LOTTA COME AMORE: LcA novembre-dicembre 1974

Il Sinodo di ogni giorno

Abbiamo cercato di seguire i lavori del Sinodo dei Vescovi, attraverso i giornali e in particolare da quanto è stato possibile tirar fuori dai troppi quanto inutili servizi di «Avvenire» buoni soltanto a frammentare gli interventi dei Vescovi, specialmente di quelli della periferia della Chiesa, rendendo quindi impossibile una conoscenza diretta e più completa della situazione religiosa cristiana nel mondo.
Una grande confluenza, il Sinodo, di tutta la condizione delle cristianità sparse nel mondo per una somma di tutte le speranze possibili ad una presenza del Cristianesimo nella vicenda umana, per intravedere le linee di una evangelizzazione a seguito di quell'obbedienza che costringe la Chiesa alla fedeltà fondamentale della sua missione: evangelizzare tutte le creature... fino agli ultimi confini della terra.
Uomini, i Vescovi, espressione viva di tanti popoli a portare il peso e il dramma di tutto il problema dei rapporti fra Dio e gli uomini, sofferti nelle condizioni storiche dei loro paesi, nel cuore della Chiesa per responsabilizzarla circa il suo essere raccolta di tutto il mistero dell'umanità in cerca di Dio, per illuminarla ad essere più fedelmente che sia possibile segno di Dio fra gli uomini.
Problemi di fede, di possibilità e di impossibilità di Fede cristiana nel mondo; incontri di civiltà col Vangelo, scontri inevitabili. Evangelizzazione per una riconciliazione, Vangelo per una respinta chiara e coraggiosa. Fede e liberazione in un potenziamento appassionato. Lotta e Amore: un richiamarsi vicendevole per unificare e rafforzare speranze di popoli. Comunione di ingiustizie, di violenze, di sopraffazioni, di sfruttamenti, cercando di ritrovare nella Fede, nella fraternità del Vangelo, alleanze di poveri, di sfruttati per un mondo diverso, nuovo.
Parole di rammarico per il secolarismo dilagante, constatazioni forse più amare di quanto volessero sembrare, per un tradizionalismo religioso in disfacimento. Il doloroso problema dei «marginali», dei lontani. La prospettiva di difficoltà praticamente insuperabili del loro recupero. La faticosa impresa della catechizzazione. La necessità urgente di inventare nuove forme, scoprire iniziative diverse. Il tormentarsi per rendere valido l'annuncio, accettabile l'evangelizzazione, occasione di ricupero e di catechizzazione al cadere di ogni scadenza di sacramentalizzazione.
Ricchezza e sovrabbondanza fino ad un benessere confinante e quasi identificabile col paganesimo, certamente con l'irreligiosità e l'indifferenza, povertà e miseria da livelli sottoumani, problemi di fame, di malattia, di mortalità fino all'estremo della disperazione.
Potere assoluto, economico, politico da dominio incontrastato, da posizioni assicurate di sfruttamento, di profitto ad ogni costo e con qualsiasi mezzo e condizioni di schiavitù miserabile, di oppressione totale di ogni libertà, di schiacciamento dell'uomo, della persona umana e della dignità dei popoli.
Alleanze politiche, concordati, accordi diplomatici, nunziature, collusioni economiche, incontri ad alto livello e Chiesa sotterranea, alla macchia, sottoposta a violenza, a torture, nei suoi cristiani, nei suoi preti.
Un riversarsi di fiumane, il Sinodo, attraverso uomini a volte così diversi tra loro, in situazioni tanto contrastanti, carichi di pesi più o meno responsabilizzati, per scambiare esperienze, comunicarsi speranze od angosce, ravvisare impegni, alla ricerca d'incontri, di comunioni, per una novità di Chiesa nel mondo, per ritrovare la Parola da annunciare, riscoprire il Sacramento che unicamente può salvare individui e popoli, Chiesa e umanità.
Molte liturgie solenni, assise di studio, gruppi di approfondimento. Perfino un pranzo per manifestare l'unità delle razze e dei continenti.
Documenti finali, riassuntivi di tutto un parlare, di un incontrarsi e di uno scontrarsi e poi ogni Vescovo ha risalito la fiumana che l'aveva portato a Roma ed è rientrato fra la propria gente a riprendere tutto il problema del proprio Sinodo quotidiano e cioè la ricerca, Dio voglia sofferta e pagata, costi quello che vuoi costare, di una evangelizzazione nella quale sia vivo e vivente Gesù Cristo, la sua parola e la sua vita, l'unica speranza di aiutare l'umanità a vincere tutta la disumanizzazione che la sta soffocando in una spaventosa stretta mortale.
Non possiamo, noi, povera gente di periferia ecclesiale, non rimanere perennemente perplessi per la constatazione che da ogni assemblea ecclesiale, sinodi, conferenze episcopali, consigli presbiterali, pastorali, tavole rotonde, corsi di studio, di aggiornamento, congressi, capitoli religiosi, ecc. si discutano sempre e si affrontino tantissimi problemi teologici, pastorali, di cultura religiosa, di liturgia, di morale, di diritto, di catechesi, dello spettacolo, del turismo, del lavoro, dei giovani, della famiglia, del femminismo, dei fanciulli ecc. ecc. e poi in definitiva non cambi mai niente di tutto l'apparato ecclesiastico. La Chiesa esamina tutto meno che se stessa e tutto rimane con quell'immagine immutata e immutabile, secondo quell'eterna schematizzazione ecclesiastica, raccogliendo e vagliando attentamente soltanto ogni responsabilità che possa venire dall'esterno, dal mondo, dalla società, dalla cultura, dai movimenti politici, ecc., giudicati influenzamento negativo in ordine alla Fede, difficoltà per la scelta e la vita cristiana. Non guarda mai con discorso chiaro e scoperto alle proprie responsabilità negative nei confronti della problematica religiosa e cristiana nel mondo, non accusa mai se stessa, non condanna mai i propri errori, rompendo coraggiosamente con l'istituzione capace di coprire ogni cosa.
Come per il cristiano così anche per la Chiesa non è più il tempo di riforme ma di conversione, con tutto quello che la parola vuoi dire, di taglio netto e di inizio nuovo.
C'è un sinodo che dovrebbe essere celebrato ogni giorno, in una chiara responsabilità di Fede, dove continuamente la Chiesa - a tutti i livelli, dall'individuo cristiano fino alla totalità della comunità ecclesiale - esamina se stessa per ritrovare, in incessante purificazione e conversione, la propria originalità e verginità riscontrabile soltanto nello scoperto confronto col Vangelo, con Gesù Cristo, Parola fatta carne. E in questa verità realizzare la comunione di tutta la innumerevole pluralità della ricerca di Dio e dell'umano in una profonda realtà di Amore.
Un sinodo quotidiano, come la celebrazione eucaristica, dove confluisca tutto il travaglio dell'umanità attraverso il sacerdozio di ciascun cristiano e di tutta la cristianità, per essere raccolto nella morte e risurrezione di Cristo e così entrare nel Mistero di Dio e cioè nella totale liberazione che è la salvezza.
Quando ogni cristiano, e quindi ogni comunità cristiana, saprà vivere e partecipare, fino alla condivisione più totale, la realtà della vita, tutta la condizione umana, specialmente nelle misure più estreme di bisogno di Amore, di giustizia, di liberazione, di dignità umana, e la riverserà nella Chiesa traboccandola fino all'impossibile, di tutta la problematica dell'umanità. allora ogni giorno è il sinodo, è l'assemblea vera dei cristiani. E questo sinodo quotidiano, confluenza nel cuore di ognuno e nel cuore della Chiesa, di tutta la sofferenza del mondo, dei problemi di giustizia, di libertà, di Amore, sarà spinta irresistibile, costrizione appassionata capace unicamente di forzare la Chiesa, questa immensa comunità di credenti in Cristo, ad essere la continuità autentica della sua presenza nel mondo.
E anche la Gerarchia, con tutta l'istituzione della Chiesa, realizzerà sinodi non di liturgie più o meno raffinate, di relazioni più o meno artificiose con ricerca di iniziative per attualizzare la catechesi ai tempi moderni, ma sinodi di coraggiose e chiarissime qualificazioni di progetto cristiano, secondo il Vangelo, nella storia dell'umanità, da rendere visibile, fino a toccarsi con mano, che la Chiesa è Gesù Cristo.
Un sinodo quotidiano di popolo cristiano: è unicamente di qui, insieme all'onnipotenza dello Spirito, che può rinnovarsi e ravvivarsi una Chiesa diversa, quella di cui l'umanità ha infinito bisogno.

La Redazione

Una croce bianca

Mi sono trovato a camminare sulla strada, quasi alla testa di un corteo di operai e di studenti in sciopero, portando in mano come segno di protesta, di dolore e di lotta una piccola croce bianca costruita in fretta nella Camera del Lavoro della nostra città. Eravamo in sei o sette a portare la croce per strade poco affollate, in mezzo a gente assai distratta, e che vedendo quello strano segno in cima al corteo non riusciva a capire il suo significato. Infatti, cosa ci sta a fare una croce in una manifestazione di protesta contro l'egoismo di un mondo economico e sociale che tende a scaricare tutto il peso dei suoi malanni sulle spalle della gente più umile?
La gente che era sui marciapiedi e sulla porta dei negozi o dei bar non sapeva certamente che il giorno prima, nel pomeriggio dolce e luminoso del sole d'ottobre, avevamo portato al cimitero un operaio ormai vicinissimo alla pensione, entrato a 17 anni nella grossa officina di riparazioni di carri ferroviari (la FERVET, padrone cattolico con sede centrale a Bergamo), e che da lì era uscito a 56 anni col cranio fracassato dallo scoppio di una binda ad aria compressa che lo aveva ucciso sul colpo. Tutta una vita di lavoro, di sacrificio, di giornate consumate nella fatica e nell'impegno duro per il pezzo di pane, la famiglia, i figli (una vita servita come quella di tutto il mondo operaio alla ricchezza e alla star bene di pochi): ora era lì, chiuso dentro la bara col volto sfigurato, le labbra sigillate nel silenzio che in pochi attimi era calato su di lui dalla macchina che stava cercando di riparare. Una macchina vecchia, logorata dal tempo, sicuramente mai più controllata e collaudata da chissà quanto tempo e che la Direzione dell'azienda non si era preoccupata di cambiare, nonostante che alla FERVET in pochi anni ci siano stati ben tre morti sul lavoro. La fabbrica diventa campo di battaglia, dove uno va e non sa se la sera. potrà ritornare a casa: e questo non per il destino che pesa sulla fragilità della vita di tutti ma per il lavoro diventato un pericolo dl morte anziché un'opera di vita.
La moglie, povera donna lacerata fin dentro l'anima, mi raccontava che al mattino lui se n'era andato da casa come sempre e lei se ne stava fuori dell'uscio a guardarlo partire; e come sempre l'aveva salutata con la mano prima di svoltare l'angolo della via che lo doveva condurre, come vittima dell'egoismo e dello sfruttamento, alla sua croce, al suo calvario che l'aspettava tra le lamiere dell'officina, poco prima di mezzogiorno.
La sua croce... ora era sulle sue spalle che veniva deposta ed era lui che si mandava al macello in nome di un sistema di lavoro dove l'uomo è ridotto a numero, a ingranaggio che deve semplicemente produrre e servire. Quella croce di passione e di morte quanti l'hanno portata in questi nostri tempi, in tutte le fabbriche, i cantieri, le officine del nostro mondo industriale che mentre sei vivo ti sfrutta e quando sei morto ti manda una corona d'alloro e di fiori con sopra scritto "La Società FERVET". C'era anche quella corona in mezzo a quelle del Partito, degli amici, delle organizzazioni sindacali, dei parenti e familiari: la processione era lunga, i compagni di lavoro lo hanno portato a spalle dall'obitorio dell'ospedale al cimitero; poi la bara è scivolata in fondo alla fossa e la terra l'ha ricoperta e tutto era finito. E noi eravamo lì a cercare di raccogliere una vita intera che spariva dentro la terra e a gridare dal fondo dell'anima che Dio Padre raccogliesse nel suo Amore, nella sua Giustizia, questo seme di esistenza operaia, questa vita di lavoro, di fatica, di sudore, di tenerezza e di amore. Abbiamo sussurrato una preghiera, abbiamo segnato col segno della benedizione cristiana quella zolla di terra in cui spariva qualcosa di tutti noi, qualcosa della classe operaia, del mondo della povera gente, mangiata dalla fatica ma molto di più dall'egoismo dei ricchi e dei potenti. E mi sembrava di essere come inghiottito anch'io da quella tomba aperta e mi sentivo pesare sul cuore quella montagna di terra che scendeva inesorabile su quel compagno operaio: segno tremendo di tutta la montagna d'ingiustizia e di indifferenza che grava sulla storia della povera gente di tutti i tempi e di tutti i paesi.
E ad aumentare la tristezza e quasi l'angoscia di quel momento c'era senza dubbio l'amarezza di non aver visto tutti i compagni operai delle fabbriche, dei cantieri della città, a quel funerale. Avevo tanto desiderato che alle tre del pomeriggio i cancelli di tutte le officine si aprissero per lasciar scorrere il fiume di operai che si dirigevano così com'erano all'obitorio dell'ospedale per l'ultimo addio ad un compagno caduto sotto un carico così pesante. Uno di famiglia, uno di casa, un parente nel senso più profondo della parola; perché non c'è solo la carne e il sangue a renderci prossimi, ma tutta una vita, una condizione umana, un modo di consumare la propria giornata, un medesimo destino, una stessa sopraffazione e una stessa lotta... Non potevo sopportare che in quel momento le fabbriche funzionassero, i cantieri fossero attivi e tutto procedesse normale come se niente fosse successo.
E' vero, al mattino dalle 10 alle 10 e 15 avevamo fatto una fermata del lavoro: ma che cos'è un quarto d'ora di tempo per chi ha perso la vita... Li avrei voluti tutti lì, tutti stretti intorno alla bara, con le tute sporche e le mani nere, ma non certo per fare spettacolo o colore, ma perché si fosse tutti insieme grido di protesta, accusa chiara alla crudeltà del capitale che schiaccia l'uomo, segno deciso di una comune volontà di lotta per un mondo più umano, più a misura d'uomo. Un mondo fatto per la vita e non per la morte. Tutti stretti intorno a lui, perché lui era un operaio, un compagno, un crocifisso al posto di noi tutti. Perché oggi era toccato a lui, ma domani chissà...
Ma i miei compagni non c'erano - solo pochissimi in confronto all'insieme del cantieri e delle officine - e la solitudine si faceva più grande e mi sentivo sparire dentro questa solitudine anche se la Fede mi sosteneva a credere che nel buio di questa povertà in cui spariva il mio compagno ucciso c'era l'Amore di Dio, l'Amore del Compagno Cristo che con le sue mani forate dai chiodi della sua croce raccoglieva la vita e la storia di chi come Lui era rimasto vittima dell'oppressione.
Per questo, il giorno dopo ho preso volentieri la croce bianca e l'ho portata per le strade della città, in mezzo ala gente distratta che non capiva quello che voleva dire. Per me era come continuare a gridare a tutti questa storia di passione, di croce, di violenza e di morte che ogni giorno si abbatte sul popolo del lavoro e che aveva schiantato come un fulmine il compagno della FERVET,
Ed era anche un segno di lotta, una volontà di non accettare e di non rassegnarsi a questo mondo assurdo e oppressore, un desiderio profondo di respinta di tutta la disumanità e l'ingiustizia che grava sulla vita quotidiana di tanta povera gente.
Croce bianca di speranza, di fiducia nella crescita di un modo di vivere diverso, di croci vuote, senza più crocifissi né crocifissori: di classi e di popoli in rivolta contro chi voglia continuare a sfigurare il volto dell'uomo e a renderlo oggetto d'interesse e di privilegio.
Croce bianca a indicazione di amore fraterno, allargato a misure universali, come un fiume capace di travolgere e spazzar via ogni egoismo e ogni sfruttamento.
Mi ci tenevo stretto a quella croce e non riuscivo a guardare nessuno lungo la strada: avevo davanti agli occhi quella bara scura, quella tomba aperta, quel gran mucchio di terra che s'era portato via una vita intera di lavoro, di sacrifici, di tanto amore. E allora la mia croce bianca mi pareva si tingesse di rosso, come di sangue vivo, e diventava un grido di dolore a lacerare come spada l'orgoglio, la disumanità dei ricchi che campano succhiando il sangue dei poveri.

don Beppe

4 - Alla Santa Madre Chiesa

Mi par d'essere il vecchio innamorato, sentimentale e nostalgico forse fino al ridicolo, che non ce la fa a togliersi dal cuore il suo Amore. Eppure è un fatto: tutto si è inaridito a poco a poco, la solitudine è dilagata come le ombre al calar del sole dietro l'orizzonte e la nebbia tutto ravvolge ormai che quasi è assurdo sperare in un lembo di azzurro o di cielo luminoso di stelle. Le amarezze sono il pane quotidiano e la vita è un girovagare qua e là, senza progetto, quasi, spesso, senza ideali capaci di rallegrare il cuore
Non c'è un vuoto di dentro ma a volte è peggio che un vuoto: è la non possibilità perfino della speranza e impedisce anche l'ultima gioia, quella dell'attesa.
E il sapere che è illusione l'attesa finisce per spegnere anche il fuoco d'Amore rimasto sotto la cenere.
Cara Santa Madre Chiesa, tu forse non sai (perché sei troppo affaccendata in innumerevoli cose e ti ha come inaridita la sopraffazione dei problemi terreni), non sai cosa vuol dire essere stati innamorati di te, profondamente e appassionatamente, fino ad averti scelto come ragion d'essere della propria vita, averti accolto con totale Amore nel cuore con un consenso assoluto, quasi come un consegnarsi al tuo Ministero, guardandoti come si guarda una strada luminosissima distesa davanti, sulla quale si camminerà, come ai primi passi, all'inizio di un infinito dove si entrerà, ci si abbandonerà con la gioia della paura di perdersi, verso un orizzonte che chiama al di là di tutte le cose.
Tu, almeno così sembra, non sai, Santa Madre Chiesa, che passione di Amore puoi suscitare nell'anima di una vita, quando ti si sente e ti si crede non più o almeno non soltanto realtà di uomini, vicenda terrena, dimensione temporale, ma abitazione di Dio fra gli uomini, una sua volontà di Amore, un segno visibile del suo Mistero, qualcosa che vuol dire unicamente e immediatamente Gesù Cristo. E sapendo di essere qualcosa di te ed appartenendoti, allora il proprio essere e vivere sente di dilatarsi nell'infinito di Dio, diventa comunione di Cristo ed esistenza umana, umanità intera, uno eppure tutti gli uomini.
Ti ho conosciuta ed amata così, santa Madre Chiesa, come l'unica realtà nel mondo dove potevo essere pienamente e totalmente, me stesso, così come mi è parso d'intuire il me stesso nel pensiero di Dio, in Lui dove so bene e dove credo di poter trovare unicamente la mia identità.
Tu mi sei stata il luogo del mio incontro con Dio, dove mi sono riconosciuto in Lui e dove l' ho accolto nella mia vita, anche se con terribile sofferenza ed estrema fatica, perché Dio mi è apparso come Parola da ascoltare e scelta di vita da condividere, al di là di tutto me stesso per un diventare me stesso in Lui, Dio, Gesù Cristo, gli uomini, la umanità...
Mi sei stata, santa Madre Chiesa, l'alternativa concreta, reale, pratica, di progetto totale e di quotidianità spicciola, nelle misure universali e nella sbriciolatura del particolare, l'alternativa a me stesso, nei programmi e nelle prospettive personali, coltivate e cullate con tanta dolcezza, nei sogni di quando la vita è primavera e palpita nel cuore la gioia dell'universo.
Non so spiegarmi quell'Amore, santa Madre Chiesa, tenace e cocciuto, quell'odiarti spesso fino alla disperazione quando avvertivo la tua crudeltà e disumanità e quell'amarti appassionatamente perché, al di là di quell'angoscia, mi appariva, e mi affascinava irresistibilmente, l'intravederti misterioso segno di Dio fino al punto che respingerti significava respingere Lui, tirarmi fuori di te voleva dire riprendere totalmente la mia individualità, la proprietà di me stesso: era abbandonare valori universali, lasciar cadere "gli altri" dalla mia vita, uscire da una comunione a misura d'umanità, tradire una possibilità d'Amore a vastità infinita.
Non sono mai riuscito a capire come tu possa, santa Madre Chiesa, essere realtà di opposti così inconciliabili, avvicinamento e sintesi di irriducibilità così contraddittorie. Come sia possibile vergognarsi di te, della tua storia, dei tuoi uomini, della loro cultura, del tuo presentarti al mondo, di tutto il tuo apparato e nel frattempo amarti così profondamente fino all' esclusività più assoluta, quasi con gelosia, perché sicuramente tutta la sofferenza di cui ho sofferto a causa di te è stata e è a motivo d'Amore, di Amore che idealizza, che sogna, che non si arrende e non si stanca e che quindi non accetta né può accettare che tu non sia quel miracolo che devi essere. E un Amore che non è più capace nemmeno di ragionare, è Amore al di là di ogni misura, è sull'orlo della pazzia, cioè è Amore vero.
Chi leggerà questa lettera che ti scrivo, santa Madre Chiesa, può darsi che non riesca a capire come sia possibile che tu per una vita di uomo, possa significare così tanto, motivazione così essenziale, ragione di vita tanto profonda. E giudicherà tutto risultato aberrante di un'educazione os-sessiva, di una sentimentalità impazzita e chissà cos'altro ancora. Ma io e tu, se tu ritrovi il momento verginale della tua verità, sappiamo bene che tutto è molto semplice: io sono un povero essere umano colpito dall'idea di Dio e ferito in maniera insanabile dall'Amore di Cristo, tu sei la strada dove si cammina la via di Dio: un pellegrino ama perdutamente la strada, la sua strada, dove cammina per il mondo, che lo rende cittadino di tutta la terra, fratello di tutti gli uomini, uno di tutta l'innumerevole folla.
Anche quando la strada è sterrata, sassosa, sale o scende, tortuosa e spesso si smarrisce in fanghiglia acquitrinosa e svanisce spezzata dai venti sabbiosi del deserto.
Allora la strada pare che abbia tradito il vecchio pellegrino, zingaro senza pace, ma lui continua ad amarla con tutto l'Amore la sua strada perché la sentirà sempre tracciata, davanti al suo destino, dal dito di Dio.
Pensavo e con pena terribile a questo mistero di Amore nella sua impossibilità ad arrendersi, qualche settimana fa, una sera a Roma. I n una sala e poi nella chiesa parrocchiale per una concelebrazione del Mistero di Cristo e di questo nostro fratello, un gruppo di amici, cristiani e no, riuniti a raccogliere il messaggio, misterioso e appassionato di fra Tito, il giovane domenicano del Brasile, suicidatosi in un convento francese.
Nel racconto di quella storia piagata di tortura, agonizzata dallo spezzar di dentro la persona umana, affogata nel sangue, era luce chiarissima l'Amore alla propria gente, oppressa e schiacciata da una dittatura feroce, esplodeva la ribellione per una libertà di uomini contro ogni schiavitù, la fierezza di un uomo a lottare contro la violenza come contro l'agonia, ma si sentiva anche e direi soprattutto, un'infinita passione d'Amore per te, santa Madre Chiesa.
Un uomo, un tuo figlio che si è dato, abbandonato alle torture per sottoporre, nella sua carne, anche te alla violenza del dittatore e accumunarti così alla schiavitù di un popolo: una Chiesa che subisce insieme al popolo la schiavitù, l'oppressione, la tortura e s'immola in un sacrificio totale fino al suicidio, pur di gridare fino all'impossibile e continuare a gridare anche oltre la morte la libertà, la grandezza dell'uomo, contro l'incatenamento del potere, della disumanità.
Tu non l'hai amato - e forse non lo puoi amare - questo tuo figlio, santa Madre Chiesa, ma lui ti ha amata fino ad offrirti la sua giovinezza, scegliendoti come suo motivo di vita, ti ha amata prendendo lui il tuo posto, nella solitudine del carcere, nella disperazione della tortura, si è immolato sulla tua croce, quella che il nostro tempo ti rizza davanti ma che tu lasci vuota spesso, morendo di dissanguamento per le ferite della disumanità fino a renderlo "disprezzato, rifiuto dell'umanità, uomo dei dolori, assuefatto alla sofferenza come uno davanti al quale ci si copre il volto, disprezzato, così che non lo abbiamo stimato" (Is. 53, 3)
Ho pensato, santa Madre Chiesa, che pur avendoti amata appassionatamente fino ad offrirti tutta la mia vita, ho pensato davanti all'Amore per te di fra Tito, di non averti amata nel modo giusto. Ho cercato di coinvolgerti e di comprometterti nella mia vita, ma è stato terribilmente poco, qualche povero tentativo e poi tutto si è fermato alla paura, all'incertezza, al non credere assai che l'Amore per chi si ama è costringere fino alle misure estreme, è la necessità di rischiare anche ciò che può essere giudicato assurdità, pazzia e più ancora scandalo.
Non ho provocato abbastanza "scandali" nel tuo vivere sistemato, saggio, pietistico, pacioccone di Chiesa sicura di sé, del suo prestigio, dei suoi privilegi. E non vi sono state rotture di fondo capaci di incrinare tutto un sistema, così perfezionato e raffinato, dove tutto è virtù capace di velare tanta mediocrità, tanta banalità.
Bisognerebbe cercare, a forza d'Amore, di costringerti ad essere pazza, assurda, da respingere da imprigionare, da torturare... portarti al punto da suicidarti per morire dentro l'abisso della disumanità, nel seppellimento dell'incomprensione, del disprezzo, dell'essere vinta...
E tutto questo pagando di persona, offrendoti semplicemente tutto, in rottura chiara ed estrema, al di là di ogni ritorno, di qualsiasi interesse personale, in una verginità illibatissima da ogni ombra di vanità, d'orgoglio, per un Amore, unico e appassionato a te, santa Madre Chiesa, al tuo essere di Dio e dell'umanità secondo tutto Gesù Cristo.
Perché se tu sei, come sei, realtà di Dio, presenza di Cristo fra gli uomini, l'Amore verso di te, santa Madre Chiesa, non può che essere un continuo cercar di costringerti a costo di tutto, anche a costo di provocare "scandali", alla tua verità, alla fedeltà a te stessa e a tutto il tuo Mistero.
Ora mi rendo conto e con profonda amarezza che non ti ho amata sul serio, santa Madre Chiesa, pur avendoti amata perdutamente, più della mia vita e di qualsiasi altra cosa al mondo.
E capisco bene, con terribile amarezza, che ormai non mi è più possibile "l'altro amore", quello di fra Tito, arrivato fino all'estremo di aprirsi le vene perché il suo sangue ti provocasse ad essere Chiesa fra il tuo popolo, nella disperazione della sua gente.
E questa impossibilità di Amore per un non coraggio e anche forse per un'assurda rassegnazione, mi fa sembrare vecchio e stanco, come chi guarda al primo e unico Amore con struggente malinconia per aver mancato ad appuntamenti d'Amore che ormai non ritorneranno mai più.

don Sirio

2 - Scuola: Lungo Canale Est 37

Uno dei problemi che si presentano all'inizio è quello di tirare fuori una discussione. Non perché ci sia difficoltà a parlare o a centrare argomenti interessanti. Tutt'altro. Solo che dopo un inizio ricco di motivi che ciascuno attinge dalla propria esperienza, il discorso si disperde in un chiacchierare a ruota libera come al bar o dal parrucchiere con tutta una serie di confidenze sulle preoccupazioni immediate di ciascuno. D'accordo che si è stanchi la sera e forse l'ambiente sereno e diverso da quello abituale, favorisce lo sfogo di tensioni accumulate durante la giornata, ma c'è anche una incapacità profonda al dialogo, un meccanismo di autodifesa che filtra tutto ciò che può intaccare quel piccolo orizzonte di sicurezza personale che è il quotidiano, i figlioli, gli amici, il tempo libero.
Il lavoro che ognuno fa, per esempio, non entra quasi mai nel discorso, se non per i riflessi che può avere nel piccolo mondo sopra citato. Fa già parte di una realtà esterna che risponde a meccanismi difficili da comprendere e da spiegare perché non si vedono e non si toccano anche se pesano tremendamente sulle spalle di ciascuno. E poi perché cercare di capire, perché sforzarsi di parlare e di prestare attenzione quando non cambia niente con i discorsi?
Coscientizzazione, politicizzazione, evangelizzazione, sono espressioni giustissime di un'enorme fatica da compiere attraverso dei gesti molto semplici ed autentici, tali cioè da costituire una prima esperienza su cui fondare una possibilità di cammino.
Ma quali possono essere questi gesti, queste esperienze fondamentali?
L'esperienza della gratuità, per esempio. "Hanno aiutato me, anch'io aiuto gli altri". Non però così semplice come si crede; non basta dare senza nulla chiedere per realizzare un atto di gratuità. E' necessario, per primo, che chi dà esprima a chiari segni che la sua non è una elemosina o semplicemente una generosità, ma la diretta conseguenza di una coscienza precisa di non dare del suo, ma di dare ciò che a sua volta è stato ricevuto. Non solo quindi nessuna forma di imposizione, ma anche e soprattutto una condivisione di fatica, di esistenza. Non si dà gratuitamente dal piedistallo di una ben consolidata situazione economica, dalla torre di avorio di una fede acquisita, da una posizione di forza che provoca sudditanza psicologica.
La sera torniamo dal lavoro ed insieme facciamo scuola. Una cosa molto semplice, che dà senso ad ogni parola, apre il cuore alla fiducia, «siamo sulla barca».
Ma la divisione - anche se essenziale - è solo il mezzo-ambiente in cui si vive una provocazione vicendevole, là dove la gratuità acquista il suo senso definitivo e qualcosa si comunica in dialogo autentico.
Cosa si può intendere per provocazione vicendevole in una situazione come la nostra, priva di spunti interessanti dove si dormicchia al riparo di un lavoro extra sul mare d'estate e del campicello d'inverno? Non certo provocazioni a base di slogan, di ardite mete rivoluzionarie O di profondi fondamenti spirituali e morali. Qualcosa di molto meno ridondante, ma forse - speriamo - più vero. Una provocazione che nasce dalla scoperta di motivi diversi per tirare avanti la vita, di punti di vista diversi nel giudicare i fatti, di una possibilità reale di esser, nello stesso tempo, capaci di render conto di una tale diversità. La geografia e la storia per un mondo e per un'epoca diversa, l'inglese per un esprimersi diverso, la matematica e le osservazioni per strutture diverse, l'italiano per modi diversi di affrontare un identico problema.
Ma di fronte, l'essere di ciascuno, mai dimenticato o sottovalutato, provocato da queste realtà diverse a dar conto - e quindi a prender coscienza - di un proprio mondo, di una storia, di un lavoro, di una lingua, di un metro di giudizio che sono ed hanno valore in quanto sono i suoi.
Non più, quindi, il problema personale a difesa di una intimità serena, ma come dono da immettere nel libero mercato della vita, con profonda gratuità perché nessuno si è fatto da sé.
Come facciamo concretamente? E' bene dire che ci muoviamo a fatica su questa strada e certo dobbiamo cercare di realizzare una migliore preparazione in ogni senso. Ne parleremo comunque, in modo più preciso, la prossima volta.
Mi preme far notare ora quanto questo discorso della gratuità, realizzata attraverso una condivisione di vita ed una provocazione attraverso l'accoglienza della diversità, sia discorso molto vero per l'annuncio di Fede. Trasferiamoci da una scuola di persone che si preparano all'esame di terza media ad un gruppo di "lettura" del Vangelo, ad una comunità di riflessione evangelica o come la si voglia chiamare. Il problema della condivisione tocca, per esempio, immediatamente il sacerdote che, nella quasi sempre totalità, può avere un'eguale sofferenza nella ricerca di fede, ma ha quasi sempre un'esperienza diversa nel viverla e nell'esprimerla (seminario, buon livello nella scala sociale, indipendenza nella vita privata e stretta dipendenza economica e psicologica nella vita ecclesiastica, ecc.) per cui sorgono spesso difficoltà di comunicazione e di autentica fiducia. «Il prete, in qualche modo, deve fare il prete». Così l'inserimento di persone intellettualmente ben preparate che dominano la situazione imponendo i loro modi e le loro scelte. «Ha studiato, quindi deve discorrere».
Il problema della provocazione alla diversità, tocca molto i partecipanti perché tendono a far gruppo, a difendersi insieme, contando sul numero, da esperienze troppo diverse e troppo inquietanti. Finisce per essere l'eterno gruppo di centro, fisso, immutabile, innocuo, rinchiuso, difeso e benedetto.
Prima di una pastorale diversa, non è forse necessaria una vita e dei segni quotidiani diversi, già aperti a queste dimensioni di presa di coscienza e di libertà?
Così per una scuola diversa.
Come al solito è problema di uomini nuovi e non di uomini che amino le novità.

don Luigi

Pastorale e scelta di classe

Sarebbe giusto e certamente non senza utilità permettere una certa analisi dell'istituto parrocchia nella linea giuridica tradizionale e nella realtà pastorale del nostro tempo. Ma anche un'analisi ridotta semplicemente ai livelli di constatazione pura e semplice sulla base dell'esperienza ormai visibile a tutti, non può non manifestare una urgente necessita di ricerca di rinnovamento e d'inventiva di parrocchialità diversa.
Se la Chiesa anche da noi è « missionaria» è inevitabile la scoperta di modi e di rapporti capaci di ottenere la sua presenza fra la nostra gente e nel nostro momento nelle condizioni più chiare e libere di testimonianza e di annuncio.
Pensiamo che il rapporto tra Fede e popolo, raccolto e realizzato dalla Chiesa, debba assolutamente essere liberato da intenzionalismi, da programmazioni, da organizzazioni, ecc., rapporti pastorali buoni soltanto a creare separazioni, differenze, lontananze, divisioni.
La pastorale si apre soltanto e si chiude immediatamente al momento dell'analisi-constatazione della realtà di Fede e di non Fede, propria di ogni particolare situazione o di quella generale.
Subito dopo entra in gioco e si coinvolge nella situazione, l'Amore, cioè il Mistero cristiano del dono di sé offerto all'accoglienza o alla respinta, fino alle misure più totali.
Non è pensabile una pastorale (cioè l'organizzazione a schemi stabiliti da prospettive e programmi generalmente studiati dagli specialisti e dai professionisti), una pastorale intesa come articolazione catechetica, programmatica e sistematica amministrazione sacramentaria, illuminata e raffinata celebrazione liturgica.
Dove (e non è dovunque?) la percentuale dei credenti (participio presente, attivo, se non altro per una ricerca di sincerità e autenticità cristiana) è minima e ormai disorientata e depressa, comprensibilmente, data l'attuale problematica religiosa, non è pensabile una pastorale di utilizzazione, d'apostolato ma piuttosto un riconoscersi, un ritrovarsi fraterno, un cercare di realizzare lunghi tempi di maturazione e di crescita nella costruzione comunitaria del progetto cristiano, realizzabile nelle concretezze del nostro tempo.
Dove (e non è dovunque?) ancora si sostiene (pur essendo sempre più in via di restringimento) una percentuale di tradizione cattolica, con la tipica religiosità puramente devozionalistica, precettistica, propria del praticante confinato nel sé stesso o, nel migliore dei casi, nei limiti della propria famiglia e dentro, al massimo, la sensibilità dell'opera buona, qui la pastorale non può essere che una ricerca di provocazione per rompere il ghetto, inquietare le coscienze, rimettere in discussione la scelta di Fede, il comportamento creduto cristiano.
E' chiaro che questo rapporto con questa realtà di Fede non può essere pastorale perché la pastorale comunque possa essere condotta, sarà sempre accomodante e si risolve inevitabilmente in un rimanere determinata da questa percentuale di frequentatori della chiesa, di praticanti sacramentari, di devoti impenitenti, preoccupati soltanto di sé stessi e degli altri unicamente per quanto ritorna per il loro compiacimento e la loro sicurezza, i loro vantaggi e privilegi.
Questa percentuale ha diritto di essere rispettata ma non ha diritto di determinare e condizionare l'impegno cristiano, cioè il rapporto di Fede con tutta la comunità popolare. E per evitare questo pericolo sempre incombente, l'unica maniera è scavalcare la pastorale come modo di rapporto cristiano, sacerdotale, e realizzare prima di tutto un'abitazione, un tipo di vita, preferenze chiare e inequivocabili, un annuncio della parola «si, si, no, no».., cioè una fedeltà di Fede e una scelta di vita che sia evangelizzazione, cioè Gesù Cristo a vivere il nostro tempo e ad annunciarvi la Parola del Regno di Dio.
Dove (e non è così dovunque, specialmente nel mondo dei giovani, operaio, emarginato, ecc.?) la percentuale - fin quasi alla totalità - è scristianizzazione che va dalla respinta più o meno cosciente, all'indifferenza fatta di menefreghismo o di superamento consapevole del problema e tanto più del fatto religioso, l'impostazione della ricerca d'instaurazione di un qualsiasi rapporto di Fede non può evidentemente, fino al rischio del ridicolo, essere una ricerca di tipo pastorale. Di pastorale qui c'è soltanto il ricordo e il dovere di tenere presente la parabola del buon Pastore. E insieme il trattato di pastorale splendidamente realizzato e indicato come unico rapporto, che è la parabola del seminatore e tutto Gesù nel suo vivere dentro la gente del suo tempo.
In ambienti scristianizzati come sono i nostri in questa impressionante percentuale, non è possibile non partire da una precisa e concreta realtà d'incarnazione. Il vivere dentro, l'assumere tutta la realtà, il coinvolgervisi e il lasciarsi travolgere, fino alle misure più estreme - perché totale dev'essere l'Amore cristiano altrimenti cristiano non è - è la vera e unica pastorale possibile perché oltre a essere la pastorale del Buon Pastore; è il rapporto tipico, caratterizzante in modo inequivocabile del cristiano, del sacerdote, di una comunità cristiana.
Rapporto di Fede dunque che non può non essere determinato e costruito che da una motivazione raccolta in Gesù Cristo e ritrovata chiara e inconfondibile nel Vangelo.
Se questo rapporto di Fede e di Amore cristiano viene chiamato scelta di classe non è per equivocare in confusionismi ideologici e tanto meno per mutuare un frasario marxista: è semplicemente per essere capiti dalla mentalità del nostro tempo e proprio per una chiarezza di linguaggio ormai inconfondibile.
Se le affermazioni cosi chiare e nette del Vangelo, se le scelte indicate con estrema evidenza dalla vita e dalla Parola di Gesù hanno perduto la loro crudezza esistenziale, la loro adorabile univocità il loro «si, sì, no, no» per sfumarsi in spiritualismi sospirosi, slavati devozionismi, religiosità alienanti, non è permesso e non è fedeltà continuare la separazione del Vangelo dalla vita, di Gesù Cristo dalla storia, per paura di incontri nuovi, di recuperi impensati, di annunci e incarnazioni più coerenti.
Scelta di classe dunque per poter significare e realizzare ciò che nel Vangelo vuoi dire mettersi dalla parte dei poveri (Le. 4, 18; Mt. 11,4) dei puri di cuore, di chi opera la pace, di chi ha fame e sete di giustizia, di chi è perseguitato per amore di giustizia... La scelta di classe - se liberiamo la parola dalla paura marxista - è il concreto rapporto del cristiano e della cristianità con l'esistenza secondo il discorso della montagna e tutto il Vangelo.
Se tutta questa ricerca di fedeltà evangelica viene considerata impegno politico, politicizzazione e via dicendo, vuol dire che finalmente si sta, sia pure faticosamente arrivando a prospettive d'impegno rigidamente cristiano realizzabile anche attraverso mediazioni politiche. E dopo tanti secoli di collusioni aberranti fra religione e politica, che all'orizzonte si affacci e s'illumini qualcosa di nuovo e di diverso non può che rallegrare il cuore.
Scelta di classe - sempre secondo lo Spirito e la lettera del Vangelo - non per antagonismi, scontri, capovolgimento di oppressioni, violenze, ecc., ma solo per stabilire antecedenze e preferenze di dove deve partire e qualificarsi il rapporto del cristiano, sacerdotale e pastorale (se si vuole usare la parola) nei confronti di tutta l'esistenza. E cioè una evangelizzazione, una sacramentalizzazione, una catechesi, una presenza cristiana, sacerdotale, individuale e comunitaria, di chiesa locale e di Chiesa universale... qualificata dai poveri, dagli oppressi, dagli emarginati, da chi ha fame e sete di giustizia, dalla fraternità umana, dalla uguaglianza di tutti gli uomini...
Nella sicurezza che questa scelta di classe, che questa qualificazione evangelica dell'annuncio e del sacramento e quindi della salvezza, non è contro la prima percentuale ma anzi chiarimento e prospettiva di serio impegno cristiano a tutti i livelli, interiore ed esterno, individuale e comunitario. Non è contro la seconda percentuale, ma anzi l'unica maniera per rompere contro un devozionalismo alienante, confusionismi di coscienza, sistemazioni religiose, interessate spiritualmente e materialmente, intrallazzi e mediocrità religiose, ecc. e quindi l'unica possibilità di conversione, di riconciliazione con Dio e con gli uomini sulla Parola di Gesù Cristo, nella realizzazione di chiesa locale e universale capace autenticamente di essere alternativa di progetto e di concretezza storica per la costruzione di umanità nuova, secondo il sogno di Dio che l'ha creata e l'Amore di Cristo che l'ha redenta nella sua morte di Croce e nella sua Resurrezione.
Pensiamo che sia possibile realizzare una parrocchia la cui pastorale e cioè il rapporto cristiano e sacerdotale vissuto in una realtà umana attraverso l'abitarvi ad ogni livello nella partecipazione più totale di tutti i problemi, attraverso l'evangelizzazione e la sacramentalizzazione, l'amicizia, la stima umana e religiosa, una parrocchia la cui pastorale sia raccolta e determinata non più dalla esigua e sempre più ridotta percentuale dei praticanti, gente di chiesa e di sacrestia, ma dalla massa popolare, anonima, povera di sicurezze, svuotata di potere, sfruttata da tutti e mal sopportata, ormai ai margini perfino di una considerazione religiosa e cristiana.
Non vi sarà evangelizzazione se la parrocchia e quindi la Chiesa non ritroverà questo saper parlare al popolo e cioè alla radice dell' esistenza, la Parola capace di scuoterlo, ridonandogli la Speranza di liberazione, di giustizia, di Amore, di pace, cioè di fraternità e uguaglianza, raccolta dalla Fede in Gesù Cristo e resa attuale, provocante e realizzatrice, esplosiva e costruente, dalla sincerità dei cristiani, dei preti, delle comunità cristiane, della Chiesa.
E' chiaro che queste sono semplici riflessioni e può darsi che risultino per niente indicazioni cosiddette pratiche (i preti sono sempre in ricerca angosciosa di iniziative, di attività pastorali capaci di riaccendere la Fede e di ripopolare le chiese). Nel nostro tempo però è ormai evidente anche a chi non vuol vedere né ascoltare, che non è più il rattoppo di una pezza nuova che può risolvere, bisogna semplicemente rovesciare, capovolgere le situazioni, i comportamenti, i rapporti: è venuto e viene sempre di più il tempo in cui i primi è giocoforza che diventino gli ultimi perché gli ultimi sono sempre più avviati ad essere i primi e chi è importante è inevitabile che sia un poveraccio di servitore, ecc.
E anche queste sono splendide iniziative, si tratta di tutta una pastorale ovviamente assai diversa, ma trattandosi di quella dell'unico Pastore e Maestro e Padre, volere o no, bisogna farci i conti anche se non vogliamo sentir parlare di scelta di classe.

d. s.


don Sirio

Un amico obiettore di coscienza

Sono un obiettore di coscienza, uno dei 150 che divisi in piccoli gruppi prestano servizio civile in vari enti di tutta Italia. Lavoro presso il Centro di Cultura Proletaria nel quartiere popolare della Magliana a Roma.
E' importante per me poter scrivere su queste pagine perché la scelta che sto vivendo l'ho maturata alla luce della testimonianza cristiana che la Comunità del Porto conduce avanti da anni.
Può sembrare una semplice coincidenza che nel teatro popolare scritto da don Sirio, "Una fede che lotta", abbia avuto la parte di un obiettore di coscienza. E' stata invece l'occasione per una provocazione che mi ha coinvolto fino al punto da ritrovarmi oggi. realmente, in quella condizione. Una conferma - ribadita di fronte al nostro vescovo - di come il nostro "teatro" non sia finzione scenica che fa leva sull'emotività, ma proposta che nasce dal Vangelo, proposta strettamente legata alla vita, proposta di lotta sofferta e pagata di persona.
Quale oppressione più crudele di quella degli eserciti e delle armi? Può un cristiano, oggi, credere nell'esercito come elemento risolutivo dei conflitti sociali? Può un cristiano oggi pensare all'esercito come istituzione per la difesa dei deboli, dei piccoli, degli oppressi?
Ho risposto di NO. Non posso dimenticare che l'esercito può essere solo preparazione alla guerra, strumento per uccidere nelle mani di chi ha il potere.
Sono così diventato obiettore di coscienza, anche se non mi sento all'altezza di essere così definito. Non mi è, infatti. costato un giorno di galera per merito dei compagni che mi hanno preceduto pagando, con anni di carcere, una legge che consente a chi obietta di poter prestare un servizio civile presso enti che ne facciano richiesta. Legge che vuole incanalare nel sistema la protesta antimilitarista.
Non credo che, per il solo fatto di prestare servizio civile, abbia realizzato la mia scelta antimilitarista e non vivo nel sogno che masse di giovani divengano obiettori fino al punto che non ci sia più un militare. Pensare così è ignorare la storia ed i motivi per cui esiste l'esercito nel nostro paese. Il servizio civile non è automaticamente la soluzione alternativa all'esercito. E' quella che più si presta a calarvi le motivazioni di una coscienza cristiana che vuole autenticamente lottare per la pace, è segno che vuole - e otto mesi in più delta ferma militare sono il prezzo da pagare - illuminare il cuore del popolo.
Probabilmente non saremo mai tantissimi, ma, attraverso il servizio civile. abbiamo un compito importante da tirare avanti:
- Lavorare nei quartieri emarginati, in mezzo al popolo, e far capire come l'esercito sia un idolo da abbattere, come i costi delle armi impediscono di costruire case, scuole, ospedali, come le dittature militari tengano in schiavitù milioni di fratelli;
- Far crescere quella coscienza antimilitarista che è profondamente radicata nel cuore della gente perché l'obiezione divenga un fatto di massa.
Questo oggi è possibile per coloro che scelgono il servizio civile.

Memo Sonnenfeld

Cappellani militari

Ci è arrivato tempo fa una raccolta di lettere e di corrispondenze fra un cappellano militare e la Sacra Gerarchia Castrense: è la storia «del dramma di un sacerdote, impossibilitato ad un colloquio schietto con i suoi capi ecclesiastici, perché inseriti pienamente nel sistema ordinatamente stabilito».
Sono lettere sia quelle del cappellano, che dopo dieci anni di appassionata dedizione del suo sacerdozio nel mondo militare, finalmente si decide a cancellare dalla sua carta intestata e sicuramente anche dalla sua anima, la parola «militare» lasciando limpida e liberata la parola «prete», sia e particolarmente, le lettere dei suoi superiori ecclesiastici, sono una corrispondenza, tutta comunicata in fotocopie, di estremo interesse per avere esperienza diretta di tutto quel mondo di Chiesa realizzato nelle rigidezze della disciplina militare, rafforzate dal militarismo dell'inflessibilità imperturbabile ecclesiastica.
Passiamo ai nostri amici la lettera di congedo del cappellano all'Arcivescovo Ordinario Militare per I'Italia, è del 16 aprile 1970 e la splendida risposta del vescovo.
Queste due lettere possono ben servire alla preparazione del grande pellegrinaggio per l'Anno Santo che le forze armate italiane prima, e poi quelle della NATO, faranno a Roma per acquistare il giubileo e realizzare la riconciliazione.
N. B. - Non pubblichiamo il nome del cappellano, non sapendo bene se ci può essere consentito.

Sig. Vescovo,
è terminato, con ieri, il mio lavoro tra i giovani militari. Un impegno che mi piacque sempre; che mi entusiasmò nei miei anni di sacerdozio. Posso dire (è vero che non toccherebbe a me, ma ritengo che anche questo riconoscimento sia giusta equazione spirituale) d'essermi affaticato per quei giovani. Niente di speciale e di straordinario, perché così concepivo il ministero sacerdotale: essere sempre a disposizione di quelli a me affidati.
Partii dalla diocesi non perché allontanato, né per contrasto con l'Ordinario, né per cercare una sistemazione economica migliore, ma solo perché attratto dalle possibilità di lavoro tra i giovani che avrei incontrato a masse, ai quali avrei potuto portare la parola di Dio, con i quali avrei stabilito rapporti umani di amicizia, di stima e di fiducia reciproca.
Ritengo d'essere riuscito non solo su questa linea umana, ma anche sulla linea divina, dove però i risultati non possono essere noti attraverso statistiche. Sta di fatto che, come scrive S. Paolo, portavo dentro di me le sofferenze dei miei assistiti e quanto più conoscevo la loro fatica umana e spirituale, tanto più divenivo nei loro confronti comprensibile e umano. Veramente amavo quei giovani bersagliati da ogni parte, indifesi, deboli perché neppure il diritto di rifiutare un insulto (fatto loro da chiunque si sentisse superiore) era dato loro.
Quando percepii più profondamente questa esigenza di difesa cozzai contro il muro dell'istituzione, non tanto gerarchica militare, quanto gerarchica ecclesiastica. .
Da questa presa di coscienza nacque la mia azione (ritenuta stravagante) di effettivo avvicinamento a quei giovani. La mia pena e il mio interessamento per loro si fecero sempre più vivi fino a creare una incrinatura fra noi (loro e io) e l'istituzione.
Il giuridicismo dell' autorità ecclesiastica mi fece vedere l'impossibilità a continuare il lavoro e mi portò alla decisione di lasciare l'ambiente, il quale ultimamente, divenne ancora più ostico, per le limitatissime visioni del Comandante, che trovò un caldo appoggio nel 1.° Cappellano Capo Bonadeo (il quale, nel giorno delle consegne, si espresse infelicemente in questi termini: «Ormai potete godere il vostro carnevale, perché il cappellano non c'è più», e pure in lei.
Mi permetta che, per l'ultima volta, le esprima il mio disappunto d'aver avuto superiori ecclesiastici che volentieri ascoltarono pettegolezzi sul mio conto senza approfondirli e di aver scartato un elemento importante nel giudizio a mio riguardo: la comunità.
Mt. 18,15-17 assegna alla comunità un compito preciso nel giudizio di un colpevole. Non mi consta che lei abbia tenuto presente questo fattore. Se l'avesse fatto (non accontentandosi solo di sentire due o tre cappellani capi più o meno prevenuti e più o meno desiderosi di far carriera o due o tre comandanti giuseppinismi e amanti del quieto vivere) forse non saremmo arrivati a questo risultato.
Se fosse reale il motivo dell'incompatibilità del mio carattere con la vita militare, come lei in continuità scriveva e andava dicendo a tutti, le pare che avrei resistito per circa otto anni?
Mi dispiace che anche lei, vescovo, si sia prestato al gioco di pettegolezzi e abbia trasferito nell'ambito personale la mia questione, considerando il tutto materia valida di giudizio negativo su una persona. Con la sua scienza giuridica poi seppe ben barcamenarsi, Ma mi sembra che non sia col diritto che si governa paternamente una diocesi né si guidino amorevolmente delle persone. Ritengo che la carità trascenda i confini del diritto.
. Mentre esco dalle file dei cappellani militari, mi auguro che questi trovino più larga paternità e fraternità dal loro vescovo; che possano vederlo meno dedito all' organizzazione ma più vicino a se stessi con la comprensione; che, a tempo giusto, si sentano da lui anche protetti e difesi: il ché non avverrà col codice bensì col Vangelo in mano. Che se non si capacita in questo ambito, trovino in lui un esempio di saggezza nel coraggio di cedere il posto.
A lei l'augurio che riesca a tradurre questo rapporto umano e paterno con tutti.
Gradirò una risposta, sempre che i suoi molteplici impegni glielo permettano.
Doveri.


Ed ecco la risposta «militare» dell'Arcivescovo Ordinario Militare dell'Italia:

Rev.mo e caro don
riscontro la Sua del 16 scorso.
Le auguro serenità nel nuovo lavoro.
Con un cordiale ricordo, e in preghiera, mi dichiaro

(firma autografa)

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