Non riusciamo a prendere per buona questa parola ormai entrata in uso (come del resto tutta una terminologia "moderna" in pura perdita di chiarezza e di limpidezza di un esprimersi della Fede). Sa molto di tecnicismo, di tattiche ben congegnate, di sistemi per darla ad intendere, e anche di un qualcosa come di tentativo per una vera e propria imposizione... Basta coniugare il sostantivo in verbo e ne viene subito un'impressione sgradevole e ai nostri tempi, senza dubbio, poco accettabile: io evangelizzo, tu evangelizzi... noi evangelizziamo ecc.
Storielle, d'accordo, ma forse con dei significati assai importanti se le riferiamo a tutta una mentalità e più ancora a tutto un sistema, che nonostante tutto, continua ancora a determinare il modo di presentazione della Fede cristiana da parte della Chiesa.
Non è soltanto questione di parole, ovviamente, ma noi preferiamo, piuttosto che evangelizzazione, annuncio del Vangelo.
Non sarebbe poi tanto difficile e forse ce lo potremmo permettere anche noi che pur non siamo acculturati e non intendiamo, e non soltanto per incapacità, rifarci alla scienza teologica, esegetica, giuridica ecc. per affermare e sostenere le nostre scelte di vita cristiana e di rapporto con la realtà storica del nostro tempo, non sarebbe poi impossibile provare quanto l'annuncio rientri nello spirito e nella prassi del Vangelo e, in genere, in tutto il Nuovo Testamento.
A noi ci basta che vi sentiamo dentro, nella Parola di Dio proclamata come annuncio, tutto un meraviglioso valore di Fede. Un semplice offrirsi come anima e carne che accoglie - accoglienza totale, purissima e traboccante - e comunica, cioè offre la sovrabbondanza del cuore. Non è possibile tenere per sé, chiudere dentro, custodire gelosamente la rivelazione di Dio. Sarebbe la negazione dell'Amore, spilorceria dell'anima, avarizia dei tesori di Dio. Nascondere la luce sotto il moggio. Tenersi il buon grano nel proprio sacco... Annuncio come un donare, un accendere, un cantare. Un'anima che affida alle parole tutta una Fede. E cerca di tradurre in linguaggio una speranza infinita e canta, come l'innamorato, le profondità insondabili di tutto un Mistero d'Amore.
Perché la verità scende tutt'intera ed intatta da Dio e le parole sono la sua Parola. Non è frutto di intelligenza umana e non può essere o diventare una scienza. Tanto meno può costituirsi come cultura, dove la Fede, cioè la rivelazione di Dio, rimane impastata e inquinata di mescolanze di uomini.
L'annuncio è «sì, sì, no, no» perché tutto il resto viene dal maligno, è tentativo cioè di ambiguità, di equivoco, è inframettenza, compromissione, può .essere strumentalizzazione, imbroglio.
L'annuncio è adorabile libertà, parola che corre, cammina, va e viene come il vento che non sai di dove viene e dove va, non è parola legata o legabile da niente e da nessuno. Tutto lo spazio appartiene all'annuncio fino agli estremi confini della terra e tutto il tempo ha a disposizione fino al consumarsi dei secoli. In una totale libertà, anche di essere rifiutato, respinto, non ascoltato: allora c'è soltanto da scuotere anche la polvere dai piedi di quella città (cultura. civiltà, politica, regime ecc.) perché ha preferito chiudere gli orecchi e il cuore all'annuncio. Perché I'annuncio è capacissimo,con estrema semplicità e serenità, di essere anche e soltanto una voce che grida nel deserto. Una voce che non accetta di stancarsi, di affievolirsi e tanto meno di essere messa a tacere. Perché se cessassero dall'annuncio le labbra degli uomini, griderebbero i lattanti, e addirittura le pietre..
E' da questa libertà, purezza verginale dell'annuncio, che unicamente può nascere e splendere un limpidissimo e totale rispetto di tutti quelli ai quali l'annuncio è rivolto e offerto.
Perché la verità di Dio è essenziale all'uomo e alla sua salvezza, è fondamentale per l'autenticità dei rapporti umani, decisiva per la costruzione dell'umanità nella sua storia, ma proprio per questa sua essenzialità non può che essere annunciata, offerta.
E' come la luce del sole che si offre nel fulgore del cielo. Come la pioggia che scende a fecondare la terra. Ed è per questo che non vi è preferenza per chi ascolta nel confronti di chi non ascolta e nonvuole ascoltare, non vi è distinzione fra chi accoglie l'annuncio o lo respinge.
Perché i contenuti dell'annuncio sono il Vangelo, la buona novella, il racconto dolce e familiare, di Dio che ha tanto amato il mondo da mandare suo Figlio Gesù perché glielo dicesse al mondo intero questo Amore di Padre e lo dimostrasse fino a morirne e di morte di croce, agli uomini, a tutti gli uomini. Ma specialmente ai poveri, a chiunque soffre prigionia: tutto è così vero che gli zoppi camminano, i sordi odono, i ciechi vedono e i morti risorgono.
E' proprio vero che il di più da questo "sì, sì, no, no"viene dal maligno, e intorbida, annebbia, rabbuia, intristisce, complica, appesantisce: trasforma in parole di uomini la Parola di Dio, in scienza la semplicità,in imprigionamento la liberazione, in teologie la Fede, in tentativi di promozione umana l'onnipotenza dell'Amore...
..Finché non sarà finito il tempo, almeno nel Mistero delle cose di Dio, di chi vuole e intende assolutamente essere padre, di chi s'impunta a voler essere maestro, di chi vuoi essere a tutti i costi considerato capo e insiste nel suo voler essere giudicato pastore e guida: dimenticando o complicando ogni cosa fino a renderla irriconoscibile la Parola. che è una sola, quella di Dio che si fa carne e abitazione fra gli uomini. Quella Parola che fu annunciata a Maria, ai pastori di Betlem, alle moltitudini dalla Galilea fino a Gerusalemme, alle donne al sepolcro, ai discepoli di Emmaus sulla strada, agli apostoli a Pentecoste, e a tutti gli uomini fino agli ultimi confini della terra.
Poi gli uomini di Chiesa ne hanno fatto e ne fanno tutto quello hanno voluto, ma specialmente se ne sono appropriati, filtrando l'annuncio in catechismi ed evangelizzazioni, liturgie e devozionalismi. Sbriciolando e logorando la tremenda novità scesa dal cielo per rinnovare la terra e fare nuove tutte le cose, in tradizionalismi e osservanze precettistiche, istituzionalizzando la Parola dell'annuncio, imprigionandola in schematizzazioni prestabilite e intenzionalizzate.
Per questo ci rimangono in fondo all'anima perplessità e preoccupazioni per una "evangelizzazione che possa essere capace di promozione umana".
Perché ci potrà essere dentro in tutto questo progetto, di studi profondi, di congressi e convegni, di tavole rotonde e ricerche culturali ecc. ecc., ma può forse mancare e il vuoto non potrà non farsi sentire paurosamente, la potenza dello Spirito Santo: quello dell'annuncio, da Maria all'Apocalisse.
La Redazione
Ho partecipato con un piccolo gruppo di amici di Pietrasanta al convegno di studi della Cittadella di Assisi sul tema 'Chi è Vangelo oggi'.
Forse il fatto di dover fare ogni sera un breve tratto di strada per ritornare alle nostre tende, forse una dannata capacità tutta toscana di ironizzare su tutto, non ci ha impedito una partecipazione continua, ma ci ha salvato da tutto quel 'chiacchiericcio' che è la parte deteriore nei tempi morti dei convegni. Assisi poi è inesauribile in una proposta misteriosamente sempre nuova.
Franco ha scritto un breve resoconto dei momenti essenziali del convegno. Da parte mia vorrei notare alcune cose su cui ho avuto occasione di riflettere.
Ho partecipato al gruppo di studio sul problema degli handicappati. Non sfioro questo problema, così grave anche da noi, neppure con la punta di un dito. Mi interessa, in modo appena percettibile ancora, il problema della salute e l'argomento handicap era quello che più vi si avvicinava.
Ho partecipato con crescente interesse a ciò che i miei compagni andavano dicendo delle loro esperienze. Ho avvertito timidamente farsi strada la consapevolezza di percorrere un cammino alternativo a tutto ciò che la scienza ufficiale (quella medica e quella sociologica) propina oggi sull'argomento handicap avvertendone l'importanza come capo di investimenti di capitale destinato ad allargarsi in un prossimo futuro. La demitizzazione della figura dello psicologo, dell'équipe specializzata, non più a livello di chiacchiere contestative, ma di esperienze alternative portate avanti nella consapevolezza che usare dei mezzi poveri non vuol dire affatto cadere nello spontaneismo e nel pressapochismo, ma è strada dura, piena di attenzioni, di ricerca, di studio, di riflessione nella convinzione che i problemi fondamentali sono essenzialmente gli stessi per l'uomo oggi nelle diverse condizioni di vita. Non è più possibile onestamente ricercare soluzioni per 'gli altri' senza cadere nell'imbroglio che ci vuole divisi nella reciproca assistenza per indebolire l'uomo nella sua dignità ed originalità e renderlo schiavo dei suoi bisogni. Quanto sia difficile impostare un rapporto di 'comunione' appare chiaro nella società come nella Chiesa e senza comunione parlare di 'servizio' è mascherare con questa parola quello che è solo misero sfruttamento.
Ripensavo ai preti-operai, alle loro dichiarazioni di essere evangelizzati dalla classe operaia, alla disponibilità di molti ad essere 'luoghi di comunione' perché la Chiesa potesse ascoltare una Parola che tace all'interno di essa perché non l'ha voluta raccogliere nel cammino della storia. Penso ai tanti amici che hanno ascoltato il Vangelo che passa attraverso la storia del movimento operaio, al-le loro fatiche, alla loro solitudine, alle dolorose rinunce per speranze impossibili, alle ingenuità e agli sbagli che appartengono solo a chi rischia qualcosa. Oggi il prete che va a lavorare lo fa per lo più per motivi personali o immediatamente pastorali e la Chiesa si interessa sempre più dei problemi del mondo del lavoro all'insegna del 'siamo tutti lavoratori'. Crescerà probabilmente la possibilità di 'evangelizzazione', ma forse, ancora una volta, rimarrà sacrificata una ricerca di comunione che sola può dare una dimensione nuova, un muoversi diverso degli uomini nella storia e nel mondo. Credo ancora di più che ciò che costruisce l'uomo non è tanto il 'dare' (pur sempre passo iniziale ed essenziale) quanto il 'saper ricevere', e ciò che costruisce il credente è il 'saper ascoltare' quel Vangelo che risuona nella vita dei deboli e degli umili di sempre.
don Luigi
Comunicare l'esperienza di un convegno come quello di Assisi - fatto di dibattiti, discussioni e scambi a getto continuo - non è veramente possibile, perché non è possibile ricreare a freddo quel particolare clima di ricerca e di disponibilità interiore che caratterizzava quelle giornate.
Qualcuno può pensare che questa fondamentale incomunicabilità stia ad indicare che in fondo il Convegno - questo, come tanti altri - non è servito, non servirà a niente: è stato semplicemente quello che si dice una «belIa esperienza», una specie di ubriacatura di parole dalla quale occorre finalmente svegliarsi.
La realtà vera della vita e della storia non sta certo di casa nei convegni, neppure in quelli della Pro Civitate Christiana di Assisi. Quante volte ci siamo detti qualcosa di simile, ascoltando i fedeli accaldati e distratti negli abiti della festa, accostandoci a ricevere l'Eucarestia con altri estranei dalle mani di un vecchio prete: la vita vera, la storia umana è fuori!
Ebbene, proprio questo è stato il succo del Convegno di Assisi: la vita vera - Cristo, nostra vita - non abita nelle nostre chiese più di quanto non abiti in qualunque realtà umana emergente, e particolarmente nel mondo degli umili, degli emarginati, degli esclusi, cioè nel mondo di coloro che portano il peso del cambiamento che tutti ci coinvolge. Costoro oggi sono, per noi, Vangelo.
Già sapevamo che nel più piccolo dei nostri fratelli dovevamo riconoscere il Signore, ma credevamo di doverlo avvicinare come il ricco che dona del suo - cioè del Vangelo a noi Chiesa affidato. Oggi stiamo invece lentamente comprendendo che dagli umili, dagli emarginati, dagli esclusi, persino per certi aspetti dai bambini, siamo noi a dover imparare, insieme al nuovo volto dell'uomo anche e soprattutto il nuovo volto di Dio incarnato nell'uomo. E questo, non una volta per tutte, ma di nuovo in ogni epoca storica, con tutte le lacerazioni e le sofferenze che la storia richiede.
E' stato detto ad Assisi che stiamo oggi attraversando - e lo sperimentiamo nelle nostre coscienze - un profondo movimento tellurico, al termine del quale tutte le componenti del Cristianesimo tradizionale, senza scomparire, si troveranno profondamente dislocate. Tale è infatti il passaggio dell'ottica ecc1esiocentrica - secondo la quale Dio ama il mondo mediante la Chiesa - all'ottica cosmocentrica, - secondo la quale il mondo è l'oggetto diretto dell'amore di Dio e la Chiesa non è altro che la comunità di coloro che riconoscono tale amore.
Ma che cosa significa questo, per la nostra vita di tutti i giorni? Schematizzando e senza alcuna pretesa di completezza, mettere il mondo al centro della nostra vita cristiana, significa in primo luogo sottolineare fortemente il valore evangelico di ogni realtà profana, abbandonare definitivamente la pretesa che ci siano realtà «più cristiane» di altre (come per es., la nostra civiltà occidentale o un certo assetto sociale legato alla proprietà privata dei mezzi di produzione), prestare attenzione senza pregiudizi moralistici ai movimenti della storia presente e ai gruppi umani che li portano avanti - categorie, ceti o classi sociali che siano. Nei rapporti interpersonali, ciò significa anche tra l'altro rifiutarsi di collaborare alla cosiddetta «promozione sociale» di questa o quella persona - cioè alla sua integrazione nel sistema, - per collaborare invece a far emergere i valori di cui essa sia portatrice e che il sistema rifiuta.
In secondo luogo, mettere il mondo al centro significa sottolineare fortemente il valore ecclesiologico della realtà profana, cioè la profonda relatività delle chiese esistenti e delle loro divisioni e insieme la necessità di una Chiesa nuova, costituita da tutti coloro che realizzeranno nella prassi la volontà del Signore, magari incapaci di invocarLo come tale e comunque senza contentarsi di semplici invocazioni.
Il convegno di Assisi, senza pretendere di trasformare il mondo o la Chiesa con le parole, è stato un momento di incontro tra credenti e non credenti che in questa trasformazione sono già profondamente impegnati. Ciascuno sentiva dunque di dover rispondere delle sue convinzioni e delle sue parole non tanto al Convegno e ai convegnisti, quanto piuttosto agli uomini che lo attendevano fuori: di qui un'estrema libertà e laicità del dibattito. Ciascuno nel contempo sapeva di potersi esprimere liberamente, senza dover a priori evitare contrapposizioni e conflitti: di qui un'atmosfera di grande fiducia e cordialità, pur nella vivacità di certi interventi e nella distanza di certe posizioni.
Veniva pensato, in certi momenti, quale potrebbe essere o diventare la Chiesa, se il ministero sacerdotale si limitasse ad assicurare a tutti, senza preclusioni e in ogni occasione, la possibilità di un simile confronto fraterno se, come alla Cittadella, il ministero si definisse in funzione di questo moderno «servizio della parola», cioè delle parole di tutti.
Franco
E' tanto, tempo che avevo voglia di parlare un po' di una realtà che fa parte della vita della gente semplice, umile, che non ha particolari importanze e che quindi non è presa in considerazione da nessuno ma che possiede nel profondo del proprio cuore una sapienza unica, direi a volte eccezionale dato i tempi che corrono a tutti i livelli. C'è una ricchezza davvero grande che ho scoperto da tanto nel vivere di quelli che non mi riesce chiamare se non col nome di "poveri", di "povera gente", di popolo semplice la cui vita è realtà di fatica, di sudore, di speranza tenace, di amore ai propri figli, alla terra, di attaccamento a tutto ciò che significa pace, bontà, amicizia schietta giustizia, fratellanza... E' quella che mi sembra giusto chiamare la "teologia della povera gente": essa è diventata sempre più patrimonio prezioso e sacro per me nel cammino di questi anni che assomiglia ad una continua discesa dall'alto del piedistallo fino a mescolare la propria storia con la storia di tutti, il proprio sforzo con lo sforzo di tutti, la ricerca, l'amore per la verità, la povertà con quella di tutti.
E a questa teologia fatta di poche cose - ma assolute ed essenziali come il pane, l'acqua, il vino, il sole, le montagne, una stella, un fiore - che mi ha fatto ricomprendere a nuovo la realtà del Vangelo, mi ha aiutato a capire il senso reale del messaggio di Gesù, della sua vita e della sua lotta, della sua morte e della sua resurrezione. Perché la teologia di Gesù, il suo parlare di Dio, del Padre, il suo annunciare il Regno che viene, il suo modo concreto di vivere il fatto religioso liberandolo da ogni legalismo esteriore, il suo denunciare l'oppressione della classe sacerdotale sulla vita del popolo, il rifiuto deciso di ogni compromesso col potere e la ricchezza, tutta questa teologia e per i poveri, gli umili, i senza-potere, i puri di cuore, gli affamati e assetati di giustizia, Gesù rivela al mondo intero che il volto di Dio, la sua presenza più chiara sulla terra è ogni creatura, anzi la più piccola, la più debole, la più scartata ed emarginata.
Egli insegna una teologia, una visione religiosa del mondo, della Vita, della storia che non corrisponde alla teologia ufficiale; quella degli scribi di Gerusalemme, dei farisei, dei rabbini "seduti ad insegnare sulla cattedra di Mosè". Il Dio di cui parla e nel nome del quale gioca interamente il suo destino preferisce la strada deserta e pericolosa che va da Gerusalemme a Gerico piuttosto che il Tempio profumato d'incenso e pieno di canti e di suoni. Ed è lì che il samaritano lo incontra lo riconosce mentre il sacerdote ed il levita perdono l'appuntamento. La teologia di questo «miscredente» non ha titoli né lauree, è fatta solo di olio, vino, un cavallo, un posto in albergo, due denari versati subito e il resto al ritorno: ma è teologia che libera e salva l'uomo rapinato e lasciato mezzo morto al margine della strada.
Dopo aver studiato la teologia sui banchi del seminario, istruito da mediocri ed anche da ottimi "rabbini", mi sono ritrovato a percorrere una strada non esattamente tracciata sulle carte di navigazione della vocazione sacerdotale, ma che mi appare sempre più come, strada molto impegnativa e seria, che affonda e penetra ne1 mistero stesso della vita, della realtà umana, dell'esistenza universale.
La scienza imparata sui libri e nelle discussioni sapienti .non mi sembra più così importante; anzi spesso si rivela un inciampo, un carico inutile, vuoto. Una sapienza secondo gli uomini, ma non secondo Dio. Un ragionare secondo la carne e non secondo lo spirito. Una teologia da ricchi, da furbi, da potenti a dominatori della gente: sento di essere stato ammesso a partecipare ad un altra scuola, molto più autentica e vera, più essenziale e senza inganni. Ritrovo così il sapore del messaggio evangelico nel vivere di tanta gente che non ha mai letto "un libro di chiesa", neppure il Vangelo perché non ne ha avuto la possibilità materiale, ma che il Vangelo se lo porta scritto nella carne e nel sangue, nel profondo del cuore e dell'anima, là dove Dio abita e trova il suo vero spazio di presenza e d'amore.
E' a questa teologia fatta di enormi sofferenze, di speranze senza fine, di bisogno immenso d'amore, di rispetto e di accoglienza, di lotta seria per un mondo diverso, di dono di sé nel silenzio quotidiano, che bisognerebbe dare la nostra piena attenzione. Una teologia che non ha università per essere insegnata, ma si trova mescolata come lievito di vita nelle lotte dei poveri, dei disprezzati, degli umiliati di oggi e di sempre, che nasce nei campi, nelle officine, nei manicomi, nei ghetti di ogni nazione, nelle lacrime e nel sangue degli oppressi: è a questa teologia che credo di dover dare precedenza assoluta.
Questo non vuol dire affatto - e l'accusa è facile e sbrigativa - trasformare il problema religioso in problema politico, passare tranquillamente dall'impegno evangelico all'impegno sociale: significa compiere un atto di verità, riconoscendo la strada dove Dio cammina.
Sarebbe cosa estremamente importante se come Chiesa avessimo la capacità ed il coraggio di metterci in ascolto di questa voce che viene su dal profondo della vita della povera gente: da qui potrebbe nascere una "pastorale" che non ha bisogno di testi aggiornati, di catechismi rinnovati, di liturgie ripulite e rilucidate. Siamo sempre nel "tempio" (a Gerusalemme o in Samaria è lo stesso) fuori della strada dove Dio è in attesa di essere riconosciuto e amato. Basterebbe il testo della lettera di Giacomo che si leggeva nelle domeniche di Settembre così drammaticamente attuale e chiaro, comprensibile a tutti, tagliente e senza parole inutili. Un parlare non certo raffinato, un linguaggio come quello che ho sentito tante volte sulla bocca di molti compagni operai. Una teologia da povera gente, ma capace di liberarci e di rnantenerci sulla strada giusta. Certamente una teologia molto scomoda e inquietante per le nostre orecchie di benpensanti della domenica ben difesi e corazzati contro ogni possibilità di provocazione: ma che là dove essa è annunciata e testimoniata {come dai vescovi dell'Ecuador) subito suscita lo scontro, fa correre la polizia, fa scattare il meccanismo della difesa delle tenebre. E' la teologia del "Signore Gesù" che essendo il primo si fece ultimo essendo ricco si fece povero, le cui parole furono di scandalo, suscitarono l'opposizione dei potenti, misero in agitazione coloro che di Dio se n'erano fatti un'arma per sfruttare il popolo. E' la teologia della croce, l'unica però capace di portare alla resurrezione. Credo sempre più fermamente che il nostro impegno cristiano si giochi su questa disponibilità ad essere "teologi" di questa teologia, religiosi di questa visione della fede, pronti ad accogliere la luce che apre il suo cammino nella nostra notte. Perché lo scandalo è sempre lo stesso: la luce è venuta nel mondo ma le tenebre non l'hanno voluta ricevere.
don Beppe
E' tema per grosse e senza dubbio angosciose riflessioni. Ne possono e anzi è giusto che ne vengano, profonde amarezze, ma ormai l'amaro è inevitabile che sia bevuto fino all'ultima goccia come quelle medicine amarissime che vanno scolate fino in fondo: perché, forse è soltanto lì, in fondo, che sta la salute.
Da queste storie di preti, quelle di sempre (e non mi riferisco alle storie di preti santi, ma unicamente di preti e basta, preti-clero, compresa ovviamente tutta la gerarchia) ma specialmente da quelle dei nostri tempi, assai diverse e senza dubbio più accese di quelle dei tempi passati, devono assolutamente emergere urgenze di cambiamenti, di mutazioni, meglio sarebbe dire, di conversioni e cioè realtà di penitenza vera e propria (giudizio sul passato e novità per il futuro).
Se questa penitenza cioè rovesciamento di mentalità e di realtà di rapporti con la storia del nostro tempo, non avviene e si va avanti imperterriti con il solo incedere processionale, trionfalistico, inalberando croci o bandiere che siano, ma sempre ricercando furore di popolo, per scontri e vittorie di clero contro clero, la sorte è decisamente segnata per la storia dei preti: non occorre essere profeti, affogheremo tutti nel ridicolo, nel pietoso e peggio ancora nel sacrilego e nell'assurdo storico. Cioè a livelli tali di banalizzazione anche di valori umani fino al punto da diventare motivazione irrimediabile (a parte l'onnipotenza di Dio) di svalutazione del religioso e tanto più del cristianesimo.
Allora succederà che il clero (tutto l'apparato ecclesiastico) non soltanto si ritroverà senza una precisa giustificazione, senza una chiara ragion d'essere, ma diventerà ostacolo e impedimento da far giudicare provvidenziale, opera dello Spirito Santo, il suo scomparire, come una qualsiasi istituzione storica che ha fatto il suo tempo e si estingue senza rimpianti da parte di nessuno.
Come vecchio prete (sono quasi 34 anni di sacerdozio) mi è stato dato di vivere e assai intensamente, un arco di storia di clero (e non solo di quello, ma questa del clero in prima persona e nella carne e nell'anima) lunga di secoli. Perché come prete sono nato dal Concilio di Trento. E la corsa verso il Vaticano secondo è stata appassionata e affannatissima di lotte e di speranze. Ma anche questa, come tante altre nella storia umana e quindi anche in quella religiosa, è stata rivoluzione che ha provvidenzialmente scosso e agitato il mondo ecclesiastico, col risultato però, in definitiva, di risvegliare ritorni di potere da una parte, diaspora d'individualismi dall'altra. Ne è venuta fuori (e potrà anche essere un risultato, anche se a me non sembra) una crescita paurosa di conflittualità fra il clero del potere e il clero in lotta di liberazione.
Niente che sorprenda e tanto meno che scandalizzi, se questa conflittualità di clero avvenisse fra preti e preti (intendendo «preti» anche i vescovi, le curie ecc.). Vi sono realtà di rapporti che aspettano e si aggravano da secoli e sono esplose tutte insieme in questi nostri pochi anni e ne sta tremando ovviamente tutta la Chiesa ecclesiastica.
Ciò che invece lascia sgomenti, profondamente addolorati, come sempre nelle guerre dei re di una volta, delle ragioni economiche dei nostri tempi, delle guerre di religione di tutti i tempi, è che sia sempre il popolo ad essere coinvolto e a pagare prezzi terribili di servitù e spesso di disperazione e di sangue. E anche in questa conflittualità di clero, dei nostri tempi, è sempre il solito clero dell'una o dell'altra parte a tentare di coinvolgere e di trascinare questo povero popolo cristiano nei propri problemi ecclesiastici.
Disgraziatamente il clero, chissà perché, non può che essere clero: quello di destra e non sorprende, quello di sinistra e stupisce assai perché la sua novità dovrebbe essere e specialmente, quella di non essere il solito clero.
Vecchio prete che nella sua lunga storia di scelte nuove e di lotte aspre e dure, ha sempre rifiutato di ricorrere alla folla per cercarvi aiuto e appoggio ai propri scontri con il clero (e sarebbe stato estremamente facile forse anche strategicamente utile, se non altro entusiasmante) preferendo sempre di affrontare e sostenere da solo amarezze e angosce spesso terribili e quindi anche sconfitte o estenuanti attese, non mi è possibile non provare dolorosa perplessità davanti alle tante storie di preti che dilagano sui giornali, in un clima ormai di bonaria sopportazione della gente che guarda allo spettacolo fra il commiserevole e il nauseato. Perché ormai e meno male, le storie dei preti non interessano più nessuno, altro che marginalmente. A meno che non si tratti dei soliti fanatismi di sagrestia che si coagulano intorno al loro prete o al loro vescovo, raccogliendone i problemi personali fino a farne problemi di Fede. Oppure non si tratti di gruppi cristiani politicizzati bisognosi di avere la benedizione del prete e la consacrazione di liturgie; dove il prete diventa il segno di una rottura e la riprova di novità o più spesso qualcosa non molto di più di una semplice strumentalizzazione.
E' una vecchia storia, come si vede, antica come la storia delle religioni, che continua anche in questi nostri tempi, nei quali, nonostante la grossa crisi religiosa, i preti, il clero, continuano disinvoltamente a giocare la Fede, confondendola coi loro interessi e a strumentalizzare il popolo, strappandoselo gli uni gli altri a colpi di documenti, di liturgie, d'integrismi, di ribellioni per coinvolgerlo, questo povero popolo cristiano, a difesa o alla conquista di posizioni clericali.
Bisognerebbe che noi preti, ma forse è proprio impossibile perché il privato non esiste più in questi nostri tempi beatificati dalla pubblicità, bisognerebbe che cominciassimo a lavare i nostri panni sporchi, in casa nostra, chiuse accuratamente porte e finestre.
E non per timore di chissà che cosa e tanto meno per nascondere le nostre vergogne, ma unicamente per affrontarci fra noi, direttamente, faccia a faccia; senza coperture di pastorali, senza ricorrere a liturgie, lasciando stare Gesù Cristo e rispettando questo povero popolo cristiano eternamente e spietatamente coinvolto e travolto nelle maledettissime storie di preti. Nei loro problemi personali (questa impressionante incapacità di affrontare e decidere di se stessi da soli, senza coinvolgere persone, comunità, popolo cristiano, teologie, liturgie, cristi e madonne...) a difesa dei loro privilegi, ad affermazione del loro prestigio, a soluzione dei loro problemi economici, politici, di potere ecc. o anche semplicemente personali. E' ovvia assurdità ma è elementare constatazione storica: il popolo cristiano è terra di scontro fra preti, è campo di battaglia, gente chiamata alle armi, a schierarsi sotto vessilli in marcia. Questo eterno clima di crociata sollecitato da preti, o con dei preti a motivazione e a giustificazione, per la liberazione di terre sante che vanno dall'occupare (o liberare) una canonica o una chiesa, l'affermare, il diritto di avere un parroco (o di mettercene un altro), fino all'affermazione di progressismi lungo la scia dei quali trascinare il popolo cristiano o regressismi sui quali bloccare il camminare della storia e della liberazione della Fede.
Ma in testa ai drappelli, sempre dei preti. E a contrasto logicamente sempre dei preti. E motivo e qui sta il terribile, lo spaventoso, motivo dell'impossibilità della pace, della comprensione, dell'abbraccio fraterno, sono sempre preti. Sono i preti l'ostinazione della lotta che si spenge soltanto nello svanirsi del tempo e nello smarrirsi nel ridicolo per il sopravvenire di serietà di problemi portati avanti dalla storia. Vi sono retaggi quasi connaturati in noi preti, passati nel costitutivo della nostra Fede e quindi nel sangue e nell'anima nostra di guerre sante, di eroismi antichi, di santità transumanate, di comunioni coll'assoluto a seguito dei quali restare immobili è fedeltà, vedere il nemico dovunque è prudenza, non accettare il dialogo è sicurezza di verità, schiacciare gli avversari è Amore, vincere è Regno di Dio e così via.
Alla base di tutto questo problema di chiusura del clero, minuto o all'ingrosso, sbriciolato nelle parrocchie o inquadrato nelle curie, del clero basso e di quello alto, c'è la convinzione ma è più che una convinzione personale o d'istituzione, c'è una precisa concezione culturale e di Fede, d'identificazione dei valori assoluti, delle verità eterne, delle uniche possibilità di salvezza, con se stessi: individui, istituzione, gerarchia. L'essere il sacerdozio mediazione ha comportato lo scambio dell'importanza primaria, fondamentale, dai mediati (Dio e l'umanità) sui mediatori (i preti, il clero), ottenendo una assolutizzazione di valore e inevitabilmente, come succede sempre fra gli umani, un decadere di un rapporto di servizio realizzabile a norma di Vangelo e secondo le indicazioni inequivocabili della Croce e un crescere di risucchio in se stessi (preti e clero) di tutto il problema religioso, accentuando sempre di più responsabilità e quindi autorità, ministero e quindi privilegio, schemi fissi di salvezza e quindi centralità ed esclusivismo di potere.
Fra il dare un bicchier d'acqua a chi ha sete e considerarsi sorgente c'è una notevole differenza. Nessuno è un padreterno e anche il «dolce Cristo in terra» con tutto il rispetto di S. Caterina da Siena la cui locuzione può suonare bene soltanto sulle sue labbra e «il sacerdote è un altro Cristo», sa di tutto sbagliato, teologicamente e tanto più pastoralmente, quasi fino al sacrilegio. Perché in quanto preti forse non si è molto di più, se vogliamo giudicarci nei nostri valori positivi, e quindi anche come servizio di mediazione ministeriale, dei grani di una corona per aiutare alla recita del Rosario. O gradini di una scala dove chi vuole salire verso Dio può poggiare i piedi.
Per noi preti è tempo, se vogliamo salvarci anche come chiarezza d'identità e giustificazione a stare a questo mondo, di uscire dalla scena della storia come protagonisti, con dei ruoli di dirigenza, di preminenza, di potere. Anche il tempo del predicatore è passato, del trascinatore di folle, dell'organizzatore d'imprese religiose. Come pure è finito il tempo del depositario della verità, del dispensatore della salvezza, del garante della Fede, del custode fedele della morale, della legge...
E' difficile ormai, per non dire impossibile, immaginare e tanto meno inventare ruoli che possono comportare emergenze particolari, impegni concretamente significativi, presenze capaci di valore storico anche religiosamente.
Se il prete si vuole salvare, cioè se vuole mantenere una sua giustificazione, una sua ragion d'essere in questo nostro tempo e sempre più in quello futuro, e ritrovare quindi un motivo di vita per se stesso e nei confronti della storia, deve semplicemente cercare di essere popolo. Sparire dentro il povero popolo vivendone tutta la condizione d'insignificanza, di sfruttamento, di moltitudine senza nome e senza volto. Perché immerso nel mondo per la sua misteriosa scelta di Dio e per il suo destino di continuità del sacerdozio di Gesù Cristo, la sua salvezza è tutta n una condizione di solitudine, in un perdersi nel cuore del popolo, in un destino di crocifissione.
II prete è l'uomo per il quale proporzionalmente il suo vivere, la sua ragion d'essere, è legata al suo morire. Cioè al suo essere sotto i piedi di tutti. Nemmeno un'ombra di privilegio e di considerazione. Nessun prestigio culturale. Nessunissima rilevanza politica o significazione sociale. Screditato presso tutti e tutto. Povero di qualsiasi significato. Con la tremenda fatica perfino della speranza. Inutile e a vuoto, da dover farsi perdonare perfino d'esistere. Seriamente e concretamente l'ultimo.
E tutto perché unicamente uomo di Dio, un chiamato da Gesù Cristo.
don Sirio
Carissimi amici, vi scrivo alcune righe perché sono stato stimolato da alcune questioni che voi trattate sull'ultimo numero di «Lotta come Amore». Premetto che si tratta soprattutto dell'argomento politico da voi affrontato; non perché voglia escludere quello religioso (o meglio di fede) ma perché, per prima cosa, mi è stato più «provocante» e perché poi, secondo me, le due questioni, politica e fede, sono strettamente legate e connesse tra loro (non condivido a questo proposito la divisione schematica fatta dall' amico Giannozzo nella sua lettera) per cui una fede che lotta non può «non vedere» che la realtà storica italiana e internazionale è conflittualità di classe a qualsiasi livello: politico, sociale, economico, culturale etc. Questo significa che il terreno della lotta, anche "lotta come Amore", deve investire tutti i livelli, pena un inutile e isolato tentativo demoralizzante e frustrante, sia a livello personale e di gruppo.
Vorrei partire dall' articolo di Sirio. Premetto che l'ho trovato alquanto difficile e non mi è stato facile comprenderlo a fondo. Tuttavia, sperando di non sbagliare, ti voglio dire, caro Sirio, che non condivido alcune tue affermazioni.
Il tuo discorso mi è sembrato incentrato in gran parte sulla questione del potere ed è su questa che la tua posizione mi sembra subalterna; non si tratta, per me, di dire che «la libertà è condizione fondamentale per una possibilità di sincerità cristiana, la libertà, non la "libertas" e cioè la disponibilità totale e pronta a iniziare e portare avanti qualsiasi lotta. E il potere è negazione di questa libertà». Indubbiamente abbiamo in Italia un cattivo esempio di potere che è quello democristiano, strutturato in parassitismi, clientelismi, scandali, omicidi (vedi «legge Reale»), connivenze con gli ambienti neofascisti e golpisti ma da questo non si può concludere che ogni potere è tutto questo o negazione di libertà. Penso che la questione del potere dobbiamo porcela continuamente ma per affermare e realizzare giorno dopo giorno quello che è il potere dei lavoratori, delle masse popolari democratiche, della classe operata, potere fondato sulla democrazia diretta, gli organiseni di base (consigli di fabbrica, di zona, di quartiere, degli studenti, il movimento dei soldati e delle donne) che attuano la gestione della propria vita (diritto al lavoro, alla salute, alla casa, allo studio).
Non ho la ricetta particolare per tutto questo, ma sul come realizzare e poi conservare questo potere reale, sul come risolvere le molte contraddizioni che si apriranno, deve cominciare o continuare il confronto tra tutte le persone, i gruppi, le forze politiche che lottano per questo «rivoluzionamento di situazioni politiche giudicate da rovesciarsi assolutamente» (come tu dici nell'articolo). Che dire allora dei partiti e in particolare di quelli del rinnovamento, della democrazia e cioè quelli di sinistra? Un discorso di impegno sociale sia "ateo" che di fede non può non confrontarsi con loro, affinché siano effettivi strumenti per realizzare il potere di cui parlavo sopra e per favorire il sorgere di organismi non solo della partecipazione ma del «poder popular» (come dicono i compagni e gli amici cileni).
A questo proposito bisogna sgombrare il campo dall' equivoco sulla «libertà».
La. libertà che ci ha dato la D.C. (ma forse è meglio dire che il popolo italiano ha conquistato e la D.C. ha delimitato) è libertà di desiderare, di volere, non libertà di fare, di soddisfare i nostri bisogni (pensa alle carceri e ai manicomi!) ed è questa libertà che è, come tu dici giustamente, anche libertà di disobbedire e ribellarsi.
Che significato dare dunque alla candidatura di cattolici nelle liste del PCI? Non penso che si tratti di strumentalizzare gli altri cattolici, bensì di contribuire alle riflessioni che oggi maturano nel mondo cattolico, che non lo fanno più riconoscere politicamente e "partiticamente" nella DC e che non lo fanno pensare ad un nuovo partito cattolico magari una DC rinnovata, o «di sinistra», come afferma l'amico Giannozzo.
Se dubbi ci possono essere è sul loro carattere di intellettuali forse distaccati dalle autentiche (come credo io!) realtà di base dei cattolici, ad es. comunità di base o gruppi parrocchiali. Penso cioè che un don Isidoro Rosolen, candidato nelle liste di Democrazia Proletaria, operaio-prete (come preferisce farsi chiamare) legato ad ambienti di fabbrica, e di comunità di base riesca meglio ad aprire contraddizioni e a far maturare scelte veramente rivoluzionarie all'interno del mondo cattolico. Comunque qualsiasi iniziativa di cattolici in questo senso mi sembra positiva perché si tratta di coinvolgere masse popolari sempre più ampie nel rinnovamento che si sta attuando nel nostro paese dal '68 e che ha visto e vede protagonisti uomini, donne e giovani.
Carissimi, vi ringrazio del giornale che continuate a mandarmi e che è un proseguimento del nostro dialogo già altre volte realizzato di persona (da don Domenico, da don Mario, nello jutificio Montedison occupato, a Viareggio).
Tanti cari abbracci a tutti voi.
Francesco
Ho letto il libro di Francesca Alexander su Beatrice di Pian degli Ontani tutto d'un fiato.
Non perché sia facile, che anzi tratta di quella semplicità che ai nostri giorni è difficile a comprendere, ma perché mi ha riportata ad un mondo vero, ad una realtà ora dimenticata ma che è la vera realtà degli uomini e ne sono rimasta profondamente commossa.
Si parla oggi della solitudine, dell'incomunicabilità e di tante cose che fanno dell'uomo e della donna degli esseri soli, arroccati in una posizione di difesa e d'impotenza. Leggendo questo libro ho capito perché tutto ciò è avvenuto e avviene.
Ci siamo sradicati dalla nostra cultura, dalle cose vere per dei falsi ideali e spesso ci troviamo con le mani vuote ed il cuore stanco.
Ci siamo dimenticati della sofferenza sofferta nell'umiltà con semplicità e grande coraggio, ma sopra tutto ci siamo dimenticati di quanto l'uomo possa essere forte e grande nella semplicità fatta di cose umili che danno vigore all'animo e forza allo spirito.
Beatrice a Pian Degli Ontani ce lo insegna attraverso i suoi canti e la sua vita, ci insegna la gioia, la dignità di vivere.
Quando la Natura e il mondo circostante divengono parte dell'essere, come fu per Beatrice, non si ha più bisogno di stimoli esterni e falsi stimoli spettacolari; la Poesia allora sale alle labbra con violenza e dolcezza e tutto diventa equilibrio.
Questo è vero insegnamento e leggere questo libro, riflettendoci, può chiarire molti punti confusi e oscuri che travagliano ognuno di noi.
Sono anch'io una donna e ho una famiglia, un marito, dei figli e una casa a cui provvedere più di ogni altra cosa, un calore d'affetto, una dolcezza d'Amore, un coraggio senza fine e più ancora un'inesauribile gioia di vivere. E anche a me succede ogni tanto che mi scenda nell'anima un chiarore di poesia, raggelato spesso in questa stagione tanto rabbuiata della nostra storia.
E mi è sembrato allora di sentirmi accanto questa donna, semplice, analfabeta eppure ricchissima, luminosa di valori umani, di saggezze popolari, di poesia limpida e pura come le sorgenti della sua montagna pistoiese.
Ho capito allora la passione poetica di Beatrice e quanto la poesia ritmata nelle sue ottave melodiose e cantata dalla sua voce ardente, era semplicemente il traboccare dal cuore un'incontenibile gioia di vivere, da inondare la sua casa (ed era casa povera spesso anche di pane), da risuscitarle speranza e forza in momenti terribilmente angosciosi (e sarebbero potuti essere e giusti-ficatamente da disperazione)... Raccontava: "la festa la facevo io al mio paese cantando da mattina a sera e quando mi pigliava qualche passione mi davo a cantare e n'andasse ogni cosa in subbisso, non mi faceva niente".
E in rima, quasi a scusarsi per questa sua sovrabbondanza, cantava:
"Quanti ce n'è che mi senton cantare
Diran: buon per colei che ha il cuor contento!
S'io canto, non è per dir male.
Canto per iscialar quel ch'ho qua drento".
Questa donna è Beatrice, figlia di un tagliapietre, vissuta a Pian degli Ontani, in quel di Cutigliano, della montagna pistoiese, sposata ad un contadino-pastore, madre di otto figli.
E accanto a lei, c'è un'altra donna meravigliosa, Francesca Alexander, venuta dall'Inghilterra a Firenze. E sembra venuta appositamente a raccogliere i fiori sbocciati, profumatissimi dei boschi di abeti dell'Appennino, dalla fioritissima primavera della poesia di Beatrice e insieme a lei, del popolo di boscaioli e di carbonai e di pastori dell'ultimo ottocento toscano. Raccoglieva versi e canti e disegnava con mano gentile e maestra, fiori, paesi, montagne e i personaggi dei racconti popolari e figure di santi vestiti alla moderna.
E scriveva questa donna venuta misteriosamente a vivere e a morire a Firenze, concludendo la prefazione di una raccolta di questi canti popolari: "Mi pare che vi saranno altri che raccoglieranno e difenderanno i pensieri dei ricchi e dei grandi: ma io ho voluto fare il mio libro tutto di poesia del popolo povero e chi sa che non possa contenere anche una parola d'aiuto o consolazione per qualche povera anima in più? Comunque sia, ho fatto del mio meglio per salvare un poco di quello che sta morendo".
Francesca scriveva di questa salvezza di cose che stavano morendo, a Firenze, nel Natale del 1882!!...
Beatrice morì nel 1885 e fu sepolta nel cimiterino di Pian degli Ontani in comune di Cutigliano, provincia di Pistoia.
Francesca morì nel 1917 e fu sepolta nel cimitero inglese di Firenze.
Ed ora queste due donne meravigliose possono essere ritrovate in tutta la loro dolcezza di femminilità delicatissima, incantevole di poesia di popolo e di vera cultura umana, in un piccolo libro edito nella collana «Quaderni di Ontignano» stampati da Giannozzo Pucci, meritevole di ogni lode per aver rintracciato queste vecchie pagine e per avercele offerte, bisognosi come ci ritroviamo, in questo nostro tempo di miracolismi tecnici e di prodigiosi benesseri, di poter credere ancora nella bontà e nella poesia.
Piera
I «Quaderni di Ontignano» dìfficilmente trovabili nelle librerie possono essere richiesti a:
Giannozzo Pucci - Via Paterno, 2 - Ontignano - 50014 Fiesole
Oramai sono già quattro mesi che presto servizio clvile presso una comunità di handicappati fisici e sebbene il tempo sia volato in fretta nelle tante cose da fare ho avuto modo di riflettere sulla natura della mia obiezione di coscienza, sulle motivazioni del mio rifiuto a prestare servizio militare.
La domanda che ho presentato al Ministero della Difesa, come tanti amici sanno, è preminentemente politica, tutta condotta sul filo di un'analisi marxista dell'esercito e del suo rapporto con lo stato e le classi dominanti; alla mia «matrice cristiana» ho concesso appena due righe, quante ne occupava il versetto del Vangelo di Matteo (5; 9).
L'analisi politica non poteva mancare, sia perché essa è effettivamente presente nella mia scelta, sia perché non avevo alcuna intenzione di «scindermi» da altri obiettori che avevano fatto una domanda motivata esclusivamente dal Iato politico e che per questo sono ostacolati dal Ministero della Difesa molto più di chi porta motivazioni di fede o filosofico-morali, magari isolandomi ambiguamente e falsamente, al di sopra di tutto e di tutti, nel limbo di una «scelta cristiana».
Pure, nonostante questa politicità, anche oggettiva, della mia obiezione di coscienza, nonostante un ricercato laicismo anti-integrista, devo confessare che prima, durante e dopo la stesura della domanda non ho potuto fare a meno di sentire il versetto di Matteo come predominante su. tutto il resto del discorso, forse perché soprattutto in esso ho sentito e sento ancora uno degli incitamenti fondamentali che hanno accompagnato la mia scelta.
Quanto scrivo è in effetti una «confessione», un aprirmi agli altri sereno e chiaro, per comprendermi meglio con i fratelli come con i compagni, affinché sia evidente che ciò che ho nel cuore, ciò che apertamente penso debba essere per un cristiano la motivazione di fondo che lo spinge al doveroso rifiuto dell'esercito: Cristo e la sua prassi.
Non c'è niente da fare, anche se fossimo stati in un regime «socialista» avrei rifiutato il servizio militare, ad ogni costo; anche se la storia avesse dovuto disgraziatamente indicarmi la strada delle montagne, della Resistenza, così come è accaduto in Cile, in Vietnam o nell'Italia fascista, avrei molto e molto indugiato, lo dico con certezza, a prendermi un fucile sulle spalle.
Personalmente non ho difficoltà nel riconoscere la validità e la giustezza della lotta partigiana come del lavoro politico dell'esercito, ma ciò non può impedirmi di continuare a provare ripugnanza per la violenza condotta sull'uomo, per il sangue versato sia pure per la giusta causa. Questo per due ragioni fondamentali: la prima, su cui non mi soffermo, è il semplice e umano discorso che la violenza è un fatto negativo che crea dolore e sempre altra violenza: anche la violenza che nasce dalla sete di giustizia produce inevitabilmente dolore e altra ingiustizia che solo l'opera posteriore all'atto rivoluzionario violento, solo l'opera veramente rivoluzionaria di costruzione di una società più giusta, può estinguere; la seconda ragione sta nel mio essere cristiano, un fatto che non posso negare.
Non si dica che ciò è integrismo: se Dio si è incarnato ed è vissuto con noi e come noi, se è morto e risorto, allora quella incarnazione, quella vita, quella morte e resurrezione sono fatti storici e confrontarmi con il Cristo vuol dire confrontarsi con la storia, l'eucarestia, confrontarsi con una realtà che attraverso lo Spirito non è storia passata ma presente e futura, come attraverso la nostra testimonianza.
Possiamo sfuggire a tutto ma non a Dio, non al giudizio della Croce. Qualunque cosa facciamo, diciamo, pensiamo, il Cristo ci è davanti, con la sua vita mediante Lui abbiamo di fronte il Padre. Qualunque cosa io faccia, dica, pensi, la prassi del Cristo mi allontana drasticamente, violentemente, radicalmente, dalle armi, anche da quelle rivoluzionarie. Egli ci ha diviso dal padre, dalla madre, dal fratello e dalla sorella, la sua Parola è entrata in noi come spada di fuoco, come potremmo rinnegarLo? Egli ha lottato in noi e si è ripreso la nostra vita; noi ci siamo detti, in piena libertà e consapevolezza «cristiani», ci siamo impegnati a divenire suoi figli, come potremmo far finta che non esiste? («Voi siete la luce del mondo»). Non può rimanere nascosta una città situata sopra una montagna. (Mt. 5; 14). Nessuno può dire che è cristiano prendere le armi, militare in un esercito, nemmeno il più duro dei rivoluzionari, tantomeno i buffoni, i fascisti, i tiranni vestiti da generali.
Certo, Dio è «impotente» (Come ricordava Giovanni Franzoni in un recente dibattito a Viareggio): è l'uomo che deve agire. Proprio per questo però, proprio perché siamo noi i piedi, le mani di Cristo, come dice un'antica preghiera monastica, siamo noi a dover dare concretezza, storici-tà, carne, alla Parola di Dio, alla sua opera. Certo, senza sentirci «privilegiati», «distinti» dai compagni di lotta, perché il Regno è dei giusti e non di tutti quelli che gridano: «Signore! Signore!». ma pure con la consapevolezza che in noi agisce l'evento cristiano della Resurrezione, che attraverso di noi deve operare la Salvezza, come opera attraverso tutti i giusti, credenti o no. Noi dobbiamo avere coscienza della nostra fede.
Sull'obiezione di coscienza e sui suoi limiti si possono e si debbono fare serie riflessioni e critiche, ma due cose non si possono negare: che essa è un atto di Pace e di Speranza (e l'umanità ha bisogno di Pace e Speranza) quindi un atto di giustizia e per tutto questo, atto rivoluzionario. In secondo luogo che è la scelta più conseguente per i discepoli di Cristo, perché in essa l'azione della Parola si riflette pulita e cristallina in tutta la sua Potenza.
Camillo Torres un giorno prese il fucile e si unì ai guerriglieri, ma smise pure di celebrare l'eucarestia. Nessuno di noi può mettere delle ipoteche sulla propria vita, su Dio o sulla storia, io meno di tutti mi sento in grado di farlo: può darsi che un giorno - Dio mai lo voglia - qualcuno di noi si ritrovi con un'arma in mano, costretto a uccidere la violenza con la violenza, ma quel giorno nessuno potrà dire che premere il grilletto è cristiano, neanche se dall'altra ,parte c'è un padrone o un fascista: il sangue è sempre e soltanto sangue, la morte sempre e soltanto la morte, e noi siamo figli della Vita.
Massimo
Voglio piangere un popolo
e lacrime sono bambini sterminati
e donne distrutte.
Fuoco di cannoni
a spengere speranze
animali agonizzanti
nel mirino del moschetto.
O villaggio "collina del fiore"
crisantemi ossa di morti.
Notte buia come il cuore dell'odio
e dalla croce di stelle in cielo
rossa di vergogna
cadono le mie lacrime
e dalla mezzaluna
violacea d'orrore
cadono le tue lacrime
cristiano e mussulmano
ad urlare ancora
disperatamente
maledette guerre sante.
Sirio
don Sirio
Filippine
Trascriviamo da una lunga documentazione sulla tortura nelle Filippine intitolata (e fa paura questo titolo) «Segni dei tempi» due dichiarazioni: la prima è di un gruppo di prigionieri politici e la seconda è un documento di ex detenuti politici.
Per avere tutta la documentazione rivolgersi a
P. Gigi Cocquio .
Via Chiesa, 2 - 22029 Uggiate (Como)
DICHIARAZIONE DEI PRIGIONIERI POLITICI
Noi, prigionieri politici, esprimiamo la nostra solidarietà con tutti i settori umanitari e progres-sisti della nostra società in lotta per proteggere e perfezionare il patrimonio prezioso dell'uomo che sono i suoi diritti fondamentali. Dalle oscure celle delle prigioni dello stato e dietro al filo spinato del centri di detenzione situati in ogni parte del paese, mandiamo i nostri più cari saluti.
Il vostro coraggio e la vostra azione ci procurano molta gioia persino durante queste ore diffi-cili e dolorose. Così incoraggiati ci impegniamo ad insistere nel nostro compito storico di riguadagnare ciò che è stato perso e ci impegniamo anche a proteggere ciò che è stato guadagnato, e a far procedere tutto quello che è stato fermato durante l'inesorabile processo dell'uomo attraverso la storia.
La storia è stata una incessante lotta dell'uomo per affermare la sua umanità contro tutte le barriere naturali e artificiali, Questa lotta è vecchia quanto l'uomo. Essa iniziò dal tempo in cui l'uomo combatteva contro le forze della natura e continua fino ai nostri giorni dove l'uomo sta guadagnando il completo dominio sulla natura. Ma la lotta continua anche perché la non-umanità dell'uomo verso i suoi simili, non è ancora cessata; una classe sociale sfrutta l'altra, una nazione domina l'altra. Questo sfruttamento deve cessare se l'uomo vuole godere dei suoi diritti. Ma lo sfruttamento e la dominazione non cesseranno mai da soli. Solo l'incessante sforzo umano può portare alla realizzazione di quelli che noi conosciamo come diritti umani.
Così è in questo nostro tempo e nella nostra nazione.
Oggi la popolazione del mondo sta combattendo una lotta implacabile per mantenere e far progredire i propri diritti. Essi hanno sofferto perdite e difficoltà, ma hanno anche vinto. I prezzi pagati sono elevati anche solamente per proclamare quanto grande fosse la dignità umana. A tutti i popoli del mondo esprimiamo la nostra solidarietà unendoci alle loro sofferenze e difficoltà e rallegrandoci per le loro vittorie.
La nostra lotta nelle Filippine trova la sua espressione più vera nella nostra lotta per i diritti democratici e nazionali.
Con essa cerchiamo di ottenere l'emancipazione politica ed economica della nostra gente, liberandoci dalle dominazioni e sfruttamenti imperialistici. Questo accade perché in pratica noi possiamo godere di diritti umani quando abbiamo l'indipendenza politica e i mezzi economici per proteggerla e mantenerla. Senza questa i diritti umani rimarranno una frase vuota come appare dalla nostra recente esperienza. Ma noi possiamo raggiungere questa indipendenza solo attraverso lunghi e ardui sforzi. Dobbiamo pagarne il prezzo sapendo che ne vale la pena.
Noi prigionieri politici, abbiamo esercitato il diritto fondamentale per l'uomo per lavorare per una giusta società.
Abbiamo cercato riforme e cambiamenti fondamentali perché questi diritti fossero riconosciuti nella nostra società. Ma l'attuale governo vedendo ciò, ci ha imprigionati privandoci della nostra libertà personale a causa delle nostre credenze e convinzioni politiche. Questa è una grande violazione dei nostri diritti di uomini ed è un'ingiustizia.
Perciò vi invitiamo a lottare per il ripristino delle leggi civili nel paese. Inoltre invitiamo la gente a resistere alle usurpazioni dei diritti umani e ad assumersi il compito di proteggere e promuovere la dignità umana. I compiti che abbiamo indicato sopra non saranno certamente facili come non sono stati facili per coloro che ci hanno preceduto. Ma essi vinsero e così pure noi vinceremo perché niente può fermare l'uomo nella lotta per la difesa della sua umanità.
Nella solidarietà marciamo verso la vittoria.
DICHIARAZlONE DI EX DETENUTI POLITICI
Mentre celebriamo il giorno della nostra indipendenza nazionale, per la terza volta sotto la legge marziale, presentiamo a voi questa dichiarazione dei nostri connazionali e fratelli che sono stati un giorno incarcerati nelle prigioni e centri di detenzione del nostro paese.
Dalle crudeltà sofferte mentre eravamo in prigione e dal sangue e dalle lacrime che abbiamo sparso, abbiamo imparato queste realtà:
Primo: Oggi noi non godiamo la vera indipendenza perché gli stranieri controllano ancora la nostra economia e il governo dipende ancora dall'aiuto economico e militare di una nazione straniera. Una nazione che dipende da un'altra è legata a questa e non può prendere libere decisioni e fare libere scelte.
Secondo: Anche se i filippini ottenessero pieno controllo dell'economia e anche se il governo facesse assegnamento sulla sua forza e capacità una nazione non potrà mai godere della vera indipendenza finché i cittadini non saranno veramente liberi. La nazione non è né coloro che sono al potere, né i ricchi, né le forze armate, né i latifondisti; la nazione è tutta la popolazione, quindi se il popolo è schiavo degli stessi suoi capi, la nazione non può essere considerata indipendente, anche se non è assoggettata a potenze straniere.
Terzo: Nessun filippino dovrebbe essere né oppresso né uno schiavo e nemmeno un senza terra nella propria terra. Finché avremo cittadini oppressi a causa della loro mancanza di cultura, e debolezza, finché ai lavoratori e ai contadini verrà negata una parte dei frutti della loro produzione, finché ci saranno persone imprigionate senza ragione, torturate per le loro idee, nessuno di noi potrà dirsi veramente libero, perché se si ferisce anche un solo dito tutto il corpo sente il dolore.
Quarto: Questo dimostra che per noi è estremamente importante riguadagnare la nostra libertà, non possiamo però giungere a questo con l'uso de le armi, conforme a quello che dice Rizal nel El Filibusterismo, ma solo continuando con i nostri sforzi pronti anche a morire per la giustizia, la verità, il bene, e la dignità umana di ogni cittadino.
Quinto: Riacquistare la libertà è solo il primo passo. E' necessario, ed è il più importante, che noi usiamo la libertà per trasformare le strutture della nostra società in modo di non rimanere una repubblica di poveri e ingordi, ma una nuova società, dove ogni cittadino ha l'opportunità di sviluppare i suoi talenti, una società di pace, giusta, vera, prospera e dove ci sia l'amore fraterno.
Questi sono i motivi per cui noi che siamo stati vittima della prigionia sotto la legge marziale, invitiamo voi fratelli e cittadini ad essere uniti in una unica azione che dovrebbe essere il frutto di un unico sentimento, di un'unica aspirazione, di un'unica voce e di un unico sforzo, così che un giorno potremo celebrare veramente il giorno della indipendenza, realizzando così il sogno della nostra nazione.
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455