Arrivati a questo punto di una già lunga storia di ricerca per una verifica personale e di gruppo a seguito di un bisogno, giudicato assolutamente importante nella propria vita, di verità e autenticità, viene inevitabilmente da domandarsi se c'è e quale nel caso affermativo, il cammino da seguire ancora.
Tanto più poi per il fatto che la propria verità personale o di gruppo o comunità che sia, impone e costringe ad una verifica di rapporto con la realtà nella quale stiamo vivendo e per la quale è più che giusto e doveroso significare qualcosa, o almeno tentare di significare qualcosa.
Può succedere - è buona cosa che succeda - che ci si avveda che qualcosa va radicalmente mutato.
E può essere - ognuno veda cosa più gli conviene o meglio ciò che più gli sembra giusto - può essere che risulti che sia arrivato il momento di dare un colpo di barra alle vele, una sterzata al timone, e invertire la rotta della propria barca. Oppure semplicemente correggerla. E può anche darsi che sia sopraggiunto il tempo in cui un forte vento si è levato e allora convenga spiegare tutte le vele, fino all'ultimo velaccio, e dare il via alla barca sulla cresta delle onde.
Sta il fatto che un processo di liberazione deve essere assolutamente inarrestabile. La libertà, se libertà è, deve dilatarsi al di là di qualsiasi orizzonte. E se spazio proporzionato non ha, è perché ancora non ha forzato e non riesce a rompere grettezze di imprigionamenti, scioccamente giudicati conquiste di spazi.
L'analisi corretta e severa delle proprie lotte e vittorie o sconfitte è assolutamente indispensabile e incredibilmente preziosa, per stabilire se il punto dove siamo arrivati è qualcosa di definitivo o è semplicemente l'aver posto - ma spesso non si tratta di una nostra volontà - le condizioni per un andare avanti, a costo di tutto.
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Questo essere abbandonati, in balia del vento dello Spirito che non si sa dove viene e dove vada, è condizione fondamentale per costruire la serietà di una libertà che sia autenticamente liberazione per se stessi e per gli altri.
Non sappiamo bene cosa possa essere quel qualcosa che ci sta forzando a raccogliere i nostri stracci, un tozzo di pane e una borraccia d'acqua e rimetterci in cammino.
Non c'interessa nemmeno se la sosta è stata lunga o no, se la terra è stata un po' dissodata e qualcosa è stato seminato. Tanto meno vale stare a controllare i frutti raccolti. Può anche essere stato tutto a vuoto. Anzi forse sembra che sia andata proprio cosi. Non ha nessuna importanza. Siamo rimasti vivi, vuoi dire che abbiamo mangiato e bevuto e il cuore è forte, l'anima aperta e gli occhi sanno ancora guardare lontano.
E' il cammino di Abramo, a differenza di quello di Mosè, quello che ci interessa. La strada cioè ancora più lontana dalla Terra Promessa. Perché ci sembra sempre più che il camminare più vero è quello nella Fede e intendiamo scommettere semplicemente sulla Promessa, cioè sulla Fedeltà di Dio.
Non abbiamo bisogno di miracoli o di segni prodigiosi. E non ci deve guidare un fuoco acceso in cielo di notte e una nube luminosa di giorno.
Ci basta la parola che ci è stata sussurrata nel segreto dell'anima. E su questa parola leviamo le tende e con la mano sugli occhi a scrutare l'orizzonte, muoviamo i piedi nello sterminato deserto.
Il deserto di Dio.
Perché lo spazio della libertà dove la liberazione deve condurre ad abitare è quello di Dio.
Crediamo che nonostante qualsiasi apparenza contraria, è in questo spazio che abita l'uomo e l'umanità. E se cerchiamo di camminare in questo deserto - l'assolutizzazione dei valori fondamentali, la liberazione da tutto ciò che è apparenza, contingenza, temporalità ecc. - è perché nella conoscenza e nell'adorazione di Dio, vi si trova senza equivoci o compromessi, la conoscenza e l'adorazione dell'uomo.
Perché fra Dio e l'uomo, l'unità è perfetta.
E noi cristiani lo sappiamo bene in Gesù Cristo. Non è quindi un 'evasione e tanto meno una disincarnazione abbandonarsi alla contemplazione di Dio. Vuol essere anche un guardare di più assai, perché senza distrazione, nel cielo e sulla terra, nel cuore d'ogni creatura e nel groviglio di ogni e qualsiasi vicenda della storia, i segni di un volto di cui deve pur esistere immagine e somiglianza, sotto il velo delle cose e dell'umanità, e riascoltare la Parola che ha parole di pienezza di vita fino alle misure estreme dell'eternità.
Si diceva visione di Dio e dell'uomo senza distrazioni. Quindi non ci occuperemo più della Chiesa intesa come realtà di clero, istituzione ecclesiastica, ingranaggio gerarchico, attrezzatura e bagagliaio di tutto quel complesso più o meno macchinoso di temporalismi messo insieme in tanti secoli e terribilmente resistente, nonostante l'usura del tempo e gli attacchi delle forze di purificazione del nostro tempo.
Rimane chiaro ed intatto e sempre più fedeltà assoluta, un rapporto di Fede con la chiesa. Nella visione di Dio la Chiesa si rivela immediatamente come il suo popolo, incessantemente e appassionatamente richiamato ad essere nel mondo segno di Lui. E la chiarezza di questo segno è tutta in Gesù Cristo.
E Gesù Cristo va semplicemente accolto e vissuto. Per noi tutto un tempo è passato ormai. Tempo in cui la lotta e sempre, è stata motivata e guidata dall'Amore, sia pure - ma come dovrebbe essere se è Amore? - da Amore duro, tenace, ardente, appassionato.
Ma era inevitabilmente una lotta di scontro, di polemica, di risentimento, di angosciosa sofferenza, di bruciante desiderio perché Chiesa fosse cuore di Dio e cuore di popolo e assolutamente null'altro.
Ora questo tempo di lotta per noi si è forse concluso. Non è per abbandono o per stanchezza o perché ci è caduta perfino la Speranza e tanto meno l'Amore e la Fede.
Ma anzi è perché un più vero rapporto con la storia, una presenza più concreta, richiede ed esige motivazioni più profonde, quelle che stanno più a monte, si direbbe oggi. La serietà e la gravità di una lotta perché possa risultare veramente Amore, ha bisogno di essere causata e guidata da ragioni che nascano dalla roccia viva di una sorgente che scaturisca sempre più da Dio e dal suo Mistero, non da realtà di carne e da volontà di uomo, chiunque sia quest'uomo, anche se è sacra gerarchia.
Non sappiamo bene per il momento ma è esperienza che vorremmo fare - e nella nostra persona, concretamente, è già molto avanti, anche se tutt'altro che compiuta - di cercare l'adorazione di Dio "non in Gerusalemme o su questo monte, ma in spirito e verità perché sta venendo il tempo ed è ora, nel quale questa è l'adorazione che il Padre vuole". E di cui l'uomo ha profondamente bisogno per ritrovare il vero senso di Dio nella liberata conoscenza di Lui e l'essenzialità di un rapporto di Fede e di Amore che non crei una religione ma una realtà di vita per totalità di comunione fra creatore e creazione come luce di sole e i colori dei fiori, la terra riarsa e la pioggia dal cielo.
Vorremmo raccogliere in una comunità, che può nascere dalla solitudine di eremitaggi dispersi e nascosti in questo marasma di confusionismi che è il nostro tempo, chi ha scelto il deserto (vivere fuori, separato e solo, dall'abitato della civiltà attuale e dalla religiosità ufficiale) per poter radicalizzare il proprio coinvolgersi nell'umanità al di là di ogni condizionamento in totalità di misura quale dev'essere la misura dell'Amore, e stare davanti a Dio allo scoperto, a faccia a faccia nella Fede come sarà un giorno nella visione, al di là di ogni liturgismo e pastoralismo e per ascoltare la sua Parola pronunciata oggi e parlargli la parola che sale su dal cuore di ogni essere umano e dall'angoscia di tutta l'umanità.
Con umiltà e semplicità come uno che con la mano fa un cenno e dice: vieni, facciamo il giro del mondo, quello dell'universo... fin là dove certamente non finisce il camminare.
La Redazione
Arrivati a questo punto di una già lunga storia di ricerca per una verifica personale e di gruppo a seguito di un bisogno, giudicato assolutamente importante nella propria vita, di verità e autenticità, viene inevitabilmente da domandarsi se c'è e quale nel caso affermativo, il cammino da seguire ancora.
Tanto più poi per il fatto che la propria verità personale o di gruppo o comunità che sia, impone e costringe ad una verifica di rapporto con la realtà nella quale stiamo vivendo e per la quale è più che giusto e doveroso significare qualcosa, o almeno tentare di significare qualcosa.
Può succedere - è buona cosa che succeda - che ci si avveda che qualcosa va radicalmente mutato.
E può essere - ognuno veda cosa più gli conviene o meglio ciò che più gli sembra giusto - può essere che risulti che sia arrivato il momento di dare un colpo di barra alle vele, una sterzata al timone, e invertire la rotta della propria barca. Oppure semplicemente correggerla. E può anche darsi che sia sopraggiunto il tempo in cui un forte vento si è levato e allora convenga spiegare tutte le vele, fino all'ultimo velaccio, e dare il via alla barca sulla cresta delle onde.
Sta il fatto che un processo di liberazione deve essere assolutamente inarrestabile. La libertà, se libertà è, deve dilatarsi al di là di qualsiasi orizzonte. E se spazio proporzionato non ha, è perché ancora non ha forzato e non riesce a rompere grettezze di imprigionamenti, scioccamente giudicati conquiste di spazi.
L'analisi corretta e severa delle proprie lotte e vittorie o sconfitte è assolutamente indispensabile e incredibilmente preziosa, per stabilire se il punto dove siamo arrivati è qualcosa di definitivo o è semplicemente l'aver posto - ma spesso non si tratta di una nostra volontà - le condizioni per un andare avanti, a costo di tutto.
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Questo essere abbandonati, in balia del vento dello Spirito che non si sa dove viene e dove vada, è condizione fondamentale per costruire la serietà di una libertà che sia autenticamente liberazione per se stessi e per gli altri.
Non sappiamo bene cosa possa essere quel qualcosa che ci sta forzando a raccogliere i nostri stracci, un tozzo di pane e una borraccia d'acqua e rimetterci in cammino.
Non c'interessa nemmeno se la sosta è stata lunga o no, se la terra è stata un po' dissodata e qualcosa è stato seminato. Tanto meno vale stare a controllare i frutti raccolti. Può anche essere stato tutto a vuoto. Anzi forse sembra che sia andata proprio cosi. Non ha nessuna importanza. Siamo rimasti vivi, vuoi dire che abbiamo mangiato e bevuto e il cuore è forte, l'anima aperta e gli occhi sanno ancora guardare lontano.
E' il cammino di Abramo, a differenza di quello di Mosè, quello che ci interessa. La strada cioè ancora più lontana dalla Terra Promessa. Perché ci sembra sempre più che il camminare più vero è quello nella Fede e intendiamo scommettere semplicemente sulla Promessa, cioè sulla Fedeltà di Dio.
Non abbiamo bisogno di miracoli o di segni prodigiosi. E non ci deve guidare un fuoco acceso in cielo di notte e una nube luminosa di giorno.
Ci basta la parola che ci è stata sussurrata nel segreto dell'anima. E su questa parola leviamo le tende e con la mano sugli occhi a scrutare l'orizzonte, muoviamo i piedi nello sterminato deserto.
Il deserto di Dio.
Perché lo spazio della libertà dove la liberazione deve condurre ad abitare è quello di Dio.
Crediamo che nonostante qualsiasi apparenza contraria, è in questo spazio che abita l'uomo e l'umanità. E se cerchiamo di camminare in questo deserto - l'assolutizzazione dei valori fondamentali, la liberazione da tutto ciò che è apparenza, contingenza, temporalità ecc. - è perché nella conoscenza e nell'adorazione di Dio, vi si trova senza equivoci o compromessi, la conoscenza e l'adorazione dell'uomo.
Perché fra Dio e l'uomo, l'unità è perfetta.
E noi cristiani lo sappiamo bene in Gesù Cristo. Non è quindi un 'evasione e tanto meno una disincarnazione abbandonarsi alla contemplazione di Dio. Vuol essere anche un guardare di più assai, perché senza distrazione, nel cielo e sulla terra, nel cuore d'ogni creatura e nel groviglio di ogni e qualsiasi vicenda della storia, i segni di un volto di cui deve pur esistere immagine e somiglianza, sotto il velo delle cose e dell'umanità, e riascoltare la Parola che ha parole di pienezza di vita fino alle misure estreme dell'eternità.
Si diceva visione di Dio e dell'uomo senza distrazioni. Quindi non ci occuperemo più della Chiesa intesa come realtà di clero, istituzione ecclesiastica, ingranaggio gerarchico, attrezzatura e bagagliaio di tutto quel complesso più o meno macchinoso di temporalismi messo insieme in tanti secoli e terribilmente resistente, nonostante l'usura del tempo e gli attacchi delle forze di purificazione del nostro tempo.
Rimane chiaro ed intatto e sempre più fedeltà assoluta, un rapporto di Fede con la chiesa. Nella visione di Dio la Chiesa si rivela immediatamente come il suo popolo, incessantemente e appassionatamente richiamato ad essere nel mondo segno di Lui. E la chiarezza di questo segno è tutta in Gesù Cristo.
E Gesù Cristo va semplicemente accolto e vissuto. Per noi tutto un tempo è passato ormai. Tempo in cui la lotta e sempre, è stata motivata e guidata dall'Amore, sia pure - ma come dovrebbe essere se è Amore? - da Amore duro, tenace, ardente, appassionato.
Ma era inevitabilmente una lotta di scontro, di polemica, di risentimento, di angosciosa sofferenza, di bruciante desiderio perché Chiesa fosse cuore di Dio e cuore di popolo e assolutamente null'altro.
Ora questo tempo di lotta per noi si è forse concluso. Non è per abbandono o per stanchezza o perché ci è caduta perfino la Speranza e tanto meno l'Amore e la Fede.
Ma anzi è perché un più vero rapporto con la storia, una presenza più concreta, richiede ed esige motivazioni più profonde, quelle che stanno più a monte, si direbbe oggi. La serietà e la gravità di una lotta perché possa risultare veramente Amore, ha bisogno di essere causata e guidata da ragioni che nascano dalla roccia viva di una sorgente che scaturisca sempre più da Dio e dal suo Mistero, non da realtà di carne e da volontà di uomo, chiunque sia quest'uomo, anche se è sacra gerarchia.
Non sappiamo bene per il momento ma è esperienza che vorremmo fare - e nella nostra persona, concretamente, è già molto avanti, anche se tutt'altro che compiuta - di cercare l'adorazione di Dio "non in Gerusalemme o su questo monte, ma in spirito e verità perché sta venendo il tempo ed è ora, nel quale questa è l'adorazione che il Padre vuole". E di cui l'uomo ha profondamente bisogno per ritrovare il vero senso di Dio nella liberata conoscenza di Lui e l'essenzialità di un rapporto di Fede e di Amore che non crei una religione ma una realtà di vita per totalità di comunione fra creatore e creazione come luce di sole e i colori dei fiori, la terra riarsa e la pioggia dal cielo.
Vorremmo raccogliere in una comunità, che può nascere dalla solitudine di eremitaggi dispersi e nascosti in questo marasma di confusionismi che è il nostro tempo, chi ha scelto il deserto (vivere fuori, separato e solo, dall'abitato della civiltà attuale e dalla religiosità ufficiale) per poter radicalizzare il proprio coinvolgersi nell'umanità al di là di ogni condizionamento in totalità di misura quale dev'essere la misura dell'Amore, e stare davanti a Dio allo scoperto, a faccia a faccia nella Fede come sarà un giorno nella visione, al di là di ogni liturgismo e pastoralismo e per ascoltare la sua Parola pronunciata oggi e parlargli la parola che sale su dal cuore di ogni essere umano e dall'angoscia di tutta l'umanità.
Con umiltà e semplicità come uno che con la mano fa un cenno e dice: vieni, facciamo il giro del mondo, quello dell'universo... fin là dove certamente non finisce il camminare.
P. Dalmazio Mongillo
In tutti i nostri rapporti di conoscenza vi sono modi personali, strettamente legati a quell'insieme di valori che sono il noi stessi.
Come io guardo il cielo al mattino, quando si sveglia la luce all'orizzonte, o una stella nel cielo, la notte,l'altra sera in treno, venendo da Torino, attraverso il vetro del finestrino o un fiore, o un bucaneve qualsiasi, ma era il primo fiore di questa nuova primavera, qualche settimana fa, nel bosco della Trappa di Valserena, e cosi mille altre cose e forse tutte le cose, è senza dubbio il mio modo di guardare, è quindi diverso dal tuo, da quello di tutti, probabilmente.
Così e tanto più, perché i valori coinvolti sono infinitamente più profondi, è del conoscere Dio.
L'originalità del proprio guardare Dio e vederlo e ascoltarlo, è fondamentale per una chiarezza di conoscenza e per una autenticità di Amore.
E altrettanto importante è un'immediatezza di sguardo. Vedere il riflesso di lui, l'immagine, il segno della sua presenza, l'indicazione della sua grandezza, è un avviarsi alla conoscenza, come un essere richiamati a guardare più a fondo, sollecitati allo splendore dell'intuizione. Ma poi tutto è oltrepassato e quasi ogni cosa si annebbia e svanisce quando la percezione diventa diretta, immediata.
Allora il proprio io si dilata in una vastità d'incomprensione perché non c'è nulla da capire: è soltanto avvertimento di presenza, è percezione irrazionale per l'intervenire di un modo assolutamente diverso e nuovo, unicamente capace di «sentire» l'altro. E siccome si tratta di Dio, più che tutto, è percezione del non tempo, del non spazio, della non persona, volto o parola, ma semplicemente della presenza. Ma più che di una presenza definita o definibile, è impressione di totale verità di presenza, di vastità, di solitudine totale cioè di chi è l'unico, l'assolutamente tutto.
Può sembrare molto strano o anche letteralmente assurdo l'affermarlo, ma a me sembra di conoscere molto bene Dio. Sicuramente molto di più, incredibilmente di più, tant'è vero che non mi è nemmeno possibile il parallelo, di qualsiasi persona anche molto amata.
Perché di ogni cosa e di ogni persona, le apparenze concrete mi diventano impedimenti, creano barriere e limiti e oltrepassarli questi ostacoli è spesso impossibile, altro che in certi particolarissimi e rarissimi momenti e anche allora può essere sempre una forzatura soggettiva.
La creatura è impenetrabile. Non è cosi di Dio.
É il visibile un limite, non l'invisibile. É quello che si tocca con mano che crea e impone ostacolo. Non cosi l'inafferrabile.
L'invisibile e l'infinito è tutto aperto e immediatamente e totalmente percepibile, afferrabile e forse contenibile. Può essere tutto accolto dentro il grembo dell'intuizione, senza contenerlo o precisarlo, semplicemente vivendolo e, è chiaro, non in modo attivo, ma dolcemente passivo.
Evidentemente non si tratta di conoscenza intellettuale, teologica, libresca. E nemmeno meditativa, frutto di ascetismi ed elevazioni mistiche.
Forse basta semplicemente accettare, (è la parola giusta) che Dio esiste. E lasciarsi persuadere nel più profondo di noi stessi, cioè laddove si decide delle misure di spazio che intendiamo dare alla nostra esistenza, della concretezza del suo essere.
Perché tutto il modo di avvertire l'esistenza delle cose e il viverne l'esperienza, cambia totalmente, quando accettiamo nella realtà, la presenza di Dio. Questa, è chiaro, non può che essere totalizzante, non una componente, un qualcosa, una parte che sta insieme, aggregata, ma come avvolgente, come contenenza, come ragione di ogni cosa.
Mi è sempre avvenuto e non so bene per quale motivo, di avere avuto bisogno di Dio per capire cose e persone, la vita e tutto il suo mistero e tanto più per goderne la gioia, la bellezza, la poesia, l'Amore. Non è altrettanto vero il contrario: per conoscere Dio e godere il suo Amore ed esaltarmi del suo infinito e colmarmi della sua sovrabbondanza, e è difficile esprimere cos'altro ancora, non mi sono indispensabili le sue immagini di potenza, di bellezza, di bontà, non mi occorrono le sollecitazioni del visibile e tanto meno le risorse di cultura teologica e liturgica... Basta una semplice e facile liberazione dalla distrazione, cioè dall'assolutizzazione delle cose, dei problemi, dall'essere preso e oppresso fino alle misure dell'occupazione totale della mia interiorità. Come uscire dal buio e rientrare nella luce, svincolarsi dall'imprigionamento del particolare e respirare all'aperto del cielo azzurro dell'anima.
E immediatamente ecco la percezione di Dio, l'avvertimento della sua immensità, la comprensione della sua presenza dilatata e dolcemente dilatante. Perché s'impone in forza di se stessa e non per ragionamento e tanto meno per fatica di studio, questa presenza, che di per sé tende a manifestarsi come realtà assoluta, semplicemente tutto, esclusività perfetta .
Accogliendo con cuore umile e felicità esultante, nell'intimo del proprio essere, questa solitudine di Dio, fino alle misure perfette della sua unicità assoluta, avviene la profonda conoscenza di Dio, l'illuminarsi del suo Mistero, il manifestarsi, come semplice e diretta visione, del suo Essere.
Non è trascendenza e tanto meno un disincarnarsi. Un sognare a vuoto, un perdersi dietro illudenti sensazioni misticheggianti.
Mi è sempre successo e tanto più in questo tempo che sto attualmente vivendo, che questa conoscenza di Dio mi provochi e spesso con terribile spietatezza, ad un prendere coscienza della realtà, di tutta la realtà, comprendente l'apparenza e la sostanza delle cose, perché Dio è questa tremenda provocazione.
É presenza che coinvolge, questa presenza di Dio. E la sua solitudine semplicemente es-senzializza e potenzia il rapporto fino ad assolutizzarlo al di là di ogni possibile prudenza o paura, condizionamento o limitazione.
Il richiamo forte e tenace di Dio al suo essere l'unico, l'assoluto, per il suo popolo, era per impedire ogni evasione idolatrica, ogni distrazione dietro a motivazioni disorientanti, ogni e qualsiasi dispersione, in pura perdita, di forze individuali e di popolo.
Ascoltare la solitudine di Dio è la via facile e semplice della conoscenza di lui e è imparare come dev'essere l'abitare fra gli uomini.
don Sirio
Mi succede sempre più spesso di rimuginare nella mente cose studiate o semplicemente lette quasi per dovere scolastico e di scoprire significati e collegamenti che prima totalmente ignoravo. Niente di particolarmente chiaro ed importante, devo dire, se non la sensazione di essere sempre più debitore verso la vita di una possibilità, ancora insignificante, di comprensione del mistero della vita stessa nella continua tessitura di rapporti che provoca per una novità continua. Certamente questo avviene a prezzo di dolorosi sradicamenti, ma altrettanto entusiasmante è la possibilità di intravedere orizzonti nuovi, chiarori improvvisi. Avverto quanto la vita mi stia prendendo la mano, ma non ho paura, anzi direi piuttosto che mi sembra cosa molto bella riuscire, sia pure con tutta una fede, ad esser grato a chi la vita mi ha donato.
Sta prendendo piede in me un interrogativo fondamentale che sento decisivo per quello che può essere il tempo a venire: chi è il Signore della mia vita?
So che non si può servire a due padroni, ma proprio questa consapevolezza, che è lotta quotidiana per un minimo di coerenza e di sincerità, comporta l'inevitabilità di un padrone, di un rapporto di servizio, come di creatura a creatore.
Ricordo molto bene la leggenda di S. Cristoforo nell'interpretazione di Lanza del Vasto che accompagnava il recitare rime con il suono efficace, del cembalo su un poggio sopra la casa di Giannozzo all'imbrunire. La storia di quest'uomo che vuol mettersi al servizio del padrone più potente e che non accetta di servire più coloro che mostrano di temere qualcuno, al di sopra di loro è veramente straordinaria e mi convince sempre di più come decisiva di fronte alle esigenze che la vita suscita se la si ascolta. Da che parte sto? Chi è il Signore della mia vita?
Rispondere è tutt'altro che facile ed ancora maggiori difficoltà può comportare ogni approccio non sufficientemente serio e leale. Nella difficoltà gioca anche tutto un tentativo di confondere e indebolire le energie impiegate per la costruzione di rapporti autentici nella realtà. Il potere punta tutte le sue carte su questo disorientamento che favorisce lo spirito mercenario, l'adattamento passivo, l'adorazione idolatrica. Credo che dobbiamo tenere ben di conto questo contrasto non tanto per timore od eccesso di prudenza, quanto perché se è importante analizzare con chiarezza quali sono gli idoli cui deleghiamo la nostra vita, è forse ancora più importante cercare di comprendere perché così facilmente ci arrendiamo di fronte alla tentazione di riconoscere per nostro padrone il primo che passa per la strada o di accettare ad occhi chiusi quello che altri ci indicano come risolutivo nella loro esistenza concreta.
S. Paolo in due passaggi parla di una avidità che è idolatria. Sembra che voglia indicare una avidità vissuta in lucida e pressante ricerca di completezza di sé che si innesta sul vuoto di una vita infiacchita e dispersa. Spesso ci si ferma a dibattere sul contenuto di quest'avidità. C'è chi preferisce interpretare gli accenni di Paolo alla «avidità» come attrazione verso i piaceri impuri e quindi pone l'accento sulla dimensione sessuale. C'è chi invece preferisce parlare di «avidità di guadagno», di avarizia, ponendo l'accento sulla dimensione socio-economica. D'altra parte ancora una volta sentiamo che non è un discutere sull'oggetto di un atteggiamento radicato nel nostro essere che ci potrà aiutare ad essere più autentici e sinceri nel nostro vivere, quanto cercare di comprenderne le motivazioni.
Ed allora perché questa nostra «avidità», questa incapacità ad allargare il cuore con fiducia, questo desiderio spesso impazzito di non essere soli, di essere in vantaggio, di non sentirsi emarginati, di essere dalla parte di chi ci garantisce ordine e tranquillità o che garantisce comunque per la nostra instabilità?
Paolo afferma l'identificazione di questa avidità con l'idolatria. Come diverse possono essere le specificazioni dell'essere avido, cosi diversi possono essere gli idoli che vengono adorati. Resta comunque questa idolatria che nasce in una situazione di pretesa necessità e può aprire uno spiraglio per una conoscenza ulteriore del nostro problema.
Se per idolatria intendiamo, secondo la più classica delle definizioni, la parvenza incon-sistente che la stoltezza di certi uomini ha preteso di sostituire al vero Dio, ci troviamo a dover mettere insieme una pressante ricerca di completezza di sé con ciò che non ha consistenza, ma solo fuggevole apparenza. Può sembrare una contraddizione, eppure ciò che nella vita genera instabilità o per nostalgia di ciò, che si è perduto, o per l'istinto di difesa di ciò che si possiede, o per l'irresistibile richiamo di ciò che si potrebbe avere, appartiene all'ordine della vacuità, della inconsistenza, della apparenza, del vuoto. E non per manifesta inferiorità - come si sarebbe portati a pensare - di fronte a ciò che appartiene all'ordine della pienezza, della consistenza reale e concreta.
C'è un vuoto che chiama il vuoto, secondo un'espressione biblica, e provoca la crescita spasmodica dei bisogni, il loro disancorarsi da qualsiasi progetto fondato sull'umano. Non sta all'origine della nostra umanità e neppure pretende di esserne costitutivo, ci avvolge nell'illusione di una nostra autonomia, ci incatena in schiavitù di pretesa sufficienza dei nostri poteri. L'avidità, la sete di potere e di sicurezza, quale che sia, è spinta e cresciuta da un vuoto che diventa padrone della nostra esistenza e sta a capo del nostro agire. Questo vuoto non è più il risultato di un desiderio mal diretto, di voglie disordinate, ma al contrario è il vuoto stesso ad essere ciò di fronte a cui si inchinano le nostre volontà impazzite. Tutto questo dà valore idolatrico e quindi pretesa di totalità e di assoluto ad ogni bisogno sganciato dal progetto del nostro essere uomo. Che sia nella direzione della divinità o della bestialità, questo non ha molta importanza ai fini di un giudizio di una dignità umana tradita e non accolta, anzi respinta e combattuta proprio nel suo specifico.
Siamo stati chiamati ad essere uomini, donne ed a vivere questa nostra unicità che non è data alle piante e agli animali, ma neppure agli angeli. Essere uomini è compito nostro e solo nostro, la condizione alla quale siamo crocifissi nella nostra esistenza.
A questo nostro essere umano compete il limite, il finito, la instabilità, il lavoro che è fatica e trasformazione, l'amore nelle sue pieghe di gioia e di sofferenza, la speranza che è l'oggi concreto dilatato a misura d'orizzonti.
Non siamo noi la vita, ma a noi è dato di vivere ed il nostro vissuto rappresenta la risposta scritta nella carne e nel sangue, l'accoglienza del dono, l'accettazione della dignità di esser creatura.
Per liberarci dal vuoto che ci distrugge perché ci impedisce di essere nell'esatta dimensione della nostra umanità, credo che si debba passare ad un'altra schiavitù, ed altre catene e sono quelle di un'umanità consapevole di non appartenere a se stessa, ma di giocare un ruolo nella storia e nel vivere dell'universo. É schiavitù che non opprime, ma ristora; sono catene che non schiacciano perché il loro peso è dolce e soave; è legame che avvince perché è fatto del racconto di infinite liberazioni, è storia che non dovrebbe mai cessare di esser narrata nel mondo.
Chi è il Signore della mia vita? La domanda in sé ha già valore infinito. Quando questo interrogativo si pone alla coscienza di un uomo, è il germe di una solidarietà nuova che nasce, di una possibilità per l'umano di essere vissuto. Vuol dire che già vacillano le sicurezze innalzate da quel vuoto che è il potere, e irradia luminosità la ricerca,l'inquietudine dell'attesa, la fiducia nei mezzi poveri, l'accoglienza aperta a chiunque è in cammino.
don Luigi
Vorrei tanto riuscire ad esprimere con chiarezza e semplicità quello che scorre nel profondo del cuore e dell'anima, alla radice stessa della propria vita. Una realtà di fede e di amore, una speranza ancora non vinta e non fiaccata dalla fatica quotidiana, dalla scoperta della nudità e povertà dell'esistenza umana, dalla solitudine e dal dolore. Esperienza semplice ma vera di un cammino che si compie dietro una chiamata ad uscire dalla terra dei propri idoli per seguire il Dio vivo, il Dio che libera e salva attraverso il deserto, la perdita di ogni potere di dominio sugli altri, la scoperta pagata di persona che solo il dono di sé ha senso e che la vita di ogni creatura appartiene in modo assoluto al suo Creatore.
Questo cammino che io riconosco come un «esodo» personale che ha attraversato la mia vita e mi ha costretto a mettermi in viaggio senza bastone né bisaccia né denaro nella borsa, né sandali di ricambio, sento che tuttora mi incalza come un destino a cui è impossibile sfuggire. C'è qualcosa che preme e costringe a riprendere la strada quando tutto sembrerebbe pronto per una lunga sosta; bisogna disfare le tende, riprendere i pochi bagagli - ma, soprattutto - riaccendere il fuoco della fede e della speranza, la fame e la sete di nuovi orizzonti, la passione ardente per il regno di Dio e continuare la marcia.
É come un essere strappati di continuo dalle proprie radici, messi sottosopra come le zolle dal vomere dell'aratro ad ogni nuova semina, potati e sfrondati di ciò che non serve a far frutto come il contadino prima di ogni primavera fa con la vite. Esperienza semplice ma vera di una Presenza che non è dimostrabile con le nostre misure ed i nostri modi di ragionare, ma che si fa sentire più viva e palpitante del proprio sangue, perché è più forte della voglia stessa di vivere, più incalzante del tempo che passa, più decisiva di ogni altra ragione personale. Diventa l'unico motivo per cui si procede, la bussola della rotta da seguire, il traguardo della corsa, il principio e la fine, il senso di tutta la ricerca individuale e collettiva.
Rileggendo gli anni trascorsi sulla pista segnata da questa mano misteriosa mi rendo conto sempre più che l'esperienza più completa che forse ho fatto è proprio quella che nella storia della Salvezza è rimasta come il cardine della fede di tutto un popolo: esperienza di un Dio che ti viene a cercare, ti mette in marcia, ti segue giorno dopo giorno, ti ama e ti perseguita, ti accarezza e ti frusta purché sia possibile arrivare là dove è scritto che si arrivi, là dove la pista cominciata ha il suo vero termine. Ti rende libero perché tu possa essere motivo e speranza di liberazione per tutti, ti rende buono perché tu costruisca la bontà con gli altri, spezza i tuoi idoli, i tuoi falsi ideali, le tue bugiarde verità perché sia possibile riconoscere l'Unico Signore della vita, la Verità che può colmare ogni ricerca, la Ragione di tutta la vicenda umana.
Questa esperienza di essere stati presi e portati via perché Qualcuno ha incrociato la tua strada, come i discepoli sulla spiaggia sassosa del lago di Genezareth, resta senza dubbio nella mia vita di oggi la realtà più significativa ed anche più chiara: è come il filo conduttore di una storia semplice ed insieme misteriosa che si perde sempre più nel fiume del vivere umano.
Spero tanto che tutto questo continuo ed incessante esodo sia anche un entrare sempre più nella pasta, uno scendere al fondo dell'esistenza per essere granello di sale, fiammella di luce, pugno di lievito. Una realtà, quindi, di incarnazione. Mi sembra cosi di poter continuare la marcia nella ricerca seria di vivere «dentro» la storia del mio tempo, del mio popolo, della gente con cui divido il pane, la speranza, la solitudine e la gioia. Con la certezza pagata giorno per giorno che l'acqua viva che dà senso e valore alla vita non può venire dalle nostre cisterne d'acqua stagnante, ma dall'unica sorgente che disseta e toglie veramente ogni arsura.
Dio mi si è fatto più vicino, più compagno di viaggio, pane nella bisaccia, fiaccola nella notte, fuoco nelle fredde serate invernali e brezza leggera nel calore dell'estate: un compagno che sempre più si fa silenzioso, quasi si nasconda e si veli come Gesù con i due discepoli di Emmaus. Ma il cuore, pur stanco e abbattuto dalla cattiveria e dal dolore, ne avverte la presenza, il calore, la forza vitale.
Dio si è fatto carne e ha messo la sua casa fra noi: questo è l'annuncio di salvezza della fede cristiana. É nella nostra carne che soffre, che cerca, che lotta e spesso muore sotto il peso dell'ingiustizia, dell'egoismo, dell'incapacità a vedere e a fare la verità, a vivere unicamente d'amore, che Dio non si stanca di nascondere il seme della vita, la potenza della resurrezione. Gesù è tutto questo: vorrei tanto rimanere fedele alla sua strada, esserne indicazione semplice e chiara, coraggiosa e tenace. Vivere questo sacerdozio senza insegne né titoli né gradi; poter essere riconosciuto unicamente dal grande segno cristiano che Gesù ha indicato come l'unico valido e decisivo: «Da questo vi riconosceranno come miei discepoli, se vi amerete gli uni agli altri». Una fede, una speran-za, un sogno mantenuto vivo nel cuore che il regno di Dio viene continuamente e si fa con la pasta della storia umana.
Essere disponibile e pronto nel medesimo tempo all'esodo e all'incarnazione, a lasciar tutto per seguire il sentiero che viene tracciato all'improvviso davanti e a mettere radici profonde e solide nel groviglio della vita. Essere fedele a Dio e all'uomo; più a Dio che all'uomo, quando ciò sia necessario. Ma anche all'uomo, agli uomini miei fratelli, in forza proprio di quell'unica fedeltà alla volontà del Padre che è la sola che io senta come determinante e decisiva nella mia vita.
Oggi, più di ieri, non ho niente: direi che sono a mani vuote, con l'unica ricchezza che viene dalla fede nel Cristo vivente. Forse comincio ad essere cristiano e appena appena intravedo cosa significhi vivere di fede. Ma questo pane che ritrovo sulla mia tavola lo voglio dividere con chiunque avverta la mia stessa fame e senta di dover seguire la stessa pista nel deserto.
don Beppe
Piccolo pesce
nel buio dell'abisso
a cercare una pietra
dove nascondersi
E tu, mio Dio, sei
mare infinito.
Uccello migratore
dal volo instancabile
inquieto a cercare
terre da abitare
E tu sei, mio Dio
immenso universo
Spaurita gazzella
sospettosa di tutto
perché sa che la cerca
il dente del leone
E tu, mio Dio, sei
divorante leone.
Albero della foresta
fragile e forte
squassato e spezzato
dalla violenza del vento
E tu sei, mio Dio
inesauribile sorgente.
Cielo e terra
Stelle e granello di sabbia
Violenza e pace
Amore e paura
Tu sei tutti, mio Dio
e sei come niente
Sirio
C'era un 'anfora antica. La cosa risale a tantissimi anni fa, anzi si tratta senza dubbio di secoli e forse di secoli di secoli.
Anzi quanto più il tempo è remoto, meglio è: il significato del racconto acquista un valore che stupisce ancora di più.
Perché questa storia si racconta per suscitare fiducia nell'animo di chi è in pena perché non vede venire a frutto le sue imprese, non soltanto, ma pensa perfino che passata una primavera e tanto più se sono tante primavere non avendo visto spuntare niente, tutto ormai sia morto, non ci sia più speranza. E che sia vana quindi l'attesa.
É molto sbagliato pensare così. Perché ecco intanto cosa può succedere nel mondo. C'era dunque un'anfora. Era stata seppellita nella tomba del re. Ammettiamo pure che si tratti di un faraone dell'Egitto.
Nell'anfora avevano messo del grano. Il re poteva averne bisogno o per farne una focaccia e mangiarsela a merenda, un pomeriggio, se gli fosse venuta fame oppure se si fosse trovato in buone terre, poteva anche farlo seminare quel grano: gli avrebbe reso sicuramente dei buoni raccolti.
Sta il fatto però che, chissà per quale ragione, il re non apri mai l'anfora nascosta, accanto a lui, nella sua tomba. E il grano rimase li, chiuso ermeticamente nell'anfora. Intorno al tappo avevano colato della cera e quindi nemmeno l'aria sapeva che dentro l'anfora si nascondeva del buon grano.
Passarono gli anni, i secoli, e forse i millenni, tanto non ha importanza il tempo più o meno lungo che sia.
Un giorno dei ladri si azzardarono a turbare gli antichi sonni del re. Si trattava di ladri moderni, di quelli che sanno bene che le cose antiche sono preziosissime per via degli scienziati che ci studiano, dei ricchi che se ne fanno un vanto. Sta il fatto che i ladri misero a soqquadro quella tomba di re e rubarono tutto compresa la mummia reale.
Anche l'anfora col suo segreto sigillato, fu portata via. Un pezzo qui, un pezzo là, tutto fu venduto di soppiatto, perché si sa eran cose rubate e per di più antiche.
L 'anfora pare che di mano in mano andò a finire sul tavolo di uno studioso di archeologia, cioè uno che guarda soltanto voltato all'indietro. Fu sistemata in bella mostra insieme ad altri pezzi. E lì fu dimenticata.
Un giorno però, quando si dice il caso, la donna di servizio spolvera lo studio dello studioso dell'antico. E non si sa bene come è andata, ma l'anfora, come se avesse uno spiritello in pancia, cade di sul mobile sul pavimento e nonostante il tappeto e il grido soffocato della povera donna - e non sapeva che era causa fortunata di un miracolo quella sua sbadataggine - va in mille pezzi.
E sul tappeto persiano si spande a ventaglio una spipporata di grano, grano autentico mietuto - quante migliaia di anni fa? - sulle pianure d'Egitto fertilizzate dall'alluvione del Nilo.
Il grano fu raccolto con amorosa cura. Fu trovato un contadino, un buon pezzo di terra. E fu seminato, al tepore d'ottobre, nel seno caldo dei solchi.
E i solchi si rivestirono di verde e crebbero gli steli di grano e poi la spiga e a giugno era frumento dorato di sole.
C'era un 'anfora antica. La cosa risale a tantissimi anni fa, anzi si tratta senza dubbio di secoli e forse di secoli di secoli.
Anzi quanto più il tempo è remoto, meglio è: il significato del racconto acquista un valore che stupisce ancora di più.
Perché questa storia si racconta per suscitare fiducia nell'animo di chi è in pena perché non vede venire a frutto le sue imprese, non soltanto, ma pensa perfino che passata una primavera e tanto più se sono tante primavere non avendo visto spuntare niente, tutto ormai sia morto, non ci sia più speranza. E che sia vana quindi l'attesa.
É molto sbagliato pensare così. Perché ecco intanto cosa può succedere nel mondo. C'era dunque un'anfora. Era stata seppellita nella tomba del re. Ammettiamo pure che si tratti di un faraone dell'Egitto.
Nell'anfora avevano messo del grano. Il re poteva averne bisogno o per farne una focaccia e mangiarsela a merenda, un pomeriggio, se gli fosse venuta fame oppure se si fosse trovato in buone terre, poteva anche farlo seminare quel grano: gli avrebbe reso sicuramente dei buoni raccolti.
Sta il fatto però che, chissà per quale ragione, il re non apri mai l'anfora nascosta, accanto a lui, nella sua tomba. E il grano rimase li, chiuso ermeticamente nell'anfora. Intorno al tappo avevano colato della cera e quindi nemmeno l'aria sapeva che dentro l'anfora si nascondeva del buon grano.
Passarono gli anni, i secoli, e forse i millenni, tanto non ha importanza il tempo più o meno lungo che sia.
Un giorno dei ladri si azzardarono a turbare gli antichi sonni del re. Si trattava di ladri moderni, di quelli che sanno bene che le cose antiche sono preziosissime per via degli scienziati che ci studiano, dei ricchi che se ne fanno un vanto. Sta il fatto che i ladri misero a soqquadro quella tomba di re e rubarono tutto compresa la mummia reale.
Anche l'anfora col suo segreto sigillato, fu portata via. Un pezzo qui, un pezzo là, tutto fu venduto di soppiatto, perché si sa eran cose rubate e per di più antiche.
L 'anfora pare che di mano in mano andò a finire sul tavolo di uno studioso di archeologia, cioè uno che guarda soltanto voltato all'indietro. Fu sistemata in bella mostra insieme ad altri pezzi. E lì fu dimenticata.
Un giorno però, quando si dice il caso, la donna di servizio spolvera lo studio dello studioso dell'antico. E non si sa bene come è andata, ma l'anfora, come se avesse uno spiritello in pancia, cade di sul mobile sul pavimento e nonostante il tappeto e il grido soffocato della povera donna - e non sapeva che era causa fortunata di un miracolo quella sua sbadataggine - va in mille pezzi.
E sul tappeto persiano si spande a ventaglio una spipporata di grano, grano autentico mietuto - quante migliaia di anni fa? - sulle pianure d'Egitto fertilizzate dall'alluvione del Nilo.
Il grano fu raccolto con amorosa cura. Fu trovato un contadino, un buon pezzo di terra. E fu seminato, al tepore d'ottobre, nel seno caldo dei solchi.
E i solchi si rivestirono di verde e crebbero gli steli di grano e poi la spiga e a giugno era frumento dorato di sole.
In via dei Lecci, oltre il muro della tenuta, c'è una piccola cappella ricavata in una stalla col permesso padronale. Accanto, la casa dei contadini che da anni ci hanno accolto con grandissima amicizia. La ferrovia Genova-Roma crea una barriera tra questa striscia di terra abitata lungo la pineta e i gruppi di case lungo la vecchia Aurelia dove sorge la chiesa parrocchiale di Bicchio.
Vado spesso a celebrare la messa alle nove ed è un incontro molto semplice con un gruppettino di gente sempre molto fedele a questo appuntamento domenicale. Io, ma anche gli altri preti credo, mi lascio andare a prediche in cui ci sta tutta una mia riflessione ed è come confidare un po' tutto un problema di fede e di vita che mi angustia nei giorni della settimana. La pazienza degli ascoltatori è grande, ed anche l'affetto credo.
Da qualche domenica sto cercando di tirare avanti una riflessione sulla confessione. Ci sono tante cose da dire, una analisi che necessariamente va fatta, un rivedere con calma le precedenti esperienze per cercare di filtrare ciò che possiamo e dobbiamo conservare come tesoro di tradizione di fede e ciò che invece è doloroso ed amaro groviglio di umana miseria.
Ma il problema principale rimane quello della determinazione del peccato. Cos'è peccato? Certo lo sappiamo tutti che uccidere, rubare, offendere a morte son cose che non vanno fatte, ma nessuno di noi si augura di trovarsi coinvolto in simili tragedie. AI di là di questa barriera sempre più fragile e meno sicura per l'incalzare di una periferia che porta i segni di queste terribili esperienze, c'è il vasto ristagnare di piccole infedeltà quotidiane che non scuotono un andamento quotidiano fatto di sostanziale bontà ed onestà: i peccati? eh, si sa sono sempre i soliti.
Abbiamo cercato di ribaltare il problema: non è tanto determinante sapere ciò che è peccato, è assolutamente importante credere in Dio. Se accogliamo Dio, solo allora, potremo sapere ciò che è riflesso della sua luce e ciò che invece è ostacolo che fa ombra. Una stanza buia può essere ordinata o disordinata, nessuno si accorge della differenza, ma se si lascia che la luce la invada allora ciò che è in disordine appare chiaramente.
La confessione è la testimonianza visibile di questa illuminazione interiore che non si limita a rendere evidente il disordine, ma realizza l'armonia. E'l'invito ai fratelli a far festa per uno spazio di libertà che si dilata, a riconoscere e convalidare la rottura di catene perché altri legami di vita sono sopravvenuti.
Di nuovo quindi siamo rimandati al problema di Dio. Che cosa vuol dire Dio per noi? E' un soprammobile nella nostra vita? Cosa c'entra Dio nelle realtà quotidiane? Se penso al denaro vedo subito che ruolo giuoca nella mia vita, quali condizionamenti crea nella mia giornata. Se penso ai rapporti con gli uomini mi rendo subito conto di come sia modificata dagli altri la mia vita. E Dio? (continua)
Luigi
Luigi Sonnenfeld
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