LOTTA COME AMORE: LcA settembre-ottobre 1974

Cari amici

Sono passati diversi mesi che questa nostra lettera agli amici non è stata inviata. Questa mancanza al nostro appuntamento quasi mensile è dipesa da diverse motivazioni, non ultima ovviamente il problema del recapito postale: il nostro foglio andava troppo sperso e a noi sembrava allora inutile insistere nella spesa. Anche l'andamento della nostra comunità ha avuto alcuni ristagni dovuti ad una certa sopraffazione di lavoro, di problemi.
Non è certamente facile una vita di comunità in questo contesto ecclesiale, evidentemente non favorevole e incoraggiante per ricerche di valori cristiani in un impegno di chiarezze all'interno della nostra vita comunitaria e di rapporto all'esterno, nell'angolo di terra nel quale viviamo, nella nostra città, questo nostro mondo che è quello che è e che ben conosciamo per tutta quella sofferenza e fatica che aggrava il voler respirare a cuore aperto, con fiducia e speranza, un po' d'aria buona.
Quando si riesce a sopravvivere è già miracolo e fino al punto che passa perfino la volontà di tentare una operatività, cioè l'esercizio dell'essere vivi: rimane semplicemente in attesa che passi il periodo di secca, per momenti migliori, per situazioni più favorevoli.
Sappiamo bene che questa passività non è affatto lodevole e ce ne rammarichiamo assai: non è del buon seminatore della parabola aspettare e stare sognare che la strada sia arata, la terra sassosa dissodata e i rovi e le spine divelte e strappate via, per gettare il suo seme, nella pretesa di farlo soltanto su terra buona, ma può succedere e questo è il peggio, che il sacco di grano sia vuoto o quasi, sia per ave gettato tutto il buon seme o, Dio non voglia, perché, data la carestia piuttosto preoccupante dei nostri tempi, sia stato mangiato, sempre per quel problema del sopravvivere.
Comunque sia (e certo le responsabilità sono sempre pesanti fin quasi a non saper come chiedere perdono) l'inesauribilità dell'Amore di Dio è veramente infinita. Non ne siamo coscienti mai abbastanza e dovremmo averne invece un'adorazione glorificante profondissima fino a riflettere nell'anima una gioia immensa e dilatare nel cuore un coraggio senza limiti.
Perché nel buio Lui riesce sempre ad accende illuminazioni improvvise, meravigliose. Viene la sua mano onnipotente e tira su dalla passività, dalla stanchezza a spingere violentemente sulla strada per prendere il cammino. Allora ritorna la fiducia, la speranza e specialmente - dono di Dio meraviglioso per chi sa riconoscerne la miracolosità - si riaffaccia timidamente ma irresistibile, la voglia di rischiare ancora, di chiudere gli occhi e di buttarsi là, senza sapere, specialmente all'inizio, né dove né come, basta soltanto vincere la paura, scuotere da dosso il torpore, convinti ancora che lottare bisogna, perché questo vivere, è credere, è fedeltà. Fedeltà a chi ci ha chiama non a dormire, o a starsene sulla piazza senza far nulla, ma a lavorare anche se fossimo già all'undicesima ora.
La vocazione del cristiano è tutta in quella del profeta: «Non dire: sono un buono a nulla! Perché verso tutti quelli che ti manderò, andrai e tutto quanto ti ordinerò, lo dirai. Non avere paura, perché io sono con te... io metto le mie parole sulla tua bocca; ecco, questo giorno, ti stabilisco sopra le nazioni e sopra i regni, per sradicare e distruggere, per disperdere e rovinare, per edificare e per piantare» (Geremia 1, 7-10).
Non si può e non si deve tirarsi da parte e lasciare che il fiume dilaghi dove vuole, sarebbe responsabilità di connivenza con chi ha tutto l'interesse a narcotizzare le coscienze in un cristianesimo pacioccone, coperto di carità, velato di devozione e vuoto di verità inquietante, di Parola Viva, di potenza rinnovatrice.
Sta invecchiando paurosamente questa nostra cristianità e non soltanto perché è sempre più un popolo di vecchi, il popolo dei credenti, ma specialmente perché sempre di più vince la paura del nuovo, del nuovo che sia veramente novità.
Del nuovo, cioè della manifestazione incessante di Dio che non si ripete mai, che non è mai la stessa, perché è prorompere dall'inesauribilità del suo infinito. La dolce, adorabile novità della sua Parola, continua, esplosiva creazione, violenza rinnovatrice dello Spirito che rinnova incessantemente la faccia della terra, presenza vivente di Cristo risorto a vincere continuamente la morte e a fare nuove tutte le cose.
A volte la nostra Fede - ma è difficile giudicarla Fede - è senza entusiasmo, il che vuoi dire senza convincimento: è senza violenza interiore, non provoca intensità incontenibili perché non nasce da Dio, ma da ragionamento d'uomo. E quindi è sopraffatta da tutta una stupidità e inconsistenza di complicazioni interiori e di frenaggi esterni, fino ad una vanificazione sospirosa e languida.
In questo tempo di riconciliazione, la prima riconciliazione da compiere è con la Fede, ritrovandone il valore preciso e forte, da poterci dare di riscoprire Dio, quello della rivelazione, dalla prima pagina della Scrittura fino all'ultima, Gesù Cristo, quello del Vangelo, Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo.
Per una riconciliazione con i valori fondamentali, essenziali della vita, dell'esistenza: la fraternità, l'uguaglianza; la libertà, la giustizia, l'Amore... e cioè la terra e il cielo, il tempo e l'eternità, l'uomo e Dio. E giocarci serenamente tutto, cioè la vita, se stessi, tutto quello che si ha e che si è, con estrema passione, con dedizione assoluta, con semplicità, come la cosa più normale del mondo.
Non sappiamo bene se noi siamo capaci di tanto.
Può darsi di no. E i tradimenti saranno innumerevoli e cioè le stanchezze, il disanimarsi, lo sconfortarsi: il lasciare che gli altri vincano tranquillamente, che le cose rimangano quelle che sono, che noi continuiamo ad occuparci delle nostre fesserie, a perdere tempo ed energie a quadrare il cerchio. Pensando ancora che siamo cristiani, gente di Fede, quelli che decidono del Regno di Dio nel mondo...
Vorremmo che tutto questo (e cioè le terribili cose appena accennate da queste parole che ovviamente nascondono problemi e responsabilità misurabili unicamente da valori infiniti come sono quelli di Dio e degli uomini) vorremmo che tutto questo ci provocasse ad una ricerca nuova e vivace di sincerità cristiana, di testimonianza più pagata, di evangelizzazione appassionata. E saremmo felici se questa provocazione riuscissimo ad essere, in qualche modo, anche nel cuore dei nostri amici, perché amicizia è costringerci al di più. E se qualcosa di questa provocazione ci fosse dato di accenderla nella Chiesa, per noi sarebbe il segno più grande della nostra fedeltà e del nostro Amore.
E avverrebbe allora che qualcosa di questa provocazione suscitata dalla Parola di Dio, diventata rivoluzione cristiana per la potenza dello Spirito, potrebbe esplodere novità meravigliose nella storia dell'umanità, quelle novità che si chiamano Regno di Dio.

La Redazione

Costruttori di riconciliazione

1 - Il tema della «riconciliazione» è contemporaneo nella riflessione della Chiesa. E' proposto e sviluppato in angolature e prospettive diverse e differenziate e veicola molti importanti interrogativi. In un testo celebre (2 Cor. 5 e 6) Paolo ne ricollega tutto l'iter all'iniziativa di Dio che in Gesù Cristo ha riunito gli uomini a Sé e ha affidato ad essi il compito di esserne ministri, diaconi. La portata di quest'annunzio, tanto grande ed importante, è facilmente falsata. Lo è, per es., quando viene letto nell'ottica delle situazioni in cui vivono coloro che tranquillamente servono due padroni, che non hanno scoperto e deciso la solidarietà con le quali vivere la loro esistenza riconciliata. In questo caso, la rottura radicale e senza equivoci che la riconciliazione esige, è confusa con quell'amalgama indifferenziata che si nutre di paure, di concordismi ad ogni costo, di pacifismi ad oltranza e che si manifesta in strane forme, non di coesistenza, come nel caso del grano e della zizzania che devono crescere insieme fino alla mietitura, (Mat. 13, 24 s.) ma di coincidenza degli opposti, di accordi strutturati di ingiustizia, falsità, inganno. Per essere davvero al servizio di tutti non si può andare d'accordo con tutti; occorre armonizzare l'unicità della propria vocazione nella realizzazione del progetto di costruire umanità, in crescita e tensione di verità e amore. La crescita è superamento, è coraggio di esistere, è capacità di sofferenza. Riconciliare è perciò recuperare il coraggio di soffrire con altri perché tutti si sia fedeli, di vivere e proporre la sofferenza della verità, di costruire Comunione mettendo insieme libertà liberate, non solo da velleità isolazioniste e da massificazioni alienanti, ma anche dal rifiuto della solitudine, dalla abdicazione alla libertà nell'attesa che altri ci costruiscano liberi.
2 . Il momento più alto e più arduo della riconciliazione si vive in relazione a Dio che, in nostro favore, "ha reso peccato Colui che non conosceva peccato, perché diventassimo giustizia di Dio in Lui" (2 Cor. 5, 21). E' solidarietà con Dio e con tutti coloro che sono disponibili ad essere e a vivere come giustizia di Dio in Gesù Cristo. Farsi accogliere da Dio è distaccarsi da, rinunciare a tutto ciò che non è Dio, entrare in un cammino che non ha termine, farsi mettere in discussione totale. Dio non si riduce agli schematismi con cui gli uomini lo pensano, non va confuso con gli idoli. E' Colui che si dà in dono a coloro che per Lui perdono tutto, che lo scelgono a preferenza di qualunque altra cosa; è tesoro che si compra vendendo tutto (cf. Mt. 13, 44 s.), che non si baratta con nulla. Dio ha un suo particolare segno di riconoscimento. Quando si rivela si nasconde: le sue rivelazioni non eliminano, fondano, il rischio di doverlo riconoscere. E il riconoscimento è decisione, è puntare sul tutto con la sola garanzia della parola. Solo coloro che gli «ubbidiscono» fino alla morte (cf. Fil. 2, 8) sono da Lui ridonati alla vita. Solo chi perde salva, chi dona trova, chi rinunzia a garantirsi è garantito. Abbandonarsi a Lui è rischiare e le stesse garanzie che dà, hanno lo scopo di garantire che solo chi si perde nella famiglia che va costruendo nel tempo, si salva. La vocazione alla comunione è vocazione di solitudine, di struttura di scelte, responsabilità, realizzazioni,libere, rischiose, generatrici di fratture; nel segreto delle coscienze matura e si esprime in adesione e risposta libera di amore, di fede. Dio non ha competitori e rivali nel dono di Sé, si dona solo a persone che non vengono a patti con gli idoli, che non riconoscono principi vitalizzanti diversi da Lui. Salvezza risurrezione, libertà solitudine, verginità sono le componenti sinonimo di questo misterioso dialogo che, quando è vissuto in pienezza, rende le creature liberate per la comunione più generosa con l'eterno, e ridonate salde, inventive, alla costruzione della storia.
Il messaggio della riconciliazione è perciò sconvolgente, promette tutto a chi rinunzia a tutto, promette il tutto di Dio e chiede il tutto di noi. Per l'uomo, prima di sperimentare Dio, il proprio nulla è tutto: nessuno manda a picco la nave su cui naviga, nessuno lascia facilmente tutto per seguire uno che si svela solo dopo che è stato accolto. L'uomo vuole avere tutto, anche come presupposto, non solo come risultato. Poiché una sola è la riconciliazione, quella nuova ed eterna che Dio ha fatto con l'umanità in Gesù Cristo (2 Cor. 5), essa è fonte, stile, condizione unica, insormontabile, insostituibile, di ogni riconciliazione e perciò come la prima, anche le altre, se sono autentiche, sono iniziativa preveniente, che si sviluppa in ubbidienza a Dio e impegna per eliminare nella propria vita gli ostacoli che impediscono agli uomini di riconoscere ed accogliere Dio e di volersi uomini tra gli uomini. Nella sua risurrezione è garantita la resurrezione per coloro che credono in Lui, per coloro che, nati alla vita che non muore, muoiono alle loro autonomie ed autosufficienze, vincono la tentazione di volere una vita tutta, solo loro. Il cristiano lotta per restare nella vita, non per garantirsi dalla morte, parte dal punto di arrivo di Cristo, dalla sua resurrezione, per vivere la vita a cui Egli è risorto, lotta non per meritare di risorgere ma per non cavarsi fuori, per non prescindere dalla Resurrezione.
3 - Rigenerazione in Gesù Cristo Uomo-Dio, la riconciliazione è inserimento nella vita, non è emarginazione dalla storia o meglio è emarginazione da quella storia che non costruisce vita. Dio ci trapianta nella vite che è Cristo per potarci e farci essere tralci che portano frutto (Gv. 15, 1 s.), non ci fa talento da sotterrare (Mt. 25, 15 ss.), pianta sterile (Mc. 11, 12 ss.); è venuto a suonare e ballare sulle nostre piazze per coinvolgerci, non per dare spettacolo (cf. Mt. 11,16 ss.). Paolo ci qualifica "collaboratori", e ci chiede di non ricevere "a vuoto la grazia di Dio" (2 Cor. 6, 1). Tentazione e peccato del cristiano è paralizzare la Resurrezione, far abortire il «germe di Dio» (cfr. Gv. 3, 9) che rimane in lui, rifiutare la responsabilità di ciò a cui si è dato vita. I riconciliati non sono parassiti, sono riconciliatori, sono costruiti per essere anch'essi operatori di riconciliazione. Non sono inseriti in un processo di produzione di cose; frutto della vita è la pienezza della vita e della gioia (cf. Gv. 1, 5) e non cose che costituiscono oggetto di scambio e di consumo. Il frutto supremo della resurrezione è la vita nuova in Dio, ma poiché essa inizia nel Battesimo di fede in Gesù Cristo e trasforma tutta la nostra condizione umana, esige una visibilizzazione anche temporale. Paolo schizza lo stile della collaborazione-diakonia dei redenti (2 Cor. 6,4-10). Tutti siamo sottoposti alla tentazione di devitalizzare codesto messaggio e ridurre ad un processo intimista, anche se doloroso e sofferto, uno stile di esistenza che si esprime nei termini inequivocabili della «nuova creazione» delle realtà vecchie che svaniscono, della realtà che è fatta tutta nuova (2 Cor. 5, 17). C'è il pericolo costante di equivocare parola e vita, di pensare che la realtà diventi nuova a parole e non per una trasformazione in radice. A questi livelli le riduzioni della riconciliazione sono non meno gravi di quelle che essa subisce in rapporto alla resurrezione in Gesù Cristo. Si pensi alle posizioni opposte di coloro che perseguono una riconciliazione senza visibilizzazione storica, intramondana e di coloro che ritengono che Dio è un intralcio alla liberazione umana. Su altro piano, coloro che s'impegnano in una "fruttificazione" storica spesso pensano che la riconciliazione non abbia, non esiga delle coerenze proprie, quasi che non sia strutturata di selettività e di potere distintivo e così presumono di operare con qualsiasi tipo di alleato. L'impegno storico costituisce, in un certo senso, l'aspetto più sofferto della riconciliazione, quello che permette di verificarne senza alibi la qualità e l'autenticità. La riconciliazione con Dio passa per la riconciliazione con gli uomini e costoro non sono realtà astratte, ma persone storiche, concrete, strutturate di esigenze e attese, plurime e diversificate. L'umanità trascende gli schematismi con i quali è pensata e i bisogni degli uomini sono realtà che non si risolvono col desiderio, ma con opere. E queste esigono individuazione delle mediazioni storiche, scelte di strategia, discernimento, rischio, incertezza, pazienza. Tutto ciò è aleatorio ed incerto quando le comunità e i singoli non sono rinnovati nell'intimo. La conoscenza è espressione di vita; alcune esitazioni, preclusioni, incomprensioni sono sintomo di mancanza di chiarezza di fondo, scaturiscono da non decisa conversione e da oscillante orientamento di vita. Conoscere è funzione dell'esistere; modi di esistere tiepidi, né caldi né freddi, ispirano analisi e prassi ibride e falsificanti. L'impegno per l'uomo non si può portare avanti da soli e non si sviluppa con gesti isolati, esige assunzione di responsabilità politiche anche per impedire l'espandersi dei sistemi di emarginazione, di manipolazione e di strumentalizzazione. I mondi e le solidarietà vitali in cui l'uomo gravita ispirano le sintonie profonde e queste, per non essere tradite sul piano della coerenza, impongono scelte non equivoche. La carità più grande che dobbiamo agli altri è la verità non tradita e non nascosta, seguita nelle sue richieste e nelle sue fasi di crescita, anche nel sacrificio. Un oppositore leale può essere amico, un vicino insincero no, quando ci si trova tra uomini che cercano luce e verità e non coperture reciproche. Carità e verità si sviluppano in dialettica distinta e rispondono a dimensioni diverse, complementari, della realtà. Spesso sembra impossibile salvaguardarne le esigen-ze nel campo operativo e particolarmente in quello politico che resta il settore fonte di maggiori divisioni tra i cristiani. Il processo di conversione, culminato nel Concilio, aveva portato al rifiuto delle compromissioni col potere politico e alla rivalutazione della primarietà ed autonomia della fede... L'approfondimento della fede ha fatto riscoprire nuove esigenze d'impegno politico, diverso per sorgente, ispirazione e struttura. Nonostante ciò, la visione spiritualista della fede, gli equivoci che concernono la politica e tutto ciò che ad essa si riferisce, la struttura partitica della partecipazione politica nella società contemporanea, la rigida impostazione borghese dei rapporti economici e il conseguente condizionamento che essi esercitano su tutti gli altri rapporti umani, rendono estremamente arduo il discernimento e la scelta del tipo d'impegno da attuare per la partecipazione di tutti a condizioni umane di esistenza e alla costruzione della storia e del Regno. Solo gli uomini liberi sono veri liberatori e cioè solo gli uomini capaci di farsi coinvolgere in amore incondizionato dell'umanità, in ricerca mai stanca del bene in impegno illimitato per realizzazioni che costituiscono uomini non chiusi al rapporto con Dio.
Perciò, se l'impegno storico prescinde del tutto da questo dato e non libera l'uomo per l'incontro con Dio, non è vero impegno per l'uomo. Non si può costruire un mondo senza Dio perché Dio non è senza gli uomini. E' ingiustizia il fatto che gli uomini in gran parte, percepiscono ciò solo a livello di sofferenza e di privazione e perciò vivono nella disperazione e nella dispersione senza riuscire a vivere le attese polarizzate sulle loro persone, le richieste loro rivolte. Perché ci sia riconciliazione, questa condizione non deve essere tollerata, non la si può giustificare si deve diventare impazienti di fare emergere il modo come eliminarla per cooperare ad una più vera comunione di uomini in Dio.

P. Dalmazio Mongillo

3 - Alla Santa Madre Chiesa

Continuo a parlarti con umiltà e semplicità di cuore. Queste mie lettere non pretendono e non si aspettano nulla, tanto più ora che, fra i destinatari non c'è più la Gerarchia, questo benedetto episcopato italiano che vuole e cerca sicuramente il Regno di Dio in questo bailamme politico, economico, religioso che è il momento che stiamo vivendo in Italia, ma che però non vuole ascoltare e tanto meno si decide di accogliere la voce, l'ansia, l'angoscia, la passione che viene su da dove non è stato seminato ne coltivato con le solite ed esperimentate saggezze pastorali ma nasce e cresce, spontaneamente, come i fiori dei campi, di tra le rocce delle montagne, nel sottobosco di questo mondo, fino ad essere qualche volta frutto promettente coltivato unicamente dallo "Spirito che è come il vento, non sai di dove viene e non sai dove va".
Cara santa Madre Chiesa, a volte mi domando se realmente ti rendi conto di quella vitalità animata dallo Spirito di Dio nel tuo seno e che tu sistematicamente, cercando con raffinatezza i metodi più efficaci, tenti continuamente di far abortire perché tu non vuoi assolutamente figli bastardi, e cioè figli che non ti sono stati concepiti nelle sagrestie, nelle canoniche o negli episcopi; ma per le strade, fra le case popolari, nelle fabbriche, all'aperto nei campi... Vuoi conoscere il padre, nome e cognome, compresi gli ascendenti, come fa la polizia con i suoi candidati, estrazione sociale, fede politica, situazione economica, ecc. e allora decidi se quello che viene suscitato nel tuo seno, santa Madre Chiesa, può essere frutto legittimo, da accogliere con Amore, o fruttificazione spuria da respingere con tutto lo zelo possibile fino al disprezzo.
Mi viene in mente Gesù, così per richiamo d'immagine, che non aveva padre con nome e cognome, ma unicamente perché Dio era suo Padre e era disprezzato per via di Giuseppe, fabbroferraio, e perché veniva da Nazareth, da dove era stabilito che non poteva venir niente di buono.
Mi si rimuginavano nel cuore queste cose insieme a molte altre e mi scavavano un'angoscia senza fine, qualche giorno fa - ma è la speranza di sempre - in una baita di montagna. Due giorni freddi, bagnati di pioggia, sommersi da nebbioni opprimenti, vinti appena ogni tanto da qualche squarcio di azzurro. Un centinaio e più di giovani, arrampicatisi lassù, costretti in stanzoni di quella baita, vecchia caserma sul confine austriaco, del 15-18, a parlare di Dio, di Gesù Cristo, ritrovandone il Mistero di Amore per l'umanità, nella Bibbia, questa storia adorabile della ricerca di comunione di Dio e dell'uomo, da attualizzare nel nostro tempo, nella nostra cultura, nel nostro contesto umano, sociale, politico, religioso. Conoscere la Parola accoglierla a cuore aperto lasciandola esplodere in tutta la sua potenza di frantumazione di egoismo a tutti i livelli per un dilagare d'Amore di verità, di liberazione, a costruire l'uomo nuovo, l'umanità diversa: ore e ore, senza riposo, ascoltando, discutendo in un profondo clima di Fede animato da una scelta personale, reso schietto e sincero da un'iniziativa raccolta nel proprio cuore, nell'amicizia del proprio gruppo.
Una quindicina di gruppi di base e cioè di giovani resi "marginali" (che brutta parola hai trovato, santa Madre per indicare innumerevoli tuoi figli e forse tanta autenticità e sincerità di Chiesa) dallo zelo di tanti parroci, dalla visuale bloccata di un vescovo. Alcuni preti dall'anima aperta ed estremamente generosa a giocare tutto, nella scuola, a logorarsi, pagando prezzi di sacrificio che tu non puoi nemmeno immaginare, santa Madre Chiesa, in ambenti di lavoro disumani e scristianizzati perché tu, nella loro carne sopraffatta di fatica e nella loro anima soffocata di solitudine, possa essere presente e insieme a te Gesù Cristo, là dove non c'è più nulla di Dio e forse nemmeno più nulla dell'uomo.
Mi veniva in mente un interrogativo che mi dura nell'anima da anni e anni e non mi si dissolve lasciando mi finalmente in pace: ma che vuoi, santa Madre Chiesa? Cosa vuoi dai tuoi figli? Da chi crede in Gesù Cristo e cerca a costo di tutto, di accettarlo nella propria vita rischiando, sulla sua Parola, scelte decisive per la propria esistenza, e quella degli atri? Cosa vuoi dai tuoi preti che non ce la fanno più a preoccuparsi ecclesiasticamente di se stessi, che vogliono essere una strada sulla quale tutti possono camminare, una piazza sulla quale tutti hanno diritto di radunarsi, una boccata d'aria buona, limpida da respirare, un pezzo di pane e un po' di vino per chi cerca l'infinito e ha fame e sete di un cibo che non è di questo mondo?
Ma cosa vuoi, più che aprirsi a tutta la problematico umana, offrirsi alle ansie più misteriose, raccogliere e vivere quel qualcosa di Cristo che lo fa essere adorabile punto d'incontro fra Dio e l'umanità, nel suo essere vero Uomo e vero Dio?
Come puoi tu, santa Madre Chiesa dimenticare e quindi non volere che si nasca in una stalla, si viva come gli uccelli dell'aria e i fiori dei campi, come pane e vino che si mangia e si beve, come una Parola gridata nel deserto, come gente destinata a morire, per la liberazione dei fratelli, su una croce?
A volte mi viene la sconcertante impressione che tu abbia paura, santa Madre Chiesa di questo Cristianesimo, della sua assurdità, eccessività, umanamente parlando e che per prudente saggezza terrena tu cerchi di stare attenta alle sue punte estreme di provocazione e di scandalo, arrotondando di sapienza umana le asprezze insopportabili e inaccettabili della sua pazzia. E per quanto puoi non permetti che nessuno dei tuoi figli si lasci portar via da questa violenza di Regno di Dio e stabilisci difese e protezioni, tradizioni e leggi, magistero e pastorale, a regolare ogni cosa, determinare persone e gruppi, comunità, chiese locali e Chiesa cattolica, impedendo la libertà dello Spirito di Dio, imprigionando Cristo risorto, a esplodere nell'appiattimento, nell'oppressione della civiltà umana e disumana, il lieto e adorabile annuncio della Parola e la verità della presenza di Gesù Cristo vivo e vivente fra gli uomini.
Spesso ti ritrovi ad essere, santa Madre Chiesa un penoso tentativo di pianificazione dei rapporti fra Dio e l'umanità e tanti figli tuoi (e mi verrebbe da dirti che forse sono i tuoi figli migliori) rimangono schiacciati, appiattiti, costretti ad una uniformità paurosa, avvilente per loro e per te, santa Madre Chiesa, che rimani scialba, insignificante, ai margini della vita e della storia. E tanti altri, consapevoli soltanto di non potersi adattare a questa pianificazione istituzionalizzata, li spingi fuori di te stessa, li consideri ribelli, e non vuoi più saperne di loro e del fuoco che portano dentro e della voglia terribile che li divora, di renderti viva e vivente in mezzo agli uomini, ai loro problemi, alle loro lotte alla loro povertà e oppressione, nella ricerca di una totale liberazione e di una vera salvezza.
Ne ho tanto sofferto di questa tua paura, anche delle ombre, cara santa Madre chiesa, di questo tuo non voler mai rischiare nulla, per il semplice motivo che non posso non credere, dal più profondo, che la Fede è il rischio più grosso nel quale può e deve essere giocata la vita e che l'affidarsi a Gesù Cristo è ciò che di più pazzo si possa fare in questo mondo di un borghesismo utilitaristico ed egoista nel quale la saggezza e la legge suprema è quella di approfittarsi del prossimo unicamente per i propri tornaconti e i propri privilegi.
E' troppo faticoso - e la misura spesso è troppo al di là delle forze anche di una Fede decisa a tutto - affrontare la realtà dell'esistenza del nostro tempo e sentirsi continuamente frenati da remore di scuole teologiche, da zavorre di schemi pastorali, da imbrigliamenti disciplinari, da mentalità di uomini, da tradizioni devozionali, da grettezze di sacrestia e da istituzioni mummificate, ecc. e portare nel cuore, chiara e incontenibile. La Fede che Gesù Cristo è liberazione e salvezza, potenza inesauribile di costruzione di vita, fuoco d'Amore da accendere il mondo. E sentire e avere accettato nel proprio destino, la voglia di gridare sui tetti ciò che si è ascoltato nel segreto del cuore, la necessità di spezzarsi come pane per darsi a mangiare, di cercare ad ogni costo e di rischiare qualsiasi pagamento di prezzo, pur di testimoniare che Dio fra gli uomini è liberazione, pace, giustizia, libertà perché è Amore, Padre di tutti e Gesù fraternità e comunione adorabile fra agli uomini.
Te lo chiediamo, con profondo Amore di figli, santa Madre Chiesa di fidarti anche di noi, pur non sentendoci perfettamente allineati secondo gli schemi stabiliti, anche se figli nati e cresciuti per la strada, venuti fuori dalla fabbrica, straniti dalla fatica e oppressi da tremendi problemi dei poveri, degli sfruttati, forse anche storditi da questo gridare di umanità a reclamare giustizia, a pretendere il diritto di essere uomini e quindi figli di Dio.
Se siamo e ci senti e ci consideri un po' del tuo cuore, santa Madre Chiesa, ti daremo forse di essere più Madre di tutta questa povera umanità orfana, derelitta e bastarda, che nessuno guarda e ama altro che per prostituirla ai propri sporchi e maledetti interessi, succhiandole unicamente benessere, ricchezza, potenza, per lasciarla poi sempre di più nel fango e nella disperazione.
Nonostante tutto, anche se tu forse non lo credi, cara santa Madre Chiesa, continuiamo ad andare avanti con fiducia. Non perdiamo la Speranza di un chiarimento che dissipi ogni diffidenza e ogni paura, nel riconoscerci anche noi, e tutti gli uomini, tuoi figli, con pieno diritto, nel nome di Gesù, di abitare nella casa dell'unico Padre e dell'unica Madre.
Lo vedevo bene, era il desiderio di tutti quei giovani in quei due giorni della baita, di tutti i gruppi ecclesiali di base che io conosco, di tutti i preti in difficoltà con te, santa Madre Chiesa, che mi capita spesso di incontrare. Era l'angoscia di quei tre seminaristi che hanno compiuto puntualmente la loro preparazione teologica in Seminario e la loro preparazione umana nella fabbrica e che tu non vuoi ordinare sacerdoti perché vogliono semplicemente offrire la loro giovinezza, la loro Fede, il loro sacerdozio alla classe operaia e a tutti i suoi problemi.
La celebrazione eucaristica di quella sera nello stanzone della baita e di ogni sera, nel quotidiano di ciascuno, più che Speranza è Amore, unità profonda nel riconoscere, allo spezzar del pane, il volto di Cristo.

don Sirio

Lotta e contemplazione

Il tema di ricerca e di approfondimento dell'impegno del cristiano nel mondo scelto a Taizé per il concilio dei giovani di quest'anno, ci offre motivo e stimolo per una riflessione molto seria sul senso del nostro cammino sulla strada tracciata dal Signore Gesù. Questo nostro andare sulle vie della vita, ogni giorno mescolati alla folla degli uomini nostri fratelli affaticati dallo stesso peso, ma nella tenace speranza di non perdere dì vista i valori che il Cristo vivente nella storia universale, è venuto ad indicarci perché la fiducia di un mondo liberato e salvato non venisse mai meno nel nostri cuori.
Lotta e Contemplazione: come a dire due poli di attenzione esistenziale, due anime di una stessa vita gettata con coraggio e con forza nel solco scavato da Colui che ci ha chiamati per essere un pò di lievito nella pasta umana.
E' chiaro ormai che il nostro essere cristiani, il nostro richiamarci alla vita, alla parola, alla potenza di salvezza racchiusa nella morte e nella resurrezione di Gesù, non ci dispensa dal vivere in tutta la sua durezza e drammaticità lo scontro con le forze tenebrose della storia. Anzi è proprio ciò che sta alla radice del nostro essere cristiani che ci obbliga e ci spinge inesorabilmente ad accogliere la dimensione di lotta, di combattimento, di rifiuto energico di tutto ciò che sfigura il volto dell'uomo, dissacra la terra, distrugge la fraternità e la giustizia.
Dalla vita di Gesù e dalla sua Parola - fuoco acceso a divampare in ogni angolo e in ogni coscienza - ci viene questo invito chiarissimo ad un modo di vivere che non sia tranquilla accondiscendenza ai padroni di questo mondo (in noi e nel tessuto storico intorno a noi), alle potenze che tendono a fare della vita umana un campo lacerato e sconvolto. Il Cristo ci si propone come uomo che cammina a testa alta e non si piega di fronte alla tentazione del potere e all'accordo con il suo avversario.
La sua Croce, che verrà alzata fuori delle mura di Gerusalemme, é il segno più grande del suo Amore universale perché esprime la sua inflessibile volontà di lottare perché la luce vinca le tenebre, l'amore l'odio, la vita spezzi la catena della morte e per tutti gli uomini si manifesti in tutto il suo splendore la potenza della resurrezione.
Il suo risorgere dal buio del sepolcro è il frutto tanto atteso da tutta la lotta di Gesù.
Se in Lui possiamo e dobbiamo attingere, come a sorgente che mai dissecca, la luce e la gioia della contemplazione, della preghiera, della comunione con il Padre, in Lui dobbiamo e possiamo trovare le energie più limpide per una vita che si faccia pietra d'inciampo sul cammino dei potenti, spada tagliente a dividere fino al midollo l'ingiustizia e l'oppressione, lo sfruttamento e l'avvilimento dei più poveri e dei più piccoli tra i nostri fratelli. Se il Cristo è il nostro più radicale motivo di vivere nell'amicizia e nella fraternità, Egli ci si offre senza equivoci come spinta profonda per un tipo di esistenza che si faccia forza d'urto contro ogni progetto di umiliazione dell'uomo, contro ogni tentativo ricorrente nella storia di ridurre la persona ad oggetto, a «cosa» di cui approfittarsi, a numero di un ingranaggio sociale, politico, religioso. Scegliere Lui come ragione di vita e criterio di giudizio comporta il dovere di camminare in questo mondo non come gente tranquilla e rassegnata al fatale destino delle vicende umane, ma con una carica e violenza d'amore che nasce da Lui, da tutta la sua vita, dalla sua lotta, dal suo incessante scontrarsi con il male che è radicato nei nostri cuori.
Dicono bene i giovani di Taizè nel loro forte messaggio a tutto il popolo di Dio: «Oggi abbiamo una certezza: il Cristo risorto prepara il suo popolo a diventare nello stesso tempo popolo contemplativo, assetato di Dio, e popolo di giustizia, che vive la lotta degli uomini e dei popoli sfruttati». Senza dubbio essi hanno raccolto questa convinzione nell'esperienza sempre più larga di alcune comunità cristiane che ormai stanno camminando con tenace decisione in questa direzione di sganciamento da ogni potere, ricchezza, privilegi, per essere in grado di annunciare in libertà il Vangelo di Dio e costruire un mondo nuovo perché più umano.
Ma la certezza di questi giovani ha certamente le sue radici soprattutto nella carne e nel sangue di cui la Parola di Dio si è rivestita in Cristo Gesù. Nella concretezza della sua vita, nella verità e sapienza della sua parola, nella forza liberatrice del suo amore non si può non scoprire questo invito forte a radicare Dio nella storia umana. Non come una droga, un oppio, qualcosa che addor-menti e stordisca ed insegni a piegare la schiena, ma come un fiume d'acqua viva che allaghi la terra e ne spazzi via ogni segno di morte e di violenza e faccia germogliare i semi della speranza e della fraternità più piena. Dio, il suo Amore immenso, la sua realtà di Creatore, di Padre, di Vita per ogni creatura; Dio, creato ed amato non più attraverso delle formule dei riti, dei templi fatti di pietra, dell'osservanza di codici e di leggi, ma nella storia degli uomini, nel volto dei poveri e degli oppressi, nella carne e nel sangue di ogni uomo e di ogni donna. Perché Dio in Cristo di questa carne e sangue si è rivestito, di questa storia umana - storia di ciascuno e di tutti -, si è fatto partecipe, assumendola in sé nel suo essere figlio dell'uomo e figlio di Dio: è dentro questa nostra storia che Egli vive la sua presenza di Risorto («io sono con voi ogni giorno sino alla fine») e vi alimenta il crescere e l'esprimersi del Regno di Dio.
Dio ritrovato e amato e custodito come un tesoro prezioso in quello spazio benedetto ed unico che è il proprio cuore, la propria coscienza, l'intimo segreto del nostro essere. E' lì, in questa presenza misteriosa ma reale, che occorre attingere la forza per un cammino di lotta dura, senza in-certezze né compromessi (il si,.si e no, no) contro tutto ciò che rende il mondo un deserto di solitu-dine, di odio, di sopraffazione fino alla morte.
Un cristianesimo che si accende di coraggio per denunciare ogni ingiustizia, che non viene assolutamente a patti con nessuna potenza, che vive gioiosamente la povertà per non perdere la libertà di testimoniare il Vangelo, che costruisce - anche a prezzo di lacrime - la fraternità e l'amore fra tutti gli uomini.
Un popolo cristiano che accetta di essere «il popolo delle beatitudini» e che quindi prende coscienza dì dover affrontare la vita raccogliendola nel pensiero di Dio e camminando senza altra si-curezza che il Cristo, per essere popolo povero, creatore di :pace, portatore della gioia della liberazione a tutti quanti i popoli.
. Questo certamente è stato il sogno di Gesù, così chiaro e limpido in tutta la sua vita fino al pieno splendore del mattino della Resurrezione. E' giusto quindi che lo raccogliamo molto intensamente. facendo eco all'invito dei nostri giovani fratelli dì Taizé, perché diventi anche il nostro sognare ardente e appassionato.
Con la fiducia che qualcosa di questo sogno si concretizzi in esistenze rivestite della forza e della luce di Cristo, in una contemplazione che accenda Il fuoco dì Dio nel midollo stesso della nostra storia e ne esprima tutta la forza d'amore in una lotta capace di abbattere i muri di separazione che impediscono il ritrovarsi. e il riconoscersi degli uomini come fratelli.

don Beppe

Scuola: Lungo Canale Est 37

Stiamo iniziando anche quest'anno il corso di preparazione alla terza media. Parlare di un'iniziativa rivoluzionaria è senz'altro fare dell'esagerazione pura e semplice. Siamo su un piano chiaramente artigianale, anche se non mancano criteri precisi di indirizzo.
I partecipanti non hanno una estrazione sociale omogenea, né provengono da uno stesso quartiere. Sono pochi gli operai in quanto giustamente frequentano i corsi delle 150 ore; per lo più è gente alla ricerca di un minimo di qualificazione per iniziare un lavoro continuo. Hanno quindi un unico preciso motivo comune: il diploma di terza media.
E' giusto aiutarli o no ad avere quel pezzo di carta? Il problema è grosso e nient'affatto superfluo: d'altra parte non abbiamo le idee chiare fino al punto da prendere una decisione drastica.
Sta di fatto che non facciamo nessuna propaganda. Apriamo la nostra casa a chi viene e vuole fare con noi un cammino di sette mesi di studio di preparazione all'esame.
Senza soldi di mezzo in modo da poterci parlare molto apertamente sulla base di una stima e di un'amicizia reciproca.
Non cerchiamo di imporre loro un sistema di idee, né politico né. religioso. Offriamo la nostra presenza, la nostra testimonianza. Loro stanno cercando un titolo di studio, sia pur minimo, per uscire dalla schiavitù del lavoro strettamente manuale. Noi abbiamo fatto il cammino opposto. E' questa una contraddizione che non tarda ad imporsi per l'evidenza stessa di una casa che è come la loro, di una fatica che la sera si fa ugualmente sentire «di quà e di là dalla cattedra» (ed è chiaramente un modo di dire perché di cattedre non ne esistono in alcun senso). Per un po' siamo, per loro, dei preti e dei cristiani che fanno un'opera buona, ed è logico che aiutiamo gli altri perche è nostro dovere. Quando poi appare evidente che uno, dopo la fatica giornaliera, la bontà se la tira su dai tacchi, allora la cosa appare meno logica e serpeggia il dubbio (positivo) che ci sia qualcosa che conta di più del pezzo di carta, che ci sia una possibilità di rapporto non comandato unicamente da motivi di interesse sia pure spirituali o morali. E' allora che nasce qualcosa di nuovo. Spesso siamo però alla fine dell'anno, anche se per certe cose vale il detto che è meglio tardi che mai.
E' questo il momento - per dirla da intellettuale - in cui la persona prende coscienza di essere «soggetto» di cultura. Non si dipende più dal libro, dalle parole dell'insegnante, come da un oracolo infallibile, ma si comincia ad avere il coraggio di valutare in termini positivi le proprie esperienze le proprie capacità.
Dire queste cose oggi in mezzo alle raffinate analisi politiche che esigono contenuti precisi ed inequivocabili, appare senz'altro ridicolo, come d'altronde in rapporto ai più moderni metodi didattici: siete sempre a quel punto? Immagino che anche i nostri preti e laici esperti in pastorale scolastica ritengano il discorso indegno di rientrare sia pure nella pre-evangelizzazione.
Vorrei però porre l'attenzione su un punto di partenza che ha, secondo me, una qualche importanza: non si viene a contatto con un'ideologia, con un sistema, con una catechesi, ma con una vita. Non si viene in un'aula, ma in una stanza di una casa abitata dove è naturalmente presente (e non si impone in nessun modo quindi) una scelta chiara ed inequivocabile, una scelta cristiana, una scelta di classe. Per questo, quando i partecipanti alla scuola acquistano un minimo di indipendenza nel giudizio di autonomia culturale e quindi di libertà, si trovano anche loro di fronte ad una scelta precisa.
E' sintomatico che di un centinaio di persone passate da questa scuola negli ultimi tre anni, solo pochissimi si riferiscono ancora a noi. Possono aver scelto una vita diversa, ma in ogni caso credo che siano coscienti di questa diversità al punto di non avere a volte il coraggio di tornare a ringraziare. Fatica inutile quindi? Non saprei. Paradossalmente anche il disagio può sottolineare una sensibilità ed in fondo una stima.

don Luigi

Pensieri di un manovale

Voglio continuare ad offrire quello che nell'esperienza della vita quotidiana vissuta fianco a fianco dei miei fratelli e compagni operai si agita e si rimescola di continuo dentro di me. Fra le mura che ogni giorno, per otto lunghe ore (molto più lunghe di quelle segnate dall'orologio), ci chiudono sul pezzo di spiaggia su cui sorge il cantiere navale è logico che si affollino e ribollano nel profondo dell'anima un insieme di pensieri, di intuizioni appena abbozzate, di chiarezze come quando le nubi basse si allargano e lasciano libere nella luce del mattino le Alpi Apuane che fanno corona al nostro mare.
Ai miei compagni operai sono debitore ogni giorno di tutta un'urgenza di fedeltà, di serietà d'impegno, di dono autentico della mia vita, di limpidezza di rapporto umano che il mio essere sacerdote e cristiano non può che rendere ancora più esigente e profondo. Il cantiere, con tutta la vita di lavoro e di fatica che ogni giorno vi si svolge, con il suo peso umano di chi prende nelle sue mani la materia fredda e senza forma e la rende viva, diviene sempre più uno spazio sacro, un luogo di comunione col mistero di Dio raccolto nel cuore stesso della vita. Allora viene voglia di sognare ad occhi aperti, di fantasticare miracoli di novità cristiana, di desiderare dal fondo di se stessi lo zampillare di sorgenti d'acqua pura in una vita di Chiesa (quella visibile, storica e che pesa così tanto sulle spalle del mondo operaio) che possa riproporre a chiari termini, senza possibilità di equivoci, la « buona notizia» di Gesù Cristo. Una vita di Chiesa, degli uomini della Chiesa (perché poi diventi quella di tutto un popolo) che porti come una ventata di Vangelo nel groviglio delle vicende umane per accendervi energie di liberazione, di giustizia, di comunione fra tutti gli uomini.
Così può succedere, a me che sono nient'altro che un manovale, vale a dire uno che non conta nulla, che non può avere nessuna influenza o importanza, di lasciarsi andare ai sogni più strani, forse assurdi e liberi come quelli di quando eravamo bambini.
Ho sognato, così, che il vescovo (naturalmente di una diocesi che non esiste) aveva deciso, un giorno, di lasciare il palazzo della curia. Se n'era andato quasi di nascosto, senza far rumore, senza proclami, ma deciso a non rimettervi più piede. Aveva preso una decisione semplice e meravigliosa: sarebbe vissuto, da quel giorno in poi, fra la gente, in mezzo al popolo a lui affidato, al gregge di cui era stato fatto pastore. Era successo tutto come all'improvviso): aveva compreso che bisognava mettersi sulla strada, perché lui era il servitore fedele e attento ai bisogni della sua famiglia e doveva essere pronto, come chi porta il pane in tavola, prepara il vino e accende il fuoco nelle sere fredde. Sarebbe vissuto senza una casa sua, senza una pietra (e quindi libero da qualunque legame politico, economico...): avrebbe avuto una vita libera, allo scoperto, senza più segreti fra lui e il popolo.
Una vita a cuore aperto per raccogliere le ferite, le stanchezze, le angosce dei fratelli ed anche le loro speranze, la gioia, il desiderio della verità e dell'amore. Sarebbe stato uomo libero, di tutti, a tutti debitore della Parola di Dio, dell'acqua viva del Vangelo, della luce della Resurrezione di Gesù. Avrebbe fatto l'esperienza concreta del lievito che si perde nella pasta, perché solo così sarebbe stato possibile fermentarla verso una vita più grande.
Si era proposto di vivere col lavoro delle proprie mani, in modo molto semplice, restando in casa dei suoi preti, mangiando e pregando con loro, spingendoli ad una vita seria, donata, spesa interamente per gli altri, specialmente per i poveri, gli emarginati, gli sfruttati, i perseguitati..
Ed era successo una cosa straordinaria: si vedeva ogni tanto, in giro qua e là per la diocesi qualche parroco alla ricerca del vescovo. Ora lo trovavano nei campi, a dare una mano ai contadini nei lavori di stagione; ora dovevano arrampicarsi per i viottoli dì montagna perché quel giorno erano i boscaioli che se l'erano preso a giornata.
Spesso bisognava scrutare il mare, sulla sera, in attesa che i pescatori rientrassero dal lavoro perché il vescovo stava vivendo con loro, quasi nel ricordo di quei primi pescatori di Galilea che avevano incontrato il Cristo sulla piccola spiaggia del mare di Tiberiade.
E in città era proprio difficile trovarlo: bisognava inseguirlo dal carcere all'ospedale, dagli ospizi dei vecchi ai .quartieri più poveri, ed era un'impresa scovare i suoi nascondigli. E i preti se ne tornavano a casa, dopo l'incontro, con un grande scombussolamento in cuore, più che se avessero letto cento lettere pastorali o schemi e progetti di programmi catechetici. La teologia scoperta nelle mani e sul volto del vescovo (e com'era facile vedere quella del suo cuore!) li metteva in crisi, li costringeva a correre in chiesa, ad aprire il vangelo e scavare nel mistero di Dio, nella vita di Cristo le misure di un impegno nuovo, a servizio del regno di Dio fra il popolo.
E fra la gente, nella diocesi, ormai s'era diffusa e radicata una chiara convinzione: era successo un fatto rivoluzionario, da tanto tempo atteso - anche se inconsapevolmente - da tutti. C'era come un sapore nuovo nelle cose, come di vino nuovo e di pane fresco appena sfornato.
Il vescovo stava facendo cose a prima vista cosi «pazze», strane, che non si poteva pensare che due cose: o era improvvisamente ammattito, oppure era uomo di fede grande e profonda, ci credeva proprio in Dio, in Gesù Cristo, nel Vangelo. Ed era questo che la gente pensava con sempre maggiore certezza: che proprio ci credesse sul serio, che davvero il regno di Dio era la sua unica passione, perché in fondo, a rifletterci bene, quello che il vescovo si era messo a fare era cosa vecchia, semplice, normale come il modo di vivere degli apostoli (di cui ora si capiva subito che lui era «successore»), come il modo di vivere di Gesù (com'era chiaro che era suo discepolo), come la vita dei poveri per i quali in primo luogo era stato consacrato. Così, in maniera molto semplice, tutti si stavano rendendo conto che un soffio potente di primavera stava penetrando nei vecchi muri della Chiesa e che fra le crepe cariche di secoli una vita nuova, limpida come il chiarore del primo mattino, stava rinnovando tutte le cose. Era come una nuova nascita, l'apparire di un mondo tante volte desiderato, atteso, ma che sembrava potesse esistere solo nel sogno di qualche esaltato...
In effetti, il sogno ormai è finito. Si vede bene che è un bisogno da manovale, da uno che proprio non conosce la complessità di un mestiere che ha tante regole, esigenze, specializzazioni. Forse più che un sogno è un farneticare sconnesso, come uno che ha preso un colpo in testa; forse è come sognare - e quindi illudersi - che il padrone del cantiere si «converta» e si metta a fare l'operaio. Ma lui è chiaro che crede nel «dio quattrino», nel dio-capitale; ma da chi sicuramente crede nel Dio-Amore, nel Figlio di Dio, nello Spirito Santo, forse è legittimo e buono aspettarsi certe cose. Anche se sono uscite dal cuore di un modestissimo manovale che però vorrebbe tanto dare una mano perché la «barca di Pietro» (e non è forse questo un sogno di Dio?) non andasse a fondo almeno nel cuore della povera gente.

La sera del buon cristiano

Ho lavato tre piatti.
Ho passato la spugna umida sul tavolo di cucina.
Ho vuotato un portacenere.
Ho letto la lettera di un torturato in Brasile.

Forse a quest'oggi è già morto.
Mi sono scaldato la pastina in brodo
e ho divorato l'insalata
e ho messo le ciabatte
ma ho tenuto le calze calde.

Pensando a quanti uomini muoiono di fame
ho posato la pera
che avevo già in mano
e mi sono preparato un buon caffè
caldo e zuccherato.

Mi sono seduto a lavorare
e ho riflettuto sulla mia pigrizia.
Mi sono accorro di perdere troppo tempo
e che sto grattandomi il dorso della mano.

E' interessante seguire I'abbaìo
di questo cane qua sotto.

A quest'ora Enrico non è nemmeno a metà nottata.
Bella storia passare ogni notte a caricare camion
e il giorno a dormire.
Non vede quasi più la luce del sole.
Non prova più soddisfazione a vivere.

Sono d'accordo, è una schifezza.

Stasera ho fumato solo tre sigarette.
Quel pacchetto è ancora troppo pieno,
bisogna provvedere.
La sigaretta c'è più gusto dopo un cioccolatino.

Vado in cucina.
Vado a pisciare.
Cinque giorni fa ho cominciato a leggere un libro.
Me ne leggo un'altra ventina di pagine

ah! questa guerra arabo-israeliana
ma cosa facciamo noi italiani? e noi cristiani?
bisogna agire - bisogna organizzarsi.

Domani devo alzarmi presto.
Intanto ne fumo un'altra.


Giovanni Lombardo

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