LOTTA COME AMORE: LcA gennaio 1978

Siamo ancora vivi

Riprendiamo e vorremmo essere puntuali ad una fedeltà d'incontro almeno ogni due mesi, l'invio agli amici di queste poche umili pagine: un giornaletto da niente, è molto vero e può venire anche legittimamente il dubbio se la spesa che inevitabilmente occorre per la stampa e la spedizione, sia giustificata o no.
Spesa di soldi, di tempo, di forze ecc. Rischio dell'inutile, di scocciare la gente, di farci compatire.. tentativo fasullo di voler rimanere ad ogni costo vivi sulla piazza della carta stampata, mantenimento sciocco e presuntuoso di vanità assurde.. ricerca di dare corpo ai sogni, carne e sangue a fantasmi, ostinazione a camminare sulle nuvole invece che sulle strade acciottolate della storia attuale.. ostinazione misticheggiante di una ricerca di Dio invece di un impatto coll'uomo nel sociale, nel cosiddetto politico, nell'esistenziale, insomma.. questa orgogliosità della solitudine invece dell'incontro fraterno nell'ecclesiastico, questa mania di profetismo e ci sarebbe tanto da "evangelizzare", misticismi di preghiera, profondità contemplativa, mentre il temporale va in rovina, le strutture si sgretolano, l'empietà dilaga...
Accenni, appena, di tutto quello che risuona intorno alla nostra povera esistenza, chiusa ormai in una tenacia che molte volte, anche a noi appare e forse è realmente, un difendersi. E' molto difficile in questi nostri tempi - come in tanti altri certamente - riuscire a distinguere bene la fedeltà dall'orgoglio, la perseveranza dall'ostinazione. Sappiamo bene di correre questo rischio insieme ad altri ancora più preoccupanti, ma non possiamo sottrarci al convincimento di dover versare anche la nostra goccia d'acqua in cima alla punta di un dito, nella grande arsione che sta bruciando di sete il nostro tempo.
Al mattino una goccia di rugiada a pencolare da una foglia o da un filo d'erba, sa di miracolo, specialmente se un raggio di luce la investe colmandola di splendore. La radiosità dell'arcobaleno contro un cielo grigio di tempesta, è rifrazione di minuscole goccioline di pioggia... .
Allora c'è speranza anche per noi. Ma nel caso che non ci venga concessa dall'opinione pubblica e dal giudizio di quelli che contano, la fiducia di un qualche significato la raccogliamo nel nostro cuore ma più che tutto la nostra Fede. Non diciamo certamente che Dio è con noi e quindi ce ne freghiamo di tutti: ma semplicemente che lo spazio di Dio è incomparabilmente più vasto di quello ritrovabile fra gli uomini. Crediamo che nell'immensità dello spazio di Dio ci possa essere un angolino anche per noi e forse anche per queste umili e insignificanti paginette•. E può anche succedere che in questa vastità di Dio, il muoversi sia assai più consentito e possibile e quindi l'incontrarsi e poi parlarsi e cioè dirci le cose che pensiamo con totale immediata e sincerità: perché nella realtà di Dio - cioè dove Dio è pienezza, totalità - l'amicizia è ancora possibile e quindi l'intendersi, il capirsi è cosa molto semplice, facile e bellissima.
Se quando riceverete questo piccolo foglio e trovate il tempo di ascoltarne il cuore, vi è dato come d'incontrarvi con persone amiche, come ritrovate dopo tanto tempo, a impiegare del tempo ecc.
Se poi succedesse, come al tempo dei profeti e dei miracoli, che qualcosa si accenda nei crepuscoli e ombre della vostra giornata per una speranza diversa, per nuova fiducia, perché qualcosa - e può essere anche un lontanissimo accenno, un germoglio appena spuntato dell'albero secco - qualcosa che può essere Dio, bisogno di Lui, un sognarlo, un intravedere la preziosità essenziale per il mistero della nostra vita e quello dell'umanità intera, allora la nostra ostinazione a credere in Dio e la nostra testardaggine a proporne la Fede anche ad altri, è abbondantemente ricompensata.

La Redazione

Lettera ai fratelli e sorelle

che vivono in solitudine

Una delle difficoltà che hanno impedito il mettere insieme queste paginette sulla linea del nuovo corso dato a "Lotta come Amore» fin dall'aprile del '77 (solo questo numero è uscito nell'anno passato) una delle difficoltà è venuta fuori dall'esiguo numero dal quale la nostra comunità è attualmente formata e dal suo significato sempre più andato riducendosi.
Pochissimi e nemmeno in condizioni di rappresentare localmente un qualche significato concreto o comunque di ricerca. Non abbiamo forse nulla da offrire come esemplificazione d'impegno o di valori comunitari. Siamo senza un gruppo, come dire di ricerca biblica, di coscientizzazione comunitaria e nemmeno una comunità di preghiera...
Siamo realmente niente perché dire poveri è troppo poco, cari amici. Eppure conserviamo la presunzione di avere tantissimo. fin quasi da poter offrire qualcosa. Che cosa non sappiamo bene. Ma per esempio che la luce non si è andata spengendo e non siamo nemmeno disposti a tenerla sotto il moggio. Che non siamo dei rassegnati al compromesso, da quello storico a quello di tutti i giorni. Che intendiamo, a costo di tutto, continuare a sostenere, con serenità e forza, la fatica della Fede di Dio, in Gesù Cristo e quindi nell'umanità. Ancora e più profondamente per non dire più violentemente, la preghiera ci scuote e ci agita, come vento impetuoso fin dalle radici e impedisce un ripiegamento, almeno per ora, eremitico e tanto meno disincarnato. E la scelta di Dio ancora percuote nel vivo la carne e l'anima costringendo a camminare, a gridare, se non altro a cercare, come quando si cammina a tentoni, non molto di più che al lume delle stelle.
Quando non si ha più nulla e non si è più nulla è forse allora il momento di dare qualcosa. Se non altro la testimonianza di un non arrendersi, ma di crederci ancora e forse assai più di prima.
Gli amici che sono un po' avanti negli anni ricorderanno un mensile, si chiamava «La voce dei poveri» che praticamente mettevo insieme da solo: e avevo intensissima la vivacità e la forza di un lavorare alla preparazione, di un faticare appassionato al dissodamento, perché sarebbero dovuti venire gli anni belli di una mietitura per molte cose sperate, per novità sognate.
Ora (e di quanta amarezza e di quanta stanchezza potrebbe essere motivo la memoria degli anni dal '56 a questo inizio del '78, su tutta la realtà, da quella personale, comunitaria, ecclesiale, sociale, politica, culturale ... ) ora, in questo preciso momento, la fatica è incredibilmente più pesante, verrebbe da dire: basta, tanto non ce la faccio a camminare ancora e cioè a credere, a sperare.
Invece non è così. La chiarezza interiore è intatta, freschissima, nonostante che gli anni annebbino le capacità visive e le trasparenze intellettive. La scelta di Dio si è andata sempre più radicalizzando, assolutizzandosi senza vacui misticismi e teologie alienanti e tanto meno con disincarnazioni e devozionalismi.
Il «sì» è diventato ancora di più «sì» e il «no», «no» e non per esclusivismi o separazioni, intransigenze o peggio ancora integrismi, ma semplicemente per una essenzializzazione sempre più serena e liberata, una più allargata capacità di accoglienza e quindi anche una maggiore necessità di discernimento e di scelta: di qui un accentuarsi di senso di responsabilità, per dir così, storica, cioè attualizzata nel momento che volge. Ne viene logicamente una caratterizzazione personale che potrebbe anche essere crescita e maturazione: ci sta che possa essere accolta con benevolenza, può risultare anche mascheramento e artificiosità ed essere cordialmente respinta.
E' esperienza di sempre ma particolarmente di questi ultimi tempi.
Può darsi che sia venuto il momento per me di tirare, come si suol dire, i remi in barca, non avendo più cose da dire e tanto più da offrire e a questo sto riflettendo seriamente cercando di cogliere i segni, sulla terra e in cielo, che mi manifestino se e in che cosa devo ancora impegnare i giorni, pochi o tanti che siano, che la Volontà di Dio mi vuole regalare.
Nel frattempo mi è sembrato che un piccolo servizio poteva darsi che ancora mi fosse concesso di offrire a tanti amici e anche a questo tempo e al mondo del quale ancora mi approfitto e che sfrutto perché mangio pane e respiro ossigeno, levando lo forse a chi ne ha più diritto di me.
E allora ho scritto una lunga lettera, che qui sotto mi permetto di pubblicare, ad una ventina di amici che so in situazione di particolare solitudine e impegnati in una profonda ricerca di Fede in tutto il nostro contemporaneo. Non tutti ma quasi, mi hanno risposto. Alcuni hanno raccolto l'invito ad offrire la fatica della loro ricerca di Fede, come uno che lungo il cammino e a volte la strada è dura e assolata o battuta dal vento, si ferma e prende il suo pane dalla bisaccia lo spezza e lo offre a tutti dicendo: questo è il mio corpo e similmente la borraccia di vino, di bocca in bocca, a ristorare la sete, a riaccendere la forza per continuare la strada.
E' chiaro che ora la lettera è rivolta a tutti. Queste pagine potrebbero essere come quando ci si incontra tra amici e si parla con estrema sincerità e quindi con totale semplicità e immediatezza: quello che viene su, all'improvviso, dal cuore è forse la parte più vera di noi, può essere il traboccare dell'abbondanza che lo Spirito di Dio ha nascosto nell'anima nostra. La comunione è prima di ogni altra cosa rivelazione e totale consegna di noi all'altro.
Forse queste pagine perché possano avere un loro significato dovrebbero essere scritte come quando si offre da bere attingendo direttamente l'acqua al suo scaturire dalla roccia.
Spesso la riflessione, il ragionamento è come l'inquinamento: un intervento «dell'umano» nella freschezza cristallina che pur potrebbe sgorgare dall'anima nostra.
Tendere la mano per una stretta cordiale a significare che sì, siamo insieme, coraggio, bisogna farcela, non avere paura... non la neghiamo mai a nessuno.
Non penso mai ad altro, quando scrivo o quando parlo, ad altro che a dare di sentirmi accanto, a gomito a gomito e a che possano essere incontrati occhi che sorridono e sentire un cuore che batte forte per l'emozione e ascoltare una parola che se è Dio sia più possibile Dio, se è Uomo sia veramente Uomo e se è Gesù Cristo sia veramente Dio e Uomo. E non per fare della catechesi o della pastorale ma unicamente per credere nella vita e coinvolgersi nella storia.
E sapere che io, tu e ogni uomo e ogni donna non siamo soli.


Ai fratelli e sorelle che vivono in solitudine
Cari fratelli e sorelle,
vi prego di non sorprendervi di una così lunga lettera. e ho speranza che non vi sia di distrazione inutile, nella vostra solitudine, il dover leggere (se volete darmene la consolazione) tutte queste pagine.
Sono sicuro che voi sapete che ogni parola, anche se tanto povera, la raccolgo nel più profondo della mia anima, tant'é vero che ho perfino l'ardire di pensare che non sia soltanto parola mia, ma un po' dettata anche dallo Spirito di Dio che veramente, come il vento soffia dove vuole...
Mi è venuto in cuore di comunicarvi tutto un progetto, nella speranza di trovare insieme a voi, se è possibile e se la dolce Bontà di Dio ce ne dà l'ispirazione e la grazia, una realizzazione, o meglio, una qualche possibilità di risposta.
Perché, per quanto a me è dato di comprendere, questo progetto (che poi non è niente di eccezionale ma è realmente poverissima cosa) investe e riguarda tutto un problema che non è soltanto mio, ma, mi è stato dato di intendere, è anche vostro, in qualche modo mi sembra che ci appartenga e per molti motivi estremamente chiari che poi vi accennerò.
E' però anche e particolarmente gravissimo problema della Chiesa, se ancora la Chiesa vuole e può essere segno di Dio nel mondo e presenza visibile e vivente di Gesù Cristo nella storia, cioè in tutto il Mistero della realtà umana.
E è problema impressionante (perché i segni pare quasi che parlino di fine dei tempi) di questo tempo che stiamo vivendo, di questa attuale condizione di uomini e di donne, se è vero che l'umanità vuole e può sopravvivere come umanità.
Mi rivolgo a voi perché in un modo o in un altro, a seguito delle vicende che vi hanno coinvolto e travolto, per volontà di uomini o per vostra personale elezione o per una precisa chiamata di Dio, vi trovate in solitudine.
E per solitudine intendo particolarmente una condizione di un vivere anche esteriore oppure soltanto interiormente, nella quale l'unica motivazione, l'unica spiegazione di questo tipo, di questa realtà di vita, sia unicamente Dio. Una vita spiegabile unicamente con Dio, comprensibile e giustificabile soltanto nella Fede.
Vi dirò con semplicità e a cuore aperto, quello che porto nell'anima, raccolgo tutto, così come mi viene, senza preoccuparmi che l'esposizione sia ben ordinata e tanto più esauriente. Me ne perdonerete, ne sono sicuro.
Il Mistero del come Dio conduce il compimento del suo Regno nel mondo, è veramente grande perché innumerevoli e soltanto note a Lui solo, sono le sue vie.
D'altra parte la nostra Fede (ogni e qualsiasi ricerca religiosa) è chiamata per sua natura, nell'illuminazione della luce di Dio, a intuire il disegno di Dio, quello rivelato indicazione di quello che deve ancora rivelarsi, e a cercare di consentivi con totale Amore.
E' per questo (e chissà quanto il motivo è profondissimo) la conoscenza contemplativa di Dio è in attesa di essere ritrovata in tutta la sua luminosità.
E la conoscenza dell'uomo, dell'umanità, ha terribile urgenza di essere riscoperta come fondante, perché essenziale conoscenza, nel Mistero di Dio.
Il discorso è molto grosso (molto più di me, ovviamente, mediocrissimo uomo, in tante cose, ma tanto più in questa capacità contemplativa) ma mi è chiaro spesso quando nel profondo dell'anima, vivo la sorte di questo nostro tempo e la condizione storica dell'umanità nel mondo e nello stesso momento, la preghiera e cioè la visione di Fede, mi inquadra questa paurosa scena umana nella vivissima luce di Dio.
Perché la preghiera è conoscenza di Dio e dell'uomo. E oggetto e causa di contemplazione è Dio e l'uomo. E' lo stesso occhio che vede e lo stesso spirito che adora. E' lo stesso cuore che infinitamente ama.
Credo che l'umanità ha molto bisogno che degli occhi siano purificati sì che possano ritrovarsi capaci della visione di Dio. Perché se l'occhio è limpido tutto il corpo è nella luce.
É questa purificazione che lo Spirito di Dio sta cercando di ottenere nella Chiesa che dovrebbe essere l'occhio dell'umanità capace della visione di Dio. E' lavoro estremamente faticoso e solo Dio sa questa purificazione che crogiuolo dovrà affrontare e sostenere.
Intanto però, per tornare a. noi, forse sarebbe cosa buona considerare che noi siamo stati liberati di molti pesi e impegni e responsabilità. Perché purificazione e liberazione possono anche voler dire solitudine, cioè povertà, semplice e nuda.
E' sconfitta la nostra come per chi perde battaglie, o è trionfo della gloria di Dio per nostro Amore e non solo di noi?
Ci hanno ridotto alla solitudine l'istituzione gerarchica della Chiesa, il disorientamento culturale, la civiltà del benessere, la vicenda politica ecc. di questo nostro tempo, oppure ci ha ridotto e separato nella solitudine, quasi in condizioni di vita eremitica, la potenza dello Spirito di Dio?
E' problema molto serio e carico di enormi responsabilità, a mio avviso e non possiamo in coscienza non rendercene conto . Cosa che voi certamente già fate e lodevolmente e che io invece, non ho ancora forse incominciato nemmeno a tentare.
Ma sono già però assai nella solitudine se la ricerca di Dio mi si sta manifestando come richiamo per me che va sempre più assolutizzandosi fino a farsi nell'anima mia l'unica voce.
E vedo e intendo con la povera intuizione della mia Fede che Dio è da ritrovarsi in tutta la sua misteriosa presenza nel mondo, in ogni essere umano e in tutta l'umanità.
E' di qui l'urgenza, come dovere di Comunione con Dio e con l'uomo, di preghiera. Di preghiera di adorazione, silenziosa e dilatata alle misure dell'infinità di Dio.
Di preghiera d'implorazione, paziente e fiduciosa, per la salvezza del mondo. Ma anche di preghiera che ritrova e chiarisce il rapporto fra Dio e l'uomo, fino al punto da riscoprire la sorgente dove il popolo possa dissetarsi e dove possa raccogliere il pane per sfamarsi.
Perché è la preghiera che insegnerà l'umano e cioè la libertà, la giustizia, l'uguaglianza, la fraternità: cioè l'umanità nuova.
Ma voi sapete molto meglio di me tutte queste cose e molte altre assai, quindi non occorre che io in questo momento ve ne scriva.
Quello che io volevo proporvi è questo.
Può darsi che conosciate quel mio periodico "Lotta come Amore". Per diversi anni è stato un grosso impegno per noi, piccola comunità, per cercare di portare una lotta di rinnovamento nella Chiesa, non per polemica o crisi di valori ecclesiali ma unicamente per fedeltà, attaccamento, Amore alla Chiesa.
Mi sono avveduto che forse non vi era più motivo per continuare questo impegno. Forse anche per stanchezza, per sfiducia, perfino forse per una sentita impossibilità di speranza.
Mentre invece mi è apparso progetto da raccogliere il dedicarsi a questa ricerca di Dio nel contemporaneo. Cercare di scoprire nel profondo dell'anima propria e in tutta la realtà del mondo, il Mistero della Presenza di Dio e offrire questa esperienza di ricerca, questa adorabile fatica di Fede, questo abbandonarsi alla preghiera come compromissione totale nella vita e nella storia.
Penso che la Chiesa abbia questo estremo bisogno: che il Mistero di Dio sia di nuovo la sua unica ragione d'essere nella storia. Dio nella chiarità del suo Essere, nella potenza della sua presenza, nella continuità della sua creazione, Dio nel suo essere Padre. La Chiesa ha bisogno della Buona Notizia: la Fede in Gesù Cristo, manifestazione perfetta di Dio e dell'uomo: sintesi adorabile di Dio e dell'Uomo.
E così e forse ancora di più quest'unica sorgente di vita misteriosamente la cerca la gente della strada che si ostina a sperare, il popolo che continua a voler credere, la cultura che non accetta imprigionamenti o livellamenti e tanto più chi ancora è deciso a lottare, a dare il meglio di se, a voler vivere di Amore, perché crede tenacemente, ostinatamente, nonostante le tremende delusioni e amarezze, crede ad una umanità diversa, ad un'esistenza umana nuova.
Può darsi che questa profezia di Dio nel nostro tempo lo Spirito di Dio stia, attraverso le sue vie misteriose, risvegliando.
Riflettendo alla nostra storia, così come le nostre cose sono andate (e perdonatemi se mi permetto di allineare la mia storia, così sbiadita e insignificante, alla vostra vicenda personale senza dubbio più ricca e rigogliosa di valori e di fruttificazioni), riflettendo alla nostra storia, mi è apparsa l'idea che Dio ci abbia a consegnare questa profezia.
I motivi di questa impressione sono molti, ma uno specialmente mi convince: fin qui e le vicende non sono state davvero favorevoli, la grazia di Dio ha conservato in noi la Fede. Purissima potenza del suo Miracolo di Amore in noi: credo che sia onesto riconoscerla.
E' chiaro che non può essere soltanto per noi questo adorabile dono di Dio.
Tutto questo lungo discorso (e ve ne chiedo perdono) per offrirvi questo nostro periodico dove raccontare la nostra ricerca personale di Fede, la nostra esperienza di Dio.
Perché di fogli e riviste cariche di teologia ve ne sono molte: ma la chiarezza e la spontaneità della profezia di Dio sono un'altra cosa.
Offrire la nostra Fede è assai più che consegnare l'anima nostra. E comunicare il nostro incentrarci con Dio in se stesso e Dio nel mondo che è Gesù Cristo e la conoscenza e l'Amore per l'uomo e per l'umanità tutta, rivelata in noi dallo Spirito, è qualcosa come dare a mangiare la propria carne e bere il proprio sangue.
Credo che questo sia l'Amore vero che dobbiamo all'umanità, con tutto il rispetto per chi altre cose offre.
Della spesa occorrente possiamo occuparcene noi con il nostro lavoro: così anche questo lavoro manuale acquista un motivo di Fede, dato che gli è rimasto poc'altro significato.
Voi potete inviare elenchi d'indirizzi che vi stanno particolarmente a cuore per l'accoglienza di questa profezia. E noi provvediamo alla spedizione postale.
Non so se avete visto l'unico numero che abbiamo messo, insieme quest'anno, a primavera: avrete notato la ricerca, sia pure semplice e povera, di obbedire a questa novità.
Potrebbe forse essere cosa buona e dolcemente consolante, incontrarci e stare insieme, pregando e discorrendo, un po' di tempo: molte cose forse lo Spirito di Dio potrebbe darci di poter comunicare fra noi e altri di vostra conoscenza e dei quali io non ho notizia o di cui io posso non essermi ricordato.
Ecco che io dalla mia solitudine ho parlato alla vostra, ma più che tutto vi ho aperto il mio cuore nella fiducia che la Parola che vi ho rivolto sia buona, cioè non sia parola mia ma una Parola di Dio.
Se non altro tutto può essere adorabile e prezioso perché è senza dubbio Amore fraterno da parte mia per voi e considerazione e profondo rispetto e stima.
Insieme a tutti questi sentimenti vi prego di accogliermi nel vostro cuore e di custodirmi nella vostra preghiera.

Sirio Politi


Fedeltà a Dio

Caro Sirio,
non posso eludere una risposta alla tua del settembre scorso. Tutte le volte che ci incontriamo parliamo del problema di Dio e tutte le volte ci sembra di essere d'accordo, decidiamo di non fermarci nel cammino.
C'è, però, sempre un «ma» che non ci lascia soddisfatti e ci induce a riprendere l'argomento. La ricerca di uno stile di vita in cui Dio sia la presenza accolta, amata, donata, condivisa, caratterizza nel fondo le aspirazioni più autentiche delle nostre povere vite e oggi diventa tormento perché il Dio che ci ha fatto incontrare sembra che ci divida e rischia di non unirci più.
A pensarci bene, però, constato sempre più chiaramente che non è Dio che ci divide ma una rappresentazione del rapporto interumano che attribuiamo a Lui. Sono convinto che per incontrarci in Dio abbiamo bisogno di incontrarcì nell'uomo nel quale Egli si è rivelato, abbiamo bisogno di riconciliarci con l'uomo, Da un po' vado riflettendo sulla struttura dell'Alleanza. E' Dio, l'Invisibile, l'Ineffabile, che la fa, ma la fa con gli uomini che accettano di essere in comunione con Colui nel quale Egli si compiace. I due pezzi che Egli unisce nel fuoco e nel sangue sono omogenei, sono due pezzi di una medesima realtà ed è questa che Egli trasforma con la sua presenza. La convinzione fondamentale della fede ebraica ritiene che Dio, proprio in ragione della sua identità, non può essere incontrato faccia a faccia. Il N.T. ribadisce che nessuno mai l'ha visto e che solo Suo Figlio ce lo può rivelare. A Dio perveniamo seguendo la traccia che Egli ci ha lasciato di sé, nell'Uomo nuovo nel quale si è compiaciuto e cioè in Colui che nella sua vita ha abbattuto le barriere e ha riconciliato, convertito, nell'unità i dispersi e gli antagonisti.
Non ti svelo una novità; vorrei esporti una riflessione su cui spesso mi soffermo. E' necessario recuperare esistenzialmente, non a parole, un consenso operativo sull'immagine di donna e uomo che ispira la nostra presenza nella storia e, per conseguenza, il nostro riferirci a Dio. Mi pare di intuire qualcosa su questo punto e te la manifesto così come la sento.
Abbiamo pensato i rapporti interumani (anche quando in concreto, per quell'incoerenza che è la fonte della grandezza e della miseria del vissuto, ci siamo comportati diversamente) si strutturassero sul principio della gerarchia e della subordinazione. Tutta la realtà personale, interpersonale, sociale, era ordinata e pensata come centrata nel capo che garantiva tanto più se stesso e gli altri se capace di servirsi di tutti e di armonizzare l'apporto di tutti verso le mete che si costituiva. Nell'interno della persona il capo, sarà stato la ragione o la volontà, era certo una facoltà spirituale che affermava se stessa quando riusciva a tenere a bada la sensibilità e il corpo. Nel rapporto interpersonale, soprattutto in quello uomo-donna, l'armonia dipendeva dal prestigio che l'uomo riusciva a sprigionare e dalla sicurezza che con la sua autorità e presenza riusciva a conferire a tutti coloro che a lui erano subordinati e che erano tanto più gratificati e protetti quanto più erano sottomessi al capo. Sul piano sociale (civile e religioso) l'ordine era garantito dalla presenza di un campo imparziale, che mirava al bene di tutti senza riguardo a nessuno e che doveva difendere e garantire il suo prestigio dalle insidie e dagli assalti di rivali e competitori.
Noi siamo stati educati in questa visione della vita e nella sua luce abbiamo pensato la presenza nella società e nella Chiesa e l'ascesi personale e comunitaria.
Oggi il criterio della gerarchia e della subordinazione è contestato a livelli sempre più ampi e con convinzione sempre più profonda, dall'attesa per rapporti di partecipazione e compromissione, ispirati dal riconoscimento della dignità e responsabilità di tutti, orientati a un consenso che si costruisce non in ordine a ciò che il capo decide ma alla comunione piena tra tutti coloro che concorrono a strutturare l'unità.
Quest'aspirazione che non è più astratta, di pochi, tenta di sconvolgere l'assetto precedente e scatena forti resistenze al cambiamento. Viviamo in una situazione di conflitto nella quale non ci intendiamo più anche quando usiamo gli stessi termini; le parole si comprendono nella luce del vissuto di chi le dice.
Né si può presumere di risolvere il problema ricorrendo a piccoli-grandi ricatti affettivi, richiamandoci a rapporti precedenti, a sacrifici compiuti ecc. il mutamento nel criterio che ispira la vita è come la conversione: opera uno stacco dal mondo precedente che, anche quando non viene giudicato o condannato, è abbandonato. E' tipico il caso di Abramo. La persona vede e fa tutto secondo l'immagine amata che ha di sé, quella che, di fatto, l'ispira; quella incarnata nel corpo e nel sangue non quella pensata o immaginata. Il vero io è chi di fatto la persona è, non chi dice o suppone di essere. Tutti i rapporti sono fondamentalmente vissuti dall'io vero che elabora la relazione con Dio sulla base della sua identità profonda. E' l'io che crede, ama, spera, lavora; dalla persona scaturiscono tanti atteggiamenti, ma la qualificano quelli che hanno l'origine nel «cuore» e nell'orientamento che lo dirige.
Codesto criterio di comunione mette in discussione tutti gli assetti attuali: il rapporto tra psiche e corpo nell'interno della persona, le relazioni interpersonali e specialmente quella donna-uomo, l'assetto socio-culturale; la relazione con Dio. Non sappiamo ove sfocerà codesto processo di trasformazione. Conosciamo solo il costo di sacrificio, dolore, delusioni, frustrazioni, somatizzazioni che esso sprigiona.
In questa situazione un ricorso troppo rapido a Dio finisce con l'apparire mistificante. Il tempo è tempo; la realtà ha la sua struttura e anche quando i mutamenti avvengono rapidamente non sono veri finché tutta la realtà non ha vissuto il processo che la rende trasformata. Anche la conversione Dio la fa in noi ma non senza noi.
Prendere posizione per Dio significa perciò decidere l'ottica nella quale vivere e situarsi quando ci rapportiamo a Lui e cioè decidere se continuare a ispirarsi a rapporti di subordinazione o di comunione. La fedeltà a Dio non va confusa con la fedeltà al modello con cui abbiamo pensato Lui e noi stessi. Quando questo modello cambia e ci convinciamo che il cambiamento non sia falso, diventa stile di fedeltà assecondare la trasformazione e diventare capaci di esserne promotori. Per evitare che questo processo si banalizzi in un semplice trasferimento o che si blocchi in un corto circuito, è necessario viverlo con gli imprevisti e le incertezze che comporta, superando le paure che paralizzano e impediscono di raggiungere le zone della luce per non attraversare il cunicolo oscuro che ad esse immette.
Non so dirti che cosa ciò significhi. Per noi educati a essere soli, a pensare l'unità della persona in ottica di solitudine, se non di isolamento, dover far i conti con altri, cominciare a condividere le responsabilità sia nell'interno della persona in un nuovo rapporto tra spirito e corpo, sia in un altro stile di relazione con la donna, sia ovunque, è certo un passaggio che traumatizza. Di questa capacità di meraviglia e di quale allargamento di personalità, abbiamo bisogno per permettere che la sensibilità lodi Dio anch'essa insieme alla ragione e non attraverso la sua mediazione; per accogliere come strutturale e non solo come permesso l'apporto della donna alla costruzione della vita; per accettare che anche il più piccolo dica e porti avanti la sua ecc. Se non decideremo quale persona essere nell'incontro con Dio, non Lo incontreremo. A volte mi pare di non essere uno, ma moltitudine. Non so se sono colui che mi trovo ad essere quando ho l'alta o la bassa marea, quando sono nel flusso o nel riflusso dell'onda.
E così anche il colloquio con Dio è dissociato. Una volta lo interpella l'uomo della speranza, della riconciliazione, dell'affidamento; altre quello delle difese, delle paure, delle resistenze. E poiché vogliamo parlare non del Dio dei libri ma di quello incontrato nel dialogo personale, ci si tro-va, volta a volta, o a parlare di un Dio che libera per andare o di un Dio che frena; o di un Dio garantito dalle leggi e dalle consuetudini o di un Dio che viene e fa nuove le cose; o del Dio incontrato nei riti, nei sacramenti, nell'annunzio dei sacerdoti, o di quello sperimentato nel sacrario della coscienza dove ci si trova soli a soli, cuore a cuore, ecc. E questa dissociazione non aiuta le creature che faticosamente cercano di autenticare il cammino e che possono sentirsi indotte a rifiutare quel Dio che contrasta con quanto sentono di più autentico e vero, con la stella che hanno visto nel cielo prima che si coprisse di nuvole.
Dobbiamo essere i profeti di Dio ma per esserlo dobbiamo convertirci al Dio di cui essere i profeti e discernere la profezia che vuole annunziare attraverso noi. Personalmente l'accolgo nella linea del messaggio di Giovanni nell'inizio della sua prima lettera, là dove parla della comunione, della circolarità di vita. Avverto, però, tutta la resistenza opposta da una mentalità di subordinazione che non necessariamente è di dominio, di potere, perché può anche essere di rispetto, riconoscimento, assunzione, ma che non è mai tale da riconoscere che i componenti la comunione differiscono per ministero, per funzione, non per dignità e valore. Anche oggi la profezia di Dio esige segni di credibilità. E mi pare che essi si concretizzino nello stile di vita di persone e comunità le quali non pretendono di mediare l'altro ma accettano di vivere insieme in carità e stimolano non ad agire attraverso interposte persone ma a diventare persone che prendano posizione, si sentano e si vogliano soggetti nella comunione, Per noi in particolare la credibilità passa attraverso l'atteggiamento che saremo in grado di liberare nei confronti del «femineo» in noi e attorno a noi Mi vengono a mente alcune intuizioni che il tuo giornale portava avanti quando tu e Mariagrazia parlavate della «donna». Ogni volta chiedevo chiarimenti, mi sembrava di non capire con vostra meraviglia. Già allora Dio e l'immagine dell'uomo e della donna erano solidali. Quando saremo riusciti a far pace tra queste due realtà, si scioglierà la lingua come a Zaccaria. Se ora la parola tace, forse è perché dubitiamo di poter essere in grado di concorrere a generare il volto nuovo della donna e dell'uomo o non riusciamo ancora a vederne la fisionomia. Dobbiamo vivere la sofferenza della gestazione e non barare col tempo.
Spero che il grido che nasce dentro sia questo della vita. Anche se ci molesta aiutiamoci a non soffocarlo, a non tradirlo, a non falsarlo, come è scritto sulla mattonella che c'é sulla porta della tua camera.

P. Dalmazio Mongillo

Dal Brasile

LA CHIESA E' CHIAMATA AD UNA SCELTA CHE APPARE QUA DI UNA CHIAREZZA ALLUCINANTE: O CON GLI OPPRESSI O CON GLI OPPRESSORI. DIFFICILMENTE PENSO SI PUO' DARE UNA SITUAZIONE IN CUI LA SCELTA SI PROPONGA COSI' CHIARA E SCEVRA DI IMPLICAZIONI IDEOLOGICHE. CHI SI DISTRAE DI FRONTE A QUESTA SCELTA DA' PROVA DI ESSERE PRIVO DI UN MINIMO DI SENSIBILITA' EVANGELICA E UN CRISTIANO CHE CERCA DI RICOPRIRLA DI PRETESTI IDEOLOGICI, MI SENTIREI DI DIRE CHE PECCA CONTRO LO SPIRITO SANTO...

Carissimo Sirio:
ho portato come me la tua lettera in Brasile, dove sto trascorrendo il tempo delle feste dettando conferenze, meditazioni, ritiri, in un portoghese zoppicante, perché costretto fra i due fratelli, l'italiano e lo spagnolo. La gente mi sopporta, anzi per non far loro torto, direi che mi accoglie con una simpatia che non merito. Sono passato dal sertao e dal Matogrosso al sud e ora mi trovo nella mostruosa metropoli di Sao Paulo, cosi ho l'occasione di cogliere tutto il Brasile, non geograficamente, il che sarebbe impossibile, ma il Brasile economicamente e culturalmente differente. Passo dalla chiesa del nord povera e irta di problemi alla chiesa del sud opulenta e cullata in una illusione di cristianità marcata dalle comunità tradizionaliste di origine veneta o tedesca. Uno dei grossi problemi del Brasile è che quasi tutta la terra amazonica è in mano a stranieri. Missionari italiani, tedeschi, olandesi... di tutta l'Europa hanno diffuso il cristianesimo in questa terra immensa e vi hanno strutturato una chiesa con la sua gerarchia. I pochi prelati brasiliani assumono il problema e l'angoscia del popolo cacciato dalla sua terra per l'invasione del capitale nazionale e straniero che realizza il progetto di trasformare l'Amazonia in un latifondo.
Questi «missionari» diffondono e difendono un cristianesimo a-politico, a-critico, ideologico svuotato di uomo. C'è una sola eccezione: Pedro Casaldaliga; può darsi ce ne siano altri, che mi sfuggono e sarei ben contento di questo errore. Quello che accade nel territorio amazonico succede con qualche variante, nel nordest, dove la chiesa è più brasiliana e conta vescovi più coscienti e chiari, e uniti fra loro. Intorno alla figura di dom Helder Camara ci sono dei vescovi meno noti internazionalmente, ma impegnati nella difesa dei poveri, che danno prova di una disposizione al martirio ogni giorno. Ti deprime scoprire che dei missionari stranieri si sono fatti qui un piccolo angolo di comodità. Qualsiasi tecnico laico sentirebbe il disagio di vivere una vita distante un abisso da quella del popolo, per la maniera di abitare, di mangiare di viaggiare come quella che ho visto adottata tranquillamente da certi missionari. Quando penso che sono quelli che raccolgono denari nelle comunità europee con la pubblicità creando nella fantasia dei cristiani l'immagine di una vita eroica, penso con tristezza a che punto di degradazione è arrivata la nostra formazione religiosa da farci capaci di un cinismo di cui è incapace un uomo normale, senza fede e senza ideali. Penso che Gesù, perdonerà la nostra fragilità, l'inclinazione terribile e incontentabile che abbiamo verso il più comodo il più facile, il più piacevole ma non perdonerà la nostra ipocrisia; il Vangelo parla chiaro su questo punto.
Qua si vede con chiarezza la scelta di fronte a cui si trova tutta la chiesa oggi; in Italia l'alternativa si fa teorica, e si riduce, come sempre, a un problema di tipo dottrinale: o teologia della liberazione o teologia col T maiuscolo, quella che è coperta da san Tommaso da sette secoli di indagine, di chiarimenti e di complicità varie. Capisco perfettamente perché in Europa si difenda con i denti questa teologia speculativa che permette di fare dei problemi concreti degli universali astratti; i poveri diventano la povertà, i movimenti di liberazione si trasformano nel tema della violenza, la fedeltà alla comunità umana in esodo si vaporizza nel concetto di obbedienza, e sono possibili le incoerenze più gigantesche. Un professore di religione con il suo stipendio assicurato mi tranquillizzava: che la teologia della liberazione è liquidata per sempre, è impossibile darle credito.
Questa frase che è una delle ultime raccolte nel mio recente viaggio in Italia, mi ha martellato dentro nel nordest, in un incontro con «agenti di pastorale» come li chiamano qui in Brasile. Gente malvestita malnutrita, non accolta, respinta dalla sua propria terra che legge il Vangelo dalla sua situazione concreta. Quante volte ho pensato alla frase di san Giovanni «venne nella sua casa e i suoi non lo ricevettero». Per la loro impotenza politica e la loro emarginazione sociale, queste comunità non possono ideologizzare il Vangelo e sono costrette a rispettare la sua nudità, il suo livello di fede e di speranza. Questa gente non è il proletariato cui si dirige l'ideologia marxista e solo la chiesa può assumere il suo gemito. Di marxisti qua in Brasile non ne ho incontrato nessuno, nonostante il sospetto e l'accusa dei militari che guarniscono la zona. La chiesa è chiamata a una scelta che appare qua di una chiarezza allucinante: o con gli oppressi o con gli oppressori. Difficilmente penso si può dare una situazione in cui la scelta si proponga cosi chiara e scevra di implicazioni ideologiche. Chi si distrae di fronte a questa scelta dà prova di essere privo di un minimo di sensibilità evangelica, e un cristiano che cerca di ricoprirla di pretesti ideologici, mi sentirei di dire che pecca contro lo Spirito santo, quel peccato che secondo Gesù, non ha perdono. Uno che riporta nella situazione concreta o il pretesto fabbricato in Europa per continuare ad essere cristiani e nello stesso tempo neutrali di fronte all'ingiustizia: «non fare il giuoco degli avversari, non essere idioti utili» qua è un chiaro indiscutibile peccato contro lo Spirito santo. Qui un vescovo di buona volontà (purtroppo non sono moltissimi) si trova di fronte l'uomo nudo disarmato, la persona allo stato puro non raggiunto da nessuna ideologia. Non ho mai visto la sfida del Vangelo farsi più chiara e esplicita: o un cristiano prende sul serio le parole di Gesù: «ebbi fame e mi deste da mangiare ... sono caduto in mano della polizia e non mi avete abbandonato ...» o cercherà invano in tutta la sua vita l'occasione di un incontro col Signore Gesù. Davanti a chi si dichiara e dichiara ai quattro venti di essere sensibile alla persona, esperto dell'uomo, si presenta.l'uomo allo stato puro. Quando il Vangelo raggiunge il popolo si fa chiaro, ed è una sorpresa piena di gioia scoprire che il vangelo è stato annunziato a questo livello e lo si capisce solo a questo livello. Non saprei come spiegarti questo: è come se uno sapesse che a una stazione radiofonica alle otto di sera si trasmette la nona di Beethoven, e cerca, cerca molto tempo senza riuscire a mettersi in onda e finalmente la trova e comincia a sentire perfettamente. Di qua, Sirio, ha origine il mio amore per i poveri e per l'America latina: ho trovato l'onda del Vangelo. Non ti posso dire, ahimè, di viverlo con coerenza con fedeltà, ma ne colgo il canto, il senso come ne sono sicuro non coglierei in altra situazione esistenziale. Questo mi sforzo di far capire: che il Vangelo non è come un trattato di chimica che si può leggere dovunque e da qualunque situazione, ed è questo che non si capisce. Si sono fatti dei passi importanti per scoprire il contesto storico in cui fu scritto il Vangelo, e per limitare il vero discorso di Gesù dalle riflessioni che lo accompagnano e che sono della comunità che riceve la parola; ma questa orientazione ci distrae dal vero problema che è chiaramente presentato nella parabola del seme. Un mio confratello mi dice sempre che molti religiosi non leggono il Vangelo perché se lo leggessero, non potrebbero cadere in scelte fatte con assoluta libertà come compra di case, di terreni, di apparecchi di ogni tipo che mandano a farsi benedire il concetto più largo di povertà. lo penso che leggono il Vangelo ma con i piedi nel mondo borghese, dal mondo borghese.
E allora è inevitabile che il Vangelo si trasformi in ideologia che giustifica tutto. Come quel tal cristiano che è invaso da desideri di ogni tipo come da un'erba che si diffonde implacabilmente, e si giustifica ricorrendo al cento per uno che Gesù ha promesso come riparazione a quelli che abbandonano qualcosa per lui. Sarebbe umoristico se nessuno pagasse questa stoltezza. Quando uno vede che i poveri pagano, perde la voglia di divertirsi...

Arturo Paoli

Prete operaio

Carissimo fratello,
ti scrivo dalla mia cameretta di Frascati dove mi trovo dal 1 settembre «appartato» ma non «solo», avvolto dalla presenza di Dio, in ricerca della sua azione di salvezza per gli uomini di oggi, con una grande ansia di comunione con gli altri uomini e con le creature, ansia che sale di giorno in giorno e si trasforma in lotta, partecipazione, eucarestia.
Mai prima di adesso ho sperimentato da una parte la mia piccolezza e povertà, e allo stesso tempo la profondità dei vari momenti della mia vita di operaio e di prete. Credo di potermi raffigurare in questo periodo ad un bracciante agricolo dei nostri paesi del Sud che aspetta sulla piazza chi lo chiama a lavorare nella sua vigna; che non ha un suo campo, né un lavoro stabile e continuato, così che è costretto a continuare il lavoro iniziato da altri, o a iniziarne uno che forse non porterà a completamento; (anche nel vangelo c'e una parabola di Gesù ambientata in tale contesto). Così sto studiando la bibbia con un gruppo di adulti, la domenica celebro l'eucarestia e faccio la predicazione in una parrocchia della periferia romana, qualche volta mi intrattengo con dei compagni di lavoro a parlare della nostra fede in Gesù... al di là di questi momenti che alcuni chiamano "pastorali" c'è il grosso della mia vita: la fabbrica e la solitudine. Sono questi due momenti che ali-mentano la mia vita: l'uno richiama l'altro, l'uno è monco senza l'altro. Mi viene in mente quella pagina di Bonhoeffer che dice: "Il nostro essere cristiani si riduce oggi a due cose: pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia".
Oggi voglio vivere fino in fondo la mia dimensione di operaio e di uomo di fede perché la liturgia che compio quotidianamente è una liturgia "laica", vissuta con e per il popolo, dalla quale traspare come in filigrana attraverso la fede il disegno storico di liberazione per gli uomini chiamati a una salvezza sempre più piena e profonda della quale Cristo ci ha fatto dono. Nel vangelo leggiamo che Cristo, è stato crocifisso fuori della città, fuori dal Tempio; e sappiamo che la sua morte è il momento culminante della sua liturgia, e non quello dell'insegnamento o dei miracoli: è l'uomo che vive in pienezza la sua vita che rende lode a Dio.
Il lavoro in galvanica, a contatto con acidi e cianuri, esige periodi di ossigenazione nei boschi e nelle pinete, porta a conoscere e a gustare la pace e la profondità della natura e a ricercarne l'intimo rapporto con la vita mia e degli altri uomini. Allo stesso modo mi immergo nella mia solitudine al termine del lavoro di fabbrica e dei momenti "pastorali", e giorno dopo giorno mi sento sempre più a mio agio in questo isolamento, che è pieno di Dio e degli altri. Nella solitudine sto scoprendo la dimensione biblica del «deserto», luogo dove l'uomo riscopre la radice del suo essere, il suo posto nella storia, e la presenza paterna di Dio che gli diventa familiare (come narra la Genesi dei progenitori). Nel deserto Mosè incontra Dio che lo invia a liberare il popolo schiavo degli Egiziani; nel deserto Cristo affronta le tentazioni del potere, delle ricchezze, del prestigio e inizia la sua missione quale "servo di Javéh".
Le problematiche esistenziali vissute durante il giorno le porto in me e le medito assieme ai testi biblici con i quali sto entrando in dimestichezza, Ciò che mi anima oggi in tutto ciò è la costatazione di un atteggiamento di vita che vado assumendo verso Dio e verso gli altri, e ancora una grande pace e serenità.
Quando 6 anni fa ho iniziato il lavoro operario sono entrato in crisi: mi sono accorto di non sapere pregare, e che ciò che chiamavo preghiera non aveva un valido rapporto con la mia vita. Nel frattempo mi ero immerso (letteralmente) nella lotta sindacale e ne scoprivo la portata sociale e umana al punto da crederla l'unica cosa valida per me, mentre constatavo che non esauriva affatto quella sete profonda di comunione e di giustizia, quella sete di Dio che mi bruciava dentro. La crisi di preghiera era l'aspetto più forte della crisi di fede: aveva un senso credere e lottare insieme? Dopo molti mesi ripresi a costruire momenti di preghiera, anche se un po' staccati dalla mia vita di operaio. Fu allora che mi accorsi che mi mancava l'atteggiamento profondo della preghiera: stare davanti a Dio, mettere al centro della propria vita il suo disegno di salvezza.
Adesso più che dire che cosa è la preghiera, cerco di pregare, e se possibile a lungo, e sto scoprendo nuove dimensioni interiori che non mi staccano affatto dalle lotte di fabbrica e dall'impegno quotidiano, anzi li trascendono di molto e mi immettono nel piano della costruzione dell'uomo «nuovo» proteso verso la costruzione di «cieli nuovi e terre nuove».

Baldassarre

Speranza nella solitudine

Nei primi giorni di Gennaio il mare a Viareggio si è preso due vite. Padre e figlio di 14 anni, due pescatori caduti in acqua per un colpo di mare, forse l'uno per soccorrere l'altro. La barca era stata acquistata una quindicina di giorni prima dal padre deciso a riprendere la vita sul mare dopo una lunga parentesi a terra nel commercio del pesce.
E' stato un pomeriggio amarissimo, di sfiducia e di stanchezza infinita nella attesa risultata vana che l'elicottero riuscisse ad individuare anche il corpo del ragazzo. I pescatori inchiodati a piccoli gruppi sulla banchina di fronte alla Capitaneria di Porto, straniti dallo spietato richiamo alla dura realtà di un lavoro che tanto poco concede alla vita.
Intorno a loro i commenti della gente, dei passanti incuriositi e contenti, al tempo stesso, di non far parte di quel mondo, ma di vivere al sicuro, con le proprie prudenze, le saggezze di chi non rischia mai, di chi ha trovato un lavoro dove non ci piove, dallo stipendio assicurato dalla fatica degli altri.
E' cresciuta allora la voce di chi non vuol essere coinvolto, di chi ha fatto della vita un bozzolo ben protetto a difesa di un'esistenza da larva. E avevano tutti ragione a denunciare la condizioni di lavoro ben oltre il limite della sicurezza, le attrezzature inesistenti, la voglia di strafare, l'ignoranza dei propri limiti. Tutte cose terribilmente vere a giudicare in un modo inequivocabile il comportamento di quel padre incosciente che per una cala in più e una cambiale in meno ha rovinato e sfasciato una famiglia.
Sentivo che tutte queste considerazioni erano lucidamente vere, ma non le potevo più ascoltare. Mi pareva proprio che dietro questa facciata di rispettabilissima prudenza e di giudiziosa responsabilità, si nascondesse la gioia feroce di chi ha la riprova delle proprie scelte. Non c'era rispetto, né pietà , non c'era davvero amore. C'era solo il giudizio che allontana ed inchioda il peccato sull'esistenza di alcuni perché altri possano avvolgersi nei gelidi paludamenti della giustizia.
Questa umanità non vuole più soffrire per delle speranze, per delle attese. Forse troppa è stata la delusione per non rifugiarsi nella garanzia, nella sicurezza, nella vita protetta e liberata da ogni responsabilità. Tornare indietro non è più consentito se non a prezzo di una dolorosa esperienza di solitudine e del rischio di morte. Un sistema economico e politico ha risucchiato gente dalle campagne per sbatterla nei ghetti delle periferie a servire la fabbrica, poi ha pescato a man bassa nel mondo operaio per imborghesirlo nei servizi. Chi tenta di camminare contro corrente deve farlo sapendo di rischiare tutto senza contare su alcuna solidarietà.
Credo che ogni speranza oggi si debba giuocare nella solitudine di una coscienza che non si rifiuta al dialogo, che cerca il rapporto e la comunione, ma senza farne il presupposto per ogni ricerca. Non dobbiamo avere paura di vivere con sincerità un'esistenza che non raccoglie adesioni; la nostra paura deve essere tutta rivolta verso il pericolo di vivere un'esistenza che non aderisce alla realtà profonda di questa nostra storia, di questa umanità. La solitudine non è rifiuto d'amore, non è tirare i remi in barca, non è fuga in un mondo tutto privato. Almeno non mi sembra di viverla nel lavoro, nei miei impegni, come una dimensione lacerante. La sento invece come volto autentico e sincero dell'amore, del mio amore oggi, in questo tempo.
Forse reagisco al giudizio dei più su quel terribile incidente in mare perché anch'io mi sento coinvolto nel giudizio di pressappochismo, di ingenuità e di estrema fragilità di tutto quello che sto facendo. Ma ci sono strade, e possono essere appena dei viottoli, che uno sente di dover battere, anche se accanto svetta un'autostrada. Forse per ostinazione o per senso di contraddizione, ma anche credo con innocente fiducia che un senso ci sia e che quindi vi sia anche un po' di amore.

Luigi

Chiedo perdono

Se mi mettessi a chiedere perdono forse sarebbe sempre poco se in ginocchio percorressi tutta la terra: e mi dovrei fermare davanti ad ogni uomo e donna e li, in ginocchio, implorare pietà.
Pietà di che cosa?
Non di peccati o di cattiverie, di stupidi egoismi e sono tanti, d'invidie e gelosie e di tutta una miseria senza misura (è la pasta di cui sono impastato e non mi posso detestare e tanto meno voglio odiarmi ma umilmente voglio amarmi accettandomi con pazienza e sopportandomi con gioia).
I peccati sono momenti di stupidità, sono situazioni di pazzia: non richiedono misericordia o perdono ma semplicemente comprensione. Difatti non ci è permesso nemmeno il giudicare, tanto meno ci può essere concesso il perdonare. Di Dio soltanto è il perdono perché è Dio e Dio solo può riempire il nulla e accendere la luce nel buio.
Non chiedo perdono di peccati: può darsi anche che non ne abbia di peccati anche se ne ho tantissimi, che forse nemmeno riesco a conoscerli e tanto meno a numerarli. So che Dio li conosce perché mi conosce e questo mi basta per il mio esame di coscienza.
Ma nonostante, sono terribilmente in pena dal profondo bisogno di chiedere perdono.
Perché maturano nell'andare avanti nella storia della vita disagi ma potrei dire profondissime angosce, capaci di creare misteriosi sensi di colpa. Diffusi, penetranti, continui, letteralmente impietosi. E' praticamente impossibile dissiparli, risolverli perché mettono in evidenza richieste di riparazione o anche cambiamenti cosi radicali da risultare impossibili, pazzeschi. E cosi tanto da comportare l'impressione che non c'è nulla da fare. E si ricade pesantemente sulla propria inerzia, a girare nel proprio vuoto, a perseverare nell'inutile, cioè nella rassegnazione alla propria miserabilità.
Per indicare qualcosa di quello che sto pensando racconterò di quello che mi passa nell'anima, ma è chiaro non tanto perché sia importante o valga semplicemente qualcosa quello che attraversa il mio spirito e imperversa nella mia vita interiore, ma perché penso che il mio scrivere sia mettere in comune i miei problemi con i problemi di altri, potrei anche dire, senza offesa di nessuno, di gente strana come me, che non intende acquietarsi o adattarsi e tanto meno rassegnarsi, nonostante che sia molto vero che anche ad agitarsi e a tormentarsi non è che si risolva niente. Ma almeno in pace non ci vogliamo stare e può darsi che questa sia l'unica onestà di tutta una vita.
Se mi permetto di dire di me, è chiaro, non è perché io sia qualcuno o valga qualcosa. E' semplicemente per il fatto molto semplice che se il vento agita gli alberi qui intorno a casa mia, li agita senza dubbio anche nella pineta qui accanto, sulle colline là in fondo, sento che sta infuriando sul mare. Cosi la pioggia. Cosi il sole. Cosi la primavera.
Quando si parla o si scrive di noi stessi non è mai di noi stessi, è racconto di vita, di esistenza, è vicenda di tutti.
Dunque parliamo di noi e quindi io vi racconto di me, di questa povera umanità che è il mio corpo e l'anima mia e dell'acqua e dello spirito di cui sono fatto e di cielo e di terra. Del nulla e dell'universalità che è il mio essere. Di uomo e di Dio perché questa è la mia realtà.
Ma ciò che più mi percuote e mi umilia e mi sgomenta - quasi a volte mi sento sull'orlo dell'angoscia - è la coscienza di peccato che mi si dilata dentro.
E peccato qui è un cristallo trasparente che è opaco come pietra. Una strada aperta fin oltre l'orizzonte senza essere camminata altro che per pochi passi. Un sole all'aurora in un cielo tersissimo a illuminare il mondo, diventato e rimasto una candela e spesso dallo stoppino fumigante e stanco. Un cielo a volta infinita gremitissimo di stelle e una carta azzurra da presepe con stelle di stagnola...
Non sono rammarichi e tanto meno sogni velleitari incompiuti e quindi delusioni amare per glorie e grandezze perdute. No, no, è semplicemente coscienza (è terribile questa parola quando vuoi dire sapere con estrema chiarezza, a misura di evidenza totale, assai più che toccare con mano e vedere con gli occhi) coscienza, dicevo, di avere lasciato impoverire il mondo privandolo di una sincerità, di una risposta, se non altro, della fatica vissuta fino in fondo, di una ricerca.
E perché questo senso di colpa sia vero e non stupida presunzione, non è affatto importante essere qualcosa (ecco, tu potevi essere un re e sei invece una cacca, nel qual caso potrebbe anche essere una fortuna per tanta gente essere rimasto una cacca e non un re o un presidente della repubblica o un papa e cosi via...) ma anche un granello di sabbia è perseguitato dall'obbedienza alla sua identità e anche un capello del nostro capo è numerato dentro un conteggio e una precisa programmazione e anche a un passero sul tetto è assegnato un motivo preciso e porta in se un progetto, compreso il momento in cui cadrà sull'erba del prato.
Perché ciò che forse non abbiamo mai conosciuto con chiarezza ma soltanto per approssimazione come quando si fanno le cose e si dice «speriamo bene», è il rapporto esatto fra noi e l'esistenza, cioè che cosa si doveva dare, in coscienza, alla vita usando della vita, cosa offrire in cambio di tutto quello che mi sono preso.
Nel problema dei diritti e dei doveri è il più imbrogliato, falsificato, sporco e vergognoso questo problema di semplice giustizia - non possiamo non rimanere sconvolti dal tremendo giudizio di condanna che ci sovrasta: perché è spaventosamente vero che con sfacciata disinvoltura viviamo allegramente sulle spalle, la fatica, la sofferenza, il morire di un'infinità di gente, pagando con gli spiccioli dei nostri cosiddetti servizi o cose del genere.
Esattamente come il puttaniere paga la prostituta e non ci pensa più: quattro soldi per il corpo di una donna e tutto è a posto. Sono attraversato, ferito dalla coscienza di essere responsabile di questa ingiustizia: ho preso tanto, tutto, perché mi sono preso il vivere - il fiume di vita che scorre da millenni fino a me - e non ho dato nulla o appena le briciole che sono cadute dalla mia tavola.
Non è un peccato di omissione: categoria morale inventata per coprire bellamente il peccato di ingiustizia, di ladrocinio, di stupro e di fornicazione, di sfruttamento, di sanguisughe e di assassinio privato e pubblico, individuale e politico ecc. con la storiella di aver dimenticato le preghiere, lasciata la Messa la domenica o di dare mille lire a un bisognoso e cosi via.
É il peccato di sedersi su un trono e il mondo sotto i tuoi piedi. E non basta per farti perdonare che a tua volta tu sia uno sgabello dove poggiano i piedi di un altro. Anzi, questo aggrava la tua responsabilità perché accetti e ribadisci gli anelli di una catena di schiavitù e di sfruttamento, per il tuo tornaconto, invece di liberarti e liberare: è il tuo interesse a regnare nel tuo regnicolo personale, a stabilire e determinare la tua servitù.
E allora da qualche tempo - è triste pensare che tanti anni mi sono occorsi perché riuscissi a vedere quattro dita più in là del mio naso - mi angoscia il pensiero - parlo cosi, per similitudine, perché più cose, quasi tutte, si possono dire parlando per immagini - di aver mangiato tanto pane nella mia vita. Fin da ragazzo troccoli enormi di pane e poi grosse fette e anche ora, nonostante gli acidi urici, mi continua gioiosa e simpatica la voglia di pane. Pane odoroso di forno, tanto più se forno di contadini, traboccante di profumo che sa di vita, d'intimità di casa. di mistero d'amore. Pane che quando so che in casa ce n'è in abbondanza mi si riempie l'anima di pace. Pane e un pezzetto ne uso anche per la Celebrazione Eucaristica e so e credo che diventa e è il Corpo di Gesù Cristo.
Morirò e ogni giorno che passa è morire perché ad ogni sera non ho vissuto il motivo di tutta la vita, morirò e non ho seminato un chicco di grano. Non ho zappato e concimato dieci centimetri quadrati di terra. Non ho trepidato mai per la pioggia o il vento o la neve o il gelo e la ruggine e il ragno rosso che vuota la spiga. Non mi ha bruciato il sole a mietere nel campo né soffocato il polverone di pula alla battitura. Non ho portato mai un sacco e nemmeno un grammo di grano, chic-chi dorati e belli, alla macina per raccoglierne, nella mano bianca, il tepore bianco della farina. Non ho impastato mai farina nemmeno per fare una briciola. Non ho mai raccolto sterpi e viticchi e farne fiammata nel forno e poi aspettare e poi aprire la visione di un miracolo eterno e aspirarne dal più profondo dell'anima il misterioso, adorabile profumo.
E ne ho mangiato cosi tanto di pane, ne ho divorato cosi tanto, quasi come se piano piano avessi sbocconcellato una montagna, una quantità che è pressoché impossibile a immaginare.
Cosi l'acqua, cosi il vino, il vestito, il sapone, la penna, la carta, le strade, le case, il viaggiare... e le infinite cose che fanno la vita.
E anche l'aria, il cielo, il mare, il sole, gli animali, il verde, i fiori, le stelle a trapuntare la notte, lo splendore della luna, l'appassionata violenza del vento, lo scrosciare della pioggia... Forse tutto o in grandissima parte si è concluso in me, spaventoso abisso dove tutto si perde nel vuoto di un inutile, di una presunzione, nell'errore di un diritto cosi tanto assimilato fino alla normalità di una giustificazione di qualsiasi eccessività assolutistica.
Allora non è peccato a livelli moralistici, ma sacrilegio cioè idolatria.
E' qui che sta la maledizione che pesa, e la schiaccerà sempre di più, sull'umanità. E sopra di me e la storia della mia vita. Ho profonda e chiarissima nella mia anima, nell'interiorità della mia coscienza ma si manifesta ormai anche all'esterno per una sorta di stranissimo pudore che non riesce a coprire le proprie vergogne, la presenza di questo peccato. Ogni e qualsiasi povertà di cui fin ad ora mi sono bellamente sciacquata la bocca e perfino ogni e qualsiasi ricerca della cosiddetta incarnazione (ma è bestemmia dissacrante usare la santità di questa parola) attraverso la vita operaia, la scelta dei poveri e fregnacce di questo genere, non significano altro che ridicoli e penosi tentativi per una ricerca di una maggiore misura di avvicinamento ad una realtà di giustizia, cioè di elementare onestà personale.
E sentirsi sconfitti, cioè deficitari, in condizioni di fallimento nell'elementare conteggio dell'entrate e dell'uscite, del prendere e del dare, è situazione assai poco rimediabile con un semplice chiedere perdono: anche se fosse fatto percorrendo in ginocchio tutta la terra e implorandolo davanti ad ogni uomo e ad ogni donna.

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