
L'immediato, il progetto, la storia. Qui, là dovunque. Oggi, domani, sempre...
L'immagine della Trinità è segnata, scritta nel destino di ogni essere umano. E il suo segno è indelebile, può essere coperto da un velo o da una montagna, ma esplode e si libera o prima o poi, per violenza d'Amore o per disperazione.
Perché la sbriciolatura, la frantumazione dei tre segni, realtà, valori, condizioni essenziali di vita, si cercano incessantemente, reclamati inesorabilmente da quel richiamo unitario che costituisce la vita vera, determinata dall'essere l'uomo immagine e somiglianza di Dio.
(Chissà perché dimentichiamo così tanto, anche noi credenti, questo destino che ci aiutereb-be, a luce piena, per vedere chiaro nella storia della nostra vita e in quella del mondo).
Il componimento delle separazioni, d'altronde così assurde, innaturali, nell'unità, è condizio-ne decisiva per il nostro ritrovarci e ricostruirei come essere umani e quindi per una speranza e, più ancora, per una concreta prospettiva di vita.
Bisogna che ciascuno di noi si sottoponga ad un'analisi accurata e coscienziosa (ah! quei tem-pi quando ti diceva tutto il padre confessore e più ancora il direttore spirituale e tu avevi soltanto quel dovere della «virtù» dell'obbedienza!).
Non è facile riordinare il privato con il pubblico e viceversa e illuminare a giorno gli angoli bui e tenebrosi alla luce del sole dell'universale. Dilatare il quotidiano nelle vastità di un progetto, precisando ideali e addirittura utopie, è sicuramente impresa poco saggia, sa di pazzia, di assurdità, eppure può decidere dello spalancarsi della tua prigione e di non essere più un ergastolano. Perché le quattro mura della tua casa (e quanto più è stracolma di ogni attrezzatura di benessere e di eleganza, tanto più) sono il carcere dove si rigira sempre più soffocante la tua solitudine, se, non apri finestre e porte all'umanità intera come all'aria nuova del mattino e al sole che nasce ogni giorno.
Perché siamo stati chiamati e destinati a respirare non a soffocare, alla libertà non alla schiavitù. Ma forse devi ancora imparare che tu non sei tutto, principio e fine di ogni cosa. La ragio-ne, l'importanza, il valore delle cose e delle persone, degli avvenimenti, della storia, non nasce da te. E' stupidità quella fatica di convergenza e spesso è così estenuante e richiede prezzi spaventosi quella convergenza di tutto e di tutti su quel punto che sei tu. Non sei un assoluto ma una pura e semplice relatività. Il tuo valore è proporzionale soltanto a quanto puoi significare per gli altri, in termini e valori di Amore, motivi di gioia, di liberazione, di speranza. Diversamente il tuo punto è uno zero che se non si trova allineato a ciò che è almeno un «1» non vale niente: non sei nemmeno un numero.
Piccoli eppure enormi problemi perché stanno caricando questo nostro tempo e la gente lo vive, di spaventosi pesi d'infelicità, che vuol dire, tradotta in esemplificazioni concrete questa infelicità, nel non trovare più ragione di vita, interesse al vivere, giustificazione al lavoro, capacità di Amore, la gioia di un bicchiere di acqua fresca, l'estasi di un cielo stellato, il dolcissimo stupore della novità, la sorpresa dell'imprevisto, l'attesa dell'imprevedibile, l'esaltazione della lotta, la contemplazione dell'utopia, la misteriosità adorabile di Dio...
Una freccia in cima ad un palo sul ciglio della strada, al crocevia: ecco è di qui! L'indicazione è perché quella strada è già stata percorsa, è conosciuta per esperienza: è soltanto questa la giustificazione per quella freccia, al bivio, che, può essere anche tanta presunzione, noi vorremmo essere e offrire.
Amici cari, mi chiedete, di riprendere, il discorso interrotto nella mia precedente.
In realtà codesto mio è più un monologo che un dialogo. Il problema mio è sempre lo stesso. Concerne la conflittualità delle esperienze, delle vite che ci si trova a vivere e che, proprio la fedeltà, impedisce di ridurre, impone di armonizzare. Questa volta accenno a due problemi che sento particolarmente cogenti. Entrambi nascono dall'esperienza quotidiana. Uno scaturisce dalla relazione tra preghiera liturgica e vita quotidiana e si situa nel contrasto profondo che sussiste tra l'orizzonte di mentalità, di linguaggio, di atteggiamento verso il quale ci proietta tutta la liturgia, e il modo di pensare, di parlare, di vivere che i membri stessi della Comunità credente adottano nella vita quotidiana. Codesto contrasto si coglie con minor immediatezza quando la liturgia non è presa sul serio e si riduce a ritualismo, quando ci si limita a pronunziare le formule e compiere. i gesti, senza riflettere seriamente a quello che effettivamente si fa, si proclama, si annunzia. Quando invece si prende sul serio il movimento, il dinamismo, il mondo concettuale, verbale e simbolico nel quale la liturgia cl fa vivere, si ha netta l'impressione di trovarsi in due mondi opposti. Perché, come sempre avviene in questi casi, non è possibile che entrambi siano veri, è necessario optare per uno di essi e decidere dell'altro con coerenza.
Personalmente mi sento sempre più profondamente portato a pensare che l'orizzonte liturgico è il vero, va preso sul serio, con assoluto rigore e con piena adesione di pensiero e di vita. Esso infatti non va visto come un insieme di riti da compiere ma come vita nella quale lasciarsi coinvolgere, come stimolo a diventare chi proclamiamo di essere stati costituiti. La liturgia è veramente la celebrazione della condizione nuova iniziata per tutti noi in Gesù Cristo, non è evocazione di quello che Egli ha compiuto, è annunzio di chi stiamo diventando e diventeremo con Lui. E man mano che codesta esperienza di vita insieme cresce, mi pare che anche l'esistenza si unifica maggiormente e, nonostante tutti i disagi quotidiani, cresce dentro la gioia di vivere. M'ero sempre domandato che legame intercorresse, per esempio, nella vita dei sacerdoti, tra la celebrazione dei Sacramenti e il ritmo della preghiera quotidiana. Consideravo l'una e l'altra come cose da fare, obblighi da assolvere, impegni da soddisfare. A un certo punto, quando l'Eucarestia ha cominciato a diventare una vita da portare avanti insieme, un'esperienza di comunione da costruire, un procedere in sintonia, anche la preghiera ha assunto un altro aspetto: cominciò a diventare il prolungamento nella vita quotidiana della gioia dell'esperienza di vivere insieme, di collaborare in un medesimo progetto, di accogliere e mettersi a disposizione.
Vorrei poter parlare con voi di tutto questo perché mi sembra molto bello anche se diventa fonte del conflitto che deriva dal constatare quanto la vita quotidiana sia diversa da tutto ciò. Sembra proprio di essere una persona dalla doppia, tripla vita. Una volta si diceva: santo in chiesa diavolo in casa, ora pare di viaggiare in due orbite diverse, contrastanti. Non è possibile armonizzare codeste vite in una sola fedeltà, restano due. Voglio essere radicato nell'umanità che aspira ad essere umana, interpretarne l'incomprensione, la difficoltà di contarne, elaborarne aspirazioni e stili di vita e sperimento il rifiuto, l'incomprensione, la difficoltà di conciliare il mondo umano e l'orizzonte che nella liturgia è fonte di pace.
Una proposta porterebbe a optare a radicalizzare le scelte, abbandonare una delle due realtà, ma non è possibile seguirla.
Sarà mania di onnipotenza e di ubiquità, sarà incapacità di abbandonare persone di carne e ossa; sarà immaturità, sarà fedeltà: non so.
Di fatto mi sento lacerato. Il cuore è per quelli che vivono nel quotidiano e nel quotidiano mi trovo estraneo perché l'aspirazione è per la realtà che amo e che invece sembra non dica nulla alle persone che vivono.
Costoro non si fidano perché non ti trovano «disponibile» ai propri progetti e quelli che sembrano sintonizzati nel mondo del mistero ti considerano qualcuno che non va fino in fondo, frenato dai «ma», dalle riserve, dalle attese. E hanno ragione entrambi. La nostalgia è per un'umanità giusta, fraterna, aperta al mistero, per una comunità in cui Gesù Cristo è presenza, dimentica di sé e sollecita solo di condividere la misericordia di Dio per la creazione tutt'intera, trascurando tutto ciò che divide per favorire ciò che permette a donne e uomini di essere soggetto nella comunione che si nutre di relazioni interpersonali autentiche in cui gli alibi non frenano l'inventiva della comunione nell'amicizia e nella giustizia e la docilità dell'apertura a Dio. Mi convinco che tutti gli inviti che Dio ci rivolge vanno verso codesta meta, ma i pregiudizi di tutti i tipi legittimano e rinsaldano la resistenza, il rifiuto a codesta condivisione. E l'umanità soffre, la gente semplice, debole, si suicida, fugge nel piccolo gruppo in cui si sente accolta; i più duri uccidono, manipolano, esercitano la violenza.
Da soli è impossibile vivere, in comunione è difficile perseverare eppure, senza comunione i singoli non vivono e senza il riconoscimento dei singoli le comunioni finiscono.
Gli essere umani sono tutti uguali ma l'uguaglianza umana è la diversità. Siamo tutti uguali per il fatto che ciascuno di noi è se stesso e nessuno è lo stesso dell'altro.
Ciascuno ha il diritto e il dovere di essere se stesso in comunione con altri, di essere riconosciuto nella propria diversità e di riconoscere la diversità degli altri non in pluralismo di indifferenza ma di tendenza all'unità della comunione. Il problema delle democrazie sono le minoranze, sono i diversi e nella categoria dei diversi entra ciascuno perché ciascuno è diverso dagli altri, né più né meno degli altri, e tutti i diversi hanno diritto e dovere di essere accolti nella comunione, di diventare soggetto. Per non riconoscere codesta verità che mi pare chiarissima, abbiamo formulato tutta una serie di distinzioni e di teorie le quali servono solo a legittimare il rifiuto di volersi persone che costruiscano comunione con i diversi e che lavorino perché i diversi diventino costruttori di comunione, aperta a tutti e sintonizzata col mistero. Quest'utopia in Gesù Cristo è la verità che è la chiave ermeneutica di tutto il suo messaggio e di tutta la liturgia.
Gesù Cristo ha insegnato che donne e uomini sono tutti figli di Dio, tutti sono chiamati a diventarlo e a essere contenti di esserlo, e tutto ciò che Egli ha detto, fatto, chiesto di dire e di fare ha il solo scopo di metterci e mettere in condizione di essere e vivere da figli di Dio, aperti al Padre, in condivisione reciproca, in responsabilità per la creazione, in permanente realizzazione del Regno. Questo mi pare tutto il Vangelo, i Sacramenti, la morale.
Se codesta volontà di disponibilità manca, tutto diventa legittimazione di difese, di barriere, di manipolazione, di esclusione. La cosa più urgente oggi è centrare il messaggio e per farlo dobbiamo aiutarci a essere onesti fino in fondo verso la verità del bene umano.
Ora mi pare che la liturgia sia la celebrazione di questa comunione che cresce, l'alimento di coloro che la costruiscono, lo stimolo a renderla più bella e armonica.
Deve cadere la barriera tra vita liturgica e vita quotidiana, tra personale e politico, tra uomo e donna perché l'umanità maturi la libertà di diventare feconda e creativa nella costruzione dì legami che non si limitano alla dimensione interumana ma investano la relazione con Dio.
E' questa la speranza del duraturo, dell'eterno che ci portiamo dentro, è rompere la barriera del limite che ci imprigiona, è verificare nell'esperienza ciò che proclamiamo nell'annunzio e annun-ziare ciò che l'esperienza conferma. Mi sembra una bella «utopia» e vorrei condividerla sempre più con voi.
Dalmazio
Dopo aver scritto brevi righe sulla solitudine, nel numero precedente di Lotta come Amore, non vorrei essere preso per uno che ama stare da solo. Non sono di grande compagnia, questo è verissimo, ma non vorrei esaltare la figura dell'uomo chiuso in grandi progetti, che scruta oltre l'orizzonte i misteri di una saggezza preclusa ai comuni mortali. La solitudine è un grosso problema umano specie oggi.
I suoi risvolti sono spesso drammatici. Occorre recuperare il senso di una solitudine che appartiene alla condizione umana che sa di nascere e morire e di vivere dove niente è definitivo. Ma non è giusto sottrarre la solitudine al quotidiano per farne una delle mete della maturazione umana.
La vera solitudine va tutta spesa per costruire rapporti di amore.
Parole facili per un'esperienza difficile che desidera gratificazioni ed è incline a sentirsi dimenticata e non compresa dagli altri: l'esperienza di molti, se non di tutti, oso pensare.
Ricordo che, quando fui ordinato sacerdote quasi quindici anni fa, un prete, che mi ha dato molto e a cui poco ho risposto, mi diceva: «ricordati che una cosa importante è che tu abbia degli amici», E lo diceva, credo, per tutta. una saggezza sgorgata da un 'amara esperienza.
Ed è veramente una cosa molto bella l'amicizia. Anche se molto varia e diversa nelle tinteggiature dell'esperienza concreta.
Abbiamo bisogno di amici nel quotidiano, di persone con le quali possiamo sentirci più liberi fino a sfogare per mille rivoli diversi tutta la pressione che si accumula dentro per la fatica di vivere e sopravvivere.
Una battuta, uno scherzo, una lunga passeggiata, il gusto di fare qualcosa insieme, la gratificazione di qualcuno che ti ascolta e ti dà il senso di essere preso sul serio: un gioco sottile, ma necessario, delicato perché a tirarlo troppo si rompe. Un'amicizia che è una compagnia, dà colore e sapore al tempo libero, ma quando sono solo non riempie la mia solitudine.
C'è un rapporto umano che penetra dentro questa mia solitudine. Ed appartiene alla categoria dell'amicizia. Un'amicizia che può radicarsi anche nel quotidiano, ma spesso è fatta di rapporti profondi, coltivati in incontri densi di ricerca e di speranza, ma disseminati nel tempo.
Sono amici che spesso non vedo per mesi, per anni, ma sono presenti e vivissimi dentro di me perché rappresentano la solidarietà di un cammino faticato e sofferto verso un'umanità nuova e diversa.
E quando ci è data la gioia di un incontro è momento di grande felicità che si esprime meno nelle parole e molto di più nella serena constatazione della fedeltà all'esistenza: «sono contento che tu ci sei».
Certamente esiste il pericolo di idealizzare queste amicizie, di utilizzarle a sostegno della propria vita, negando loro ogni progresso, paralizzando il loro essere alla misura del nostro. Ma è proprio per questo, perché l'amicizia possa zampillare con la freschezza dell'acqua di fonte, che ci appartiene la condizione di solitudine. Non più ripiegamento sentimentale su di sé, ma conversione in valori positivi quali la povertà, la disponibilità, il servizio, l'accoglienza che sono tra i frutti meravigliosi che possono crescere unicamente su quella pianta che si chiama condizione umana, perché solo la solitudine che vi è inserita può fecondarne i fiori.
E' a questa condizione di amicizia che più si avvicina il mio rapporto con Dio, con Gesù Cristo. Non sono sicuramente persona di ferma disciplina interiore, né di delicata spiritualità. Può darsi quindi benissimo che questo mio rapporta con Dio nasconda chi sa quali crepe di incertezze e resistenze durissime. Sta di fatto che non mi sento estraneo a Lui nonostante uno stile di vita piuttosto «laico». Mi appartiene chiarissima la percezione di Dio come «colui che è». Il Dio della Rivelazione nell'Esodo, il Gesù Cristo del vangelo di Giovanni, Colui che dice di sé: «io sono». Certamente con tutta la ricchezza di sfumature e di significati che l'espressione nella lingua originaria esprime. E' questo «essere dentro» di Dio, questo «essere con» l'uomo fino a dividerne il destino di morte per seminare vita, che adoro nella mia vita e nella vita del mondo. Su strade non segnate da edicole sacre, su piazze non riparate all'ombra del campanile, in quella grande chiesa a cielo aperto che è l'umanità sbriciolata nella quotidianità del lavoro, del bisogno, della ricerca della salute.
Anche la mia preghiera si è molto «asciugata» dal tempo delle lunghe ore passate in ginocchio e delle liturgie con ritmi lentissimi. Non saprei dire se è meglio o peggio: non credo sia questo l'importante. Ritrovo antichi gesti e il significato del corpo nella preghiera, forse perché il lavoro che costringe a volte a posizioni insolite nello sforzo, risveglia «il gemito» della carne e delle ossa, anche quelle più dimenticate. C'è un gesto soprattutto che mi accompagna, ed è alzare un braccio come a cercar pace, a salutare qualcuno. E' un gesto consueto della gente, lento e solenne, sulla barca, nel campo, sotto il carro ponte, nel rumore assordante del lavoro o nella distanza abbacinata dal sole, quando la voce non serve e neppure il sorriso; solo una mano alzata. Per salutare, per accarezzare. Per dire soltanto: «ci sono», ci sono dentro come te, insieme a te nella vita, nella fatica, nella giornata, a tener duro, a stringere i denti, a sperare, a credere, a sognare. «Ci sono anch'io: pace fratello, pace mio Dio».
Luigi
ti scrivo ancora una lettera: non so se sarà l'ultima, il Signore solo lo sa e sia fatto come a Lui piace. Può darsi però che anche la stanchezza, e quella dell'Amore è particolarmente micidiale, mi sopraffaccia e mi svanisca quella sopravvivenza di fiducia e quella fedeltà di attesa che ancora mi trepidano in fondo all'anima: difatti basta un accenno e si riaccendono subito le speranze. Ma se poi, come ormai succede puntualmente, ricadono spente, allora l'amarezza è ancora più amara e il vuoto è sempre più abisso senza fondo.
Scrivendo a te, santa madre Chiesa, non è che scrivo al papa: non faccio distinzioni tra te e lui, ma nemmeno unificazioni. La Chiesa, non è un uomo, sia pure papa e tanto meno un personaggio anche se di eccezionale rilievo nell'attenzione del nostro tempo.
Da un papa mi attendo un cristiano, assolutamente null'altro. D'altra parte nella tua realtà storica e ormai, come gli uomini ti hanno costruita nel corso dei secoli, santa madre Chiesa, il papa quasi ti sostituisce se non proprio ti costituisce e alla fine risulti, me ne dispiace incredibilmente fino allo sgomento, per quello che è il papa, ne sei l'immagine e somiglianza, ne sei perfino la storia: storia di papi, storia di chiesa, non credo che ne esista racconto almeno negli archivi storici.
Succede quindi che scrivere a te, almeno questa volta, è come scrivere a lui, al papa felicemente regnante. Perché delle parole le ha dette lui ma non so bene se sono anche tue queste pa-role. Penso di no, anche perché sono contraddittorie, preoccupanti e bellissime, affogano le speranze e le riaccendono.
Ma è meglio pensare che sono parole di uomo, anche papa e quindi parole (dal dire al fare c'è di mezzo il mare) e poi oggi sono così e domani possono essere altre.
Perché anche il tuo papa, cara santa madre Chiesa, è come i tempi si meritano e anche come tu stessa ti meriti. Problema che spesso, quando ho tempo e voglia di pensarci, mi suscita grosse perplessità.
Dunque. Tu saprai, santa madre Chiesa, che qui a Viareggio, dal 21 al 24 aprile scorso è stato tenuto il decimo convegno nazionale dei pretioperai italiani (vi erano anche rappresentanti dei pretioperai francesi). Un convegno semplice e schietto dove la visione di Fede è stata tutta impegnata nella ricerca di un 'analisi dell'ingiustizia che imperversa nel nostro tempo e parti-colarmente nella fabbrica e nella società. Ingiustizia che si perpetua anche nella scissione fra una scelta di Fede e l'operare la giustizia. Non sto a raccontarti di tutto il convegno, anche perché penso che ti sarà arrivata tra le mani in qualche modo, la sintesi conclusiva dove assai chiaramente è accennato qualche cosa di quei magnifici, anche per fraternità serena e aperta, tre giorni e mezzo di convegno.
Non posso però non raccontarti anche se solo con un accenno, che per me, vecchio prete operaio,quel convegno ha significato come un dono. Perché è stato tenuto qui, nella mia città dove si è iniziata e allora sono durissimi tempi di solitudine e di isolamento, quest'avventura di un prete, che lascia la sua talare per sostituirla con la tuta operaia nel mantenimento e nella crescita del suo sacerdozio. Dopo ventitré anni quella solitudine era traboccata da una folla di fratelli preti, esistenze consacrate a Dio e alla classe operaia, ai poveri, agli emarginati, ai problemi e alle lotte di liberazione, di dignità umana, di fraternità cristiana.
Non ne abbiamo parlato e altro che nelle conversazioni a cuore a cuore, della lettera ai sacerdoti del papa in occasione del Giovedì Santo. E tanto meno delle sue dichiarazioni a un gruppo di sacerdoti di Bologna: dichiarazioni di così dura respinta nei nostri confronti. Non ci aspettiamo niente, santa madre Chiesa, ma se è possibile, da te e quindi dal papa, dai vescovi ecc. chiediamo di non essere indotti in tentazione e cioè come è sempre successo che non succeda ancora di «essere costretti a scegliere fra Gesù Cristo e i nostri compagni di lavoro», E poi ti chiediamo che tu ci liberi dal male e, cioè dalla distrazione senza senso del perpetuarsi di una diffidenza assurda, di una emarginazione ecclesiale preconcetta, disarmata, da una realtà di solitudine che scava inutilmente, a vuoto, ferite irrimarginabili...
Perdona la presunzione, chiamalo pure orgoglio, se preferisci, anche se non lo è, ma devo dirti, cara santa madre Chiesa. che non è che noi ci preoccupiamo che ci manchi la tua benedizione, ma è motivo di grande pena che tu non senta il bisogno, la necessità urgente e non diversamente rimediabile, del nostro Amore e della realtà operaia che noi portiamo nella nostra carne e più ancora segnata a fuoco nella nostra anima sacerdotale.
Ti confesso che in questi giorni, non so se tu santa madre Chiesa, li giudichi particolarmente gloriosi, del viaggio del papa in Polonia, sono rimasto senza fiato quando ho letto di un suo discorso nel sobborgo industriale di Nowa Huta, a Cracovia.
E poi due lacrime mi sono scivolate dagli occhi ma le ho subito asciugate per paura che mi si asciugassero col tempo come quelle che mi brillarono negli occhi al momento della proclamazione di Karol Wojtyla a papa.
Te le trascrivo qui perché tu le abbia nella memoria, cara santa madre Chiesa, queste parole. Sono le parole e più ancora per noi preti operai, anima e sangue, perdizione e salvezza, che ripetiamo da sempre con il solo torto di avere tentato di tradurle nella vita pagandone qualsiasi prezzo. Perché prete operaio in fondo significa soltanto che le parole che tu, santa madre Chiesa, ogni tanto spedisci nel mondo del lavoro non siano solo parole, ma Parola che si fa carne, Parole che si fa operaio, lavoro, lotta, condivisione, crocifissione, morte e resurrezione.
Per ovviare ogni equivoco e qualsiasi possibilità di ripensamento, queste parole del papa tra gli altiforni, avrebbero bisogno di precisazioni. Ma la traduzione pastorale dirà se sono parole di circostanza, sentimentali, stupidità o parole che ti cambieranno volto, santa madre Chiesa, fin quasi all'impossibilità di riconoscerti per quella che Sei stata fino a questo momento.
Lo so che può essere sciocca illusione la mia e ingenuità imperdonabile: ma forse è perché sognare continua per me ad essere l'unico modo di essere vivo.
«Il cristiano e la chiesa non hanno paura del lavoro. Non hanno paura (questo frasario mi lascia però alquanto preoccupato per antiche reminiscenze trionfalistiche) del sistema basato sul lavoro. Il papa non ha paura degli uomini del lavoro. Essi gli sono stati particolarmente vicini.
E' uscito di mezzo a loro. Facendo il lavoratore ha imparato nuovamente il Vangelo (nota bene, santa madre Chiesa, quel «nuovamente», e quante volte ti abbiamo ripetuto che non era tanto la classe operaia che aveva bisogno di te, quanto tu che avevi bisogno di imparare «nuovamente» il Vangelo!)...
E ancora: «Non si può separare la croce del lavoro umano. Non si può separare Cristo dal lavoro umano» (e le tue responsabilità per questa separazione, santa madre Chiesa?).
«Quando ero tra voi cercavo di rendere testimonianza di questo. Pregate affinché continui a renderla davanti a tutta la Chiesa e davanti al mondo contemporaneo».
Ti prego di dire al tuo e nostro papa, cara santa madre Chiesa, che anche i preti operai pregano per questa testimonianza specialmente perché non si riduca ancora una volta in parole, in gesti clamorosi, in un altra enciclica sui problemi del lavoro...
Con tutto l'affetto.
don Sirio
Nel mese di maggio è nata una nuova «ditta» nel porto di Viareggio: la nostra.
Non è quindi un semplice dato statistico, ma un avvenimento che comunichiamo volentieri ai nostri amici perché possano parteciparlo. Dopo oltre dieci anni di vita l'officina di ferro battuto di Sirio e Rolando al Bicchio chiuderà i battenti. Un arco di tempo forse non lunghissimo, ma certo enormemente dilatato dall'intensità della vita trascorsa in quel vecchio fienile diviso in due: l'officina e sopra la cappella. Una tempesta di ricordi, gioie e dolori avvampati al fuoco della forgia e plasmati in forme così tanto diverse sull'incudine dal tempo che passa.
Ma non è una morte; vorrebbe essere - lo speriamo - una risurrezione. Anch'io abbandono la mia piccola baracchetta non certo ricca di memorie come l'officina di Bicchio e neppure all'altezza del lavoro in ferro battuto, ma aperta alle rattoppature per le barche da pesca e alla piccola carpenteria.
Ritorniamo a lavorare insieme: e questo dovrebbe essere un primo motivo di gioia anche per i nostri amici. Il progetto l'avevamo in mente da tempo; ma non è stato facile concretizzarlo. Cercavamo, infatti, un luogo abbastanza ampio in Darsena. Abbastanza ampio in quanto partivamo dall'idea di allargare progressivamente il settore del nostro lavoro realizzando una «comunità» di piccole imprese artigiane (per es. legno, ceramica, cuoio, ecc.) sotto un unico tetto. In Darsena, poi, in quanto volevamo che questa attività artigianale vivesse il respiro serio del lavoro, le tensioni del mondo operaio, la ricchezza di una realtà ambientale così caratteristica come quella del porto in cui siamo presenti da oltre vent'anni.
Abbiamo trovato un capannone di circa 500 mq. e dopo varie avventure nel mondo della burocrazia l'abbiamo acquistato. Non certo con i nostri risparmi che la massimo potevano servire a comprare il cancello d'ingresso. Ci affidavamo ad un mutuo artigianale consistente e a basso interesse, ma non ci è stato concesso, abbiamo avuto la fortuna di amici che ci hanno dato fiducia con prestiti piuttosto forti. Ora sta a noi rimboccarci le maniche e lavorare per rispondere seriamente a questa fiducia.
Cosa intendiamo fare in questo capannone? Innanzitutto trasferire le nostre due officine con tutto il carico di lavoro che speriamo non ci abbandonerà. Il lavoro che facciamo è garanzia per la sopravvivenza dell'iniziativa. Poi? Poi, si vedrà: è proprio il caso di dirlo. Non abbiamo fretta; non vogliamo soprattutto sballare. La prima cosa che ci interessa, è sviluppare il lavoro artigianale in senso stretto, cioè un lavoro manuale, creativo, responsabilizzato a tutti i livelli, dal reperimento della materia prima alla sua collocazione sul mercato a prodotto finito, rispettoso dei valori d'uso e comunque non facilmente preda del consumismo.
Per questo il primo sforzo che faremo all'esterno sarà di offrire a persone che già possiedono un mestiere, la possibilità di venire a lavorare con noi nel capannone iniziando nuove attività.
Inoltre ci interessa di lavorare inseriti nell'ambiente degli artigiani e degli operai del porto, partecipando i problemi, le lotte della classe operaia concretamente presente a Viareggio, e naturalmente la vita. Per questo il nostro lavoro avrà caratteristiche più impegnative che nel passato per tutto quello che riguarda gli aspetti politici e sociali della realtà locale.
Ci proponiamo quindi di realizzare un ambiente aperto all'interesse dei giovani, mettendo a disposizione il nostro lavoro per quanti ritengono utile imparare il mestiere. Non cerchiamo quindi dei «dipendenti», ma degli «apprendisti» capaci poi di realizzare il loro lavoro con piena e totale responsabilità dove vorranno. Non abbiamo - mi sembra chiaro - l'intenzione di offrire «posti di lavoro», ma di dare una mano a quanti ritengono utile qualificare le proprie mani e affrontare il problema del lavoro con uno spirito di «indipendenza» e di fantasia.
Questi - ancora abbozzati evidentemente - i nostri obiettivi. Ci rendiamo conto delle mille difficoltà che questo nostro progetto comporta. Abbiamo sperimentato difficoltà di rapporto con le strutture pubbliche spesso più desiderose di etichettare le iniziative di base che non di favorirle per un autentica crescita. Sentiamo tutta la pressione sociale che vorrebbe fare di questa nostra iniziativa un fatto assistenziale nel campo dell'handicap e della droga. Sappiamo che noi stessi abbiamo ancora tanto bisogno di chiarirci le idee.
Comunque il treno è ormai partito e, mentre ora sono iniziati i primi lavori di assestamento del capannone, io, Sirio e Rolando ci siamo saltati sopra forse, ancora una volta, più con il cuore che con la ragione.
A questo nostro vecchio peccato sappiamo ormai che i nostri amici sono abituati.
Luigi
Questa collezione ha il compito di diffondere tradizioni e testimonianze che servono praticamente a chi sceglie di radicarsi nel proprio territorio.
Si basa sulla civiltà naturale la quale pone al vertice dei valori economici le attività produttive di alimenti.
Le opere pubblicare sono selezionate in modo da poter esser lette in poco tempo, senza stancare la vista e da servire come orientamento nelle discussioni e decisioni di tutti i giorni.
Ognuna è rivolta a un ambito più o meno preciso della società, ma tutte hanno lo stesso orientamento di fondo.
Sono un invito ad organizzarsi e a risorgere come popolo.
VOLUMI PUBBLICATI E IN VIA DI PUBBLICAZIONE:
- I MITI DELL'AGRICOLTURA INDUSTRIALE, di F. Moore Lappè e H. Collìns:
Riassume in 60 pagine il lavoro più centrato sulle cause della fame e capovolge tutti i luoghi addotti a sostegno dell'agricoltura commerciale citando i dati ufficiali della FAO e del Governo americano, quindi non contestabili.
(Rivolto soprattutto agli ambienti scientifici, universitari, ecc. e serve come prova per sostenere l'opposizione al capitalismo in agricoltura).
Lit.1.800
- WOVOKA, la proposta rivoluzionaria degli indiani americani, a cura di Bruno Bouchet:
Raccoglie gli articoli di Akwesasne Notes (il miglior giornale degli amerindiani), non ancora tradotti in italiano, che meglio testimoniano la novità politico-culturale del messaggio indiano. Qui i popoli nativi smettono di essere una semplice «minoranza oppressa», ma assumono l'autorità di avanguardie di un nuovo tipo di rivoluzione. Al tradizionale modello della «lotta di classe», affogato e reso politicamente inefficiente dalla diffusione dell'ideologia piccolo borghese, essi contrappongono la costruzione di un «popolo senza classe» fuori dalla «società delle classi», rifiutata nel suo insieme, e fondato sui valori unificanti delle leggi naturali, della comunità e proprietà comune di villaggio e delle tecnologie non-capitalistiche.
(Rivolto a tutti, ma specialmente alla nuova sinistra, al movimento, ai cattolici del dissenso.. e a chi interessa).
Lit. 3.500
- MANUALE DI ORTICOLTURA BIODINAMICA, di E. Pfeiffer ed E. Riese:
Introduce a uno dei metodi naturali più completi per prodursi il proprio cibo. Insegna le prime tecniche di uso naturale della natura, cioè di un'agricoltura fuori dalle logiche della concorrenza e dello sfruttamento alimentare.
(Rivolto a chiunque lavora già la terra o vuol cominciare a farlo).
Lit. 3.000
- PER UNA SOCIETA' NONVIOLENTA, del gruppo alleati dell'Arca del Languedoc e del Roussillon:
E' una critica «fuori dagli schemi» della società e del modo attuale di fare politica e raccoglie alcuni contributi di riflessioni e proposte per una società alternativa.
(Rivolto a tutti, ma specialmente ad orientare l'organizzazione e la lotta dei movimenti non-violenti e a coloro che si interessano al dibattito su quello che convenzionalmente è chiamato il «nuovo modello di sviluppo»).
In preparazione
- GIUSTA ALIMENTAZIONE E LOTTA CONTRO LA FAME, efficacia dei mezzi poveri per l'aiuto al Terzo Mondo, di Pierre Parodi medico e compagno dell'Arca:
E' la testimonianza su un modo di vincere lo sfruttamento alimentare e la denutrizione del Terzo Mondo con alimenti locali. I suggerimenti dati da questo libro sono validi anche per permettere a noi di essere autosufficienti sulla minima estensione di terra anche in pieno territorio superindustrializzato.
Lit. 2.000
- STORIA DEL POPOLO, di Francesca Alexander, con commenti di John Ruskin:
Accanto alla storia ufficiale, che è fatta di potenti, delle loro guerre, imperi, ordini, economie, che finiscono sempre in rovina, c'è una storia non ufficiale, quella dei «miti», dei «costruttori di pace», gli uomini della natura, coloro cioè che hanno scelto di vivere seguendo le leggi della terra e traendo da essa il proprio sostentamento in fraternità con tutto ciò che vive. Sono i veri possessori della terra, capaci di appropriarsene, nonostante i potenti, perché a loro volta affidati completamente ad essa, sono forti di una conoscenza che è al tempo stesso amore. Questa Storia che presentiamo riguarda particolarmente la Toscana, ma, poiché la «storia del popolo» è ovunque fondata, anche se in forme diverse, sugli stessi valori, essa insegna a riconoscerne il linguaggio in tutti i luoghi.
Il primo volume è dedicato a Beatrice di Pian degli Ontani ed è un po' un inno alla cultura analfabeta;
il secondo ai popoli dell'Abetone.
Lit.3.000
In preparazione
- VILLAGGIO E AUTONOMIA, di M. K. Gandhi
Il potere del popolo nell'autogoverno di uno, due, tre, cento, mille... villaggi.
Una raccolta degli scritti di Gandhi sull'economia del Villaggio. E' un testo fondamentale per l'elaborazione di un nuovo modello di vita comunitaria in cui la «partecipazione» della gente sia ordinata al potere locale e non semplice sovrastruttura all'attuale piramide di condizionamenti. L'autonomia di villaggio, dopo la crisi del partito come strumento di potere democratico, può suggerire nuove forme di sviluppo della volontà popolare.
In preparazione
Per chiarimenti, ordinazioni ecc. rivolgersi all'animatore di questo movimento culturale e sociale: Giannozzo Pucci - Via di Patemo, 20 Ontignano (Fiesole).
Ho letto con attenzione «Lotta come Amore» e non potete immaginare quante delle mie difficoltà e perplessità degli ultimi tempi vi abbia trovato.
Certo questo stato di crisi è generale, perlomeno tra i «compagni» e tutti quelli che in questi ultimi tempi hanno sperato in più o meno utopiche, più o meno vicine rivoluzioni.
Ora che i tempi si presentano lunghi se non disperatamente infiniti, la fatica ci è crollata improvvisamente addosso.
Intendiamoci, non si tratta di una fatica uscita dal nulla: essa covava sempre in noi, qualche volta usciva anche fuori, ma era sempre tenuta sopita dalla speranza; quando quest'ultima si è scolorita ecco che la fatica è rimasta libera di opprimerci, non solo facendosi sentire con tutto il suo peso, ma anche con tutti i suoi interrogativi. A che vale la fatica se non c'è più speranza?
Pure, non riesco ad arrendermi, e non solo perché finché c'è vita la speranza è dura a morire, riscopro in me le ragioni concrete che mi hanno portato, in una ormai lontana adolescenza, a lottare. Questa crisi a modo suo è stata, almeno nel mio caso, anche salutare. In fondo è estremamente facile vivere sugli entusiasmi, mentre la vita - e voi certo lo sapete meglio di me - è tutt'altro che costituita da questi ultimi. Questa crisi, con la sua distruzione dei miti e delle facili speranze, con il suo gettarci in faccia gli egoismi e la violenza del mondo, mi ha schiacciato contro la realtà. Ma non era questo in fondo quello che volevamo, non era la reale realtà che cercavamo?
Non è forse per essere reali, per agire nella realtà che siamo usciti dalle parrocchie, dall'aria umida e solitaria di inutili sacrestie? E la realtà del mondo, del mondo nel quale siamo chiamati ad agire, non forse fatta di egoismo, violenza, disperazione, ignoranza d'amore? Anche se non solo di questo, grazie a Dio.
Il mondo, tra Cristo e Barabba, sceglierà sempre Barabba, e non mancheranno mai le buone ragioni politiche per lavarsene le mani.
Nella tempesta della crisi alcuni lati della mia fede si sono incrinati ed è stata una fortuna perché erano proprio dei lati brutti. Facile avere fede quando tutto fila a gonfie vele, ma quando il vento cala molti preferiscono cambiare barca.
Oggi la mia fede è diventata estremamente povera, ridotta all'osso, ma per questo forse la sento più forte, e più forte sono io a tenere contro le intemperie della vita.
Per questo credo non mi arrendo. Perché se la mia fede mi fa forte nella fatica di vivere, tanto più forte (e spero sapiente) mi farà nella gioia di vivere.
Resistenza non resa
Ti scrivo con l'amarezza dentro per la strage fascista a Radio Città futura, e con la rabbia di assistere a tutti questi episodi di violenza e di intimidazione quotidiana, senza essere realmente organizzato con giovani, donne emarginati, che sono insoddisfatti per questa vita, per questa società, per queste ingiustizie, ma che purtroppo, come molti di noi, assistono assuefatti e sfiduciati ad una crisi che, secondo me, si fa sempre più profonda e diventa sempre più dolorosa per noi.
Certo questo, non ci deve spingere a mollare tutto, anche se la tentazione è forte; è forte però anche la convinzione della inutilità di una vita preservata e non compromessa, nelle lotte di liberazione. Ognuno nella propria realtà, cerca di creare un'aggregazione che riesca ad opporsi a questo stato di cose, che tuttavia spesso ci travolge senza che ce ne rendiamo nemmeno conto.
Questa disgregazione, questo stato di cose che sembra eterno ed irreversibile, spinge tanti come me ad abbandonare, o a scegliere la via diretta della violenza. Ma sia l'una e l'altra risposta creano maggiore disgregazione, maggiore scetticismo, maggiore chiusura delle mentalità, maggiore clima di paura, di restaurazione autoritaria, di impotenza ed inazione di massa.
Ecco allora chiaro il valore che ha una presenza di fede, un credere nell'utopia da realizzare, un aver speranza nell'agire anche laddove tutto sembra buio ed «irreversibilmente inesorabile», che è la presenza del cristiano, come segno di contraddizione, di lotta permanente, di fiducia nelle lotte intraprese per la dedizione totale alla Verità, a Dio, alla giustizia e all'amore da realizzare nel mondo tra gli uomini, soprattutto quando, come in questa epoca tutto crolla, nessun appiglio razionale sembra esistere, tutto è condizionato da giochi di potere, da interessi egoistici, da una dimenticanza totale del valore dell'uomo in se stesso e del suo rispetto.
«da una lettera di un amico»
La voce
«... e si compirono i giorni del suo parto.
E diede alla luce il suo figlio, il primogenito, e lo fasciò e lo adagiò in una mangiatoia, perché per loro non c'era posto nell'albergo» (Lc. 2, 6~7)
Scena
E' una donna visibilmente incinta.
Non so perché e da chi, perché ormai è volto sconosciuto, mi è nata questa vita dentro la mia vita.
E' mistero bellissimo, adorabile sentirmi abitata dalla vita. La sento crescere in me ogni giorno e dilata il mio vivere senza misura.
Non so perché (e mi ribello a che sia così orribile mondo), perché dev'essere come se fosse la mia morte questa vita dentro di me.
Mi hanno buttato fuori di casa con orrore perché mi sono lasciata vincere dall'Amore.
Sono sola abbandonata a me stessa, non so dove andare, perché dove mi hanno detto di andare non voglio.
Sento che gli occhi mi guardano con orrenda malizia e scrollano il capo come davanti ad una pazza.
Gli amici, mi hanno chiuso la porta in faccia. Nessuno più mi conosce e vuol saperne di me. E' come se portasse sgomento questo mio ventre rigonfio di vita. Sono maledetta perché ho concepito per Amore e non secondo la legge.
Stamani sono fuggita là dove la disperazione e la buona parola di amici mi aveva condotto. Non voglio uccidere la mia vita, la morte non entrerà nel mio seno. Anch'io sono benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del mio ventre, come Gesù.
Mi cercherò una grotta, una capanna qualsiasi, una mangiatoia colmata di paglia.
Anch'io sola, soltanto davanti al mio Dio, al mio Dio che è Padre, darò alla luce mio figlio.
Verranno gli angeli e canteranno gloria a Dio e pace agli uomini, perché è nata la vita e spero che l'Amore dei poveri fascerà questo mio figlio e la gioia della vita lo allatterà.
(a poco a poco la scena diventa sempre più buia)
Ma ora parlo ai quattro venti del mondo. Tu non sai cos'è una donna incinta. Poesia, Sentimento. Anche Fede.. D'accordo. Ma più che tutto è vita di essere umano nella mia carne. E' una vicenda attuale e futura inimmaginabile che è iniziata in questa terra che è il mio ventre. Scivolata dal ventre di un uomo dentro il mio ventre di donna, la storia di un essere umano, qui, in me, s'inizia.
Perché il nascere della vita?
E' qui il mistero del mondo più profondo, un abisso dove è inutile fissare gli occhi per vedere qualcosa.
Dio. La donna fortunata, veramente «beata» è lei Maria che unica le è stato dato e ha saputo che la sua maternità era da Dio.
Ma la nostra gravidanza è da Dio o è dall'uomo?
E spesso da uomo che non è uomo.
Forse allora la vita non vita umana. Perché non è vita umana ciò che non nasce da volontà di uomo e di donna.
Come non è da Dio ciò che non è nato da Dio ma da volontà di carne, da volontà di uomo.
E per una donna incinta vi è sempre meno posto «nell'albergo» che è la convivenza umana. Allora è assurdo pretendere e imporre che basti una grotta, una stalla, una mangiatoia... E consolarsi che gli angeli canteranno pace: non sanno più ormai a chi cantare se continuano a cantare «agli uomini di buona volontà».
Forse è venuto il tempo in cui è pura utopia e folle assurdità pensare e credere che la nascita è Mistero di Fede?
Natale è la nascita di Gesù Cristo ma Natale non è la nascita di una creatura umana. Se sempre meno c'è posto per l'uomo, sempre meno vi è posto per Dio che si fa Uomo.
Il progetto cristiano della vita-umanità s'incrina e si annebbia nell'impossibile fin dal primo momento del concepimento. E non per via della legge abortista, ma perché non c'è posto nell'albergo dell'esistenze umana e nemmeno in quella cristiana. E non c'è posto perché tutto, assolutamente tutto, dev'essere e non può che essere «mio»: non è mai assai nemmeno per me che sono, cosa vuoi che rimanga per te che vieni?
Poche settimane fa mi sono trovato a partecipare ad un seminario presso l'Accademia teologica Alfonsiana di Roma, sul tema: Scelte tecnologiche, energia nucleare e responsabilità morale. Il sottotitolo era tutto un programma di ricerca di chiarimento e di provocazione al coraggio: la posizione del cristiano, oggi.
Come sempre succede quando le ricerche teologiche non sono particolarmente ufficializzate, la partecipazione non è stata eccezionale. E la testimonianza dei temi, scientificamente rigorosa e anche appassionata, è rimasta discorso fra esperti anche se spesso espressione angosciosa di un problema che pesa sul destino dell'umanità come effettiva, concreta potenza già più che sovrabbondante, per quella che ormai viene disinvoltamente classificata autodistruzione.
Il dibattito: vivace e stanco, come una sofferenza intrisa di ribellione ma ripiegata per non dire rassegnata nella costatazione della propria sproporzionalità nei confronti della terribilità del problema, una coscienza profondamente turbata da una responsabilità equivalente al dovere di salvare il mondo ormai rotolato sull'orlo del suo abisso distruttivo e il toccare con mano il disinteresse, l'irresponsabilità, l'alienazione imperversante.
Da molto tempo, fin dall'inizio delle lotte contro la costruzione di centrali nucleari in Italia (non mi è assolutamente possibile distinguere nella mia coscienza le centrali nucleari dal «nucleare» in tutta la tremenda realtà del suo significato, quello così detto pacifico da quello militare, la distruzione del «cuore» della materia dalla distruzione di tutta la terra, l'inquinamento genetico dalla cancellazione dall'esistenza dell'umanità intera nel giro di pochi minuti...) da quest'inizio di lotte antinucleari, mi sono posto il problema della posizione del credente, del cristiano.
Cos'è questo «nucleare» davanti a Dio? La risposta ho cercato di viverla per le strade, per le piazze, nella preziosa e «amara» terra di Maremma, nelle agitazioni più provocanti di popolo, nelle lotte che pur nella più rigorosa non violenza, non possono non significare una ribellione nei confronti di quell'eterna sopraffazione del potere economico, politico, militare, sul diritto alla vita e alla vita umana dell'umanità.
Ma questa risposta concreta, fatta di scontro e di lotta, è motivata in me da sempre e direi unicamente, dall'adorazione di Dio, in una chiarissima scelta di Lui per una sicurezza che il suo Mistero, seriamente intuito, raccolto, vissuto, è la salvezza dei valori fondamentali o è possibilità del loro progressivo sviluppo, nella fatica di rendere la creazione, cioè l'ambiente dell'esistenza umana, nelle condizioni più favorevoli perché possa essere la «casa» dell'uomo, l'abitazione degna del suo vivere il tempo dell'attesa.
Non credo che mi si possa accusare d'integrismo e di nostalgie teocratiche se nella visione del mondo e nella ricerca della sua più profonda verità, mi splendono nell'anima chiarezze come luce di sole.
Affermare l'assoluto di Dio vuol dire semplicemente convinzione totale che tutto ciò che esiste è stato pensato e quindi finalizzato in un progetto esistenziale di continuità creativa perché tutta la realtà sempre più sia manifestazione, questa presenza, difenderla, svilupparla e progredirla, è crescita di creazione, di esistenza, di vita.
E' lavoro insieme di Dio e di Uomo. Nella preghiera entro nel raggio di luce che illumina l'universo e risalgo alla sorgente di questa luce perché è là che si «vedono» le ragioni di ogni cosa, si intuiscono i veri valori e si partecipa attivamente alla loro «gloria».
Affermare l'assoluto di Dio vuol dire anche e particolarmente negare l'assoluto dell'uomo confessando in piena gioia e profonda libertà, la relatività dell'uomo e di tutto l'umano, nel suo essere e nel suo convivere, ai valori di rapporto nei confronti di una essenzialità di uguaglianza, di collaborazione per l'edificazione dell'umanità.
L'assolutizzazione di ogni essere umano, di ogni uomo e di ogni donna, è la più grave sciagura perché è sempre menzogna: e sulla falsificazione si costruisce soltanto rovina.
Ridimensionare ogni essere umano nella Fede, nella preghiera, è crescerlo fino alle stesse misure di valore che sono quelle di Dio e nel frattempo ristabilire parità ed uguaglianza, abolendo ogni differenza, cancellando ogni separazione, spazzando via qualsiasi sfruttamento e oppressione.
E' dolcezza infinita, esaltante, sentire aleggiare nell'ora di preghiera, la liberazione che scende chiarissima dal Mistero di Dio e si posa sull'esistenza umana e sulla sua storia.
Allora questa liberazione non è possibile non assumerla come progetto concreto, storico e coinvolgervi tutto se stesso e tutto l'universo.
Perché anche la creazione va liberata dall'assolutizzazione umana e dei suoi insaziabili egoismi. Sottoporre a se stesso ogni cosa, fare del mondo schiavizzazione relativizzandosi tutta l'esistenza, fino a disporne a padronanza totale, è l'impazzimento, fino ai limiti estremi, del diritto di proprietà: è porre quindi i presupposti giuridici e quindi «morali» per la giustificazione anche dello scontro finale di cui col nucleare esiste già il potenziale bellico e con lo spazio cosmico il campo di battaglia.
Nel nostro tempo l'immoralità del rapporto uomo-creazione, sta particolarmente nell'aggiudicarsi il diritto di poter decidere da parte dell'uomo politico, militare, economico, scienziato, ecc. della sopravvivenza o della distruzione del mondo, di vita o di morte dell'umanità.
Con il nucleare la volontà di una ben precisata disumanità ha finalmente conquistato il potere per uno scontro frontale fra la volontà creatrice di Dio e la concreta possibilità di una volontà distruttrice di uomo.
Dio ha creato dal nulla l'universo. L'uomo può creare il nulla dall'universo.
Sconvolge e angoscia terribilmente questo scontro fra Dio e l'uomo che il cammino misterioso della storia ha spinto fino al punto da consegnare nelle mani dell'uomo la capacità di decidere del sopravvivere o del concludersi dell'esistenza.
Dio è il principio, l'uomo è sempre la fine. Una dissacrazione, un imperdonabile sacrilegio sta operandosi nel destino del mondo e del cammino della storia: il no alla volontà creatrice di Dio e l'attentato alla Sua unica e assoluta padronanza del mondo.
Un'opera di perdizione universale si sta sempre più opponendo alla redenzione e alla salvezza attuata da Gesù Cristo.
Uno scontro mortale è fra la potenza dello Spirito impegnato nella riunificazione di ogni valore perché tutto ritrovi l'unità e la disgregazione universale che nella scissione nucleare trova il suo segno di maledizione suprema.
E' molto facile e stupido giudicare questo terrore interiore per la percezione, perfino fisica, di questo peccato supremo, nel tempo della preghiera, cioè della visione e del giudizio del mondo nella luce di Dio, come esaltazione religiosa, esasperazione mistica, rapimento profetico per un eccessivo abbandono a sensibilizzazioni apocalittiche.
Sta il fatto che la storia che l'umanità ha iniziato a vivere è totalmente nuova e diversa: gli ultimi cinquant'anni ne costituiscono esatta indicazione e ne stabiliscono le leggi implacabili e irreversibili.
La cultura e la scienza possono non rendersene conto perché causa e affetto normalmente si annullano nella storia, vicendevolmente. La ragione economica è essenzialmente disumana e non si pone altri obiettivi e problemi se non di profitto a costo di tutto. La realtà politica, molto più di quello che non apparisca, obbedisce ciecamente e delittuosamente, a motivazioni di potere personale e di oligarchie spietate.
Questo destino di maledizione poggia i suoi orrori sul potenziale militare che significa distruzione totale. Potenziale inevitabilmente da accrescere e da rendere sempre più capacità distruttiva, di annientamento. Prospettiva alla quale lavora appassionatamente la scienza e la ricerca tecnologica, pressoché nella sua totalità.
L'irrisione suprema è apparsa in questi giorni a Vienna, quando due uomini (cioé due interessi di carriera politica personale) si sono incontrati e si sono abbracciati concordando di non fare del mondo il nulla e dell'umanità la morte.
Già la maledizione della storia ha compiuto il suo cammino spaventoso se due uomini legano la sopravvivenza o la fine del mondo ai loro personali interessi politici e di quei gruppi di potere che in loro si scontrano o si accordano.
Davanti a Dio ormai rimane l'unica preghiera: l'implorazione alla pietà. Non so più chiedere altro. Raccolgo nell'anima Dio e sempre più è spazio al di là di ogni misura, la condizione attuale di un'esistenza segnata di impossibilità di salvezza, perché è assurdità la fiducia nell'uomo e pazzia suprema sperare la salvezza confidando unicamente nella paura. Perché già il vivere affidato alla paura di morire, non è vita ma è morte.
Allora il nostro è tempo di pietà. E ho pietà di me, ma particolarmente di te, di tutti, dal più profondo e fino all'angoscia, dei bambini, del tempo che verrà. Dell'erba dei prati, dell'acqua dei fiumi, delle lucertole, dei passerotti.
Ho pietà di questa generazione che trema di paura perché non potrà più correre in macchina e dovrà tornare ad accendere una candela, la sera, e attizzare la brace nel caminetto. E non ha assolutamente paura di altro.
Ho pietà della Chiesa in lotta per la 382, le sue paure per la sorte del concordato e le sue esaltazioni per il «folleggiare» del nuovo papa. E non piange e non grida, la Chiesa e la cristianità, alla terra e al cielo, per l'umanità nella mano dello sterminatore.
C'è un ministero profetico, in certi momenti della storia, nel quale la Chiesa unicamente deve ritrovare il mistero della sua missione nel mondo e viverlo con coraggio e fedeltà totali: perché qui è il suo servizio all'uomo e all'umanità.
Perché sta succedendo quello che accadeva ai tempi di Noè. «Si mangiava e si beveva anche allora. C'era chi prendeva moglie e chi prendeva marito, fino al giorno nel quale Noè entrò nell'arca e venne il diluvio e spazzò via tutti».
Lo stesso avvenne ai tempi di Lot: «la gente mangiava e beveva, comprava e vendeva, piantava alberi e costruiva case, fino al giorno in cui Lot uscì da Sodoma: allora dal cielo venne fuoco e zolfo e tutti furono distrutti». Così è scritto nel Vangelo di Luca.
E nella liturgia della parola la Chiesa dice: è Parola di Dio.
Non sappiamo cosa avverrà, sappiamo bene cosa sta avvenendo: uomini si costruiscono il potere di distruggere il mondo.
E ormai ciò che rimane è la pietà da parte di Chi è di più dell'uomo e lottare contro l'impazzimento dell'autodistruzione a motivo di quella pietà fraterna che ormai è l'ultimo legame che può promettere speranza.
E nel pomeriggio ho lasciato la sala dell'accademia teologica e sono andato a perdermi fra i trentamila che per le vie di Roma gridavano la rabbia di popolo contro il potere della logica distruttiva di un mondo consumistico ed egoista, pilotato verso la rovina, dalla ragione conomica del profilo ormai veramente impazzita. E fra tutta quella folla mi pareva di essere soltanto una pietà che camminava ad implorare, con questa liturgia, la salvezza.
Ma avevo quasi lo sgomento che quel camminare fosse come sulla strada del Calvario.
Sirio
P.S. La relazione sull'energia solare come speranza alternativa è stata tenuta dalla Prof.sa Giovanna Conforte, docente dell'Istituto di Fisica dell'Università di Roma. In quella occasione mi è stato dato di conoscere e apprezzare la profonda umanità della Conforto e porto nel cuore la convinzione dell'impossibilità di una sua qualsiasi responsabilità di collusione terroristica, della quale, a seguito dei noti avvenimenti, è stata incriminata.
E' giusto e doveroso per me esprimerle tutta la mia fraterna solidarietà comunque si risolvano i procedimenti a suo carico.
Sirio
Vorrei ma non l'ho voluto
che i bambini di oggi
avessero il mondo del primo giorno
il primo giorno di mille migliaia di anni.
Sole nuovo ad attraversare
cielo tersissimo
o velato da nubi
non caligine da fumaioli.
La pioggia a scorrere
su foglie cadute
nate da primavere felici
e soleggiate di solleoni estivi
e le pozzanghere dove giocare
torbide di fango pulito.
A me questo mondo nuovo
fu consegnato quand'ero bambino.
Io ho visto l'acqua dei fiumi
le strade sterrate e bianche
i carri tirati dai buoi
il contadino a raccogliere
lo sterco dietro il cavallo
per l'insalata del suo orticello.
Il lavoro duro, quello della vanga
e la creazione fatta dal fabbro
le tavole uscite dal tronco
la nave dall'ascia sapiente.
Porto adorabile l'odore nell'anima
del pane uscito dal forno
rotondo e caldo allineato
sulla lunga tavola coperta
tenuta a bilico dal cercine
sulla testa impettita della donna.
Gli operai a covare con gli occhi
il tubo colmo di vino di vite
a parlare anarchico
di circoli di mutua assistenza
e santamente ubriachi
la domenica sera.
Il sillabario sotto il braccio
il quadernetto e gli zoccoli in mano
ragazzi di scuola
e scazzottate sul sagrato.
Tu non sai bambino di oggi
com'era l'acqua dei fossi
cristallina e verde d'acquatiche
i ranocchi e le anguille.
Non conosci il tozzo di pane
e la bocca affondata nel ruscello
e il nido di fringuello
sull'incrocio del ramo d'ulivo.
Tu hai incredibilmente di più
e infinitamente di meno
i miei cinquant'anni
hanno ammazzato il tuo mondo.
Il sole, l'aria, l'acqua
e perfino le stelle
perché i lampioni accecanti
le hanno spente su in cielo.
Ti posso dare aerei a razzo
bombe nucleari nascoste
dagli imperi che dominano il mondo
e il progresso che conduce alla morte.
Ora respiri petrolio bruciato
la tua casa è periferia di città
e senza un filo d'erba e un raggio di sole
la piazza dove giuochi la tua ribellione.
Ho ucciso spietatamente il tuo domani
e fatta tramonto la tua aurora
ti ho costretto ad essere adulto
ragazzo, di appena otto anni.
Non ti chiedo perdono
perché non puoi perdonarmi
lo so che mi maledici e mi odi
non ti ho dato quello che ho avuto
ti ho rubato quello che ti saresti donato.
E' per via di te che ho terrore
e vergogna d'essere adulto
ho inventato un mondo
e te lo lascio, ragazzo,
ma non è di più che un cimitero.
Dove i cipressi scheletriti
sono senza preghiera
la preghiera dei passeri la sera.
don Sirio
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455