Riprendiamo dopo le vacanze estive il nostro incontrarci sulle pagine di questo giornaletto. Un modo estremamente semplice di ravvicinare le distanze che ci separano (anche se occorrono mesi di viaggio postale, come ci è capitato di sapere, quando tutto non va a finire nel macero).
Ma più che tutto è per avere la possibilità di parlarci, di raccontarci le nostre cose che possono anche essere insignificanti ma esprimono però una sincerità, una autenticità di Amore fraterno e più ancora manifestano quella fatica che ciascuno di noi intende continuare di ricerca di Dio nel mondo in cui stiamo vivendo. Perché di fatica si tratta, quando decidiamo, rispondendo alla luce che lo Spirito accende in noi di metterci a camminare sulla strada della Fede. Può essere una fatica esaltante vissuta e anche sofferta con profonda gioia, quasi con entusiasmo, come quando si è innamorati e tutto è felicità, ma può essere anche fatica opprimente, logorante e spesso può perfino apparire senza prospettive di sollievo, di consolazione, di fruttificazione. Sia nel primo caso e nel secondo (è chiaro che ve ne sono d'intermedi, innumerevoli situazioni una diversa dall'altra, perché ognuno ha la sua problematica interiore e la sua condizione esterna di vita) ma comunque sia il tipo, la qualificazione di questa fatica che viene richiesta dalla nostra scelta di Fede, sentire vicino il fratello che anche lui faticosamente fatica, ma che però non si arrende, anzi sempre più è convinto a continuare con assoluta perseveranza e fedeltà, questa presenza fraterna é senza dubbio motivo di consolazione, di coraggio.
Questo nostro tempo così dichiaratamente socializzato, comunitario, dove le distanze sono annullate e tutto é meravigliosamente vicino, a portata di mano e il parlare e il comunicare é così straordinariamente facilitato, sta risultando tempo di paurose solitudini, di pressoché, impossibilità di comunicare, di capirsi e tanto più di soccorrerci fraternamente.
Le città sono un deserto, le case una pensione, camminiamo nella vita come quando si viaggia in treno, divisi in tanti scompartimenti, prima e seconda classe e quando si parla è per passare il tempo e chi scende e chi sale incessantemente. Se così è la convivenza, diciamo così, civile, quella religiosa è forse ancora più rarefatta, impersonale, asettica. La formazione liturgica continua a livellare, schematizzandola, la ricerca interiore, personale. La pastorale è sempre più una pianificazione studiata da specialisti sulla base di ricerche scientifiche, di saggi statistici, di, progettazioni ben calibrate. Sempre più la pastorale ha qualcosa della pianificazione urbanistica e dei piani regolatori. La parrocchia é un ufficio di collocamento delle diverse esigenze religiose che vi confluiscono. Una sapiente centrale della Parola, come quella del latte, pastorizzato, da potersi usare immediatamente o a lunga conservazione. Una metodica distribuzione sacramentaria e di sperimentazione organizzata del sacro, come una ben attrezzata agenzia turistica, dove è possibile trovare qualsiasi informazione ma dove specialmente è possibile affidarsi a occhi chiusi, pensano a tutto.
E'giocoforza che nascano esigenze di ricerca personale, grazie a Dio. S'impongono così semplicemente per la forza dello Spirito. Possono essere provocate sul nascere, da scontentezza, nausea, impossibilità di trovare nella standardizzazione religiosa imperante, quel respiro personale che consente di sentirsi vivi e viventi. Ma poi, se la spinta interiore é salda, e forte, s'impone l'accoglienza e il precisarsi di motivi positivi, autentici, irresistibili: il bisogno di Dio, liberazione e creatività di vita, di esistenza. La Parola rapportata personalmente a se stesso, indicazione concreta di scelte precise. La preghiera, incontro personale con il Mistero di Dio. La conoscenza di Gesù Cristo cercando di accoglierne scopertamente tutta la provocazione. Il calare la Fede come luce per poter riuscire a discernere qualcosa di vero, di autentico nella realtà così tenebrosa di questo mondo.
La scoperta dell'Amore come possibilità semplice di rapporto fraterno. Una lotta seria, profonda, coinvolgente per puntare alla realizzazione storica, concreta di un'umanità meno disumanizzata, prospettando a se e agli altri un progetto di liberazione, di riconciliazione, di fraternità...
Un lungo cammino di Fede, ovviamente. E può essere che attraversi deserti, solitudine, contrasti, respinte. Certamente si tratta di tutta un'immensa fatica. Tanto più che è possibile trovare risorse unicamente scavandole dentro se stessi, nella profondità della propria anima e nell'incontro d'Amore con Dio.
E' allora che imbattersi in un fratello, in una sorella che, nonostante la fatica che l'impegna e forse il carico sulle spalle e sull'anima che li appesantisce, allungano la mano per una buona stretta e guardano con occhi sorridenti e dicono parole di fiducia, di speranza, di Amore, é un grande misterioso dono di Dio.
Il regno di Dio, sempre, ma particolarmente in questo nostro tempo, è legato strettamente e dipendente, nel suo realizzarsi, alle scelte personali portate avanti con Fede e coraggio in modo da ottenere convinzioni profonde, coscienze chiare e sicure, personalità ben costruite dalla Parola di Dio e dal sacramento del suo Amore. E immediatamente, quasi simultaneamente, il Regno di Dio è condizionato allo spirito di fraternità all'incontro vicendevole, chiaro e aperto, all'accoglienza, offrendo tutto, in comunione totale a qualsiasi livello, compresa una seria ricerca di liberazione umana, una lotta per la giustizia, per la dignità dell'uomo, un giocare tutto nell'Amore.
E perché crediamo in questo progetto con profonda Fede che é giusto e bello aiutarci e confortarci. Queste pagine non hanno altro motivo di esistere che dire a ciascuno di voi: non sei solo, mai. Dio è con te e più ancora tu sei nel suo Amore, ma ti sono vicini anche e camminano con te, uno, due, tre, chissà quanti fratelli e sorelle.
Abbiamo aspettato il mettere insieme le pagine di questa lettera agli amici, che fosse eletto il nuovo papa. Non proprio perché ci sentivamo orfani; ma unicamente perché un'impressione di profondo mistero ci era sceso nell'anima. La morte nel giro di un pomeriggio e di una sera calda e dolce di agosto di Paolo VI. Poi l'elezione di Giovanni Paolo I con lo stupore di un nome da consentire perplessità. Il suo improvviso e sorprendente conquistare le folle, la simpatia popolare, per via del suo sorridere e del suo parlare parrocchiano. E ancora di più improvvisa e imprevedibile la sua morte solitaria, notturna, vigilata unicamente da una luce accesa accanto al letto.
Poi l'angosciosa trepidazione di un nuovo conclave con alla ribalta, questa volta scopertamente, gli arrivismi cardinalizi dell'ipoteca italiana sul papato. Da tremare, davanti al televisore per dover ancora affrontare la terribile fatica di accettare nella Fede il vincitore della battaglia. E' comprensibile e perdonabile la lacrima di gioia all'annuncio del nome di un papa straniero e poi la commozione del suo essere figlio della Polonia, la terra della sofferenza: a una certa età la memoria di tragedie di oppressione è incancellabile.
E poi papa Gìovanni Paolo II non lo conosco e quindi ci sta tutto: amarissima delusione e consolazioni inaspettate. Nell'imprevedibile la Fede è meravigliosamente facilitata nel suo gioco di suscitare Amore e accendere Speranza.
E per la Fede nel papa e in genere nella gerarchia e nelle istituzioni cattoliche non sempre tutto è facile, suadente , gioioso. Più spesso è fatica pesante e logorante.
Quella sera mi è sembrato di respirare con più serenità e mi è cresciuto, di colpo, lo spazio della libertà: come un peso scivolato giù di sul cuore, l'allentarsi di un colletto troppo stretto. Illusione? Può darsi, ma anche l'illusione aiuta.
Tanto più che nel fitto mistero di questi tre mesi mi é sembrato di poter cogliere un filo di luce. Quasi di avvertire un segno indicativo del disegno di Dio. Perché qualsiasi intervento (e cos'è che non è a seguito delle Sue scelte?) della Volontà di Dio è sempre manifestazione di un Suo Pensiero e di un progetto di Amore.
Può essere vero il detto popolare: l'uomo propone e Dio dispone. E è vero anche se si tratta di cardinali.
E' adorabile e doveroso per chi vuole guardare il mondo e la sua storia nella luce della Fede e non soltanto in quella del sole che nasce al mattino e tramonta la sera, cercare d'intuire, scoprire e conoscere la Presenza di Dio in questi tre mesi e tanto più percepire, cosa lo Spirito di Dio ha voluto manifestarci, cosa ha voluto dire la Parola che è stata pronunciata attraverso avvenimenti che sono spiegabili ovviamente nella dimensione naturale, ma possono anche essere «segni» del Mistero di Dio e del realizzarsi storico nel mondo di Dio nell'umanità.
Intanto é cosa semplice e chiara che gli uomini sono niente, possono significare molto e significare nulla. Tutto va semplicemente ridimensionato con tranquilla umiltà alle giuste misure. Smitizzare è il primo doveroso impegno del cristiano per il quale esiste un solo Padre, un solo Maestro e un solo Buon Pastore. Tutto il giornalismo più o meno sfruttaiolo della sensibilità, della sentimentalità popolare é semplicemente irriguardoso e dannoso alla Fede.
. I piedistalli sono un brutto, pessimo servizio per coloro che sono chiamati al ruolo del servitore, del «porta in tavola», «del lettore del Libro» ...
La Fede non è esaltazione di altri, chiunque siano, ma responsabilità cosciente e serenamente pagata. La fedeltà non è manifestazione a folle, a moltitudini, ma semplice e autentica coerenza con le scelte di Fede, cioè accettazione della Parola e il suo tradurla in pratica facendone costruzione di vita.
Noi della chiesa italiana avevamo urgente bisogno che svanisse la nebbia di un cattolicesimo trionfalistico, spettacolare che il papato italiano nutriva abbondantemente. E che stava risorgendo a misure impressionanti.
Non è detto che un papa straniero e tanto più un papa polacco, si orienti verso novità di smitizzazione e ridimensioni a misura di semplice uomo di Dio e di vicario di Cristo, il papato. Si sa che la via della storia e specialmente della storia della Chiesa, è molto lunga e paurosamente lenta: è però già cosa importante e incoraggiante che si sia cominciato a muovere i piedi su una strada diversa, nuova.
Quella vecchia, una specie di via Appia costeggiata da monumenti è stata percorsa per oltre cinque secoli ininterrottamente da papi italiani. grandi papi, grandissimi, ma ora basta proprio tanta grandiosità.
Se non altro con il papa Wojtyla la Parola sarà meno italiana e un po' più universale. E non soltanto lessicamente e foneticamente.
Sulla piazza S. Pietro vi era una folla sterminata quella sera, radunatasi correndo a sentire l'annuncio. E in un cielo tersissimo splendeva una luna piena che le cellule fotoelettriche non riuscivano a far impallidire. Mi pareva che sorridesse l'antica luna che ha visto e conosce bene la storia del travaglio e della gloria umana, guardando luminosa l'immensa folla rivolta e plaudente a quell'uomo sulla loggia della Basilica vaticana: e mi pareva che si rallegrasse di vedere finalmente qualcosa di nuovo, almeno da molti secoli fino a quella sera.
don Sirio
Nei tre numeri precedenti di questa nuova serie di «Lotta come Amore» ho scritto brevissime storie di morte. Non so perché ho iniziato ed ho sentito il bisogno di continuare ad esprimere semplici riflessioni su avvenimenti certamente drammatici. ma purtroppo così frequenti nel tempo che viviamo. Non credo di essere tentato da tristezze romantiche o peggio spinto da un discutibilissimo gusto del macabro. Mi sembra di comprendere che non è tanto la morte che mi interessa quanto la vita e tutto ciò che alla vita appartiene, quindi anche la morte.
La morte violenta è compagna instancabile della vita quotidiana nei luoghi di lavoro, nel traffico intenso solcato dalle ambulanze, nelle istituzioni sanitarie. dove spesso si guarisce la malattia e si toglie di mezzo l'uomo.
Dal mio banco di lavoro sento nascere l'urlo delle sirene dei mezzi di soccorso, mi fascia il cuore di opprimente silenzio quando si allontana verso l'Aurelia e l'autostrada, mi chiude in gola un senso di paura quando cresce violento e fugge davanti agli occhi verso i cantieri e la spiaggia. Specie d'estate subito dopo pranzo quando sfiniti da lunghe ore di giochi, si cerca refrigeri nell'acqua arroventati dal sole, o, sul lavoro, annientati dalla fatica e dal caldo ci si muove lenti e disarticolati come astronauti in assenza di equilibrio.
Perché un altro e non io: Perché a me é dato di continuare a vivere, e sono già quasi quarant'anni, mentre altri incontrano la morte negli identici gesti quotidiani che tante volte anch'io ho compiuto, in quelle disattenzioni da niente che provocano il disastro che tante volte ha sfiorato anche me senza però afferrarmi? Cos'è questa vita che continua a nascermi davanti, strada su cui cammino ormai da tanti giorni? E' semplice caso alla cui buona sorte mi devo abbandonare? E' cieco Destino cui non posso sottrarmi? E' dono che scaturisce da un progetto d'amore? La morte riflette una risposta ed essa stessa interroga la vita.
Credo proprio che sia stato l'interrogarmi sul senso della mia vita che mi ha fatto incontrare la morte. Non ho mai avuto tanta voglia di vivere quanto ora e mai come ora mi sono apparsi in evidenza i chiaroscuri di una vita forse troppo incerta e ripiegata, comunque da sempre molto frenata. Non troppo buona, non troppo cattiva questa mia vita, ma il punto non sta nel "buono o cattivo" quanto in quel "non troppo" che ne definisce i limiti di vita non esaurita in pienezza. Affermo queste cose nella serenità di una constatazione che non mi deprime e neppure mi angoscia perché la coscienza del proprio essere è sempre più dolce delle tensioni che affiorano dall'inconscio.
Così la coscienza di dover morire. Certo, suona diversamente questa frase sulla bocca di un ottantenne, ed allora è forse meglio dire la coscienza che la vita è una sola.
Quest'estate ho ripreso la strada in solitudine. Con la sola compagnia di una «Vespa» e di una tendina ho percorso più di 4000 km. nel Sud dell'Italia. Non é stato un tuffo nel passato, una voglia strana di ritornar giovane che mi ha spinto a questo. Ci sono stati, è chiaro, anche motivi di ordine contingente, ma sopratutto la constatazione (eccola ancora una volta con tutto il suo colore di chiara presa di coscienza) di una «solitudine» che non mi pesa perché la sento condizione ormai di una grossa accoglienza e non una difficoltà da superare a tutti i costi per arrivare ad incontrare qualcuno.
Nella tasca dello zaino ho portato con me due libretti. La «Storia della morte in occidente» di Philippe Ariés (da cui attinge molto per l'ultima parte di «Nemesi medica» Illich, e «Le immagini della morte nella società moderna» di Werner Fuchs. Certo non li tenevo troppo in vista perché mi sarei potuto attirare giudizi ben poco lusinghieri da chi pensa che una vacanza sia dopotutto una... Vacanza, ma me li sono letti con grande pace, continuando quella ricerca interiore che mi sta portando dal prevalente «lottare contro» al «vivere per» o forse tutto sommato più semplicemente e pienamente alla vita, fosse pure questa di solo poche ore.
Questi due libretti portano tesi contrastanti. Lo storico Ariés conclude e si chiede: «In ogni caso, questo eloquente scenario di morte (riferito al costume del XIX secolo) si é dissolto nell'epoca nostra, e la morte è divenuta l'innominabile. Ormai tutto avviene come se né io né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali. Tecnicamente ammettiamo di poter morire, stipuliamo assicurazioni sulla vita per salvaguardare la famiglia dalla miseria. Ma in verità in fondo al nostro cuore, ci sentiamo immortali. E sorpresa, la nostra vita non sembra per questo più lunga! Esiste una relazione permanente fra l'idea che si ha della morte e quella che si ha di sé? In tal caso bisognerebbe forse ammettere da una parte un indebolimento della volontà di essere nell'uomo contemporaneo, al contrario di quanto avveniva nel secolo Medioevo, e dall'altra l'impossibilità per le nostre culture tecniche di ritrovare l'ingenua fiducia nel Destino, che per tanto tempo gli uomini semplici hanno manifestato morendo?».
Dall'altra il sociologo Fuchs contrasta questa ed altre simili posizioni che secondo la sua interpretazione operano in due tempi: dapprima la morte viene innalzata a simbolo della negatività della società moderna. In una seconda fase le si attribuisce la funzione di ultima carta da giocare contro questa società: l 'imposizione vincolante del ricordo della morte si rivela come strumento contro gli aspetti fondamentali della società industriale contro la quale la cultura critica si é mossa dai suoi inizi. Egli propone di abbandonare questo taglio del problema per riferirsi al concetto di morte naturale (come evento che in sé chiude la vita) per porre tutta l'attenzione sulla vita e fare in modo che non sia la morte a dare vita, ma la vita a produrre vita. Non «ricordati che si deve morire» ma «ricordati che si deve vivere», se una contrapposizione di questo tipo può in qualche modo interpretare il suo pensiero.
Ma non voglio assolutamente entrare in questioni di interpretazione.
Desidero molto più semplicemente comunicare un problema, quello del morire, che credo possa avere molta importanza per chiarire la qualità della vita che vorremmo vivere. Il parlare della morte trova oggi più ascolto di qualche anno fa quando tutto era relegato nella sfera magicoreligiosa. Credo che uomini e donne che amano la vita e desiderano viverla in pienezza non possono evitare una chiarificazione sul problema della morte. Per questo vorrei che questo mio abbozzo di riflessione che parte da considerazioni molto personali, potesse costituire l'inizio di una riflessione allargata e comunicata anche su queste pagine. Se questo interessa e volete scrivere qualcosa, sarò molto contento di poter garantire una continuità a questa riflessione, attraverso l'apporto di altri.
Luigi
Cari amici,
E' da tempo che rifletto sull'osservazione che mi fu rivolta da una Trappista che mi aveva seguito in una serie di lezioni: «quando parla sembra che vada contro qualcuno e non si vede contro chi».
Abbinai questa constatazione al pensiero di Peguy secondo cui, chi cerca davvero non é mai contro gli altri, ma accanto agli altri e di fronte alla verità. E pensandoci su mi sono accorto che, per parecchio tempo, ho pensato «contro» un nemico indeterminato, l'ho fatto soprattutto quando non ero sicuro, avevo bisogno di difendere un possesso faticosamente conquistato, avevo la paura di vedermi privato di un bene che temevo mi sfuggisse, che non «dominavo» a sufficienza. Tutto ciò alimentava in me il desiderio di mettere fuori campo, di rendere inoffensivo l'avversario. In fondo andare contro era una posizione di comodo, una copertura che distraeva dal fatto di non essere sufficientemente con e sinceramente di fronte alla verità. Ho preferito più aggredire che compromettermi, lottare un avversario, tentare di eliminarlo, trascurarlo, che amarlo, camminare con lui, cercare di andare insieme nella via della verità.
Quando è maturato il desiderio di cambiare, ho cominciato a notare che il tentativo di cercare un accordo richiedeva un notevole investimento di energie, sottraeva tempo prezioso, e dava pochi risultati. E così mi sono orientato verso una posizione che successivamente si é rivelata non definitiva, anche se qualitativamente diversa dalla prima. Pensavo che la cosa più importante fosse porsi di fronte alla verità, in atteggiamento non di dominio ma di disponibilità, di ascolto, di accoglienza, di condivisione. Ed ho visto che ciò é fondamentale, imprescindibile, ma che questo nuovo orientamento man mano che cresce, rende più intenso il bisogno di essere con, di mettersi alla ricerca, non di un avversario da sconfiggere, ma di persone che cercano anch'esse, e cioè che sono povere, non posseggono e aspirano a percorrere insieme la strada che porta alla giustizia, alla pace. E così, poco alla volta, sono stato condotto ad una nuova svolta, diversa della prima ma non meno esigente. La verità suscita rapporti personali non esclusivi; si manifesta per essere condivisa, comunicata, non per essere posseduta; vuole amici liberati non dipendenti succubi; cresce nella partecipazione non nell'appropriazione. Il rapporto con la verità ha la fecondità inequivocabile del rischio, della sorpresa, della ricerca. Induce a lasciare la gioia, la serenità, la sicurezza che scaturisce dall'essere con persone che condividono aspirazioni ed ideali per vivere alla ricerca di chi non ha verità, per incontrarsi con chi é senza luce, speranza, orientamento, non per solidarizzare in una situazione di negatività ma per coltivare insieme la nostalgia di alimentare la sorgente della vita. A differenza della prima svolta, queste altre sono aggiuntive non sostitutive: non si tratta di lasciare ma di dilatare l'essere con, fino ad accogliere la realtà e l'umanità tutt'intera. Condividere la verità con amici é bello, aiutare altri a diventar amici nella verità è amore. Qualche volta questa aspirazione prende così tanto che si può essere tentati di trascurare la stessa verità per non sottrarre tempo ed energie a coloro che soffrono, cercano. Penso si tratti di un desiderio che nell'apparente nobiltà, nasconde una insidia profonda, mostra che non è vinta del tutto la tendenza ad essere contro. Vasti orientamenti inducono a ritenere che, per essere con, occorre essere contro. Non è vero. Chi è con non è contro nessuno, e chi è contro è con nessuno. E per essere con altri che sono come me, é necessario essere con chi è il tutto di me, l'origine e il fine del mio esistere. Ma su questo debbo riflettere meglio. Forse l'equivoco deriva dal fatto che non tutti quelli che dicono di essere con, lo sono di fatto e lo sono in totalità. E' rara l'esperienza di qualcuno che sia interamente con. In più, non sempre le persone con le quali ci incontriamo sono disponibili all'accoglimento, spesso hanno tante difese, paure, e con questi aspetti necrofili non si può fare pace. Si comincia ad essere con, quando ci si incammina verso una meta comune dalla quale ci si lascia attrarre e verso la quale ci si muove in tensione di desiderio e di speranza. E' nel centro che ì raggi comunicano ed è il centro che fa che i segmenti che partono dallo stesso centro e sono iscritti nella medesima circonferenza diventino raggi.
Una volta, quando soffrivo la resistenza di molti a solidarizzare in un cammino comune mi rassicuravo pensando che sarebbe stato triste se il rifiuto all'incontro fosse dipeso da me; ora quel rifiuto mi fa soffrire, perché evidenzia le situazioni di arroccamento nelle quali molti di noi sono imprigionati e dalle quali é necessario si venga fuori perché la gioia di vivere cresca in tutti. Non basta non disinteressarsi degli altri, é necessario che anch'essi si interessino della vita, della giustizia, della comunione. La casa non é completa finché uno solo dei suoi abitanti é fuori allo sbaraglio. E questa consapevolezza deve stimolarci a liberare inventiva e fantasia perché cresca il numero di coloro che trovano la gioia nel vedere che altri cominciano ad amare la vita. In questo cammino vi sento amici.
Dalmazio
Castelgandolfo, 4/10/1978
memoria di S. Francesco d'Assisi
fratello carissimo
E' sera. Seduto davanti la porta di casa, contemplo il lago e le montagne intorno che lentamente assumono un aspetto pacato e sereno. Fra poco la notte avvolgerà tutto nella oscurità e la luna lentamente farà il suo corso nel cielo, facendo brillare d'argento l'acqua del lago che si muove piano piano.
Ogni sera questo spettacolo mi affascina in maniera sempre nuova e mi prende a tal punto che anch'io comincio a sentirmi parte di questo creato chiamato ad essere «nuovo» in Cristo Gesù attraverso la sua opera di riconciliazione (2 Cor. 5, 18-21).
Credo infatti che il regno di Dio, al quale siamo chiamati e per il quale già fin d'ora lavoriamo è un «cammino di comunione sempre più profondo con Dio», oltre che con gli uomini e col creato.
L'invito alla comunione è infatti in primo luogo un «atto gratuito di Dio» che bussa alla nostra porta per fermarsi e cenare con noi (Apoc. 3,20), è una scelta personale di Cristo che invita a stare con lui (Giov, 15, 1-11), è l'azione prorompente della grazia che ci sbalza da cavallo, dalle nostre sicurezze, e ci fa chiedere con estrema semplicità: «chi sei, Signore?» (Atti 9,5).
Leggendo la Parola di Dio, in queste lunghe serate autunnali, vado scoprendo chiaramente la «gratuità» e la «paternità» di questo invito alla comunione con Dio; a tal punto che anche la mia preghiera ha cambiato formulazione e contenuto diventando sempre più «Benedizione di Dio, Lode per la sua manifestazione gratuita in Cristo, Accettazione gioiosa del Suo amore». Certamente tutto ciò è grande, è bello!
Ma è allo stesso tempo tremendamente doloroso!
Perché tutto ciò comporta una chiara coscienza della propria reale «povertà» e avanza l'esigenza di «spazzare via gli idoli» per assumere una «fede nuda» in Dio.
Solo allora, io penso, noi potremo giorno dopo giorno abbracciare le nostre «angosce», dietro l'esempio del Cristo, fiduciosi che Dio è al nostro fianco (salmi 16,31,...) e che ci risuscita a «vita nuova» (Matteo 16, 24-25).
La risposta pertanto da dare all'invito di comunione che ci viene da Dio non è innanzitutto nella linea del fare, quanto in quella dell'essere, la linea della conversione richiesta dall'annuncio dell'evangelo: Dio in Cristo rende attuale e visibile la sua salvezza; occorre credere a questa lieta notizia e nell'adesione al Cristo rispondere all'invito di comunione del Padre (Marco 1,1; Luca 4, 16-21; Matteo 4, 12-17; Giov. 1, 1-18). Si capisce allora l'esigenza radicale richiesta al cristiano, «discepolo» del Cristo di spogliarsi di sé, delle proprie sicurezze, dei propri idoli, delle proprie ideologie (Luca 9, 23-25) per incontrare, come già Cristo, l'unico Signore, lasciandosi coinvolgere da lui in un'esigenza che ha del grandioso: la costruzione del regno di Dio, la riconciliazione in Cristo degli uomini e del creato.
E man mano che la propria povertà scava l'immagine dell'uomo «nuovo», costui ha la capacità «nuova» di amare, perché egli è nato da Dio (Giov. 1, 12; 1Giov. 4,7)
La solitudine, che sta diventando un'esigenza forte della mia vita, mi sta portando, giorno dopo giorno, a ricercare profondamente questa comunione intima e personale (spero non intimistica e individualistica) con Dio, la quale mentre richiama e rimanda alla comunione con gli altri e con il creato intero, resta sempre qualcosa di grande e di trascendente perché «dono» «gratuito» di Dio.
Termino.
E' già notte fonda. La luna é alta nel cielo, qualche cicala canta sola nella notte: natura «pacificata», pronta a vivere pienamente un altro giorno e a manifestare in modo sempre nuovo la gloria di Dio.
Baldassare
* * *
Carissimo,
è da tempo che desideravo scriverti. per ringraziarti del dono che mi fai, pur senza conoscermi, del tuo e vostro «Lotta come Amore». E', ogni volta, l'incontro, intenso e gioioso, con una comunità di fratelli che si sforza di render conto agli uomini della speranza che è in noi (1 Pt, 3,15). E' la trasparenza di una vita, di una passione per gli uomini, che sento tanto vicina alla mia storia, partecipe della medesima luce e del medesimo Amore, che - ormai da dodici anni - mi hanno rapito la mente, il cuore, la vita. Sono prete felice di essere prete, come te: convertito dall'incontro con Dio a diciassette anni, entrato in Seminario a diciotto, divenuto per sempre Sacerdote di Cristo cinque anni fa. Un breve cammino: ma intenso di esperienze, di fraternità ricevuta e donata, di sofferenza sperimentata e condivisa, di speranza, di vita, di morte, di quel pane spezzato che ogni giorno, facendosi carne della mia carne e sangue del mio sangue, mi dà la gioia e la forza di lottare, di fallire, di lottare ancora.
Sono prete di una Chiesa che, come te, amo: la amo perché mi ha dato la Fede e mi dà - così spesso e generosamente - la grazia del perdono e della vita sempre nuova del mio Dio; di una Chiesa che - per questo stesso e appassionato e forse infantile Amore - vorrei, come te, sempre più bella, senza macchia né ruga, trasparente pace e giustizia, vivente memoria dell'Eterno, nel ricorso credibile di Dio agli uomini e in quello fedele e partecipe degli uomini a Dio.
E sono cristiano chiamato - nella comunione dei fratelli, dai volti insieme concreti e uniti al volto dell'unico Sposo - a pensare e ripensare la Fede, di fronte a Dio e per gli uomini nel lavoro teologico.
Capisci allora quanto ho bisogno della tua e vostra preghiera e di testimonianza di Fede nelle lotte come le vostre. Vorrei dirti tanto altro ancora: che prego per te, che ti sono vicino nelle tue scelte di Amore di ogni giorno, che condivido tutta quella vostra febbre di giustizia che vi appassiona così tanto... ti dico solo: grazie, perché è bello sentirsi in comunione di luce e di speranza con te.
Sentiti amato dal Padre, sempre. Tuo
B.F.
* * *
Carissimo, perdonami se non ti scrivo mai ma tu lo sai che se sto nel quartiere è impossibile: il mio tempo me lo prendono tutto gli altri. Così dopo tanti giorni in cui si accavallano le cose, la vita di tutti i giorni diventa sempre più da un lato pesante e monotona e da un altro sempre nuova e meravigliosa.
Ci vuole sempre una grande Fede e sempre più Dio si arrangia benissimo perché si viva unicamente di quella.
Però oggi essendo libera dal mio lavoro sono venuta su questi scogli, in riva al mare. Dirti la meraviglia di qui è impossibile. E' una giornata stupenda, un cielo azzurro intenso e un mare lievemente increspato da una brezza purissima, un sole che brucia ancora anche se l'aria è fresca. L'acqua del mare è di una trasparenza cristallina, una distesa di scogli fioriti di alghe bellissime sotto il sole, si vede chiaro il fondo del mare. Ho una voglia tremenda di fare il bagno su questa scogliera deserta e meravigliosa ma non ho niente per cambiarmi. Allora mi lascio andare al mio Dio, libera e Felice! Certo ho nel cuore tutti quelli che amo, ma oggi avevo un desiderio immenso di stare con Dio, sola, e ti assicuro che Lui mi colma al di là dell'impossibile, con una serenità profonda e con una gioia nuova, dolcissima, inesprimibile, semplice, unica... che è tutt'uno con la Sua Presenza che è totale e mi avvolge e mi penetra tutta..
Sono ormai diverse ore che sono qui su questo scoglio solitario che è come una piccola isola in mezzo al mare, eppure mi sembrano pochi attimi d'infinita stupenda meraviglia. Pensavo di pregare, leggere, ma non riesco a niente e non faccio nessun tentativo, sto nella Presenza di Dio e mi sembra che tutto è una preghiera viva e una lode stupenda di tutto l'essere e di tutte le cose create da Lui.
Dovrebbe essere così la nostra vita: vivere semplicemente e intensamente con Lui sempre... e invece come sono presa da tante cose, da tante persone, dal lavoro, da tutto.
Quanta sofferenza, quanta miseria! Quanta solitudine: a volte mi sembra di restarne schiacciata perché l'accolgo nel cuore, nell'anima.
L'altra domenica sono andata a trovare le famiglie che stavano con noi nelle baracche, erano sei anni che non le vedevo e in certe famiglie ho ritrovato due o tre bambini che non conoscevo. Dirti la gioia di questa gente e la mia, è impossibile; l'amicizia va proprio al di là del tempo, perché era come se non ci si fosse mai lasciati tanti giovani, tanti uomini operai e venditori ambulanti, tante mamme di famiglia con le quali abbiamo condiviso tutto, l'acqua delle botti che portava il comune, il pane, la gioia e la pena del tirare avanti quei bambini che tanti ho ritrovato grandi coi loro fidanzati e le loro ragazze. R. poi ha otto bambini, suo marito da anni vive con un'altra donna e l'ha lasciata! Tante volte quando stavamo nelle baracche, dopo il lavoro in fabbrica, si faceva l'adorazione in Cappella io e l'altra sorella, ognuna di noi con una bambina piccola in braccio perché R. ne aveva altri quattro piccoli e le gemelle piangevano: se tu le vedessi ora!...
L'altro giorno è stato proprio un dono di Dio ritrovarci, sono ritornata a casa tardi, di notte, con la gioia delle famiglie che avevo visto e la pena di tutte quelle che mi chiamavano dalle finestre e io non sono riuscita ad andare... è impossibile perché sono centinaia di famiglie e come si fa?
Questa è la vita di tutti ed è anche la nostra vita. Quello che conta è che Lui il Signore Gesù viva con noi questa vita dentro l'umanità. Non occorre altro perché tutto abbia un motivo preciso e un senso meraviglioso, è importante che qualcuno dica di sì al Mistero di Dio che continua così la Sua Incarnazione nel cuore dell'umanità e all'incrocio di tutte le strade degli uomini.
Non so perché, ma oggi mi sento così vicina al Papa: me ne è venuta una gioia immensa della scelta di quest'uomo così semplice e così figlio non tanto della Polonia quanto di tutto il popolo di Dio che è nel mondo: di questo popolo di Dio che deve essere l 'umanità più ricca dell'universo perché in esso vive il Figlio di Dio, il fratello nostro e di tutti...
La dolcissima Bontà di Dio e l'Amore meraviglioso del Signore Gesù colmi e trabocchi la nostra vita, poiché è unicamente per questo che siamo venuti al mondo.
Ti saluto in questa luminosità trasparente della Sua Presenza e in questa immensità di bellezza e di pace.
M.
Si tratta di riflessioni personali e quindi vanno tenute di conto in misura molto relativa. Sono provocate da una costatazione: la fatica della Fede si aggrava e si fa sempre più pesante, quasi ad ogni giorno che passa. I motivi che determinano - e hanno tutti il segno dell'inevitabilità, sembra cioè che siano irrimediabili - questa svalutazione della Fede fino al convincimento della sua inutilità, sono ovviamente innumerevoli e non è qui il caso di farne un'analisi.
Ne raccolgo uno di questi motivi, anche perché lo riscontro nella mia fatica di Fede. ma poi mi succede spessissimo di costatarlo, quando c'incontriamo fra amici e parliamo di problemi di Fede, di ricerca di Dio, di preghiera. Succedono un po' a tutti momenti di crisi di difficoltà quando ci capitano situazioni pesanti, vicende dolorose, incomprensioni, colpi duri, nello svolgersi della vicenda della nostra vita.
Ma difficoltà alla Fede spesso non è tanto l'eccezionale, il momento d'emergenza, quanto l'aria che respiriamo, il tran-tran di tutti i giorni, il grigiore per non dire lo squallore delle ventiquattr'ore... il problema cioè del quotidiano. E ormai questa è parola estremamente significativa in questi nostri tempi. Sempre più l'impegno del quotidiano che va vissuto inevitabilmente (il vivere di ogni giorno é spesso una spietata prigione, dove si può avere anche l'impressione di soffocare, ma dalla quale è impossibile liberarci) diventa fatica, come portare pesi insopportabili, come respirare dove non c'è aria respirabile.
L'oppressione del giorno per giorno ci allontana da Dio. Rende Dio lontano, un'altra cosa, troppo diversa dalla realtà che tocchiamo con mano, dura, aspra, terribilmente concreta. E soffocante.
Non ci soccorre e ci consola il pensiero che stiamo facendo la volontà di Dio: perché questa sbriciolatura di se stessi, questo sbocconcellamento del nostro vivere, appare senza significato possibile. Al massimo riusciamo a sopportare, ci riduciamo alla passività, alla rassegnazione: di più é proprio impossibile, ci sembra.
E' pauroso che questa gran parte della nostra vita sia vissuta in un vuoto di Dio: una realtà nella quale Dio non conta niente, fino al punto che quasi nemmeno ci aspettiamo o pretendiamo che Lui possa contare qualcosa.
L'infinito cosa può significare per un granello di sabbia? E separiamo la nostra vita pratica, quella d'ogni giorno, riempita e spesso sopraffatta da mille cose e da innumerevoli pensieri, sensazioni, problemi, dalla presenza di Dio, da una realtà di rapporto con Lui.
La Fede non è luce in una stanza, nella strada, in una fabbrica, in un campo... nel quotidiano della vita. Dio non é Amore fra me e te, con le persone di casa, con la gente con cui parlo e tratto i problemi di ogni giorno.
Quindi Dio non esiste sempre, certamente non esiste tutti i giorni, qualsiasi cosa possa succedere, ma anche se non succede niente perché le cose sono sempre le stesse, ogni giorno sempre quelle.
E impressionante quanto la monotonia quindi la noia e quindi l'asfissia dell'anima, sia malattia di questo nostro tempo.
E è malessere che provoca una strana rabbia, un risentimento misterioso, un nervosismo nascosto, maligno sempre sul punto di esplodere.
Cioè una scontentezza irrimediabile, fino all'intristimento. Fino alla non più volontà di vivere.
Dio ci deve guardare con profonda, infinita pena.
Come una sorgente d'acqua che va a perdersi in un deserto dove si muore di sete.
Come luce di sole, ma le imposte della casa si ostinano a rimanere chiuse.
La materialità del quotidiano con l'oppressione del suo grigiore, del suo non senso, della sua inevitabilità, è un terribile ostacolo alla Fede e un progressivo annebbiarsi dell'idea di Dio.
Come tutto anche la Fede ha bisogno dell'eccezionalità, lo straordinario la provoca e l'accende, i grossi contrasti l'animano e la sostengono.
Mentre rimane esposta al logoramento quando il silenzio l'avvolge perché la solitudine la svanisce e i tempi lunghi la stancano.
Nella monotonia, nel grigiore di ogni giorno, nel tritume della banalità quotidiana, è possibile ritrovare un respiro di valori essenziali, spaziosità interiori dilatate all'infinito, apertura per rapporti profondi e presenze seriamente, concretamente creatrici? E possibile dare significato al niente, rendere abitata la solitudine, ricchezza sovrabbondante la povertà e potenza di vita dove sembra che tutto sia ormai morte?
Penso che spesso il nostro senso di vuoto dipenda da una nostra non conoscenza di Dio.
Non sappiamo chi è Dio e quindi non avvertiamo la sua presenza. Cioè che noi siamo immersi in Lui e quindi colmati. In fondo é vero che la nostra vita non è il nostro vivere ma è il suo vivere: è Lui che vive la nostra vita non siamo noi e tanto meno gli altri e le realtà e i valori che ci circondano e le vicende che avvengono ad essere la nostra vita.
Allora chiaramente tutto è diverso e niente è inutile, a vuoto, senza senso, scolorito, assurdo.
E poi è giusto anche riprendere la considerazione di quello che siamo. Chiunque siamo, ciascuno di noi è un essere umano.
E il nostro corpo è un'infinita preziosità, per se stesso, indipendentemente dalla considerazione di chiunque e dalla svalutazione di attività insignificanti.
E il nostro spirito è vastità di valori: portiamo misteriose possibilità di gioia nel profondo dell'anima, se appena permettiamo che possono liberarsi, sorgenti inesauribili di ideali se consentiamo loro di sprigionarsi, lasciandoci andare con piena e serena fiducia, ad un sognare a cuo-re aperto.
Perché spesso non abbiamo coscienza della nostra dignità e quindi delle nostre capacità a realizzare ciò che di buono e di valido e di estremamente importante è in ciascuno di noi.
Chissà perché così tanto spesso diventiamo prigione del noi stessi migliore, cioè del nostro vero noi stessi e di questa prigione ne siamo i carcerieri spietati e assurdi.
E poi è semplicemente onesto e giusto dare, cioè riconoscere, a questa sbriciolatura del quotidiano i suoi precisi valori.
Non esiste niente che sia niente. Ciò che è dell'uomo ha sempre valore infinito: riassume il mistero dell'universo e ne diventa il segno.
Una stretta di mano vale più dell'accordo che regna fra le galassie. Un sorriso o una lacrima sono più assai del sole al mattino o della cascata di un torrente.
E' perdita irrimediabile lasciar cadere la poesia nascosta nelle cose, la radiosità del sentimento che può illuminare anche l'inutile, il saper dare importanza anche a un filo d'erba.
La banalità non é misurabile dal vuoto di cose importanti, ma dal vuoto di valori dello spirito umano.
Tutto é adorabile, diceva una vecchia frase che mi é sempre rimasta a memoria.
Perché ciò che è dell'uomo è anche di Dio.
Allora anche il quotidiano, qualsiasi quotidiano, è adorabile.
E' assurdo che abbia a slavare e a spengere la Fede ma anzi la deve coraggiosamente impegnare fino alle misure dell'adorazione.
E comunicare al personale di chiunque valori di universalità.
Perché ciò che viene sussurrato all'orecchio nel segreto della propria interiorità viene sicuramente gridato sui tetti, si dilata cioè nello spazio di Dio.
Sarà sempre vero che «chi lotta e soffre su una zolla di terra, lotta e soffre su tutta la terra».
Sirio
Forse, può darsi che solitudine e infinito siano sinonimi: in fondo è possibile che esprimano la stessa condizione interiore. Sta il fatto che la comprensione dell'infinito, spaziosità illimitata, distesa senza misura è realizzabile soltanto nella solitudine. Cioè nella condizione in cui nemmeno una pietra è ad occupare spazio, una stella a segnare confine, nessuno a chiedere qualcosa e tanto meno a prospettarsi come finalità. E' il semplice essere niente, è la liberazione da ogni attesa e tanto più da ogni pretesa. Perché anche l'aspettare spesso è imprigionarsi. E un chiudersi, il desiderio. E un legarsi l'amicizia.
Vi sono due modi di stabilire rapporti con il mondo, le cose, le persone, i problemi ecc. Il primo modo è quello a seguito del quale tutto può diventare importante, decisivo per il semplice fatto che si assolutizza il suo valore: diventa cioè essenziale, è impossibile farne a meno, condiziona, spadroneggia, occupa tutto. Questo modo di rapporto è determinato dalle cose, dalle persone, dai problemi ecc. Diventano motivi di vita. Entrano a far parte della vita e quanto prima in condizioni di dominio assoluto. Diventano la vita stessa. Quando questo succede si rimane senza spazio, senza respiro, senza nemmeno coscienza di se stessi. E' chiaro che diventa impossibile pensare, cioè provare la gioia di avere pensieri, capacità di riflessioni, semplicità e immediatezze di cuore. E' una terribile tristezza, a ben pensarci, questo vivere che non è per niente la propria vita, ma innumerevoli surrogati, questo essere totalmente sostituiti, questo terribile vuoto di se stessi. Può succedere di sapere tante cose (quante in questo mondo tutto informazioni, nozionistico e culturale) e non sapere niente di se stessi. Perché non esiste uno specchio nel quale vedere riflessa la propria interiorità. Il volto dell'anima chi lo conosce, chi ha guardato fin nel profondo di se stesso per scoprire e conoscere la propria identità?
Vi sono stati momenti in cui erano apparsi ideali stupendi all'orizzonte della vita. Poi sono scomparsi, svaniti. Ciò che li ha sostituiti sono realtà pratiche, concrete, è vero, ma terribilmente miserabili al confronto.
Si sono prospettate possibilità di scelte per progetti di vita adorabili, meravigliosi, esaltanti, ma poi ci siamo voltati da un'altra parte e abbiamo preso altra strada. Ogni tanto affiora il rincrescimento, qualche ritorno di memoria, attimi di un ripensare che forse sarebbe stato meglio diversamente. Ma poi con rassegnazione, come il cavallo il cavaliere e l'asino il suo basto, le spalle si curvano, ma più ancora il cuore, sotto il peso del fardello e si riprende il solito cammino sulla solita strada.
Piuttosto che il momento della rassegnazione che spesso è soltanto passività come fuoco che va spengendosi, sarebbe l'occasione propizia per tentare il secondo rapporto con le cose, il mondo, la vita ecc. Il momento cioè di affrontare con coraggio la solitudine e cercare di trovarvi la terra adatta, il clima giusto per riprendere vita, animarsi e riaccendere a fuoco vivo la speranza.
Perché la solitudine è immenso valore e fondamentale, nella vita. Il nascere è uscire da un rapporto di comunione e l'inizio della solitudine. Entrare nella vita è cominciare a vivere da soli. E' molto vero assai di più di quello che immaginiamo. Ognuno è unicamente se stesso nella vita fisica, almeno nelle realtà vitali, essenziali: la superficie epidermica del nostro corpo racchiude uno spazio che è solitudine. Viviamo fisicamente da soli e rifacendosi totalmente a se stessi e moriamo da soli. Ma così è anche il nostro spirito, la nostra interiorità. Dipendenti e condizionati spesso in maniere orrende, prepotenti e in misure da schiavizzazione, pure la personalità, cioè il noi stessi, non scompare nella soffocazione, si affaccia spesso ed emerge, forse in modi assurdi, ma rivela la propria esistenza. Ma tanto più il noi stessi è quel segreto che si muove nel nostro fondo e sottofondo, certa misteriosa sensibilità, strane paure, spesso impressioni inspiegabili: affiorano sogni, ideali, fascini improvvisi, da chiudere gli occhi per un attimo, come rapiti, portati via da visioni improvvise, per poi riscuotersi come costretti a ritoccare terra e viene da scuotere la testa come per scacciare qualcosa: no, sarebbe il momento giusto e infinitamente prezioso per fermare quelle visioni, quelle impressioni, quegli schiarori improvvisi. Perché è la solitudine del se stessi che si manifesta e reclama attenzione per un raccogliere ciò che è disperso, frantumato, richiamare il dimenticato, risognare il progetto. Il tuo vero essere, la tua umanità, il tuo te stesso, è quella solitudine, cioè il tuo essere solo, solo tu, unicamente tu.
La liberazione, cioè il ridimensionamento di tutte le cose, lo sgombrare ogni valore da accentuazioni artificiose e sciocche, il ritrovare pace e lasciar cadere ogni sopraffazione, la capacità istintiva - questa coscienza illuminata di dare a ciascuna cosa il suo giusto valore e decidere attivamente, per precisa scelta, la qualità e la misura di rapporto e di riflesso con se stessi e con la vita, - questa liberazione è avvio a prendere coscienza dell'insostituibile valore della solitudine.
E' cominciare a salire il pendio della montagna, lasciandosi dietro il mondo a rimpiccolirsi sempre più, a perdere cioè le dimensioni moltiplicate dai nostri egoismi e dalle nostre schiavitù. E' aprire la nascosta porta dell'eremo che è il proprio cuore, dove entrare e rimanere nel segreto a cercare di conoscere il «mio cuore». E poi il silenzio della vastità dello spirito s'impone e apre alla conoscenza dell'anima, cioè di quel mistero nascosto nella profondità del proprio «io». Perché non conoscere l'anima è non sapere nulla di se stessi. E allora è ridicola e penosa la conoscenza anche di tutte le scienze e filosofie e teologie...
In questa solitudine una volta ottenuta - e può essere indispensabile uno spazio di tempo e un lungo silenzio, ma più che tutto è problema di liberazione perché il silenzio potrebbe essere spengere il televisore o chiacchierare assai di meno o leggere qualcosa di più «silenzioso» e la realtà dell'anima è una montagna dalle sette balze e deserto sterminato per chi si mette sulle sue strade - in questa solitudine avverrà il miracolo di essere soli eppure meravigliosamente insieme. Perché I'incomunicabilità - questo cancro della pace del nostro tempo - è soltanto la solitudine accolta ed amata che può risolverla ed aprirla fino alla tenerezza e alla gioia del vivere insieme.
E' la solitudine che vince gli egoismi perché è superamento e liberazione dal particolarismo e, può sembrare strano ma è così, dal privato, dall'istinto della privatizzazione, dalla tentazione all'individualistico.
La solitudine è lo spazio abitabile da folle, moltitudini, popoli, umanità intera. L'unico spazio dove «l'altro» può ritrovarsi come a casa sua.
E più ancora Dio è nella solitudine. Cioè dove è possibile l'incontro d'Amore. Il tu per tu, a faccia a faccia, Dio e unicamente l'uomo. Spesso non c'incontriamo con Dio perché non siamo soli, cioè io solo, liberato e purificato da tutta quella sopraffazione che seppellisce la nostra identità fino alla sparizione, da non poter nemmeno scorgere l'ombra di noi stessi.
La solitudine è l'unica condizione di vita dove è impossibile l'idolatria.
E quindi dove Dio è veramente Dio.
Sirio
Quando verseremo la nostra ultima lacrima
inutilmente,
e l'eco della nostra risata si perderà tra i boschi,
no, non cederemo.
Quando non apprezzeremo più il sorriso di un amico
e la gioia che può dare la musica,
no, non cederemo.
Quando la nostra follia verrà scambiata per anticonformismo,
e il nostro pensiero per intellettualismo,
no, non cederemo.
Quando non ci faranno volare sopra le nubi,
e girare per il mondo,
no, non cederemo.
Quando ci proibiranno di sognare,
quando ci toglieranno la fantasia,
forse, allora, moriremo.
E. P.
Nella storia del mondo (non storia di uomini soltanto, ma storia di Dio e di umanità, un giorno o migliaia di anni è lo stesso) è entrata una storia, la storia di una vita, di un uomo. Il suo nome è Gesù. Il suo nome proprio, di battesimo si direbbe. E' il nome di un uomo (come è per tanti altri uomini e donne) la cui storia ha impressionato e scosso la gente della terra dove è vissuto.
E' senza dubbio una storia eccezionale, così tanto che non si è conclusa con la sua morte (e è stata morte che doveva e voleva veramente concludere quella vita) ma è continuata, anche perché nella sua storia si racconta che dopo quella sua morte, è tornato a vivere, è risorto: difatti la sua storia continua a essere viva certamente non tanto per tutti quelli che hanno creduto in lui, ma perché è la storia di uno che ha continuato a vivere sempre.
E' vivo anche oggi. In virtù di se stesso e per la forza del suo vivere (infatti diceva: io sono la vita).
Al suo nome di battesimo, al suo nome al quale è legata la sua vicenda di vita, sono stati aggiunti molti altri nomi, come degli aggettivi di specificazione, come dei titoli per indicare meglio e più totalmente il suo vero essere. E quindi Gesù viene chiamato Cristo, il Messia, il figlio dell'Uomo, il figlio di Dio (cognomi che Gesù stesso si dava per farsi conoscere in tutto quello che lui è) mae-stro, pastore, nazareno, il Signore, il salvatore, il redentore, ecc.
E' la fede che vede e crede che a Gesù appartengano tutti questi titoli. E' la Fede cristiana. Però rimane vero che se si vuole dire chi sia il Cristo, il figlio dell'Uomo, il figlio di Dio, il salvatore, ecc., bisogna sempre riferirci a Gesù e alla sua storia.
La sua storia non può essere sostituita da un'altra storia o dalla storia di altri.
Il suo volto (e crediamo che sia il volto umano di Dio) è quello di Gesù e non quello di qualsiasi altro uomo o immagine di Dio.
Il suo insegnamento, la sua dottrina, le sue parole sono quelle di Gesù e non quelle di qualsiasi altra dottrina o teologia o magistero.
L'identità del cristiano e quindi della Chiesa (la comunità dei credenti in Lui) si giudica e si ottiene unicamente attraverso il criterio che è la storia di Gesù.
La fede in Gesù è la scelta di un uomo che è sicuramente il Cristo, il figlio di Dio, ma è quindi scelta di fede in una storia, in un racconto di episodi e di parole che comunemente da sempre si chiama il Vangelo.
Nella ricerca di una sincerità cristiana, cioè di una fedeltà o infedeltà a Gesù, di un'accoglienza o di una respinta, di un consenso o di un dissenso, cerchiamo qualche pagina di Vangelo sulla quale verificare il Cristianesimo, la Fede cristiana, di ciascuno di noi e del nostro tempo.
La voce
L'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth e il suo nome era Maria.
E alla proposta dell'angelo se accettava o no di essere la madre di Gesù, il figlio di Dio, rispose: eccomi, sono la serva di Dio, fa di me ciò che Lui vuole.
Una ragazza è seduta nel raggio di luce e comincia a parlare:
Non so come spiegare, come chiarire il mistero, perché di mistero io devo parlare.
Come una piccola luce, accesasi nella profondità del mio seno, e si è andata accendendo sempre di più, un'idea, come uno strano, impensabile progetto, mi ha posseduta. Non ho potuto fare altro che lasciarmi andare, dire di sì a una maternità nuova e mi è andata crescendo nel cuore, nell'anima.
Non ho una casa perché tutta la terra è la mia casa. L'umanità tutta è la mia famiglia. E mio figlio sono migliaia di figli.
Non potrò mai avere una storia mia, personale, perché sono un segno di tutta una storia che investe il mondo, a renderlo terra di uomini e non di disumanità.
Sono nulla, povera serva di tutti, ma l'anima mia magnifica la potenza di Dio a disperdere gli orgogliosi nei pensieri del loro cuore.
Eccomi, ad essere coinvolta e travolta nel suo mistero di Amore e discriminare e dividere il mondo.
Sarò con lui a tentare la giustizia fra gli uomini deponendo i potenti dai troni e innalzando i poveri, gli emarginati, gli oppressi, perché finalmente il pane della fraternità e dignità umana abbiano gli affamati di giustizia nel mondo e sia svuotata, annientata, ridotta a cenere la ricchezza dei ricchi. Perché ogni uomo, non sia ricco o povero, ma uomo.
Questo uomo è mio figlio, quest'umanità la mia famiglia, questa lotta il mio Amore.
Perché Dio ha consegnato alla mia nullità un motivo di vita che si rifletta in gloria di generazione in generazione.
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455