LOTTA COME AMORE: LcA marzo 1974

Questa sincerità cristiana

E' discorso vecchio, cioè già rimasticato molte volte, e non soltanto da noi, eppure ci sembra necessario riprenderlo e approfondirlo.
La ricerca di una sincerità cristiana è continua, anzi sempre più urgente e incalzante, e questa ricerca passa inevitabilmente per vie obbligate, fino al punto che l'onestà di questa ricerca e le sue possibilità di riuscita dipendono dalla misura di accessibilità e di viabilità di questi passaggi obbligati.
La sincerità cristiana nasce e cresce nell'individuo cristiano e nella famiglia.
Si matura e si allarga nel gruppo cristiano e nel quartiere.
Si impegna e lotta nella comunità parrocchiale. Si qualifica e accentua la lotta nella chiesa lo-cale o diocesi che dir si voglia
Si manifesta al mondo e si compromette nella storia attraverso la Chiesa a dimensioni di popolo di Dio.
Vorremmo semplicemente riproporre a noi e ai nostri amici la meditazione di questo cammino progressivo dal quale nessuno che abbia voglia di essere cristiano può smarrirsi o disorientarsi.
E' chiaro che non si può, assolutamente non si deve sezionare l'esser cristiano, considerandolo a settori o collocazioni separate, quasi a sé stanti, ma pensiamo anche che non si possa realizzare una pienezza, una autenticità cristiana unitaria e globale insieme, senza tentare una ricerca di sincerità su un piano personale, di gruppo, comunitaria, ecclesiale, ecc.
E' vero che in gran parte non siamo più ai tempi in cui la ricerca cristiana puntava e si concludeva nell'accaparrarsi una poltrona in paradiso. Possono essere anche considerati come passati i tempi in cui i sacramenti, le preghiere, le opere buone, ecc. erano come l'ammucchiare crediti e capitali nelle banche eterne.
Sono venuti però anche condizioni religiose e cristiane nelle quali la costruzione personale cristiana rischia di svuotarsi o di vanificarsi per una non saldezza di fondamento, e per una impossibilità di trovare un consolidamento all'intorno, e una impressionante difficoltà di comunione e di corresponsabilizzazione allargate fino alle misure universali.
Il cristiano che si ripiega su se stesso o si rinchiude a doppia mandata in casa o si rimugina nel gruppetto d'amici a ruminare pazientemente la Parola, è un assurdo.
Come è illusione un cristianesimo che si prospetta in pubblico ad agitare le acque con violenze messianiche e è pappafrolla interiormente, scelta e impegno cristiano non coerentemente pagato, quando addirittura non è strumentalizzazione intenzionata.
Non è problema da poco. E la virtù anche qui non sta assolutamente nel mezzo.
Sono necessarie pienezze, autenticità, sincerità assolute nella condizione personale e di rapporto. Diversamente il rischio è il falsificarsi e svuotare il cristianesimo della sua fondamentale validità in quanto progetto esistenziale di umanità, uscito del pensiero di Dio e indicato dalla vita e dalla parola di Cristo: dichiarazione cioè d'incapacità del Cristianesimo di incidenza nella costruzione della vita, della storia dell'umanità.
Una cristianità fatta e risultante dal numero dei cristiani non ha senso: la somma di individualità non realizzerà mai una presenza cristiana di regno di Dio nel mondo.
Ma è anche vero che una cristianità ecclesiale anche organizzata, ormai rivolta a problemi sociali, a rapporti umani, a sensibilizzazioni esaltanti, ecc. (come stanno esplodendo qua e là più o meno artificiosamente) lascia assai perplessi, per non dire sul chi va là, se non avvengono conversioni e trasformazioni personali, parrocchiali, ecclesiastiche, ecc. capaci di significare una scelta cristiana inequivocabile a livelli personali, di gruppo, di comunità, di Chiesa.
Il fervore «crociato» degli anni 50, con vuoti interiori nella cristianità semplicemente spaventosi, potrebbe ripetersi nel fermento «sociale» che sta animando di fervori «umanitari» questi nostri anni e a volte con l'impressione di una artificiosità, cioè di una esteriorità, sconcertante.
Forse potrebbero essere scosse telluriche del mondo ecclesiastico capaci di far rovinare in macerie impalcature ormai già cadenti o insostenibili e rassodare le muraglie maestre e i pilastri portanti.
JI giudizio dipende sempre da valori interiori all'uomo cristiano e determinanti i suoi rapporti all'intorno «fino agli ultimi confini della terra» conformi al Ministero di Cristo e obbedienti con fedeltà assoluta al Vangelo.
Abbiamo paura delle risonanze. Dalle imprese ad effetto. Delle conclamazioni pubblicitarie di riforme. Di giudizi e di interventismi sui mali che travagliano il mondo senza pagare lo scotto proporzionato della presa di coscienza delle proprie responsabilità storiche e attuali e peggio ancora senza riversarvi dentro, come di dovere cristianamente parlando, la serenità e il coraggio, ma specialmente la Fede e l'Amore di una vera e propria penitenza (cioè non essere assolutamente più quelli di prima, ma diversi, nuovi).
Si sta forse rischiando una terribile responsabilità: quella di esteriorizzare e quindi alienare una richiesta di sincerità cristiana che i tempi hanno maturato attraverso costruzioni provvidenziali e spietatezza adorabile di esigenze irrimandabili.
Non si può più sfuggire ad un mutamento, ad un cambiare molte cose: il pericolo sta nel tentare di realizzarlo forzando apparenze di trasformazione, limitandosi a superficialità di discorso nuovo (se ne potrebbe dare un vocabolario ormai corrente, insieme a frasari ufficiali) e a esteriorità di prassi diverse (e se ne potrebbe fare elenchi assai precisi raccogliendoli da «pastorali» cosi dette coraggiose della Chiesa istituzionale). Mentre invece la sincerità cristiana può accadere che stia altrove e richieda trasformazioni e conversioni che a definirle radicali è sempre estremamente poco: c'è semplicemente da concludere una storia di ricerca cristiana e di autenticità cristiana nel mondo da parte dei cristiani e della Chiesa e da iniziarne un'altra ritrovata nel pensiero e nel cuore di Gesù Cristo e raccontata dal Vangelo. E' proposta facile questa: aprire e leggere con disponibilità e innocenza totali le pagine del Vangelo e ci trova sicuramente tutti d'accordo: nella sua specificazione, nella sua interpretazione, non tanto esegetica quanto di Fede, può darsi invece che ci scontriamo da posizioni irriducibili.
Molto bene, vale sempre la pena impegnarci in una lotta provocata da Amore alla Verità e dalla ricerca di fedeltà a Gesù Cristo.
Ci sembra ovvio e quindi irrimandabile mettere in chiaro, quanto più è possibile, la necessità di una forte e onesta integrazione fra cristianesimo personale e universale, fra il particolare e l'ecumenico, fra il dentro la casa e gli ultimi confini della terra, fra l'uomo e la donna che mi camminano accanto e l'umanità, fra il se stessi e tutto l'umano.
Perché il Regno di Dio è nel di dentro di ciascuno, ma è come la luce accesa che non può rimanersene sotto il moggio, deve diventare città innascondibile perché sulla cima del monte, e nel frattempo non può non entrare profondamente nella storia e lievitarvi una potenza capace di scuotere il mondo.
Il progetto cristiano, perché pensato da Dio e proposto da Gesù Cristo, deve necessariamente impegnare e coinvolgere tutta l'esistenza in una globalità di tutti i valore l'importante di questo coinvolgimento è scoprirne il metodo, la linea fondamentale, la struttura portante perché è qui che si gioca la fedeltà a Cristo. Diversamente è inevitabile che si diventi scandalo (cioè l'opposto di quello che si dovrebbe essere): «non hai i sentimenti di Dio, ma quelli degli uomini» (Mt. 16, 23).
E' quindi da un motivo di Fede e da una constatazione attuale del nostro tempo nei confronti di una preoccupazione per il tipo di risposta che si sta delineando nella realtà ecclesiale e tanto più ecclesiastica, che pensiamo di riprendere fra noi e insieme ai nostri amici questa problematica di una completezza di cristianesimo per una onesta ricerca di fedeltà a Cristo e agli uomini.

La Redazione

Gente del Vangelo

14 - I parenti di Gesù

"Gesù entra poi in una casa e la folla vi si raccolse di nuovo tanto che non potevano neppure prender cibo. E i suoi, avendolo saputo, uscirono per impadronirsi di lui. Perché si diceva: E' fuori di sé".
Una situazione, quella di Gesù raccolta da Marco, si ripete ancor oggi quando qualcuno si mette concretamente alla ricerca di un rapporto nuovo con le realtà di questo mondo. Accade tranquillamente anche nella Chiesa, trattandosi di preti, laici o gruppi di cristiani, così come accade nelle buone famiglie cristiane specie in rapporto ai giovani. Ci lasciamo montare la testa dalle chiacchiere dei meno interessati ed agendo senza veri motivi, oppure in aperta contraddizione, mostriamo chiaramente di quanta poca chiarezza si rivesta la nostra scelta cristiana.
Per esempio non può apparire strano il fatto che due genitori, dopo aver fatto battezzare il proprio figlio ed avergli quindi proposto la strada di morte e di risurrezione del Cristo, si oppongano ad una seria ricerca cristiana proprio in nome dello stesso Dio posto a guardia di un ben precisato ordine familiare.
Questo atteggiamento è comprensibile nei parenti di Gesù che agiscono secondo una logica umana, non per dei cristiani che hanno posto la propria vita sotto il segno della Croce.
Che d'altra parte le cose stiano così è verità facilmente verificabile a dimostrazione di una tesi che vorrebbe la religione unguento misericordioso per lenire i mali dell'umanità e non proposta di vita nuova e diversa accolta dalle stesse mani di Dio. Nell'idea comune i genitori devono assicurare al figlio tutto, così come il prete deve assicurare ai suoi fedeli il maggior numero possibile di segni religiosi in obbedienza ai doveri del proprio stato. Impariamo così ad essere genitori e sacerdoti cristiani avviando alla sistemazione nella vita figli e fedeli, preoccupati che tutto proceda in modo ordinato, cioè il più possibile senza scosse, dimenticando che tutto questo può andar bene per chi del successo e della sistemazione nella vita fa riscontro all'onestà del cuore e alla dirittura delle intenzioni: chi non ruba e non ammazza unicamente perché non è necessario scendere al livello di bandito da strada per compiere tali cose.
Tutto questo può essere il frutto di una civiltà alle prese con grossi problemi di convivenza, ma non può mai essere principio ispiratore di un'esperienza cristiana. Per grazia abbiamo ricevuto la fede che non si acquisisce una volta per tutte, ma ci viene donata quanto basta per la fatica di ogni giornata. A cercar di tenerla in serbo questa fede, come la manna per gli ebrei nel deserto, c'è solo da farla imputridire in norme, leggi e istruzioni che rischiano di farci apparire di fronte agli altri come sepolcri imbiancati
Non è soltanto un atteggiamento di apertura vero so fermenti nuovi, apparentemente distruttori dell'ordine e per questo giudicati folli, che non dovremmo avere come cristiani. E' invece un vero principio che dovrebbe orientarci in ogni aspetto della nostra vita. Dovremmo abbandonare un nostro atteggiamento tipico (come cristiani e come Chiesa): poniamo le mete abbagliati da questa sicurezza di possedere la verità, quindi cerchiamo di convincere, di educare gli altri a camminare sulle nostre orme senza sgarrrare. Questa non è proposta di vita. Questa idea evidentemente mette le spalle al sicuro dalle «follie», ma mette ancora di più al sicuro da quella "follia di croce" in cui dovrebbe stare la nostra gloria.
Ho sempre più l'impressione che come sacerdoti e genitori (cioè responsabili verso altri) ci sentiamo in dovere di assolvere alle nostre responsabilità in modo tale che nella nostra proposta di vita non andiamo al di là di un catechismo dove sono già scritte in bell'ordine domande e risposte che mettano al sicuro da ogni interrogativo che possa attraversare l'esistenza.
Opponendoci alla "follia", non ci opponiamo solo allo strano, al ridicolo, all'abnorme, ci opponiamo alla creatività dello Spirito, all'originalità di Dio, alla proposta di lotta di Gesù, alla resurrezione del Cristo. Con la scusa - perché spesso è una misera scusa - di essere saggi, crediamo di poter cavalcare quei mostri alati delle potenze di questo mondo diviso e frantumato: siamo la mosca nell'orecchio del bue convinta di realizzare l'intera opera dell'aratura. Per sfuggire alla "follia" siamo veramente folli, neppure protetti da un paio di virgolette. Preti e genitori, continuiamo dal pulpito della nostra sufficienza a proclamare le bellezze di una casa di cui non resta che la facciata verniciata e riverniciata come il volto di una "bellezza" di 60 anni .Respingiamo la "follia" e cadiamo nel ridicolo combattendo «gloriose» battaglie contro nemici che hanno ormai smobilitato o cui possiamo fare al massimo un po' di solletico.
E' veramente triste constatare queste cose, toccarle con mano nella situazione quotidiana, avvertire in molte ricerche pastorali sia pure sinceramente conclamate.
Cercare di costruire qualcosa è veramente follia: può solo sorreggere la follia di Gesù. "Ecco mia madre e i miei fratelli" dice stendendo la mano verso la folla dei discepoli. Andare incontro agli altri offrendo la propria fede come luce che non può essere nascosta, senza programmazioni a difesa di interessi o di mete da raggiungere fino al punto che diventa problematico il semplice mettersi a tavola o contare su un'ora precisa per mettersi a letto, è cosa che può scandalizzare molti, sconcertare i più, fino a far sentire il dovere di difendersi contro queste stramberie. Accettare qualsiasi strada, qualsiasi incontro contando solo sulla stima reciproca, sulla chiarezza di uomini che non vogliono giocare, ma realmente confrontarsi con la vita, tutto questo può apparire molto bello in una predica o in una esortazione familiare, come il lottare contro ogni potere politico, militare ed economico, ma quando diviene discorso pronunziato dalla vita di un uomo, subito diviene follia perché è lotta che va pagata di persona perché impedisce una sistemazione, una fede quiescente, ma soprattutto perché non c'è possibilità di successo agli occhi degli uomini.
Ecco, una vita così può essere strana quanto si vuole non solo perché uno mangia e dorme quando e dove gli è possibile, ma anche per solitudini quasi disperate, però ai cristiani dovrebbe suscitare un po' di simpatia se non altro perché vi possono ravvisare «un povero cristo». Se questo non accade può darsi pure che dipenda dal fatto che il Vangelo vien considerato un testo su cui fare un'esegesi scientifica o, più semplicemente, un libro da tenere sul comodino quasi a propiziare un sonno profondo.

don Luigi

Tempo di scelte cristiane

Lunghi anni di scelta cristiana e non esclusivamente per la propria vita, ma anche e specialmente per il rapporto con gli altri, con l'ambiente nel quale si vive, con l'esistenza umana.
La decisione e la programmazione del proprio vivere rifacendosi unicamente a Gesù Cristo e non soltanto come motivazione di fondo fino alla propria ragion d'essere, ma anche al modo di esistere, allo stile di vita, alla qualificazione dell'impegno quotidiano e al progetto di tutta una vita.
Non è poco quando si tratta di tutta una vita anche se ancora non consumata fino all'ultima goccia, con tutta una vigilanza a scartare anche il provenirne perfino l'ombra di un privilegio, per una verginità d'interesse, di ritorno personale, illibatissima.
A seguito dell'essere cristiani e tanto più preti (per una destinazione che di per se stessa comporta l'assoluto, pena l'assurdità di una esistenza) dopo un certo numero di anni (pochi o tanti che siano non ha poi grande importanza) non può non porsi il problema della giustezza di quella scelta, dell'aver imboccato quella strada e dell'avervi camminato e a volte con immensa fatica, senza voltarsi indietro e senza mai mettere in discussione nemmeno l'arrendersi alla stanchezza.
E' problematica interiore che non può non capitare, a seguito di un ribollire di dentro di ipotesi esistenziali molteplici e complesse, capaci di situarsi con buone ragioni, come alternative suadenti, alle scelte fatte. Tanto più che la Fede iniziale colorata, fiammante, splendente si è andata piano piano distendendosi, quasi calmandosi, come l'impeto d'Amore, nella quotidianità appiattita, nei tempi lunghi, nei deserti aridi di una più profonda coscienza del vivere proprio e degli altri, nella esperienza amara e deludente, della terra bruciata dalla storia.
E' quando troppo spesso ci si accorge al mattino che il giorno nuovo è terribilmente uguale a quello precedente. è quando annebbia la constatazione impietosa e disperante che il tempo nuovo, qualcosa di diverso intravisto e poi sognato e poi perfino toccato con mano, è invece delusione, fiducia pazza, fede senza senso. Gli uomini si è costretti a constatare che sono gli stessi e che il costruire la storia dipende da banalità assurde, da alcune persone stupide o pazze, dall'umanità a follia strana per vuoti paurosi, per rinunce imperdonabili.
E Dio e Gesù Cristo?
La Fede allora rischia di chiudersi e corazzarsi nell'escatologico che potrebbe anche voler dire nel devozionale, nella fedeltà alle preghiere, nel sentimento religioso di cui non si può più fare a meno. E' la disincarnazione, l'angelismo della Fede, il non rapporto alla vita, all'esistenza. E ne viene fuori la problematica religiosa che si presenta, con ogni sorta di evidenza, di essere l'unica che travaglia la cristianità e la chiesa: l'evangelizzazione, la pastorale, cioè una Fede che vive del proprio agitarsi, composto e incomposto che sia, rispondente o meno alle essenzialità costitutive del Cristianesimo, fedele o no alle inconfondibilità di Gesù Cristo.
Non è più possibile allora accettare una pastorale organizzata: un rapporto cioè fra la propria Fede e la ricerca di una sincerità cristiana che inevitabilmente comporti e costringa ad una esteriorità massimalizzata della presenza cristiana nel mondo in cui si vive.
Non ci si può incasellare in sistemazioni, inquadrare in metodi sia pure ottimamente escogitati: ne risulterebbe una organizzazione e una formalizzazione di scelte e di valori come sono quelli cristiani, impossibile a sopportarsi da chi la propria Fede ha bisogno di viverla respirandola nel meraviglioso e adorabile rapporto d'Amore di Dio nei confronti dell'umanità, rapporto perfettamente indicato da tutto Gesù Cristo.
A un certo punto (forse sono gli anni che giocano il trovarsi a questi incroci terribili della vita) l'entrare e l'essere nell'esistenza, l'accoglierne tutta la realtà di Cristo, pone davanti e scava nell'anima l'esigenza di essere veri, coerenti, fedeli, onesti.
Cadono giù allora, come foglie d'autunno, le apparenze, le coperture, tutto un attrezzaggio più o meno faticosamente accumulato: le istituzioni, le pedagogie, le apologetiche, le culture, le organizzazioni di qualunque genere, le pastorali di qualsiasi tipo... Ma non nasce e tanto meno è motivata questa spogliazione, da polemica, da risentimento, da disprezzo, ecc. E' semplicemente determinata da un bisogno di essenzialità interiormente intuita, da una voglia assoluta di sincerità, umile e schietta, forse anche soltanto costituita dalla semplicità o ingenuità del si, si, e no, no.
E' il tempo forse dell'assoluto di Dio e dell'unicità di Cristo e della vitalità dello Spirito.
E' il se stessi lasciato andare in balìa del dominio totale del Mistero del Cristianesimo e cioè di tutto Gesù Cristo per una sua più personale e scoperta evidenza nella concretezza dell'umanità in questo momento della sua storia.
E' sempre meno possibile mettere o anche trattenere infrastrutture, valori intermedi, supplenze ecc. fra il se stessi e Gesù Cristo. Non vale più «qualcosa» che richiami l'idea di Dio, occorre Dio stesso, direttamente, immediatamente. Non basta più nemmeno «qualcosa» di cristiano o di cristianeggiante o di cristianizzato: è Gesù Cristo che vuole essere manifestato, è Lui - in tutto il suo essere Lui - che viene richiesto dal se stessi e dagli altri.
Cristiano ormai bisogna che sia il vivere di Cristo nel nostro tempo: diversamente è un'ombra, una parvenza, una inutilità.
E' giusto e onesto avvertire l'angoscia - che potrebbe anche essere gioia di verità - di essere arrivati al bivio dell'autenticità o dell'assurdità. In fondo, a ben pensarci anche questa è una liberazione di cui dobbiamo essere riconoscenti a questo nostro tempo e alla sua impietosità.
Non rimane che cercare, con umile e coraggiosa fatica, come riprendere (ricominciare) questo vivere, questo essere la scelta cristiana di vita, disponibili e pronti a richieste che potrebbero essere significate anche dal concludersi del tempo della evangelizzazione (specialmente intesa come struttura portante di tutto l'impegno cristiano) e inizio invece del tempo della "passione", con tutto quello che passione cristianamente significa e comporta.
Non c'è da sorprendersi se ci ritroviamo come i discepoli che di «passione» non accettavano nemmeno di sentirne parlare.

don Sirio

Camminare nella fede

Non mi voglio voltare indietro a guardare dove è passato l'aratro della mia vita né a considerare i risultati di un lavoro che certamente porta i segni di una grande povertà. Il passato è sepolto per sempre nel cuore di Dio, affidato alla sua misericordia e al suo amore e rimane anche nascosto dentro la storia di tutti coloro con i quali ho avuto la possibilità (speriamo anche la grazia) di dividere un pezzo di pane, un po' di ricerca cristiana, una briciola di Fede, un sogno di vita nuova, la speranza di una luce nel buio del cammino. Solo il Padre che ha fatto nascere in me il mistero di una vita sacerdotale, mescolandola a quella dell'umanità, può sapere se da tutto questo cammino un po' di grano buono è spuntato, una goccia d'acqua è salita ad addolcire la fatica di chi era oppresso dalla durezza della strada.
Lui conosce anche tutto il peso di egoismo, di grettezza, di durezza di cuore di cui sono stato capace: ora sento profondamente l'urgenza di spingere lo sguardo in avanti, di cercare nuovi orizzonti, di abbandonare ogni spirito di conservazione allargando il cuore a capacità realmente nuove di dono, di offerta di sé, di partecipazione fraterna al cammino di coloro per i quali sono stato consacrato dalla grazia dello Spirito di Dio.
Guardare in avanti: per indovinare il sentiero, perché niente si vede di definito, di preciso di sicuro. Tutto è affidato alla certezza che qualcuno ti ha preso per mano e continua a condurti, magari là dove tu non vorresti andare, se ti fosse chiesto in anticipo.
Avverto con sufficiente chiarezza che occorre essere docili, obbedienti, senza recalcitrare al pungolo di un Amore che è talmente incontenibile da richiedere soltanto di lasciarsi travolgere completamente. Per essere davvero creature nuove, dilatate nello spirito, nel profondo del proprio cuore per un'accoglienza della vita, della sofferenza, della povertà, dello smarrimento e della solitudine umana pari a quella di cui Gesù è stato capace. Accettazione della sua misura di partecipazione al destino umano, al dramma dell'esistenza, al complesso processo della storia quella di ogni creatura così come quella di tutto il popolo degli uomini.
Sento fortemente che è urgente riuscire a camminare unicamente nella Fede: in forza cioè della fiducia e dell' energia che nasce dal saper che Dio c'è, che è vivo dentro la vita, profondamente mescolato come sangue che alimenta l'esistere di tutto quest'immenso corpo dell'umanità. Capace - Lui solo - di comprenderne le tragedie, le assurdità, la malvagità, la stoltezza, le tenebre. Come di dare senso pieno alle sue gioie, alla bontà, alla saggezza, alla fame e sete di giustizia, all' amicizia e all' amore.
Camminare nella Fede: è sicurezza che la propria vita è stata raccolta e portata via dal vento di un Amore che non sai più da dove venga né dove vada, che ti impone di camminare senza pre-tendere di conoscere in anticipo a che cosa ti conduce la strada, quali saranno i risultati di tutta una



ricerca, di tutto un sognare mondi nuovi, una terra liberata dall'ingiustizia e dalla violenza, tutto un credere che l'aurora spunterà anche se la notte sembra farsi sempre più profonda man mano che ci si spinge più avanti.
Camminare nella Fede: e cioè credere che perdere tutto, non contare nulla, finisce piano piano all'ultimo posto (non quello che immaginavi ma quello che la vita, le vicende, gli altri ti obbligano a prendere), non trovare il tesoro nel campo dove ti era sembrato di scoprirlo, credere che tutto questo è il modo giusto - il modo cristiano - di vivere, di amare, di servire la vita. Credere che i poveri, gli ignoranti, gli scartati, gli sfruttati, gli oppressi, i rifiuti della società e della civiltà sono loro quelli che bisogna saper ascoltare perché sono loro che hanno il messaggio della verità, della giustizia, della guarigione da ogni chiusura di cuore.
Credere che Dio lo si trova solo scendendo sempre più da qualunque piedistallo (esteriore ed interiore) accettando in modo molto concreto di essere nella categoria di coloro che servono (e non fra quelli che si sforzano in tutti i modi di essere serviti). .
Questa strada da farsi nella Fede ha certamente radici molto lontane, fino a collocarsi all'origine stessa del proprio esistere, fino a credere che c'è un destino di amore da cui ognuno è stato segnato fin dal seno materno e che chiede di essere portato a compimento con fedeltà e autenticità di partecipazione.
Sento che bisogna obbedire a Chi ha posato il suo guardo sulla nostra povertà, come l'argilla si lascia docilmente modellare dalla mano del vasaio, come la terra accetta di essere spaccata dal vomere dell'aratro: è giusto e buono lascarsi strappare alla tranquillità di una vita normale per essere spinti fuori delle mura di casa, per le piazze e le vie, nella folla degli uomini senza altra ragione ad esistere se non quella di testimoniare che l'Amore di Dio è fedele.
Bisogna consentire a non possedere niente per sé, a ritrovarsi con le mani vuote, come il contadino che ha finito di seminare il campo e stringe fra le mani il suo sacco vuoto; accettare di toccare il fondo di una solitudine personale molto concreta, per poter essere punto di comunione fra gli uomini e Dio, segno di riconciliazione, pietra d'inciampo sul cammino dei potenti e dei furbi, spazio benedetto per l'incontro, l'amicizia, la fraternità tra gli uomini.
Consentire di camminare in questa Fede che chiede di essere continuamente chicco di grano che si lascia macinare per un pane che non sai nemmeno quale fame è destinato a saziare.

don Beppe

Lettera a don Roberto Sardelli

Caro Roberto,
ho letto la tua "lettera ai cristiani di Roma" proprio come tu la presenti: il frutto di cinque anni di lavoro paziente e duro tra i baraccati dell'Acquedotto Felice. Un lavoro che io ho conosciuto agli inizi e seguito poi attraverso i giornali e le testimonianze di comuni amici.
Ho vissuto per tre anni a Roma e avvertivo i contenuti della tua proposta anche se è solo qui, a Viareggio, nella vita operaia, che ho compreso chiaramente quanto la fede sia dono e non privilegio che possa essere capitalizzato anche solo per un po' più di tranquillità nella vita. Veramente, come tu dici, quand'ero seminarista e poi prete integrato nella vita ecclesiastica, «vivevo nell'illusione e nella superbia di me stesso, ma quando mi spogliai di ogni privilegio e mi feci povero tra i poveri, ricevetti da questi il più grande servizio che potessi aspettarmi: ascoltai e mi fecero conoscere il giudizio che essi davano su me e sulla chiesa. Mi misero a nudo e fui costretto a confidare in Dio là dove credevo di poter fare da me. Questo è il più alto atto del loro magistero. Guai se lo evitassimo per paura».
Ho raccolto la tua scelta di vivere come contadino sulla montagna ciociara, pensando per contrasto, a quanti - preti e cristiani - vogliono un immediato riscontro alla loro presenza ed hanno quindi bisogno di essere incaricati di mille cose, di grandi parrocchie, di strategie diocesane, per sentirsi sicuri nella fede, per non entrare in crisi. Non è solo il rispetto per una persona che ha spirito d'iniziativa e paga di persona, ma anche e soprattutto la gioia per una scelta motivata unicamente dalla fede in un cammino - ed è la tua vita come la vita d'ogni cristiano - totalmente offerto a Dio che fa conoscere ad ognuno "il tempo in cui la lingua dovrà essere sciolta e il tempo in cui dovrà essere legata al palato".
Scelta compiuta non in vista delle opere da realizzare, ma per un'autenticità di rapporto con una terra, con un popolo emarginato, «non appetibile». Servizio che offri a tutti «perché si capisca che ciascuno di noi è tenuto ad andare là dove nessuno andrebbe».
Sono molti i motivi di riflessione che tu offri ai cristiani di Roma e diversi di essi toccano la coscienza dei cristiani in ogni angolo del mondo. Come già scrissi in occasione della lettera sul problema dei baraccati, la Chiesa di Roma mancherebbe ad un'ulteriore appuntamento con la ricchezza di doni di cui lo Spirito la circonda, se rinunciasse ad accogliere anche questo contributo. Mi risulta che questo stia avvenendo, gettando un'ombra strana sul Convegno pastorale diocesano che dovrebbe accogliere contributi di questo livello. Nella presentazione, infatti, che il Regno-doc. 3/1974 fa alla tua lettera (riportandone anche il testo integrale), è scritto che essa è stata consegnata prima al santo padre, poi al cardinale vicario e al presbiterio romano. Il consiglio presbiterale romano ha insabbiato la lettera. Evidentemente - continua la presentazione de il Regno -, se n'è fatta una lettura esegetica; e, in chiave esegetica, i cesellatori dell'ortodossia troveranno molto da criticare. Si parlerà di generalizzazioni gratuite, di affermazioni personalistiche, di un certo radicalismo che contraddice alla spiritualità della figura e dell'opera di Cristo, di utopie, ecc. Senza comprendere che questo testo non è per l'esegesi, ma per la riflessione e la conversione.
E' uno scoglio questo nel quale anche noi, nel passato come oggi, abbiamo battuto la testa. E' la giustificazione per cui intorno alla nostra scelta si crea come un cordone sanitario perché la chiesa non possa risentirne. Anche a noi, come a te, è stato detto che i superiori non potevano compromettersi con la nostra particolare esperienza. Anche noi non riusciremo a capire, come te, perché non ci siano esitazioni a compro-mettersi, per esempio, con l'esperienza dei cappellani militari...
Eppure continuiamo, senza perderci di fiducia, ad offrire la nostra proposta di fede perché è vero che «non possiamo farci amanti di una chiesa pura e darle l'ostracismo quando sembra sovrastata dall'oscurità: Dio ha sempre amato il suo popolo».
Ci sentiamo con te «voce» di un popolo che non ha diritto alla parola perché pochi lo cercano, il potere del denaro lo divide. «Voce» non fatta di parole, ma di una vita.

don Luigi


Vogliamo una città diversa. Ma sappiamo benissimo che una città diversa non si ottiene con discorsi moraleggianti, bensì con profondi mutamenti di comportamenti e di strutture sociali ed economiche, su una base di maturità e su un severo esame di coscienza da parte di tutti e in prima linea dei cristiani.
Card. Ugo Poletti

Cantiere navale

Vorrei riuscire - ogni tanto - a raccontare qualcosa della vita di lavoro in cui sono entrato da qualche mese. Ho lasciato il mare, le reti da pesca, il quotidiano contatto con i compagni pescatori (anche se li vedo sempre, perché la nostra casa è in mezzo alle barche) per entrare a far parte di una nuova famiglia. Sono manovale in un cantiere navale del porto, mescolato alla fatica quotidiana di circa 400 operai.
Sono entrato nella condizione operaia, dove avevo sempre desiderato arrivare: ora vi sono approdato con il peso di questi anni di vita sacerdotale mescolata alla condizione della povera gente, di quelli che consumano la vita nella fatica, quotidiana per il pezzo di pane.
I compagni del cantiere mi hanno accolto con schietta amicizia: sanno da molto tempo che «siamo dei loro», che abbiamo fatto la scelta di appartenere per sempre al popolo che serve, che non conta nulla (o pochissimo), che è sfruttato e legato alla catena di un lavoro che spesso è senz'anima perché guidato unicamente dagli interessi del denaro e del potere economico.
Sento che questo nuovo passo sulla via di un inserimento sempre più profondo nella realtà dell'esistenza operaia significa molte cose per me e mi impegna a restarvi fedelmente. Mi sembra di essere arrivato ad un momento molto serio della mia vita; è qualcosa che mi impone di compiere con coraggio - in modo nuovo e per sempre - la scelta della povera gente, di una vita molto spoglia, accettando il condizionamento di un ritmo quotidiano segnato dal grido tagliente della sirena (com'è diverso da quello delle campane delle chiese).
Avverto che il mio sacerdozio è sceso ancora di più dentro la pasta dell'esistenza e deve essere vissuto molto intensamente: soprattutto con una fedeltà a «loro», ai miei compagni, all'umanità povera e sfruttata, che non conosca incrinature o incertezze.
In questa fedeltà alla condizione del lavoro salariato, ai fratelli che portano il giogo di un'esistenza fati-cosa e logorante, all'interno della lotta per il superamento dello sfruttamento del capitale e dell'egoismo politico e padronale, sento di ritrovare più chiaro il senso della scelta cristiana e sacerdotale. Più limpida e significativa la scelta che Gesù Cristo ha fatto della mia singola storia e di tutta la piccola comunità di cui faccio parte.
In questi pochi mesi di lavoro nel cantiere, fra il rumore assordante degli scalpelli pneumatici, delle mazze, nel labirinto polveroso dei doppi fondi, nel bagliore accecante della saldatura sempre in azione, ho accolto molto intensamente la presenza di Gesù, povero carpentiere di Nazareth, pellegrino ancora più povero per le strade della Palestina, senza una pietra per appoggiare il capo, senza denaro, senza potere, mescolato alla folla degli uomini ad indicare la strada del regno di Dio. «Ad annunciare il vangelo ai poveri, la libertà agli oppressi, a spezzare le catene dei prigionieri.».
Gesù me lo sono ritrovato molto vivo dentro il ritmo delle ore che non passano mai, come legati ad una catena che tutti vorrebbero spezzare; nelle piccole storie raccontatemi di sfuggita in qualche pausa del lavoro, nei volti segnati dalla povertà operaia dei miei compagni.
In loro ho sentito anche molto profondamente il dramma di una Chiesa lontana da questo mondo serio, affaticato, oppresso, che avrebbe dovuto trovare in lei un po' d'ombra per riprendere coraggio e forza nel viaggio. Un mondo fatto di uomini che ne1la quasi totalità sono rimasti delusi dal1'incontro con la realtà contraddittoria della vita dei preti, della burocrazia delle parrocchie, dell'assenza del mondo cosiddetto «religioso» nei confronti dei problemi della liberazione dallo sfruttamento e dall'ingiustizia.
Non si fidano più di questa Chiesa che ancora ritrovano nei loro paesi, nei quartieri dove abitano con la fa-miglia, nelle scuole dove vanno i loro figli (salvo qualche rara eccezione): in fondo, forse senza esserne coscienti, si sentono come traditi da una Chiesa che li ha battezzati, sacramentalizzati, devozionalizzati e che poi li ha lasciati completamente soli nei loro problemi d'ogni giorno, nelle lotte per un salario giusto, una casa dignitosa, una vecchiaia meno pesante. Soli nell'opporsi all'egoismo dei ricchi, alla violenza del capitale, alla forza della ragione economica e della furbizia politica: anzi hanno avuto l'amara e ancora attuale esperienza di vedere la Chiesa in buoni rapporti con i ricchi e le loro ricchezze, i politici, i capi, i generali, i furbi. Soprattutto soli nel credere ai valori della povertà, del pane guadagnato, dell'amore fraterno concretamente vissuto, dello sforzo per la costruzione di un mondo nuovo, più libero e umano.
Anch'io, nonostante tutti gli aggiornamenti e i rinnovamenti liturgici e pastorali, mi sento solo come loro, fra di loro. Se appena appena mi volto indietro, a sbirciare dietro le spalle, non vedo davvero la Chiesa sulla stessa pista di ricerca e d'amore. Solo pochi fratelli e sorelle che hanno coraggiosamente intrapreso il cammino, anch'essi da soli, nell'incertezza e nella pesantezza de1la scelta.
Anch'io, come loro, sono tentata di non fidarmi più della mia Chiesa; anche se sento di doverla amare così com'è, con i Suoi tradimenti e i suoi peccati, perché anch'io sono fragile nella fedeltà e peccatore, e quello che sono è solo opera della grazia misericordiosa di Dio.
Perché, in fondo, se io sono là, dentro le mura di questo strano convento che è il cantiere navale (dove non ci sono segni sacri, suoni di campane, dolci melodie di canti liturgici) è perché Qualcuno mi ci ha condotto. La vera ragione che mi ha deciso ad esservi, il motivo più vero che mi impegna a restarvi fedelmente e con grande serietà è questa dipendenza unica e totale da Gesù Cristo. A seguito di Lui, che sta alla radice della mia esistenza, credo sia dovere sacerdotale e fedeltà al suo Vangelo celebrare nel proprio corpo e nel proprio cuore la liturgia quotidiana del lavoro che milioni di uomini celebrano nella propria carne. E camminare, cercare, lottare insieme con loro per abbattere il muro della divisione, spezzare le catene della schiavitù ed entrare sempre più nella dimensione della libertà e della giustizia. Per cercare insieme con loro, sulla stessa strada e condividendo la stessa sorte, il volto paterno di Dio.

don Beppe

Anno Santo in caserma

Su «Avvenire» stanno comparendo ad intervalli abbastanza regolari comunicati e notizie sull'attività dell'Ordinariato e dei cappellani militari riguardo alla celebrazione dell'Anno Santo.
«Pellegrinaggi a Roma di soldati delle diverse regioni militari italiane avverranno in occasione del prossimo Anno Santo, seguiti, nel mese di novembre, da un solenne pellegrinaggio militare internazionale. L'ordinario militare per l'Italia, monsignor Mario Schierano, ha dichiarato che iniziative sono già state presentate agli uffici competenti.
« Debbo dire con soddisfazione - ha aggiunto il presule - che gli stati maggiori hanno accolto e stanno studiando con interesse le nostre proposte per una conveniente realizzazione» (da «Avvenire» del 9-3-1974).
Dobbiamo dunque veramente credere che il vento della riconciliazione oltre che spogliare della divisa tanti giovani che non vogliono esser preparati ad uccidere, attraversi anche le stanze degli stati maggiori per ispirare la conversione delle spade in falci, dei carri armati in trattori?
Possiamo Sperare che questa manovra spirituale NATO di novembre, porti un annuncio di speranza per tutti i popoli schiacciati dagli eserciti, perseguitati e torturati dalle polizie? Possiamo attenderci una sincera parola, da «cristiani»?
In un'intervista alla radio vaticana così si esprime ancora Mons. Schierano: «Riconciliazione può significare negli ambienti militari per chi deve comandare, resistenza ad ogni tentazione di abusare del potere e intelligente esercizio cristiano dell'autorità come autentico servizio alla crescita umana e spirituale delle singole persone e dell'intera comunità. Per chi è sottoposto alla disciplina militare la «riconciliazione» significa valorizzare l'impegno a superare il proprio egoismo, in una gioiosa scoperta dell'amicizia, in una felice constatazione che l'obbedienza può diventare virtù liberatrice se fatta in donazione, pazienza e fedeltà a tutti».
Buone parole, dettate certamente da un cuore sincero, ma forse poco attento al momento storico che stiamo vivendo. Cosa si intende per abuso di potere da parte dei militari? Per esempio, il cardinale di Santiago non ha definito abuso di potere il golpe assassino di Pinochet. Mons. Schierano è d'accordo su questa interpretazione dell'abuso di potere? Se prendesse posizione su questi casi di repressione militare forse le sue parole potrebbero avere un senso meno equivoco. O dobbiamo pensare che siano le sue stellette di generale ad impedirgli questa chiarezza?
Ad un soldato cattolico sud-vietnamita cosa direbbe Mons. Schierano e con lui tutti i cappellani militari riguardo all'obbedienza divenuta virtù liberatrice se fatta in fedeltà a tutti? A tutti chi? Ai suoi capi? A Van Thieu? Ai suoi commilitoni torturati dell'isola di Poulo Condor? Quasi certamente Mons. Schierano e con lui tutti i cappellani militari direbbero a me che non possono giudicare una realtà loro estranea (ma quanto «estranea»?).
Non pensa l'Ordinariato militare ad una realtà molto più vicina a noi qual'é quella degli obiettori di coscienza ed in modo particolare di coloro che le danno chiare motivazioni religiose? Non sarebbe con loro una seria «riconciliazione» da cercare? Come procede la «comunione» tra questi cristiani che camminano su due sponde così diverse? E' possibile una vera conversione per un'autentica « riconciliazione?
Se l'itinerario penitenziale che i cappellani militari del centro sud hanno percorso all'inizio del loro convegno per la preparazione all'Anno Santo, è terminato al sacrario delle bandiere dopo essere passato dalle catacombe, sperare in un rinnovamento anche solo iniziale sembra assurdo. Preti e frati invece di abbandonare l'esercito - e sarebbe l'unico gesto serio di vera «riconciliazione» con il popolo dissanguato in tutte le guerre e oppresso da tutti gli eserciti - giurano fedeltà a Dio e alla patria, a questo freddo simulacro di gloria per la povera gente, paravento per i potenti di tutto il mondo.

don Luigi

Cile amaro

Siamo cinquemila qui, in questa
piccola parte della città.
Siamo cinquemila, quanti saremo
in totale?
Solo qui,
diecimila braccia in meno a seminare
e a fare andare le fabbriche.
Quanta umanità con fame, freddo,
panico, dolore, abbattimento, timore e pazzia.

Seimila dei nostri si sono persi
nello spazio delle stelle.
Uno morto, uno colpito come
mai avevo creduto si potesse colpire
un essere umano.
Altri quattro han voluto togliersi ogni timore.
Uno saltato nel vuoto,
un altro battendo la testa contro
il muro.
Ma tutti con lo sguardo fisso nella morte.

Com'è spaventoso il volto
del fascismo!
Portano avanti i loro piani con precisione
sistematica,
senza preoccuparsi di nulla.
Il sangue per loro sono medaglie,
l'assassinio è atto d'eroismo.

E' questo il mondo che avete creato,
Dio mio?
Per questo i sette giorni di meraviglia
e di lavoro?

In queste quattro muraglie c'è solo
un numero.
Che non aumenta,
ridotto lentamente dalla morte...

Canto, ma mi viene male
quando devo cantare la paura.
Paura ha cantato l'ultimo arrivato,
da farmi morire di paura.
Di vedermi fra tanti e tanti
momenti dell'infinito
in cui il silenzio e il grido sono le mete
di questo canto.

Quello che vedo, mai lo vidi
quello che ho sentito e quello che sento
farà sorgere il momento...


brano di una poesia di Vietar Jara,
poeta cileno ucciso nello stadio di Santiago.


Una lettera di giovani sposi

Cari Amici e compagni,
è con grande piacere che ancora continua ad arrivarmi, anche se al vecchio indirizzo, il vostro Lotta come Amore. Se dico con grande piacere è evidente che condivido in pieno, come operaio e come cristiano, la linea che voi tirate avanti.
Anche noi, qui nella nostra parrocchia, con qualcuno cerchiamo di tirare avanti questo discorso comunitario, ma è tremendamente difficoltoso perché soprattutto ci manca l'appoggio e la guida del Pastore. Anzi il parroco è contrario abbastanza.
Comunque vi scrivo per due altri motivi. Ho letto su uno degli ultimi numeri l'articolo di don Sirio sul matrimonio. Io mi sono sposato tre mesi fa ed ho impostato il matrimonio e la vita a due proprio come diceva don Sirio. Mi ci sono ritrovato e mi ci ritrovo in pieno. Vi spedisco insieme a questa anche la lettera di partecipazione che era ed è un po' il programma della nostra vita. Se volete potete anche pubblicarla su «Lotta come Amore», come testimonianza e adesione al discorso di don Sirio sul matrimonio. E' chiaro. O ci si sposa così e per questi fini, o non vale la pena, o meglio, non ci si può sposare.
Per concludere, vi comunico il mio nuovo indirizzo e vi prego di inviare un vostro numero ad un compagno impegnato con me in comunità all'indirizzo che vi scriverò.

L'invito - programma
E' con grande gioia che ti invitiamo al nostro matrimonio, che avrà luogo a Tolentino presso la parrocchia del "Crocifisso", il giorno 3 novembre 1973 alle ore 16.
Ti invitiamo a passare con noi questo momento importante della nostra vita e. vorremmo tanto che tu ci sia vicino così come noi lo desideriamo. E con questa lettera-invito vorremmo spiegarti quelle che sono le nostre scelte, i nostri desideri, come intendiamo sposarci e soprattutto come intendiamo vivere il nostro matrimonio.
Siamo cristiani: come conseguenza abbiamo fatto singolarmente delle scelte che ci hanno portato al rifiuto dell'egoismo e ad aprirci agli altri, che sono i poveri, gli sfruttati e gli emarginati.
Nello sposarci, nel mettere cioè insieme la nostra vita, vorremmo continuare su questa strada, mettendo il Cristo e la sua Parola al centro della nostra vita comune. Siamo convinti che, insieme, riusciremo ancora meglio a dare tutti noi stessi, tutta la nostra vita e quella dei nostri figli agli altri; perché per noi amare non è tanto dare qualcosa, ma tutto.
E' così che noi pensiamo il matrimonio, la nostra famiglia.
Pertanto sentiamo di impostare la nostra vita nel rifiuto più deciso di questa società (capitalista), che nega tutti i valori della famiglia, che anzi esalta l'egoismo, la sistemazione, il superfluo, ed è la causa principale dell'espressione e dello sfruttamento.
Rifiutiamo la mentalità del matrimonio come sistemazione egoista; al contrario, come alternativa alla sistemazione borghese, ci proponiamo un continuo tendere agli altri. La nostra casa sarà sempre aperta a tutti quelli che vorranno incontrarsi con noi, per crescere insieme, e impegnarsi nella lotta di liberazione.
Rifiutiamo la mentalità del matrimonio come fine della libertà, per cui praticamente marito e moglie vivono in una reciproca schiavitù. Al contrario la nostra vorrà essere l'unione di due persone libere che hanno scoperto nell'amore la gioia entusiasmante di vivere non per sé, ma per gli altri.
In coerenza a queste idee celebreremo il nostro matrimonio nella semplicità, evitando ogni superfluo e rifiutando ogni spreco, con la convinzione profonda che questo non si fa per il gusto della novità o per stravaganza, o addirittura per spilorceria, come qualcuno vorrebbe insinuare, ma perché così crediamo di essere più coerenti con le nostre scelte e con la nostra vita.
Nell'attesa di averti con noi il 3 novembre, ti salutiamo amichevolmente.

Wanda Cavone - Mario Broglia

Questi buoni cattolici

Non è per accusare, puntare il dito e condannare, ma non si può non piangere e di angoscia infinita e gridare disperatamente e anche arrabbiarsi dal più profondo per ciò che succede in questo nostro tempo ad opera di gente che tiene ad essere cristiana e quasi fino al punto che quello che fa vorrebbe dare ad intendere che è a titolo cristiano, per difendere e affermare la civiltà cristiana, quasi qualcosa di Regno di Dio nel mondo.
Ho ancora nella carne l'orrore di quelle esecuzioni di morte in Spagna: quella spaventosa "garrota" me la sento stringere intorno al collo e il cuneo d'acciaio a spezzarmi le vertebre cervicali.
Ancora il vecchio e crudele medioevo, ancora sopravvivenze inquisitorie per sgomentare con il terrore, ancora la vendetta politica a "sotto chi capita".
Va tagliato via questo cattolicesimo politico, a ragione di Stato: è maledizione che pesa su tutta la cristianità e dopo secoli e secoli non ne siamo ancora purificati, liberati.
E' sangue che ricade su tutti i cristiani su tutta la Chiesa E' garrota spietata che soffoca e strozza anche la speranza: la speranza e la fede che Cristianesimo prima di tutto voglia dire fraternità nel mondo.
Questi cattolici del referendum per respingere la legge del divorzio. Cattolici arditi e fieri, crociati della famiglia salvatori della società.
Questo spettacolo di cattolicite acuta non è che mi entusiasmi: non credo che il Regno di Dio sii realizzi attraverso leggi di qualsiasi genere possano essere. La strada del suo venire è senza dubbio completamente un'altra.
Mi viene in mente che prima di questo referendum fra i cattolici e anche i non cattolici doveva esserne fatto un altro: quanto i cattolici o no siano d'accordo con quel tribunale della Sacra Romana Rota, quel tribunale cioè che dichiara nulli i matrimoni, stabilisce, tanto per intendersi, un divorzio benedetto, capace perfino di mettere l'anima in pace perfino davanti a Dio, ammesso che di Dio interessi qualcosa per quei matrimoni che si rivolgono alla Sacra e Santa Rota.
Ma lasciamo andare questo problema e intanto ecco che questi buoni cattolici mandano all'urna a pronunciarsi sull'abrogazione del divorzio vescovi, sacerdoti, frati, monaci, monache, suore, religiosi, religiose... questa Chiesa del celibato e della verginità.
Se non altro per quelli a cui sta veramente a cuore il problema della salvezza della famiglia, prima era giusto e doveroso trovarsi tutti d'accordo e impegnarsi seriamente per risolvere il problema angosciosissimo della casa per ogni famiglia, della scuola per i figli di ogni famiglia, della sanità pubblica specialmente a livelli familiari, del rovina-famiglie che è la disoccupazione, la piaga purulenta dell'emigrazione, il salario insufficiente, quegli agglomerati a formicaio delle periferie delle città. Ma qui entrano in gioco gravissimi problemi economici e i soliti buoni cattolici pensano che è temporalismo che a loro non compete, contenti al massimo di trattarne pietosamente nelle assemblee ecclesiali raccolte a piangere sui mali che travagliano l'umanità e di ricordarsene nella preghiera dei fedeli durante le liturgie.

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