LOTTA COME AMORE: LcA agosto-settembre 1975

Due amori

Amore per Dio e amore per gli uomini. Può sembrare il tema di una pia meditazione e certamente si presta a tanti discorsi inutili se la questione non è affrontata alla luce della persona di Gesù Cristo in cui Dio e uomo sono cosi sostanzialmente uniti da non concedere più spazio a tutto ciò che può creare barriere tra l'umano e il divino, tra la terra e il cielo.
D'altra parte viviamo concretamente questa tensione consapevoli di essere molto lontani dall'amare da uomini e dall'amare gli uomini con il cuore di Dio.
Anni fa vivevamo un rapporto con Dio molto intenso nella grande casa di campagna. Una preghiera continua; e l'amore per gli uomini nasceva spontaneo in grande semplicità, ma anche in grande ingenuità che forse impediva una vera autenticità. Oggi viviamo molto l'amore per gli uomini se non altro nella condizione quotidiana cosi sbriciolata, senza capo né coda, e l'amore per Dio nasce forse troppo dal bisogno di un appoggio per essere atto di fede pienamente libero .
Ci dispiace molto non riuscire a vivere a fondo una vita dove Dio e l'uomo possano liberamente incontrarsi. Lo sentiamo come una forte mancanza della nostra dimensione sacerdotale. Lo sentiamo anche come una povertà che ci impedisce di allargare i dintorni di ciò che noi profondamente portiamo nel cuore.
Nella nostra approssimazione non riusciamo chiarire meglio questo discorso, ma lo avvertiamo presente nel cammino di tanti credenti poiché fa parte della vita cristiana la ricerca di vivere in pienezza valori unificabili apparentemente solo per subordinazione reciproca o per eliminazione dell'uno o dell'altro.
Certo è che nell'attuale storia della chiesa (in Italia, ma forse un po' dappertutto) questo problema appare molto inquietante.
Impressiona constatare come per tanti l'amore per gli uomini abbia incontrato un ostacolo da eliminare, un fatto alienante e dispersivo, nel rapporto con Dio. Non pensiamo per carità immediatamente a coloro che operano scelte con motivazioni a stretto ritorno personale, ma a gente che paga di persona e ha una ricchezza di vitalità tale da non lasciare spazio a giudizi di immaturità. D'altra parte coloro che mettono al primo posto Dio, spesso sembrano incapaci di superare la soglia di una ben controllata vita religiosa e non sanno giocare con altri il destino dell'umanità.
Si ricreano, intorno a queste scelte, contrapposizioni irrigidite tra realtà ancora una volta ritenute inconciliabili: Dio e l'uomo, la Chiesa e il mondo... i «nostri» e i «loro», i buoni e i cattivi,.. Speriamo e vogliamo che il nostro cammino, fallibile e opinabile fin che si vuole, non si arresti su queste secche di morte.
Non è che dedichiamo i nostri scritti a questo tema, ma speriamo che questa nostra ricerca di amore cristiano possa leggersi tra le righe.

La Redazione

Parabola d'agosto

Voglio raccontare una specie di parabola, una cosa molto semplice che mi ha colpito nel mio camminare su per una bellissima valle di montagna. Per una settimana me ne sono andato da solo, sacco e tenda in spalla, respirando a pieni polmoni l'aria limpidissima, il sole, il verde splendente dei prati, raccogliendo a pieno cuore la bellezza e la bontà di una creazione che qui ha conservato ancora i segni quasi intatti della mano del Creatore. La montagna mi ha sempre lasciato questa impressione di verginità, di chiarezza di profonda meraviglia per la bellezza di una terra che sembra appena uscita dal pensiero di Dio. Soprattutto lo scorrere violento dei fiumi che scendono dai ghiacciai e dalle solitudini delle vette immerse nel cielo ha in sé qualcosa dell'eterno mistero della vita racchiusa nel destino dell'universo.
Non'è poesia facile questa, e nemmeno un'evasione dalla durezza dell'esistenza (la montagna porta chiari questi segni di fatica, d'asprezza, di pane sudato duramente): con me ho portato tutti i problemi che travagliano il mondo, le sfiducie e la disperazione di tanta parte dell'umanità, la grave situazione di chi è dovuto restare a fare le ferie nella fabbrica occupata o presidiata per tentare di difendere il posto di lavoro dall'eterna ingordigia di chi mette avanti all'uomo l'interesse del proprio capitale.
D'altra parte il mio camminare tanto semplice mi ha veramente aiutato a raccogliere le forze dello spirito per un impegno di vita molto seria che sento di dover portare avanti nella strada che ogni giorno si dipana per i propri passi. Impegno forte per rendere concreto l'amore per i fratelli, per giocare la vita nei valori autentici della esistenza per un mondo più umano, più vero, per dei rapporti di giustizia, di comunione, di amicizia e di condivisione a tutti i livelli della realtà povera, emar-ginata, ignorata di ohi non. conta nulla e non ha potere.
Il fatto di essere sacerdote cristiano mi mette sempre più nell'anima questo bisogno di essenzialità, di scelte radicali, semplici e nette come sono quelle indicate cosi chiaramente da Gesù Cristo: mi sono molto lasciato andare a questa riscoperta di Lui, della sua vita così fortemente segnata da una pienezza di umanità, di amore per l'uomo, di attenzione profondissima per ogni creatura piccola e povera, stanca o perduta, abbattuta e sopraffatta dal peso del vivere. Un amore e una premura cosi intensa da non lasciare mai delusa un'attesa, una speranza o una ricerca (anche inconsapevole): un impegno di lotta molto limpido per il regno di Dio, per il compimento della volontà del Padre dentro la storia umana, un essere sempre partecipe della vita del popolo, mescolato come lievito nella pasta umana, come sale a dare sapore ad ogni realtà, come luce ad illuminare ogni incertezza e smarrimento, come fuoco a bruciare l'ipocrisia, il rinchiudersi tranquillo in se stessi, nella propria sufficienza, ricchezza, egoismo.
La vita di Gesù del Gesù storico, parola di Dio fatta carne e venuta ad abitare fra noi, uno di noi, veramente figlio dell'uomo, legato al nostro destino fino all'ultima radice: mi sono lasciato andare più che ho potuto a questa ricerca e i passi più che sulla strada che saliva verso la montagna erano diretti su questa pista segreta, interiore, e sostenuti da una sete che più si va avanti più si fa violenta e pressante.
Cosi ho. camminato senza un programma di viaggio preciso e dettagliato. Ho piantato la tenda dove mi capitava, quando mi sentivo stanco per il cammino.
Mi è successo così un fatto molto semplice quello appunto che ha dato vita alla piccola parabola che volevo raccontare e che è stata per me una scoperta molto sìgnificatìva.
Sono arrivato vicino ad una specie di montagnola quasi tutta rocciosa e sì vedeva sulla cima una piccola chiesa, mangiata dalla neve e dal vento, molto semplice e dominante tutta la valle. Ho deciso di salire lassù e di mettervi la tenda. Sono arrivato in cima e dopo aver piantato la tenda sono andato a vedere la chiesa. Naturalmente era chiusa: una cosa logica per una chiesa in un luogo solitario e fuori mano. Ma svoltando l'angolo ho visto, con mia grande gioia, una bellissima fontana d'acqua: un'acqua chiara, freschissima. E' stata un sorpresa, una cosa che non ci si aspetta e invece la trovi li, quasi in attesa della tua sete. Una fontana sempre aperta, che canta senza stancarsi la sua canzone di vita e di gioia.
Cosi sono rimasto sorpreso dell'accostamento quasi istintivo che mi è venuto di fare: la chiesa ben visibile dalla valle, ma chiusa, la fontana imprevista e che si scopre solo quando si è là, ma aperta e pronta a dissetare e a dare ristoro. La Chiesa e la fontana..
Queste due immagini molto semplici riunite insieme sullo stesso piccolo pezzo di terra mi hanno fatto pensare. Mi è venuto subito in mente un pensiero molto bello di papa Giovanni, uno di quei suoi pensieri cosi ricchi di verità nella loro semplicità: «Vorrei essere come la fontana del villaggio sempre pronta a cui tutti possono venire ad attingere a qualunque ora». Un'immagine davvero formidabile della vita cristiana e della realtà della Chiesa. La fontana del villaggio.
Su quel piccolo colle solo la fontana sempre aperta era davvero segno e richiamo a Dio sorgente d'acqua viva, quella che sgorga per la vita eterna, riposo e gioia per chi è stanco e assetato, bruciato dal sole e dal vento della vita. Quella fontana era la sua perfetta immagine, parabola che chiaramente indicava il senso della sua presenza. Era lei la «chiesa» vera, quella pensata e sognata da Dio perché incessantemente offrisse la speranza e la fiducia, la verità, la giustizia e l'amore. La vecchia chiesa di pietra era li, a testimoniare una fede di gente passata, un ricordo di una volontà di manifestare visibilmente il proprio amore a Dio, ma ormai le pietre sono cose morte, senza più vita e quella porta chiusa era davvero il segno di una realtà religiosa chiusa in sé stessa, a proprietà privata per una salvezza esclusivamente personale, senza apertura sul mondo degli altri. Se fosse venuta la grandine, il vento, la tempesta non avrei potuto in alcun modo (solo sfondando la porta) entrare per ripararmi. Mentre la fontana era li, sempre pronta alla mia sete, sempre disponibile, accogliente, aperta.
Per me è stata un'indicazione molto concreta di esistenza cristiana, immagine precisa di che cosa debba essere la chiesa di Dio fra gli uomini. Quella fontana accanto a quella chiesa chiusa è stata una lezione di teologia molto viva: invito a comprendere ciò che bisogna lasciar perdere a qualunque costo, il vecchio lievito che perdura dentro di noi, le pietre ormai consumate dal tempo, dalla storia, dal cammino dell'umanità; e decisione molto netta per un impegno in opere di vita, in progetti di esistenza fraterna, di lotta per la giustizia, in una vita «sprecata» continuamente nell'offerta, nel dono, nell'accoglienza di ogni ricerca, nella passione per l'uomo.
La fontana era li a ricordarmi col suo scorrere senza riposo e senza incertezze quella parola di Gesù che rimane sempre cosi misteriosa e cosi dura da credere e da vivere: «chi perderà la sua vita per amore mio la salverà»..

don Beppe

Fede e memoria

Sono sicuramente passati i tempi e modi d'esistenza di una Chiesa e il suo essere si è andato a poco a poco modificando in una liberazione lenta ma incessante. Il Concilio Vaticano II era stato infatti tutto impostato nella tematica fondamentale indicata da papa Giovanni, tesa tutta e convergente a riscoprire l'identità della Chiesa.
Ricordo lo stupore che provammo a quei tempi.
Stupore di gioia perché erano ormai anni che già sia pure in modo staccato e a livelli tanto diversi questa ricerca era sofferta, nascostamente ma appassionatamente vissuta, da tanta profezia di uomini e gruppi, sempre più ad accumulare urgenze e richieste irrimandabili. Perché a quei tempi la contestazione era diversa e somigliava stranamente alla rivolta liberatrice per scontentezze profonde, ma contenute in una misteriosa necessità di Fede e per una clandestinità inevitabile, assai vicina ai movimenti d'idee, di valori concettuali, di evidenze impossibili a non manifestarsi, di circolazione di progetti diversi, di visioni nuove, ecc. proprie della condizione di lotta dove la dittatura è assoluta fino all'impossibilità, all'assurdità perfino del respirare;.
A quei tempi - e non sono poi tanto lontani perché vanno dal '45 al '60 - le comunità di base, la Chiesa del dissenso erano realtà più singole che comunitarie, senza ombra di organizzazione, senza pubblicazioni, all'infuori di entità minime di periodici e di libri. Era realtà di pochi uomini e dissemi-nati qua e là, schiacciati normalmente dall'autoritarismo, ai margini della globalità ecclesiale, allora gloriosamente trionfalistica fino alle misure - verrebbe da dire - imperialistiche.
Allora anche la Speranza era difficile, e dura a sostenersi la Fede. Era violento e sicuro soltanto l'Amore, quell'Amore tenace e implacabile, strano e pazzesco, ritrovabile, per esempio, tanto così per indicazione e chiedendo scusa del raffronto nelle pagine del profeta Osea. La Chiesa a quei tempi questi uomini l'amavano così.
Probabilmente ha molto influito, e forse addirittura determinato quest'atteggiamento, questa caratterizzazione di lotta, il fatto che questi uomini portavano tutti, in un modo o in un altro e in misure più o meno intense, l'esperienza dolorosa, disperante della dittatura fascista. L'avere sofferto, e fino all'impossibilità del respirare, la denominazione autoritaristica tipica del fascismo, il suo trionfalismo imposto e artificioso a masse popolari, il suo imperialismo tranquillizzante per una passività assoluta e per vuoti totali di speranze storiche e di possibilità di umanità diversa, questa dura esperienza (e la resistenza e la liberazione dal fascismo non hanno quasi per niente sfiorato la Chiesa passata immediatamente e a bandiere spiegate nei facili trionfalismi del dopoguerra) questa esperienza ha però segnato profondamente nei rapporti di lotta all'interno della Chiesa lo stesso spirito di liberazione e di rinnovamento, la stessa metodica e capacità e forza di resistenza, perché questa è la vera resistenza, la strategia di lotta consistente nel gettare a piene mani il buon grano ad ogni mattina che il sole fa sorgere sulla storia.
Nessuno saprà mai che ispirazione di Fede, ma specialmente che forza di speranza sia stata, specialmente allora, la parabola del buon seminatore. Tanta strada e asfaltata e lunga e spaziosa sempre più e pietraie aride e sterpeti prunosi capaci di soffocazione immediata, era allora questa benedettissima e amatissima Chiesa, ma lo Spirito di Dio scavava sterramenti prodigiosi e scassava in profondo terreni sassosi, estirpava rovi e ravvivava terre abbandonate, in metri quadrati e sempre di più a distese immense,in terra buona per il 30, il 60, il 100 per uno.
Fare nomi sarebbe facile e semplice, specialmente quando si tratta degli uomini di quei tempi che Dio, nella sua infinita potenza e gloria, ha liberato dalla croce della lotta, risuscitandoli, dopo il terzo giorno - anche se sono occorsi alcuni anni - rendendoli vivi e presenti. E così tanto che se ne strappano di mano la memoria, se ne coprono le vergogne con la loro gloria, ma specialmente della loro sofferenza e lotta e crocifissione e resurrezione se ne riempiono le tasche di quattrini, tanto per conservare antiche tradizioni di fede merce di guadagno, vendendone l'amara solitudine, il coraggio pazzesco la fedeltà a Dio, a Gesù Cristo, alla Chiesa, al popolo, ai valori essenziali e determinanti della dignità umana.
Gli altri che sono vivi, stranamente, continuano a non piacere pressoché a nessuno. L'autorità li guarda ancora con astio e li giudica severamente responsabili di molte cose e questo per la semplice disgrazia che sono ancora vivi, anche se invecchiati. Invecchiati sì, ma forse ancora più tenaci e ancora più pericolosi perché non si arrendono a non voler guardare più lontano. Hanno in mano i dati incontrovertibili, perché sono sangue e ossa della loro vita, per giudicare l'irrisione delle riforme così clamorosamente decantate, l'indurimento, anche se in forme e modi più raffinati di furbesca attualizzazione, di vecchie e incallite posizioni, giuridicismi, pastoralismi e specialmente gerarchismi, agli occhi di questi «vecchi» scopertamente trucchi inaccettabili. Hanno il fiuto d'indovinare intenzioni più o meno camuffate di popolarismo, ma decise al ripristino di nostalgie e mai sopite e tanto meno abbandonate. E hanno specialmente le capacità dei vecchi soldati consumati dalla guerra di trincea, nervi duri, pazienza senza fine e disponibilità di uscire allo scoperto, senza paura, perché sanno combattere e sono sicuri di non cadere, spazzati via dalla prima raffica sparata dal nemico.

Stranamente, ma forse è molto comprensibile a pensarci bene, questi uomini della vecchia guerriglia non piacciono nemmeno alla nuova contestazione, alle Chiese di base, alle nuove organizzazioni, ai sistemi attuali di lotta all'interno o dall'esterno della Chiesa. Forse perché questa gente degli anni della clandestinità porta nel cuore fedeltà misteriose, ideali un po' sentimentalizzati e sogni, all' analisi storica, irrealizzabili.
Può essere vero e la nuova rivoluzione può avere ragione. Non sarebbe male e inutile però qualche raffronto storico dove potrebbe essere riscontrabile quanto sia assennato, strategicamente parlando, quello che diceva Gesù di quel tale che vuole costruire la torre: deve tener presente le sue possibilità effettive e quel re che va in guerra contro un altro re a un certo punto deve fare i suoi calcoli sulle sue forze e su quelle dell'avversario. La vecchia scuola di lotta degli anni che pure hanno fatto sussultare la Chiesa - e se poi il terremoto è stato placato e tutto o quasi è stato ricostruito sugli stessi fondamenti non è esattamente responsabilità loro - quella vecchia scuola, quella dei morti e quella dei superstiti - non ha mai voluto parlare e nemmeno sentir parlare di guerra, e tanto più di guerra in campo aperto e per diversi motivi, diciamo così, tattici, ma specialmente per motivi seriamente profondi di Fede e di fedeltà alle scelte di Gesù Cristo. Ma ha sempre preferito e lottato le sue lotte con una strategia di guerriglia e, se si vuole tradurre in termini evangelici, uscendo da questa terminologia militaresca, ha preferito lo scontro del lievito dentro la massa, della luce accesa a vincere il buio, del sale che ha potenza di salare, ecc. ecc., fino alle misure estreme di lotta significate in evidenze terribilmente concrete di croce e di morte e di Fede assoluta nella risurrezione. La Fede nel granello di senape e in quello di grano che muore è la stessa Fede che affronta la montagna e la sposta a inabissarsi nel mare. E nessuno, almeno di quelli della contestazione, dello scontro, della lotta organizzata, ecc., potrà pensare che questa non sia lotta e della più acerrima e implacabile, capace di rovesciare il mondo, ma specialmente la Chiesa, da quell'insieme di istituzionalismi, autoritarismi, assolutismi, ecc. come si ritrova e s'indurisce sempre più da secoli e secoli, in una Chiesa liberata e libera della libertà dei Figli di Dio e dei credenti in Cristo, in ricerca, cuore dell'umanità, di lievitarne la storia per diventare la storia della grande famiglia di cui Dio è il Padre.
Forse sono reminiscenze inutili e considerazioni a vuoto. E mi par d'essere come quelli che raccontano della guerra che hanno combattuto e delle sconfitte brucianti che hanno ferito profondamente la carne e l'anima, logorati a volte dall'amarezza di infinita speranza svanita. Mi sento a volte come gli amici della resistenza che da ogni anno che passa sentono risucchiarsi da certa storia, evanescendola, distorcendola, sfruttandola, la terribile lotta di quei tempi.
E a leggere certe pubblicazioni degli uomini della vecchia lotta nella Chiesa (ormai sono nelle mani di tutti anche i loro più segreti sospiri) mi viene un groppo alla gola e uno stringimento al cuore, come quando apro quel libro, che sa misteriosamente di vangelo, che è la raccolta delle lettere dei condannati a morte della resistenza europea.
E' triste sentirmi rimproverare quella mia lettera alla santa Madre Chiesa dove mi sono lasciato andare all'angoscioso risentimento per il vuoto di una sensibilità antifascista che la mia Chiesa mi ha dato negli anni della mia formazione al sacerdozio. E certo i pretonzoli della pastoralità attuale non possono sapere di quel vuoto pauroso e tanto meno quanto di quello spirito trionfalistico, autoritario e imperialista, è continuato ad imperversare, e forse imperversa anche attualmente, nell'apparato gerarchico, pastorale di questa mia adoratissima Chiesa, E meno ancora sanno, perché pare che non ne abbiano bisogno, della mia immensa fatica e del rischio di andar di là, di scavalcare (è tutta qui la disobbedienza per chi ha serenità di voler capire) tutta una complessa e soffocante struttura per incontrare Gesù Cristo sulla strada dove cammina l'umanità povera, oppressa, disorientata e smarrita, in particolare quella senza pastore dove si perdono le novantanove pecore a brucare sui dirupi, portandosi dietro per questo incontro con Lui possibilmente quella non smarrita. La fatica di trovare ogni giorno motivi di Fede viva, attuale pagandola a qualsiasi prezzo, compreso quello dell'anima propria.
Si fa presto a conclamare fedeltà e a condannare chi ha forse il solo torto di non potersene stare tranquillo e non riesce a non inquietare, manifestando il proprio compromettersi insieme al desiderio e anche al tentativo di coinvolgere più Chiesa che sia possibile nel grande, adorabile progetto del Regno di Dio e di Cristo nel mondo.
Penso tutte queste cose e sono appena un accenno perché ogni tanto mi par d'essere (e chiedo ancora perdono di questi raffronti, ma vi sono immagini che rendono chiaramente) mi par d'essere all'ombra del ginepro, in pieno deserto e viene la voglia di buttarsi lì e di chiedersi se forse non sarebbe preferibile lasciarsi morire, cioè arrendersi e mettersi il cuore in pace.
Non so se un angelo verrà a darmi pane e una bocca d'acqua.
Me ne sto andando, e spero per un bel po' di tempo, in Terra Santa e cioè nella terra dove Dio si è manifestato e dove è venuto a vivere, a morire, a risorgere.
Lo so che è possibile incontrarlo dovunque, perché ogni zolla di terra e ogni cuore di uomo e di donna è la sua terra. Ma ho profondo, ardentissimo bisogno di vedere le pietre che l'hanno visto le montagne che l'hanno ascoltato, il lago che l'ha sicuramente innamorato, le strade dove ha camminato. So d"incontrarlo perché quella terra è la sua è nonostante tutto porta chiaramente le indicazioni delle sue scelte e le immagini delle sue parole.
Anche per una voglia terribile di andare di là, di scavalcare tutto quello che si frappone, e a volte è ostacolo di una opacità invincibile, fra la sua visibilità attuale che è la Chiesa e Lui.
E' quindi ancora una volta una disobbedienza per un desiderio incontenibile di obbedienza. Una ricerca di Fede e di Amore a Gesù, libero, solo.
E' anche per la speranza del pezzo di pane e della brocca d'acqua per riprendere la strada, se a Dio piacerà. Ma specialmente, ora che si fa sera nella mia vita, la fiducia di riconoscerlo allo spez-zar del pane e la gioia di tornare indietro ed annunciare ai miei fratelli che è veramente risorto e che abbiamo camminato insieme sulla strada e che mentre parlava e spiegava le Scritture, l'anima trasaliva e traboccava di gioia.

don Sirio

Diario di viaggio

La conferma
Cipro 8 luglio
E' stato bello questo viaggio, quasi un anticipo di cose nuove. Sgombrato il terreno da tutto siamo ora diversi, disposti, distesi, in un mondo nel quale ci muoviamo come stranieri, senza punti di riferimento, fra mare e cielo.
Occupati dalla routine precisa della giornata organizzata dalla Compagnia di Navigazione, ci sembra di muoverci in un pianeta diverso, oppure in un immenso acquario dove i contatti sono silenziosi, e fluido il muoversi.
Le sensazioni del viaggiare ci hanno aiutato a scoprire con evidenza, dopo tanti anni, di essere - io e Sirio - abitanti di un mondo che non abbiamo ancora messo bene a fuoco, del quale però non abusiamo, piuttosto osserviamo silenziosamente per mutuarne regole e comportamento. Abbiamo saputo di esserci addentrati in uno spazio al di là dell'orizzonte per un cammino compiuto per anni: la conferma. Forse questa è la conferma. Confermazione. Approvazione. Acconsentimento al passato che permette modi nuovi di esistenza.
Come nella Chiesa ortodossa dove il matrimonio, ad esempio, viene celebrato dopo dieci anni di convivenza. E' veramente un'altra cosa. Noi cattolici abbiamo perduto la ricchezza di certe intuizioni.
Dicendo di sì ora, ci dispone ad altre avventure.
Sempre meno abbiamo bisogno di riferirci. L'uno riposa nell'altro. Un altro ci aspetta,
Il passaggio non è difficile. Erano anni che avevamo conquistato libertà interiore. Durante il viaggio non abbiamo avuto quasi bisogno di parlare. Le parole veicolano poco la visione di un mondo che si vede sorgere.

Inventare altre vie?
Gerusalemme , 10 luglio
Ieri sera aspettavo Sirio che tardava ad arrivare, davanti alla Porta di Damasco. Guardavo insieme con Dalmazio le mura dorate, la luce di quel cielo: «Gerusalemme quanto sono belle le tue mura...».
La mattina dopo siamo andati nella vecchia città. Il mercato me lo ricordavo perfettamente. Perfino i mendicanti mi parevano gli stessi. Come capire qualcosa di questo popolo, di cosa accade, non rimanere turisti...
Siamo arrivati alla basilica del Calvario. Bella, diversa da come la ricordavo, e ancora le pietre di qui, fatte di luce, non chiudono, non separano, pare non costruiscano.
Più tardi Sirio e Padre Mongillo sono andati a mangiare e io sono rimasta nel bazar a camminare e guardare mangiando pane e uva. Guardavo gli arabi e rivedevo i loro problemi e quelli, in fondo, di tutti noi. Quale sbocco può avere la lotta se i mezzi permessi dal sistema, i "canali democratici" di protesta non sono validi, se il margine di azione è sempre minore?
Inventare altre vie? Si, ma su quali linee direttive e quale la matrice dalla quale far sorgere la forza di non disperare, e di progettare progetti a dimensioni umane. Da quale matrice persone con impegni diversi possono trarre nutrimento tanto da formare la comunità in cammino? Da soli non si può.
La libertà, la coscienza, la lotta, il ribellarsi, vanno intrecciate in un movimento più ampio che abbia dimensioni tali da affondare le radici fuori dal sistema.

Non esiste lo polizia
12 luglio Gerusalemme
Siamo andati a conoscere i Domenicani del Sion, una piccola comunità dedicata al problema giudeo cristiano. Ci siamo fermati a cena e abbiamo potuto conoscere molta gente. Ho parlato a lungo con una donna che vive nel kibbutz dal '48: sei figli, la più grande 23 anni, la più piccola 12.
E' una comunità solidamente economica, fortemente produttiva; la gente ci sta perché sta bene, lo ha ripetuto più volte; gli ideali iniziali sono scomparsi, ma l'esperienza è ugualmente positiva. I figli specialmente sono felici: il senso morale sociale è forte, non esiste la polizia, in tanti anni nessuno ha mai trasgredito alle regole della collettività. Che cos'è? «E' il socialismo realizzato, mi diceva, una vera società, fondata sulla giustizia, l'abolizione della proprietà privata, del denaro, dell'autorità.
L'autorità è un servizio e sussiste se chi l'esercita si merita la fiducia della gente, in caso contrario decade. Ogni due anni un membro della comunità viene eletto al servizio di sindaco».
Ci sono ovviamente anche problemi negativi, accennati in questa intensa e veloce conversazione su questo mondo che mi piacerebbe tanto conoscere da vicino. Qui come altrove è vivo il problema femminile: i rapporti uomo-donna nell'ambito della famiglia sono tradizionali, ugualmente nella vita pubblica: generalmente alla donna come lavoro viene richiesto quello nel campo educativo per rimanere accanto ai figli, lavoro che l'uomo non svolge quasi mai.
Mi piacerebbe un giorno o l'altro domandare l'aspettativa e passare un lungo periodo in un kibbutz, visto che sembra un luogo dove persone normali sono riuscite a costruire un importantissimo fatto umano lungo un arco di tempo abbastanza lungo. Purtroppo non mi viene in mente una esperienza altrettanto positiva fra i cristiani.

Amore nato dall' amore
15 luglio Gerusalemme
Il fondo del problema umano e cristiano: la conversione. Il riconoscere Dio. Che posto ha Dio nella nostra vita? Perché questa opposizione fra l'uomo e Dio? L'uomo è come un fiume d'acqua, alla sua origine ha la sorgente anch'essa umana. E' perfetto in sé. Non ha bisogno di Dio. L'uomo è uomo e deve lottare per un mondo più umano. Dio lo ha creato, è l'origine, ma lo ha fatto sufficiente. L'uomo non ha propriamente bisogno di Dio, ma può desiderarlo. E' allora amore nato dall'amore, gratuito.
Così fra esseri umani. Non più quando ho bisogno di vederti e nostalgia profonda in te, ti amo. Ma quando mi riconosco in me stessa e so di non avere bisogno di te, solo allora posso dire: ecco, vengo a trovarti perché ti amo.
In questo rapporto diverso, liberato, che richiede un'ascesi continua, e una disposizione, essendo perfettamente se stessi, ad uscire da sé, che senso ha la comunità dei credenti? Forse il confermarti nella fede? Forse l'invitarti ad aiutarti a credere. A fare della tua fede, fede autentica. Gesù Cristo è stato uomo perfettamente auto sufficiente. Libero. In libertà ha scelto di amare Dio e gli uomini.

«Habla latino»?
19 luglio
Siamo andati, io e Sirio sulla vespina '50 fin sul Tabor, e poi un breve giro: Nazareth, lago, un po' di Galilea, il ritorno lungo la valle del Giordano.
Un viaggio importante, sperduti in quel mondo, immersi nel paesaggio, senza potere parlare per il continuo andare senza quasi soste, ma senza bisogno, al solito, di parole, perché tutto veniva detto intorno a noi.
L'ultima parte, chilometri di paesaggio surreale, la strada deserta, calda, percorsa da un vento impalpabile: a sinistra al di là del fiume la frontiera giordana: chilometri di filo spinato e di fortificazioni che non avevano fine.
A destra montagne abbandonate, brulle alcune, altre coltivate ad avena: estensioni bionde, un salire e uno scendere che non aveva nulla di dolce perché non vi era un volto umano in esse. «Zona militare. Il passaggio è a vostro rischio».
Il vento ci stancava, la strada scendeva sotto il livello del mare; si passava su una terra conquistata che non sembrava appartenere più a nessuno,
A tratti estensioni di cotone, piante piccole, piante più grandi. Lavoro umano, perciò, terra coltivata, resa più ricca, irrigata. Ma con che cuore.
Ho visto due villaggi abbandonati. Uno fin da lontano sembrava fatto di case impastate di terra. Erano infatti di argilla. Piccole, uguali, ai piedi di una collina, parevano mimetizzarsi, volere scomparire. Porte e finestre aperte , non più segni di vita, non un oggetto, un suono, un colore. Le case erano tornate terra. «tu sei polvere... ». Poco lontano i conquistatori avevano piantato il cotone.
Più avanti un villaggio più ampio, la piazza, le strade, probabilmente era più ricco. Alcune case imbiancate, altre azzurre, macchie di colore finalmente per occhi stanchi di polvere e di grigio, ma in esse gli occhi ciechi di finestre rimaste aperte per sempre. Le case salivano su una collina. In alto errava qualche abitante. Arabi. Poveri. Impolverati. Scuri. Diffidenti. Come mai non erano scappati? Più tenaci degli altri? più vili, più poveri? parevano fantasmi. Fuori dal villaggio pascolavano alcune capre dove prima vi era stato un campo da gioco: due porte bianche, il perimetro segnato: vestigia di tempi passati. Oggi tutto era abbandono.
Poi niente altro. Solitudine totale, qualche camion militare, tre carri armati, per una strada che sembrava non dover più smettere.
Un'altra cosa ricordo di quel camminare libero e felice trasportati dalla motoretta, io seduta sulla ruota di scorta, Scendendo dal Tabor cercavamo Seforis. Un amico era là, motivo per raggiungerlo. Un posto che diventava una meta.
Intanto il sole caldo, pianura e collina coltivate, la strada che si snodava sembravano lentamente modellarci. Dopo ore di cammino eravamo giunti vicini al villaggio, ma non lo trovavamo, nemmeno sulla carta.
Verso le 2, stanchi e impolverati, facciamo più volte la spola fra Nazareth e Cana, ma nessuno riconosce questo luogo, le strade, per di più, sono quasi deserte, solo un cane ci insegue, e la povera vespina '50 non ce la fa a scappare velocemente. Giriamo di nuovo su noi stessi, andiamo verso la pianura coltivata, che sembrava presidiata da alcune fattorie ricche di animali. Su una collina verdeggiano giovani abeti. Nessuna casa in giro, nessun convento...
Ci fermiamo accanto a una stalla, troppo stanchi per proseguire. Vedo urna bimba di pochi anni, la seguo, mi conduce in casa: una stanza piccola, una giovane donna che impasta un dolce, due vecchi nella penombra.
Mi rivolgo alla giovane sposa parlando inglese, francese, nulla. Risponde in ebraico.
Siamo sconfitti, non sappiamo più cosa fare. Quando dalla penombra si leva un vecchio, eret-to e forte sempre, bianchi i baffi e i capelli, mi guarda e dice: «Habla latino?». Sembra un'apparizione.
Esce di casa, gli domandiamo di un convento di suore. Ci guarda calmo, e lentamente spiega, indica, dal nulla di quel paesaggio desolato, popolato di stalle e campi immensi, spunta una strada. La strada. Cortesemente ci accompagna quel tanto che basta per indicare, e rimane accanto alla casa a salutare finché siamo scomparsi.
Abbiamo, poi saputo arrivando al convento, povero, quasi deserto, arroccato in alto, che nessuno poteva spiegarci dov'era il villaggio perché non esiste più. L'unico segno di 4000 abitanti che avevano le loro case sulla collina lì accanto sono i giovani abeti piantati dai conquistatori al posto delle case.

Maria Grazia

Le crociate non sono finite

Dice un vecchio proverbio che la storia è maestra di vita: come dire che l'esperienza accumulata nel passato recente e lontano dovrebbe significare per tutti noi un bagaglio prezioso d'insegnamenti e di valori. L'esperienza soprattutto dovrebbe renderci capaci di non ricadere in quei tragici errori che nel passato hanno voluto dire dolori, lotte senza fine, drammi terribili, storie di sangue, distruzione e morte. Errori che hanno fatto della nostra terra un campo di battaglia e di scontro, una veste continuamente lacerata: e questa veste era la vita dei popoli, la carne e il sangue di milioni di creature. Abbiamo vissuto l'esperienza assurda del fascismo e del nazismo: abbiamo contato i morti sui campi di battaglia, nelle città sventrate dalle bombe (compreso quelle atomiche), nei campi di sterminio. E invece di bruciare immediatamente tutta la ferraglia di morte, di considerare primo nemico pubblico l'industriale costruttore di armi, l'uomo in divisa militare (specie se con medaglie), abbiamo ricominciato subito a tessere la stessa trappola mortale. Così oggi, non avendo affatto considerato la storia maestra di vita, ci troviamo a vivere in un mondo che è come un enorme campo minato, con milioni di uomini asserviti alla schiavitù dell'esercito, sempre pronti qua e là a spargere sangue fraterno.
E' chiaro che tutto questo andava sostenuto con giustificazioni e ideali, e non sono mancati quelli che li hanno prontamente trovati.
Così per tantissimi altri problemi mi sembra di capire con sempre maggiore chiarezza che è solo nel profondo della propria vita, nel cuore della propria coscienza che è possibile radicare delle scelte diverse da quelle che invece - come a branco di pecore - ci vengono imposte dai padroni del momento.
Dico questo pensando soprattutto alla realtà e alla storia del popolo cristiano, della Chiesa nella sua dimensione comunitaria e nel modo concreto di compiere le sue scelte storiche: gli sbagli di ieri, i falsi obbiettivi del passato (il vecchio lievito, dice il vangelo) ritornano nuovamente alla ribalta e alimentano nuove crociate. Siamo davvero «un popolo della testa dura», un popolo che prega il suo Dio con le labbra ma «il cuore è lontano da lui»: non comprendiamo i segni del tempo, sciupando delle meravigliose occasioni per immettere nella pasta spesso informe della storia umana la forza del lievito del Regno di Dio.
L'esperienza di ciò che sta avvenendo da qualche mese nella Chiesa portoghese conferma questa tragica incapacità a vedere, ad intuire I'appello che nasce dagli avvenimenti e che sarebbe carico di esigenze di novità di impegni con la vita. Di nuovo e con profonda amarezza assistiamo ad un succedersi di prese di posizione dei cristiani portoghesi, con parecchi vescovi in testa, che richiamano esattamente l'epoca delle crociate, soprattutto di quelle crociate politiche che da noi sono state vissute dal '46 al '60. Quando il nemico da abbattere a qualunque costo non era lo sfruttamento del popolo da parte di chi s'era ingrassato con la guerra, lo schiavismo di tutta la realtà militaresca che aveva spinto gli uomini al macello il potere degli industriali e degli agrari: il nemico erano «i rossi», il diavolo ormai era ben individuabile perché portava tanto di falce e martello e la lotta quindi non poteva essere che senza quartiere. Perché un cristiano che sia veramente tale non può rifiutarsi di lottare contro il diavolo: sono venute le scomuniche abilmente manipolate sul piano pratico della pastorale parrocchiale e tanta gente si è vista sbattere la porta in faccia e s'è trovata fuori di casa. Divisioni, incomprensioni, odio e su tutto questo l'interesse economico e politico delle classi dominanti che hanno subito capito che lo «scudo crociato» era davvero garanzia di tranquillità e sicurezza per il loro capitale.
Così la Chiesa - ed è stato detto, scritto, ripetuto migliaia di volte - ha perduto la classe operaia emarginando per questioni assolutamente non evangeliche coloro per i quali il Vangelo doveva essere primariamente annunciato.
L'impressione è che in Portogallo la Chiesa stia nuovamente ricadendo in questo errore assurdo di legare il fatto religioso alle scelte di tipo economico e politico indicando nuovamente nel comunismo e nei comunisti il diavolo da combattere con tutte le forze. Questo è stato detto sulla pubblica piazza dall'arcivescovo di Braga, in un momento di tensione durissima che ha provocato morti e riferiti fra la gente. Questo vescovo è lo stesso che ha fatto l'elogio funebre al presidente Salazar: non ha dunque il merito d'essere al di sopra d'ogni sospetto.
Comunque il grosso problema non è tanto la posizione di un vescovo o di un altro, quanto piuttosto l'urgenza di renderci conto del lavoro enorme che resta da fare ogni giorno per liberare all'interno delle comunità cristiane tutto il bagaglio di valori evangelici rimasti sepolti sotto una mentalità e un modo pratico d'affrontare la vita che non ha nulla a che fare col progetto cristiano. E' impressionante a questo proposito constatare come intorno ai vescovi portoghesi per la crociata anticomunista (benedetta da tutta la ricca borghesia che di nuovo vede nella croce la «sua» salvezza) si sono radunate folle enormi: segno, questo, purtroppo. non di una lucidità storica ed evangelica, ma di una realtà di popolo ridotto a massa anonima senza possibilità di scelte proprie chiare e precise, incapace quindi di capire, qual'è il posto del cristiano all'interno del cammino storico.
L'esperienza del Portogallo è un'indicazione eloquente - per chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere - del fallimento di tutto un metodo religioso ridotto a devozione, a legalismi, a osservanza di tradizioni umane, a privilegi della classe sacerdotale: rivelando un popolo cristiano che on ha capacità reale di seguire, la sola Parola a cui deve totale obbedienza e fedeltà, quella del suo unico Maestro e Signore. Così la Chiesa portoghese anziché accogliere con gioia il momento della sua liberazione da ogni legame con il potere, con il capitale , con il fascismo di un regime che ha oppresso il proprio popolo e le colonie con durissima repressione, facendosi così punto d'incontro, di comunione fra le diverse componenti sociali e soprattutto spinta. Per un superamento non qualunquistico delle divisioni di classe, ridiventa chiesa di parte e naturalmente di quella parte che le può assicurare una tranquìllità e una scurezza umana. lnvece di «paasere ai barbari», come dice in modo molto preciso Helder Camara, scegliendo di mettersi dentro, la storia dei poveri, degli i sfruttati e dei rifiutati senza potere né privilegi, preferisce restare dentro le vecchie mura che rischiano di crollare addosso. Sarà tutto questo a seguito di Gesù Cristo, per amore del popolo?
La nostra responsabilità di cristiani ci coinvolge direttamente in questa situazione così penosa cui sì muove, la comunità cristiana del Portogallo. E' autentico amore fraterno almeno portare dentro di noi il travaglio di una ricerca di fede che ci spinga a vivere nel nostro pezzo di terra quotidiana un impegno cristiano che abbia il sapore autentico del Vangelo. Perché bisogna combattere dalla nostra trincea la battaglia della liberazione da tutto ciò che ci fa complici della ricchezza dei ricchi (il sangue del povero, come lo chiamava Léon 8100i1s) e della violenza dei potenti. E 'quindi il giocare tutto di noi perché nasca un popolo che non sia branco di pecore che cammina a testa bassa dovunque ,lo conducono, ma insieme di persone libere e coscienti di dover obbedire, a rischio personale, alla voce dell'unico Pastore che è il Cristo.
Nelle vicende portoghesi mi sembra di cogliere un invito molto forte a renderci conto di quanto esigente sia la proposta che viene dal Vangelo; di 'come si può diventare causa e motivo di ateismo per tanti fratelli, contraddicendo storicamente la parola e la vita del Signore. E quindi come il voler essere "Chiesa di Cristo" -. comporti 'un impegno radicale per i valori e le scelte che Lui ha proposto è vissuto pagandoli a caro prezzo.

don Beppe

Dopo il 15 giugno

Non voglio fare un'analisi della situazione politica sia ben chiaro -, ma solo alcuni rilievi marginali che riguardano più da vicino la nostra situazione.
Si è parlato - almeno dalle nostre parti -, di banchetti di preti osannanti alla vittoria rossa e di preti scesi in piazza e per le strade a far festa con i comunisti. Buoni cattolici di casa nostra giurano di avere visto anche noi, proprio noi - nome-e cognome - e, magari, non lo dicono per spirito di carità, ci han visti ubriachi rincasare zizagando avvolti in enormi bandiere rosse.
Garberebbe a tanti che fosse vero per poter dire il fatidico «te lo dicevo, io»!, ma, alla faccia di chi ci ha bol~ lato da tempo, non è proprio vero nulla. A meno che noi, si goda del dono della bilocazione e cioè del potere di trovarsi in più luoghi contemporaneamente.
Era comunque prevedibile che nella nostra cara famiglia cattolica condita di carità qualcosa dovessero accusarci di fare. Dopo il 15 giugno ancor più che dopo il referendum sul divorzio, le barricate tra i «nostri» e i «loro» si sono moltiplicate e non c'è possibilità di sfuggire a questi schieramenti contrapposti. «Chi non è con noi è contro di noi» sembra essere la parola d'ordine, e quindi se non pratichi una assoluta ortodossia devi essere per forza dei «loro». Per questo ti vedono dappertutto con «loro», anche se non ci sei, perché ci devi essere per forza, altrimenti cadrebbero tutti i presupposti per una purificazione ed un ordine che da dopo il Vaticano II sembra essere il traguardo più ambito nella Chiesa. Basta con la confusione, ognuno al suo posto.
Non abbiamo partecipato mai a manifestazioni di partito. Far tutto un fascio con i cortei per occupazioni di luoghi di lavoro o contro le torture in Cile o le bombe in Italia, è cosa di cui può esser capace solo un emerito imbecille o uno che ha interesse a far confusione pur di poter screditare chi non la pensa allo stesso modo. Dedurre che chi va a questi va anche a quelle, è da impuri di cuore.
Non abbiamo fatto festa il 15 giugno perché non c'era per noi nessun motivo per esultare. Non lo abbiamo fatto dopo il dodici maggio perché non abbiamo creduto ad un voto progressista, ma tanto per parlare chiaro, ad un voto poveramente borghese e consumista. Non lo abbiamo fatto dopo il 15 giugno perché non crediamo che i voti in più dati al PCI siano il riflesso di una maturazione sociale e politica, ma, in buona misura, la coscienza più o meno chiara della necessità di un cambiamento a favore di un partito ben organizzato, verso la possibilità di un regime forte.
Mi ha commosso è vero, lo devo dire, la gioia di tanta povera gente per le strade, davanti alle sedi di partito. La gioia di una sera attesa dal 1948. Povero popolo, basta così poco a creare un'illusione...
Perché la lotta per una coscienza popolare libera non è finita il15 giugno, anzi forse deve proprio cominciare con toni più accesi. L'organizzazione affoga l'espressione popolare, l'ideologia schiaccia l'uomo, l'interesse politico gela la partecipazione, e questi sono nodi insieme a tanti altri che continueranno a venire al pettine inevitabilmente.
No, non ci illudiamo davvero anche se siamo consapevoli che analisi politiche serie individuano, in forza dei voti a sinistra, dei ribaltamenti nella mentalità sociale e politica fino a riproporre rapporti diversi tra gli uomini. Lo speriamo. in quanto un indirizzo socialista non è davvero da mettere sulla bilancia con lo sfruttamento del privilegio capitalistico, ma ci sono battaglie che il cristiano non può credere di poter abbandonare o delegare a ideologie o indirizzi politici quali che siano. Se è vero che cristiano è l'uomo secondo il pensiero di Dio e se è pure vero che l'uomo si salva con l'uomo come non potremmo sentirci coinvolti nella lotta per una umanità libera e piena di vita qualunque siano i modi concreti con cui questa umanità cammina storicamente?
La lotta per l'uomo, per il debole e l'oppresso quali che siano, per il popolo sarà sempre segno visibile della misteriosa costruzione del Regno.
Troppo citata la lettera di don Milani a Pipetta per riportarla qui: rimane di una esemplificazione così chiara da lasciare dubbi solo in chi non vuol capire. Voglio però riportarne la parte finale : «Ma un giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidare di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore Crocifisso». Un coinvolgimento totale fino fondo perché troppo forti sono i motivi di fede che ci spingono ad essere dalla parte dei poveri senza paura di strumentalizzazioni perché la nostra piena solidarietà sarà sempre con l'uomo e mai con il partito o l'organizzazione. Questa è anche la ragione per cui siamo emarginati nella Chiesa che non resiste alla tentazione di farsi partito ed organizzazione.
Abbiamo sofferto e soffriamo, d'altra parte e da sempre contrasto stridente col 'partito cattolico' e quindi la necessità di convenire in unità non per dar vita a rapporti nuovi tra gli uomini secondo il vangelo, ma per appoggiare una « politica» e difendere un «potere ».
Per questo dicevo che la lotta continuerà ancora più aspra. Gli schieramenti contrapposti possono venire a patti, ma chi è senza tessera e distintivo verrà inevitabilmente schiacciato e l'uomo non è tessere o distintivi, e autorizzazioni o incarichi o che diavolo serve a distinguere, ed in definitiva a dividere per comandare.

don Luigi

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