Di fronte ai problemi che agitano il mondo, anzi a seguito di quei problemi, ne viene fuori sempre più un altro: quello di una spaccatura, di una scissione e quindi di un disagio e di un'angoscia che sconvolge e disorienta la coscienza del cristiano. Del povero cristiano, solo o quasi, dello sparuto gruppo o comunità cristiana, di chi insomma non riesce a rimanere indifferente di fronte ai crocevia della storia, segnati da avvenimenti che non possono non porre problematiche decisive in ordine all'orientamento della propria esistenza.
Come giudicare un avvenimento? Che posizione prendere? Da che parte stare? Con chi compromettersi? Perché diversamente è rimanere al di fuori, è disincarnarsi, è impossibilità, cioè, di sentirsi sinceramente cristiani.
L'equidistanza non è carità, ma compromesso, equivoco, qualunquismo. La virtù, cioè la verità, la giustizia, l'amore in modo particolare, non sta nel mezzo, né di qui né di là. Altrimenti è un rifugio in un limbo astratto, evanescente, dove si realizza soltanto un benessere falsato, un mezzo paradiso fatto di egoismo, di ripiegazione personale capace di scaldarsi a tutti i fuochi che bruciano anche se alimentati dagli orrori più spaventosi.
Di qui l'inevitabilità di una scelta che provoca il grosso e terribile problema capace di disorientare la coscienza del cristiano.
Siamo stati abituati - a torto o a ragione, con un processo educativo religioso giusto o sbagliato che sia -, a fidarci della Chiesa e a seguirla nelle sue scelte, nei suoi metodi di rapporto con il mondo, con gli avvenimenti, con la storia. Abbiamo sempre inteso la fede non solo come consenso impegnativo ad aderire a verità dogmatiche, ma anche come un riversarsi illuminante e chiarificatore sui rapporti con il mondo, all'interno dell'umanità, negli avvenimenti della storia. Anzi è qui che la fede è messa alla prova durissima dei fatti e le sue richieste risultano spesso talmente impressionanti che il seguirlo è, molte volte, brancolare nel buio illuminati solo da fiducia più che da chiarezza di visione.
In questa difficoltà concreta della fede, in questa ricerca cristiana del senso della storia nel suo snodarsi quotidiano, la Chiesa sta diventando, più che nel passato, difficoltà, impedimento, inciampo, specialmente per il povero cristiano che, Vangelo in mano, se lo legge e se lo rimugina faticosamente alla lucernetta accesa della propria fede.
I motivi per cui la Chiesa (specie quella buona fetta che dalla Segreteria di Stato di Sua Santità il Papa si rannoda di grado in grado fino alla sacrestia della parrocchia) costituisce questa difficoltà, sono tanti e molteplici. Da tempo noi, insieme ad altri, ne stiamo discorrendo, al modo nostro, alla buona, senz'altra presunzione di quella di tirare avanti una povera lotta di chiarimento e di purificazione per un amore e una fede verso la Chiesa, veramente profonda e seria.
In questi ultimi tempi, però, c'è un motivo particolarmente disidioso di cui la Chiesa non sembra o non vuoi avvedersi.
La Chiesa non opera mai scelte chiare, precise, inequivocabili. In avvenimenti che comportano condizioni di contrasto tremendo fino a segnare posizioni irriducibili, non avviene un pronunciamento, non succede il mettersi da una parte con coraggio dichiarando la scelta con motivazioni unicamente cristiane, raccolte dall'insegnamento dell'unico Maestro. Nemmeno quando questa scelta potrebbe comportare un decisivo annuncio del Vangelo, una indicazione indiscutibile della posizione del cristiano e della Chiesa in questo nostro mondo dove hanno posto assicurato e benedetto i potenti e tanto più i superpotenti, la forza e la violenza militare, le montagne di dollari, i fiumi di petrolio, le furberie dei politici: questo gran mondo della nostra civiltà.
Se il cristiano seguisse le indicazioni. ma specialmente il comportamento della Chiesa, non starebbe dalla parte di nessuno per il semplice motivo che starebbe dalla parte di tutti. In concreto ciò significa stare dalla parte dei più forti.
Il cristiano cosciente della propria fede raccolta da un'educazione religiosa tradizionale e aperta al mondo in cui vive a seguito di una sensibilizzazione evangelica, non ha che una strada davanti: andare in crisi.
Crisi religiosa profonda, totale per uno scadimento di stima in chi, la Chiesa, di questa fede si dichiara maestra, motivazione, argomento, garanzia.
Crisi religiosa che si conclude con un abbandono pratico della Chiesa in tutto ciò che significa di parola, liturgia e sacramento.
Crisi di disagio, di sofferenza, di angoscia per una scissione, una spaccatura nella propria impostazione religiosa ormai insostenibile e nella ovvia difficoltà di costruirsi una maturità personale e di gruppo con impostazioni coraggiosamente cristiane.
La Chiesa e gli uomini di Chiesa, non si rendono conto della sofferenza di innumerevoli figli, del disagio spesso angoscioso di un gran numero di famiglie e di gruppi desiderosi di trovare una collocazione doverosa nel mondo storico in cui stanno vivendo.
E' il problema in cui la Chiesa non aiuta, ma anzi è terribilmente di ostacolo, di complicazioni, di difficoltà e poi causa di divisioni, scissioni e contrasti tra i fedeli, nella popolazione cristiana. Specialmente nel mondo giovanile il problema è all'esperienza di tutti quelli che hanno e vogliono avere occhi per vedere e orecchi per intendere.
Siamo convinti che lo spazzar via questo inciampo sarebbe impresa possibile se la Chiesa tenesse presente e fosse più fedele al programma di scelte raccolto da Gesù nel libro di Isaia e offerto, pensiamo, anche alla Chiesa: "Lo spirito del Signore è su di me, per questo egli mi ha consacrato, mi ha inviato ad annunciare la buona novella ai poveri, la liberazione ai prigionieri, il recupero della vista ai ciechi, la libertà agli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore".
Pensiamo, anzi crediamo, che esista la possibilità d'incontro fra la Chiesa e la coscienza del cristiano d'oggi e quindi nell'attenuarsi di quel problema di disagio capace di sofferenza e di sbandamento nella cristianità del nostro tempo.
Sarebbe sufficiente che la Chiesa operasse scelte chiare là dove queste scelte, in nome di Cristo, devono inevitabilmente realizzarsi: la scelta dei poveri, degli oppressi, dei deboli, degli schiacciati, e mettersi coraggiosamente dalla loro parte.
La Redazione
13 - La Cananea
Non è ebrea questa donna che si avvicina a Gesù e implora la guarigione della figlia indemoniata. I discepoli ne sono tanto infastiditi che pregano, a loro volta, Gesù di accogliere la richiesta della donna, per mandarla via. Il Maestro risponde con parole dure, poco comprensibili in colui che non ammette alcun limite all'amore: "Io non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d'Israele".
Forse Gesù vuole mettere alla prova la donna per aiutarla ad una fiducia piena in lui e per questo addolcisce l'espressione parlando di cagnolini. E' certo che la risposta della donna, per la sua disarmante semplicità, merita il consenso di Gesù: "O donna, la tua fede è grande! Ti sia fatto come tu desideri".
C'è tanta gente semplice che dovrebbe essere provocata ad un atteggiamento analogo, franco e aperto. Ai margini della vita ecclesiastica, fuori dei circoli intellettuali cattolici, dimenticata da tutta una dimensione politica che la confina nelle masse anonime. C'è tanta gente semplice che attende di essere liberata da un rapporto necessariamente servile perché è l'unico modo con cui può ottenere qualcosa.
Questa liberazione può essere cercata, come oggi indicano molti tentativi, passando dalla richiesta di un favore particolare al diritto preteso a furor di popolo: tutta un'opera di coscientizzazione per l'affermazione di una dignità e responsabilità che appartiene al popolo.
Certo è che questo non può avvenire senza che il popolo sia chiamato ad un impegno serio e sia scalfita l'incrostazione di servilismo che secoli di schiavitù hanno reso più dura della pietra. Mi sembra questa la maggiore difficoltà in cui si scontrano i movimenti popolari. E' vero che nell'azione stessa c'è una grande maturazione della coscienza popolare, ma è anche vero che è controproducente seminare illusioni ed esaltarsi per conquiste effimere.
Gesù, in questo caso si vede bene, ci tiene a mettere in chiaro che non è uno stregone che fa i miracoli a piacere, ma che segue un piano ben preciso. di liberazione e di lotta. Superato l'equivoco nella coscienza della donna, si apre un rapporto autentico di piena e totale fiducia e l'impossibile diventa possibile: «il demonio se n'era uscito».
don Luigi
Porto nel cuore, nonostante la situazione di crisi e di difficoltà in me e nel rapporto col mondo, con l'esistenza porto nel cuore la speranza: non una speranza, ché questa assolutamente non ho, ma la speranza.
E' difficile e faticoso camminare nella vita e avere accesa la speranza. Assai più che averla spenta e brancolare nel buio.
T anto più che è pericoloso, pericoloso come l'illusione, credere di avere la speranza e spesso si rischia il disonesto offrirla agli altri e cercare di alimentarla d'intorno.
Perché troppo facilmente la speranza può diventare alienazione, un rifugio comodo dove fuggire a nascondersi per respirare un po'; riprendere fiato a poter quindi ricominciare nella sopportazione, e un tirare avanti, nonostante tutto.
Seminare allora disperazione sarebbe forse più onesto perché costringerebbe a non guardare da un'altra parte, ma ad affrontare la situazione com'è, risolvendola o almeno lottandoci dentro fino all'esasperazione o alla liberazione.
La speranza è forza che aiuta a reggere ma spesso è anche vigliaccheria. E' la forza del debole, del sopraffatto, del vinto. E' rimandare a dopo rifiutando il momento presente.
Ho una grossa paura che la speranza che porto in cuore mi giochi la sincerità, cioè la totalità del tutto me stesso, nel momento che sto vivendo.
Mi viene da detestare la speranza rivolta all' avvenire, al domani, a situazioni nuove che verranno. Questo rimandare incessante significa una disponibilità rinunciataria impressionante. E' il domani che aiuta a superare, a vincere nell'oggi, mentre sarebbe giusto e bellissimo il contrario: l'autenticità, la verità, la pienezza dell'oggi giustifica il custodire nel cuore e il crescere della speranza per il domani.
Non si può e non si deve sfuggire dal presente, è assurdo disincarnarsi dalla concretezza dell'attuale e trasferirci nelle prospettive, nelle possibilità, nelle speranze del futuro.
Il futuro non esiste, esisterà, l'avvenire è tutto da venire, attualmente è un assurdo.
Anche in una visione cristiana della vita la prospettiva escatologica non può avere importanza per il suo incombere o come realtà conclusiva, risolutiva di tutte le cose, ma unicamente perché la verità finale, le ultime cose, si riflettono sul presente e lo illuminano perché il presente sia chiaro nella sua transitorietà e abbia tutto l'impegno, l'interesse, il valore, la dedizione, la Fede e l'Amore, cioè tutto l'uomo, niente escluso, per l'importanza assoluta che il momento presente porta con sé e che richiede giustamente di essere vissuto in tutto il suo valore, in tutta la sua pienezza.
Per questo a volte la speranza non mi conforta, ma mi rattrista quando non mi rimane che guardare nella sua luce (o nel suo crepuscolo) l'umanità: mi diventa inevitabilmente la speranza del domani sarà un' altra cosa, di un futuro diverso. E la speranza diventa amarezza perché mi scopre e mi convince di un presente impossibile, assurdo; disumano, e così tanto da sentirmi costretto a rifugiarmi nell'avvenire, a sperare nel domani migliore.
E mi accorgo che vado in cerca di consolazione e questo sollievo mi aliena e mi disincarna, mi impedisce di soffrire e di soffrire fino all'esasperazione e quindi di essere uomo vero, concreto, di buttarmi dentro la disperazione del momento, caricarmene e fino al limite delle forze e poi di rischiare anche l'impossibile.
Allora mi avvedo della mia inconsistenza, sono uomo e cristiano e prete che vive sulla speranza, come dire caniminare sulle nuvole e inganno me stesso e mi falsifico quando cerco coraggio e forza per giustificare la mia nullità, il mio vuoto, il mio tradimento nel presente., nel momento in cui sono vivo e concreto, rifugiandomi nella speranza che mi dà di credermi diverso domani, più impegnato, più responsabile, più uomo, più cristiano, più prete domani, in un avvenire fumoso, inconsistente, tutto possibilità e impossibilità da venire.
Tutte le sere ho paura di abituarmi e chiudere la giornata pensando al domani.
Come ho paura, ma paura di disincarnazione e di falsificazione di me stesso, quando penso al concludersi della vita rifacendomi all' al di là, al dopo la vita, anche se so e credo che quella è la vera vita e ora soltanto un corrervi verso.
Non penso mai al paradiso. Né al come sarà né al come non sarà. E' semplicemente assurdo lavorare d'immaginazione anche intorno alla speranza giustificabile soltanto con la Fede. Il Paradiso non è oggetto di speranza, è realtà di concretezza, è una presenza, una attualità, soltanto che è tutta nel Mistero di Dio, che non è oggetto di speranza, ma di Fede e tanto più di Amore.
Dio come realtà di speranza è nell'oggi, è in questo momento e difatti spero nell'umanità e in una umanità diversa, perché so che c'è Dio dentro l'umanità a guidarne la vita e so che Dio è Amore e quindi so che dentro quest'umanità così disumanità c'è l'Amore di Dio. La speranza che Dio è qui, che c'è Dio.
E' la speranza (valore diverso della Fede) di una presenza vitale, infinita, onnipotente, alla quale devo unire, immedesimare la mia presenza, la presenza anche del mio niente, della mia incapacità, della mia sconfitta quotidiana, ma anche quindi della mia lotta senza risparmi e senza difese di me stesso.
La Speranza è che in questo mondo, in questa vita, nella lotta quotidiana per l'umanità più vera, più libera, più umanità ci sei tu, c'è lui, c'è lei, ci siete voi, ci siamo tutti, uniti, un cuore solo, una identica lotta, in un Amore appassionato...
La speranza che viene da chi si lascia uccidere, torturare, marcire in carcere. Di tutti quelli che dicono di no al potere lottandovi contro anche fino a farsi schiacciare, fino agli allettamenti del denaro, della sistemazione, del privilegio...
La speranza che dentro la storia vi sono pugni di lievito, di luce accesa chissà come e chissà dove, ma accesa e lievito lievitante, come la forza che muove il mare, l'energia che muove la primavera, che scuote il cuore dell'umanità.
E mi aiuterebbe molto la speranza di una Chiesa in cui sentissi battere violento l'Amore del cuore di Cristo, in cui potessi constatare, ma non solo per Fede, ma anche e specialmente per Speranza viva, attuale, in questo momento, la presenza viva e vitale di Gesù Cristo risorto: «ecco io sono con voi ogni giorni fino alla consumazione dei secoli». Questa è la speranza che potrebbe diventare motivo infinito di gioia nel mio e nel tuo duro quotidiano, spesso così vuoto, incolore, inutile, monotono, fino a renderlo vivo e vivente della stessa vita di Dio.
don Sirio
Mi rendo conto che sto guardando con pessimismo alla Chiesa e so che non è giusto. non vi devo consentire, ma non riesco ad uscirne. Quello che scrivo è venuto su spontaneo da questa difficoltà ad un'opera di conversione che deve andare al di là di ogni esistenza personale per di-venire conversione di popolo, di Chiesa. Non è per riflessione attenta - forse mi sarei fermato -, è solamente perché mi sento solo per avere sulle spalle un peso di verità e libertà che mi schiaccia, anche se so che questa solitudine è segno di una povertà cristiana. Capisco che la scelta cristiana passa anche da questa inutilità, da questa pochezza. Su questo fondo la mia presenza, la mia forza d'amare e quindi di vivere nella Chiesa con amore anche se spesso è fatto di discorsi taglienti, di durezze. Se credessi che la Chiesa può solo rivestire la pelle del lupo, dovrei, per coerenza, uscirne. Se rimango è perché, quasi come in sogno, credo possa rivestire l'immagine dell'Agnello.
Da qualche tempo, in seno alla stessa Chiesa gerarchica, si manifestano prese di posizione piuttosto dure nei confronti delle situazioni di ingiustizia e di precarietà provocate dal potere politico e amministrative. Ultima della serie la dichiarazione del gerente di Roma cardinale Poletti sullo stato della capitale. Anche l'atteggiamento delle singole chiese particolari è analizzato con occhio critico in modo da dare un'idea di un discorso molto responsabile, chiaro e non disposto a compromessi.
Non sarò certamente io a dispiacermi di queste cose.
Specialmente quando ai discorsi fanno seguito i fatti, non può non derivarne un beneficio per tutta una realtà altrimenti arroccata su posizioni di privilegio.
Ciò che mi fa rimanere perplesso è, tanto per esemplificare, l'atteggiamento di uomini di Chiesa come il cardinale di Santiago già all'avanguardia nel rinnovamento conciliare riguardo alla giustizia sociale ed ora così assurdamente convinto di poter cristianamente convivere con i «golpisti».
Fino a che punto possiamo dunque prendere sul serio queste voci che si levano nella Chiesa a difesa della giustizia, o meglio contro l'ingiustizia?
E' chiaro che ogni situazione va considerata nei suoi aspetti particolari e d'altra parte, in generale, non è pensabile parlare di cattiva fede nei confronti di chi si espone così alla critica, spesso feroce, degli ambienti di destra specie curiali.
Mi sembra di poter dire comunque che esistono sintomi rivelatori, anche in una realtà molto quotidiana e a noi vicina, di una mentalità forse più diffusa di quanto si pensi.
Per esempio, in situazioni come quella cilena, sud-vietnamita, brasiliana, delle colonie portoghesi, una porzione ben importante e ufficiale di Chiesa, mostra con le parole e con i fatti, di essere molto più coinvolta nel tentativo di conservare il posto conquistato dalla Chiesa stessa nei ri-spettivi paesi e di fronte ai diversi regimi (non importa quali), di quanto lo sia nel «conservare la fede». Conservare il posto acquisito dalla Chiesa, beninteso, per alleviare i dolori dei perseguitati, per proteggere i deboli, per compiere tutta un'opera di carità che non trova però riscontro nel rispetto autentico della giustizia. Soprattutto - lo si può notare nei documenti ufficiali - non trova riscontro in autentiche motivazioni di fede.
Più vicino a noi, per esempio nelle riunioni di sacerdoti e laici, spesso si nota come il discorso tenda a chiudersi nella richiesta di direttive pratiche, di 'ricette' efficaci, anche se tale richiesta è mascherata dietro una ricerca concreta, non a parole, ma a fatti. Il terribile è che anche qui il discorso di fede è considerato al livello di chiacchiere che lasciano il tempo che trovano. Si tratterebbe di finezze spirituali che oltretutto rischiano di distogliere l'attenzione dei cristiani e quindi rendono più difficile la compattezza nell'azione.
Cosa intendo per motivazioni di fede, per discorso di fede? Non voglio dire che nelle situazioni esemplificate sopra, manchi la fede intesa come richiamo ai valori divini. Solo che manca per lo più un'attenzione rigorosa a derivare l'atteggiamento concreto dalla Parola di Gesù che non sia la citazione presa a prestito dal Vangelo, ma la risultante di un ascolto che coinvolge l'intera esistenza.
Che la vita trovi riscontro in motivazioni di fede significa credere che Cristo è vivo e vivente, proposta da accogliere senza timore fin nelle esigenze più assolute, da non ammorbidire con interpretazioni secondo logiche umane, da non respingere nel quadro del suo tempo.
Ora questa Chiesa, attenta ai problemi della giustizia e della società ben più' di quanto lo fosse anche pochi anni fa, si comporta sovente nei confronti di Cristo come un partito, un'ideologia, si comporta nei confronti del proprio fondatore. Un rapporto vissuto nell'individuazione di elementi che si possono richiamare all'origine, al pensiero, agli scritti del fondatore stesso. Siamo cristiani, siamo Chiesa perché il nostro atteggiamento nei confronti dei problemi personali e dell'umanità è atteggiamento che si rifà ad una certa morale del Vangelo, ma non dovremmo forse essere cristiani e Chiesa nella misura in cui è «evangelica» la stessa nostra esistenza? Non dovremmo essere forse cri-stiani e Chiesa perché nella nostra vita scorre sempre nuova la vita di Cristo?
Se come cristiani e come Chiesa non siamo capaci di vivere questa «novità», non riusciamo cioè ad essere «profezia» del Regno di Dio che è già in mezzo a noi, allora cosa conta ammantarci di sensibilità sociali, di angoscia per l'ingiustizia, di sofferenza per la sopraffazione? Se è sufficiente il pericolo che ci possano danneggiare o possano usare violenza contro di noi per andare d'accordo anche col diavolo, se occorre, che sbandieriamo a fare certe affermazioni, certe dichiarazioni di fedeltà al Vangelo, certe promesse quasi che si volesse legare davvero il nostro destino a quello dei poveri e dei perseguitati? Se basta che ci colpiscano nei nostri interessi personali per far macchina indietro che pretendiamo? Di essere rispettati e stimati? Seguiti certo, ma con una certa convenienza, come chi appoggia il proprio tornaconto personale a quello di un altro fino a farne interesse di gruppo, di massa. Giusto come nei partiti dove la purezza e l'ideale dell'origine sono polverose come i ritratti degli uomini che per quelle idee pagarono di persona, eppure creano l'illusione di una serietà di propositi.
Sarò spietato, ingiusto, cattivo, ma non riesco a farmi crescere nel cuore la fiducia che lo spirito ecclesiastico (con tutto quello che di deteriore esprime il termine) sia vinto. Nel cardinale come nel prete, e potrei benissimo essere io stesso, che si mette a lavorare. I problemi personali torna-no a galla e allora davanti a Cristo siamo come Pietro: non l'abbiamo mai conosciuto. Sono secoli che è così, perché ora dovrebbe essere diverso? E' un inverno di generazioni, può forse una rondine far primavera?
Che la gente sia a guardare, scettica in cuor suo, è normale, non può sorprendere. Che i poveri soprattutto non se lo filino per niente questo discorso nuovo della Chiesa se non per quanto può venir loro di interessamento e di convenienza, anche questo è normale. Sono anni che lo stiamo sperimentando e sappiamo quanto ogni infedeltà quasi distrugga la fedeltà di altri. C'è un abisso che non si colma con le parole, neppure con la carità, neppure con il gesto che nel cristiano odora ancora troppo di elemosina, nel prete di proselitismo, nel vescovo di politica.
Me ne rendo benissimo conto perché anch'io sono prete. Ci vuole vita vissuta nella luce stessa di Cristo cercato fino all'inverosimile perché: la sua vita sia visibile le sue parole possano essere sangue e carne da toccare con mano. Ci vuole questa fedeltà nella misura delle generazioni, perché sia chiaro I'affidarsi. unicamente a Dio e confidare solo nella sua potenza.
Ecco, la Chiesa finché gode di potenza propria, potrà sbracciarsi e grida e contro il ricco e il potente: non sarà creduta, non saremo creduti. Lupo non mangia lupo. Fino a quando la Chiesa non sarà «agnello» che le zanne del lupo possono sbranare.
don Luigi
Non mi posso dimenticare del dramma abbattutosi sul popolo del Cile. Quella striscia di terra chiusa fra le Ande e il mare è rimasta a pesarmi sul cuore con il carico tremendo di ingiustizie, sopraffazioni, violenze che in pochi giorni hanno spazzato via tutta una ricerca di novità sociale, di rapporti umani diversi da quelli costruiti soltanto sull'interesse economico. E tutto questo per mano di quella macchina oppressiva che è l'esercito, l'apparato militare, gli uomini delle stellette e dei gradi. Macchina succhia-sangue, in tutto l'arco di una storia umana sempre oppressa dalle guerre, lacerata e distrutta su tutti i lembi di terra in cui gli uomini sono stati spinti a scontrarsi e a scannarsi come lupi feroci. Perché così è sempre stato comandato e insegnato.
Ed è qui che la storia amara del Cile di questi mesi mi ha riproposto in tutta la sua cruda chiarezza un problema che ormai da parecchio tempo ci assilla e ci tormenta. E questo proprio in relazione alla presenza della Chiesa nel mondo, nello spazio che le è stato affidato perché divenga sempre più terra riscattata dall'egoismo e fecondata solo dall'amore. Presenza piena di luci e di ombre, di verità e di menzogna, di amore e di tradimenti senza fine.
Ho letto con attenzione tutto quello che ho potuto trovare sul Cile sulla stampa quotidiana. Mi sono riletto con calma, anche se con angoscia sempre crescente, quello che «Avvenire» ha pubblicato; le interviste con il card. Henriquez, le altre notizie.
Mi sembra di aver chiaro il quadro di una situazione estremamente decisiva per una autenticità - o meno - della testimonianza cristiana, della proclamazione dei valori del Vangelo. E poiché, come dice il card. Henriquez, «ci sono dei momenti nella vita della Chiesa in cui i fatti valgono più delle parole» ho cercato di individuare nella vicenda cilena quei fatti che sono una prova schiacciante della nostra infedeltà a Cristo. Di noi, Chiesa di Gesù, che per non esserci ancora sbarazzati dei legami con i potenti, i capi, i politici, e soprattutto i militari, ci troviamo ad essere compromessi - anche contro la nostra volontà - con gli assassini di un popolo.
C'è un fatto indiscutibile: in una chiesa di Santiago, il 18 settembre scorso - una settimana dopo il colpo di stato - il card. Silva Henriquez ha pregato per il bene del popolo cileno alla presenza della giunta militare (ai cui esponenti «evitò di stringere la mano»).
Quella preghiera avvenne cioè alla presenza di coloro che avevano ordinato e diretto l'assassinio di centinaia di uomini e che così hanno continuato a fare dopo quell'atto di fede religiosa. Poiché sembra che i generali promotori del golpe siano «cattolici»: quale sia il loro dio essi lo hanno dimostrato sulle canne dei fucili e con gli obici dei loro carri armati. Ma la loro presenza al-l'atto ecumenico di preghiera - insieme a certe affermazioni fatte durante l'omelia dal cardinale - ri-mane a segnare tragicamente un atteggiamento che ha poi comportato il conseguente modo di agire. Sono i primi passi che decidono ad ogni scelta di strada: quella preghiera profanata dalla presenza dei capi di un esercito assassino del proprio popolo, con la piazza circondata dai carri armati, è un grido d'accusa che lacera il corpo della comunità' cristiana e mette a nudo le sue ferite. Ferite che non testimoniano in questo caso la fede e l'amore al Cristo Signore. A Lui, ucciso sulla croce dai soldati romani, arrestato dai soldati di Erode, condannato dai sommi sacerdoti ebrei per mano di Pilato.
Tutto questo è indicativo di un dramma che attraversa tutta la storia della Chiesa, degli uomini chiamati a testimoniare il Cristo risorto, dopo la notte desolata della sua morte in croce. Uomini spesso capaci di grandi impegno verso i fratelli poveri e oppressi (come lo stesso card. Henriquez); ma incapaci purtroppo - come in questo caso - di compiere quell'unico passo dopo il quale ogni parola, ogni gesto avrebbe un valore e un senso completamente diverso.
Cosa sarebbe avvenuto se il cardinale di Santiago, il 18 settembre, avesse detto che i generali assassini, i soldati che si erano macchiati del sangue dei fratelli, tutti coloro che avevano calpestato l'amore schiacciando nel sangue una democrazia, doveva no uscire dalla chiesa perché Dio non può essere invocato da chi ha le mani grondanti di sangue fraterno? Che la Chiesa di Gesù non va d'accordo con nessun Erode o Pilato, anche se si chiamano Pinochet, Palacios o in qualunque altro modo.
E' facile immaginare che ci sarebbe stata una storia molto diversa da quella penosissima a cui abbiamo dovuto assistere, con l'anima piena di vergogna e di tante amarezze.
Questo fatto sta all'inizio del comportamento di un vescovo che nella sua vita, nelle sue scelte deve significare l'autenticità più limpida dell'impegno evangelico nella storia della Chiesa e dell'umanità. Certamente esso nasce da motivazioni nobili e buone se guardate però alla luce della saggezza dei prudenti. Ma contiene - a mio parere - una insidia tremenda, dalla quale sarebbe giunto il tempo di liberarci.
Avvenimenti grossi come quelli del Cile avrebbero dovuto realmente essere capaci di far maturare una «conversione di cuore» - sul piano della concretezza storica - che poteva essere un segno vivo e efficace della potenza della Resurrezione di Cristo.
Certamente nel segreto di questi giorni di oppressione poliziesca, di torture, di fucilazioni e incarcerazioni, tanti cristiani cileni hanno pagato con i fatti il loro amore ai fratelli e a Dio. In loro - e solo in loro - la Chiesa è portatrice del seme della vita nuova che il sangue e l'ingiustizia non possono affogare.
Che la conversione non ci sia stata ne è prova il viaggio del card. Henriquez a Roma, in Vaticano, a spiegare la situazione. Ci sono parole da sole bastano a ghiacciare il cuore, cose che vescovo cristiano non dovrebbe mai lasciarsi sfuggire. Eppure così egli ha detto, prima di ripartire, riguardo ai rapporti con la giunta militare cilena: «Sono buoni, come i rapporti che ho con tutti i governi e con tutte le giunte del mondo». (Avvenire, del 6-11-73).
I generali cileni possono essere riconoscenti al loro cardinale per queste parole. Esse, da sole, costituiscono un buon servizio verso una pacificazione che se è necessaria e doverosa per i cardinali (perché anche ai nemici e ai persecutori va il loro amore), non può mai essere comprata a prezzo della verità. Perché la pace per essere autentica deve nascere dalla verità, da quella che sgorga limpida dal mistero di Dio nella storia; altrimenti è una pace marcia, fondata sul sangue e sull'ingiustizia. Come appunto è la pace cilena, quella offerta dai militari a prezzo migliaia di morti. E la Chiesa, nella persona del vescovo di Santiago, si è trovata a sostenere quella pace che non può essere quella di Cristo e del suo Vangelo di pace.
L'insidia nascosta in questo tipo di pace è tutta nel mascheramento di quella verità che nei fatti del Cile emerge in modo violento: l'esercito, la struttura e l'organizzazione militare è semplicemente da maledirsi, da respingere in forza della fede.
Per chi vuol lavorare ad un mondo fraterno perché fatto di uguali figli di Dio, deve essere chiaro che il potere militare è il segno massimo del peccato, che è divisione, rinnegamento della vita dell'amore. Perché il potere militare è solo per disperazione e per la morte. Perché l'immagine dell'uomo che più non somiglia al suo Creatore, al Padre suo, è l'uomo armato, l'uomo ricoperto dei segni della distruzione, mascherato di crudeltà fatta ragione e ordine, divenuto belva assetata del sangue dei suoi fratelli. Quest'uomo non può essere che maledetto: perché sentendosi chiamare «razza di vipere» «sepolcro imbiancato», «omicida» (e son tutte parole del Vangelo) possa ricordarsi di avere un cuore di carne e salvarsi.
Questa era la verità di cui avevamo bisogno, che volevamo sentire urlare ai quattro venti, gettare in faccia ai potenti, ai forti, a coloro che pretendono di salvare la propria patria con un bagno di sangue. Come uno di loro ha affermato: "La nostra guerra è contro il marxismo. La presa del potere era necessaria perché si era formato in Cile un cancro che doveva essere estirpato più in fretta possibile. Il dilemma era se essi avrebbero distrutto noi, o noi avremmo distrutto loro. Abbiamo scelto la seconda soluzione". (gen. Palacios). E' con gente di questo tipo che il card. Henriquez dice di aver buoni rapporti!
E' stato sostenuto che in Cile si stava preparar do un colpo di stato di sinistra. Cioè una lotta violenta, sanguinosa, per realizzare una società socialista. Un bagno di sangue tra fratelli, un assassinio in nome di un mondo migliore, più giusto. Penso che questo è falso. Ma se veramente ci fosse stato un colpo di stato guidato da Allende con dei bravi generali di sinistra (!), mi viene da credere che il card. Henriquez avrebbe detto ben altre parole. O forse avrebbe detto esattamente le stesse - dandosi da fare per salvare i vinti - in nome di quelle saggezza e prudenza che egli ha dimostrato. E questo è semplicemente terribile: perché vuol dire che il nostro cuore di «uomini di Chiesa» è duro come quello del Faraone di fronte alle piaghe d'Egitto. Siamo una generazione malvagia e adulta che non sa riconoscere i segni del tempo di Dio, il suo passo forte che ci chiama a prendere sul serio la sua Parola. A dire in faccia a chiunque veste una divisa, i gradi, le medaglie e guida degli uomini ad uccidere altri uomini: Tu sei un assassino.
Il dramma del popolo cileno ci riguarda: come uomini che vogliono aver fame e sete di giustizia, di verità, come cristiani coinvolti nelle scelte concrete della Chiesa in Cile.
Anche nei nostri cuori passa la frontiera di quella guerra fratricida e siamo necessariamente costretti a scegliere gli oppressi o gli oppressori.
E' a questo proposito che mi hanno impressionato alcuni punti della dichiarazione del card. Henriquez prima di partire da Roma. Li trascrivo perché ognuno di noi ne inorridisca, se ne angosci, si lasci turbare profondamente. Si senta in colpa, come parte di una Chiesa che va incontro al Natale senza raddrizzare le vie storte, spianare le montagne di tutti i compromessi col potere delle tenebre. «Abbiamo fiducia nel patriottismo e nel disinteresse espresso da coloro che hanno assunto il difficile compito di restaurare l'ordine istituzionale e la vita economica del paese tanto gravemente alterati; chiediamo ai cileni che, date le attuali circostanze, cooperino per raggiungere questo obbiettivo. E soprattutto con umiltà e con fervore, chiediamo a Dio che li aiuti». «Il buon senso e il patriottismo dei cileni uniti alla tradizione democratica e alla sensibilità delle nostre forze armate permetteranno che il Cile possa tornare molto presto ala normalità istituzionale, come lo hanno promesso gli stessi membri della giunta di governo, e possa il Cile riprendere il suo cammino di progresso nella pace.. Come Cardinale, a nome della Chiesa, ho offerto al nuovo governo del Cile la stessa collaborazione che la Chiesa aveva dato, in tutte le opere del bene comune, al governo marxista del signor Allende. Nello stesso tempo, cosa che le autorità hanno accettato, ho esigito la stessa libertà di azione di cui la Chiesa godeva nel governo precedente»; (Avvenire del 6 novembre 1973).
I fatti, nella loro cruda e opprimente realtà, contraddicono totalmente queste parole, che potevano essere comprensibili e giustificabili in bocca di qualche politico sempre pronto a vendersi al padrone del momento, ma non in quella di un vescovo. Anche se esse spiegano in modo quasi crudele tutto uno stile ecclesiastico che rivela la mancanza assoluta di «viscere di misericordia», di senso di paternità cristiana, di carne e sangue che si sente ferita a morte quando la spada dell'ingiustizia strappa la carne viva del proprio popolo. Rachele - per usare una immagine dei profeti - sembra consolarsi presto dei figli uccisi, anche se lo fa per preoccuparsi verso quelli vivi.
Se prendere posizione, parlare di fronte ai drammi dell'umanità vuol dire questo, allora non si può desiderare altro che il silenzio.
don Beppe
Chissà perché (ma l'interrogativo è molto retorico perché in fondo sappiamo bene le motivazioni) ai tempi gloriosi delle crociate del dopoguerra, degli anni '50 e seguenti, la Chiesa prese posizioni durissimi, spietate, verrebbe da dire orgogliose da quanto dimostravano sicurezza ed entusiasmo, nei confronti del marxismo, del comunismo e alleanze varie del tempo, sia su piano dottrinale che pastorale. Ne vennero tempi di lotta in cui l'essere cristiani comportava una militanza organizzata ed agguerrita, una grande armata contro il grande nemico, barricate rizzate sulle piazze e fino nelle case a dividere, in maniere irriducibili, cittadini e compaesani, famiglie, padri e figli, mariti e mogli.
In questa crociata i cristiani, compresi allora i giovani in schiere balde e compatte, trovavano una respirazione affannosa ma piena di fede, una esaltazione un tantino fanatica ma nel frattempo ricca di ideali e di convinzioni.
La scelta cristiana aveva un significato concreto, comportava fedeltà organizzative, esprimeva scelte coraggiose. Certi climi eroici, capaci di coprire vuoti e carenze spiacevoli, fanno sempre presa ed effetto. Tanto più per il fatto che in quei tempi di cristianità gloriosa e crociata, il mondo era paese, la parrocchia o poco di più, e il nemico da combattere ben individuavo e a portata di mano, o se non altro, di manifesti, di volantini, di comizi e anticomizi all'obbedienza di comandanti fatti di onorevoli, di vescovi, di parroci, di ottimi e gloriosi cattolici.
Bei tempi, sinceramente. Vien voglia di essere dei nostalgici, a pensare al confusionismo nel quale ci troviamo in questi nostri tempi di dissoluzione di ogni valore più sacro e santo...
Però mi viene da domandarmi perché la Chiesa non ha continuato in queste chiare e coraggiose prese di posizione, anche se ovviamente allargandole, per il mutar dei tempi a dimensioni totali di umanità. nei confronti di fatti, di avvenimenti, di dottrine (perché sempre anche di dottrine si tratta a determinazione e a sostegno di tutto quello che succede nel mondo e sono tante le dottrine che giustificano tanti orrori del nostro mondo accidentale non seriamente condannate e combattute del Magistero e dalla Pastorale della Chiesa).
Chissà perché la Chiesa (è sempre domanda retorica...) ha continuato nelle sue posizioni antimarxiste (anche se raddolcite dalla diplomazia vaticana nei confronti dei regimi comunisti e anche dei partiti comunisti) mantenute chiare se non altro dai settimanali diocesani, pur sapendo che si rif1ettono sui rapporti non tanto con i paesi cattolici dell'est, quanto piuttosto sulla classe operaia occidentale, sul terzo mondo, sull'America latina, ecc. in ricerca appassionata di liberazione dalle violenze del capitalismo. Tanto più che queste posizioni di lotta riescono soltanto a presentare ancora una Chiesa alleata del capitalismo e non invece. al suo giusto posto e cioè a lottare con i poveri, gli sfruttati, gli emarginati, gli oppressi del mondo intero.
Anche questa lotta (in definitiva l'unica vera perché perfettamente in linea con la missione della Chiesa continuità del Mistero di Cristo crocifisso e risorto nel mondo, nel cuore della storia) questa lotta la Chiesa dovrebbe combattere in questo mondo occidentale, richiamando la coscienza cristiana ad uscire da un imborghesimento egoistico, mobilitare la massa dei fedeli ad una profonda sensibilizzazione cristiana davanti al problemi che travagliano il mondo e prendere posizione chiara e netta, inequivocabile, alla sfruttamento, alla nuova schiavitù fatta di un incatenamento a base di do!lari, di potenza militare, di egoismi sociali, di egemonie spietate.
Perché non è vero che è difficile sapere per il cristiano che vuole saperlo e tanto più per la Chiesa se ha occhi per vedere e orecchi per intendere, sapere da che parte stare negli avvenimenti che travagliano il mondo, qual'è il suo posto nella vicenda della storia e nella realtà del vivere umano.
E' disonesto non riconoscere che attualmente nell'equivoco in cui la Chiesa tira avanti affannosamente la sua presenza nel mondo, il disagio e quindi l'inevitabilità di crisi, nella coscienza cristiana, onestamente in ricerca di autenticità, è al di là di ogni limite di sopportazione.
La storia, e cioè lo svolgersi di avvenimenti, è tale che esige, richiede necessariamente un rivedere tutta l'impostazione della Chiesa nei suoi rapporti col nostro mondo occidentale, spazzando via il rapporto diplomatico, liberandosi da collusioni con i poteri imperanti, superando i concordati per riprendere una totale libertà di giudizio e di scelta delle sue posizioni, per mettersi finalmente là dove Gesù Cristo le ha assegnato il suo posto, dalla parte dei poveri, degli oppressi, degli sfruttati, di chi è nulla e è sempre mangiato da tutti e si tratta di popoli e continenti e razze.
Se la Chiesa è maestra, come lo è, deve insegnare al cristiano, al popolo cristiano, alla cristianità, qual'è il posto e da quale parte stare chi ha fatto la scelta cristiana per il proprio rapporto col mondo.
Deve chiamare il cristiano e la cristianità ad occupare quel posto, a lottare da quella parte, perché quel posto non rimanga vuoto e abbandonata a se stessa quella parte, come inevitabilmente succede s'e la Chiesa tradisce i poveri, gli sfruttati, il povero popolo, per bilanciarsi a forza di equilibrismi diplomatici, di mezze parole subito rimaneggiate, di accenni di chiarezza da parte della suprema voce della Chiesa, immediatamente intorbidate dalle chiese locali, svanite nella nebbia diplomatica degli alti livelli.
Chiediamo troppo a chiedere chiarezza, evidenza di una scelta, presa di posizione inequivocabile, schieramento serio e responsabile a qualsiasi livello dalla parte dei poveri serio e responsabile a qualsiasi livello dalla parte dei poveri fino al punto che la gente, il povero popolo, chi lotta per il pane, la libertà, il diritto ad essere uomini e popolo, sentano e si ritrovino «la Chiesa cattolica, apostolica, romana quale Cristo la volle», dalla loro parte?
Per amor di chiarezza azzardiamo fare qualche esemplificazione, così alla buona, come i problemi vengono sofferti dalla povera gente, dal povero cristiano sprovveduto delle misteriose ragioni diplomatiche e dei giochi prestigiosi della politica, ma cristiano ansioso di ritrovarsi, chiara e limpida immagine e realtà di Cristo, la sua Chiesa nel mondo, argomento della sua Fede, indicazione sicura per il suo essere uomo fra gli altri uomini: e di questi cristiani è fatta la Chiesa, non dai nunzi apostolici e dai cardinali,
- Quando i carri armati russi schiacciarono la rivoluzione ungherese e rinchiusero un cardinale «nella prigione» dell'ambasciata americana, avvenne il finimondo nel mondo cattolico. E giustamente,
Domanda: perché durante la guerra del Vietnam non è avvenuto altrettanto? Anche qui, oltre agli americani e ai loro intrighi politici ed economici e oltre la Russia e ai suoi labirinti ideologici, c'era un popolo martoriato nel Nord e nel Sud, strangolato da una corda tirata da due parti, incenerito da bombardamenti spaventosi, dilaniato da crudeltà senza limiti. Gli interessamenti diplomatici venuti alla luce qualche mese fa hanno fatto semplicemente pena, insieme agli accenti accorati sospirati da una finestra, durante le fasi più acute e sgomentanti di quella guerra.
Il mondo cattolico, cristiano, non è stato chiamato a lottare contro quella guerra orrenda e a prendere il suo posto accanto a quel popolo martirizzato.
Vi sono ancora oltre 200.000 prigionieri politici a marcire nelle prigioni del Sud Vietnam e la Chiesa? Certo è che se la Chiesa è il vescovo di Saigon non rimane che disperarsi. L'equivoco è semplicemente spaventoso.
- Quando fu ibernata la primavera della Cecoslovacchia, la Chiesa fu percorsa da un brivido di orrore e quel povero popolo schiacciato dai carri armati russi che appena aveva cominciato a sognare un po' di libertà, suscitò sdegno, manifestazioni, preghiere pubbliche, stampa cattolica a fiumi, ecc. E giustamente.
Domanda: (è fatto recente, e quindi facilmente controllabile) quando è successo il golpe militare nel Cile cos'è avvenuto di risentimento, di condanna, di presa di posizione, a favore di quel disgraziato popolo che si .è vista a:ffogare, nel sangue dei suoi figli, un sogno di primavera?
A parte la solita finestra, la Chiesa non è stata agitata e sgomentata dall'orrore, dall'indignazione, non si è messa dalla parte di quel povero popolo gettato sul ciglio della strada che da Gerusalemme conduce a Gerico. E se anche qui la Chiesa è il cardinale di Santiago, non rimane che aggrapparsi disperatamente alla misericordia di Dio. E l'equivoco diventa sempre più impossibile a sopportarsi.
- E' scoppiata la guerra arabo-israeliana con tutto quello che quell'orrore di guerra ha significato. E' venuta allo scoperto la violenza delle due superpotenze, il sionismo più sfrontato e il fanatismo arabo più assurdo. Tutti in maniera miserabile hanno giocato e giocano sulla pelle di un povero, disgraziatissimo popolo, quello palestinese, vittima di tutti, crocifisso a quattro chiodi.
Domanda: perché la Chiesa non si assume la sorte di questo popolo e non si mette totalmente dalla sua parte, proprio perché su un piano politico, economico, diplomatico, ecc. è il popolo più derelitto, abbandonato, sfruttato da tutti?
Difendere un popolo, e affermarne i diritti all'esistenza, è molto più secondo la missione della chiesa che preoccuparsi della salvaguardia dei luoghi santi! Equivoco anche qui pazzesco fra cristianesimo e devozionalismo.
E si potrebbe continuare col Brasile, tutta l'America latina, con le colonie portoghesi, il sud Africa, il Burundi, la Spagna, la Grecia, ma sì, senza dubbio, l'Albania. la Cecoslovacchia, l'Ungheria, la Polonia, la Russia, la Cina, gli intellettuali sovietici. i torturati del Brasile, i fucilati del Cile, i carcerati in Spagna.. e tutte le situazioni di disumanità che rendono orribile questo mondo, e incivile fino all'assurdo questo nostro tempo.
Per la Chiesa, per la cristianità, per il cristiano c'è un posto rimasto libero e a disposizione, in questa umanità ammassata fino allo spasimo per occupare i posti vantaggiosi capaci di promettere privilegi: questo posto, del resto così scopertamente occupato da Gesù Cristo e così chiaramente indicato dalla sua Parola, è il posto della Chiesa nel mondo, quello dei poveri, degli sfruttati, degli oppressi, di chi è considerato soltanto per guadagno, di chi fa le spese di tutti e porta su di sé la maledizione del mondo e è il crocifisso .dell'umanità; è qui che la Chiesa deve chiamare Dio a rendere presente il Cristo e radunare la Fede del popolo a celebrare le liturgie dell'Amore, della speranza, della liberazione, del Regno di Dio.
E 'la via lungo la quale tornerà la Fede a dare alla Chiesa un volto ben delineato, inconfondibile, la Parola viva e attuale, la presenza del pugno di lievito, della luce a illuminare il mondo. Tanto più che una impostazione dottrinale e pastorale su questa nuova linea, della Chiesa gerarchia e a livelli di umanità e a misure mondiali, quindi autenticamente cattolica, si rifletterebbe sulle chiese nazionali e locali, in un impegno nuovo, appassionato di ogni cristiano e di ogni cristianità, risvegliando quella Fede smarrita e disorientata, riaccendendo la gioia e la gloria di sentirsi cristiano e anche cattolico.
La coscienza di occupare un posto e di essere chiaramente da una parte, quella che si addice al cristiano e al cristiano soltanto, in nome di Dio e di Cristo.
* * *
Cerco di seguire i passi di Cristo e mi accorgo che, col suo carico di condannato a morte, mi conduce anche oggi «fuori» dalle mura dove meno pensiamo di incontrarlo, dove spesso lo ignoriamo, dove a volte diciamo che non c'è. I suoi passi mi conducono oggi fuori dalla Chiesa del nostro paese, per le strade del mondo, fuori dalle nostre mura che abbiamo fatto ben solide per non accorgerci di ciò che ci dà troppo fastidio, dal quale ci potremmo ritrarre con un gesto di ripugnanza e di paura.
Le sue tracce di sangue mi portano là dove ancora oggi è processato e dichiarato colpevole senza aver fatto nulla di male, ma per aver aspirato a una liberazione dei suoi amici, dov'è condannato per aver fatto del bene, per voler essere rispettato. Ancora oggi lo incontriamo in un tribunale che condanna i poveri perché vogliono essere uomini liberi, uguali a tutti. Ancora oggi siede sul banco degli imputati assieme a troppa gente che non chiede al mondo nient'altro che essere uomini, uomini veri, con un rispetto, una dignità, una libertà, una eguaglianza che è loro negata.
Anche nel 1973 lo incontro in un condannato innocente, e ancora oggi il mondo non si scandalizza di questa sua condanna, la condanna a essere povero, ad avere i piedi di altri sul capo, a essere sputato in faccia a vedersi negata una giustizia che non è fatta per lui e per tutti quelli come lui.
Fuori dal tribunale lo incontro ancora per le strade del mondo, basta che mi guardi attorno per incontrarlo pesto di botte, malandato, col suo carico pesante che porta da duemila anni. E' il povero che soffre, che è calpestato, che non parla, che subisce. E' l'operaio disumanizzato dal suo lavoro che lo nobilita solamente perché lo fa essere un altro Cristo in cammino verso il posto dei condannati a morte. Da qualsiasi parte mi giro lo incontro quel volto, sempre uguale, sempre il volto di Cristo. E ha sempre in spalla una croce, sempre uguale, sempre pesante, anche se cambia nome: sfruttamento, affitto, sfratto, fame, alienazione, persecuzione, licenziamento, malattia, denuncia, debolezza, ignoranza, ingiustizia.
Per questo Cristo tutto l'anno è Venerdì santo, ogni giorno, quel peso se lo porta sempre dietro. Duemila anni fa è arrivata anche la Pasqua, è arrivata la liberazione. Ma per il Cristo che mi gira attorno, col suo carico che mi dà fastidio, quel giorno benedetto di Pasqua non è ancora arrivato; forse è nata la speranza di quella liberazione, ma il suo venerdì santo per ora continua. E questo non mi dà pace, mi dà fastidio, perché soprattutto mi chiama in causa.
Oliviero
Solo colui che ha fiducia nei poveri ha veramente fiducia in Dio: nel Dio che ha deposto dal trono i potenti e ha esaltato gli umili.
Solo colui che ha fiducia nei poveri comprende il vangelo, l'annuncio per loro; e su di loro.
Il vangelo è essenzialmente una grande notizia: Dio confida nel povero, anzi Dio preferisce il povero. Viceversa, è estremamente difficile che un ricco sappia amare, e quindi possa salvarsi.
E' questo il paradosso cristiano. L'incarnazione non è solo il mistero di Dio fatto uomo, è il mistero di Dio fatto povero. Dio non ha assunto la natura umana in genere, ma ha scelto la condizione di povero: paese povero; villaggio povero, famiglia povera. Cristo si è rivolto a tutti però ha scelto fra i poveri la maggior parte dei suoi apostoli e dei suoi discepoli. Sono essi che lo hanno maggiormente compreso. Sono essi che continuano a comprendere maggiormente la parola di Colui che ha nascosto le cose ai saggi e ai prudenti e le ha rivelate agli umili.
Avere fiducia nei poveri è sapere che il giudizio definitivo sulla nostra vita si fonderà, unicamente, sull'amore effettivo per loro. Che il valore di una vita è il valore dell'impegno per loro. Che la scelta di Dio coincide concretamente con la scelta dei poveri. Che la fedeltà ai poveri è la misura della fedeltà a Dio e a Cristo. Che in questo si riassumono la legge e i profeti.
Scegliere i poveri è, per un cristiano, denunciare il peccato storico della chiesa, che è la sua alleanza con i ricchi e i potenti, il suo appoggio obiettivo, certo non intenzionale, allo sfruttamento dei popoli poveri e delle classi popolari; il peccato di aver privato il mondo di quel segno essenziale della fiducia in Dio, che è la fiducia nei poveri; il peccato di aver separato il culto del Padre e la lotta dei figli, il sangue di Cristo e il sangue degli altri oppressi; il peccato di continuare ad aspettare la trasformazione del mondo in primo luogo dall'azione dei potenti.
Scegliere i poveri è, per un cristiano, proclamare che oggi la chiesa ha un'occasione unica per convertirsi, riconoscendo il suo peccato e riparandolo con un impegno senza equivoci al fianco degli sfruttati di tutto il mondo. Perché la chiesa non può denunciare il peccato del mondo se non riconosce re sue complicità storiche con esso. Essa non ha il diritto di annunciare il vangelo ai poveri finché non torni a brillare sul suo volto il segno della verità che è la preferenza per i poveri.
La chiesa non costruisce l'unità che Cristo ha voluto, se non prende come criterio essenziale quello che Cristo ha fissato, la fedeltà ai più piccoli. L'eucarestia non è il segno efficace della presenza reale e della sua vera unità se non fa corpo con il segno più fondamentale, l'amore dei poveri. Nessuno può celebrare validamente l'Eucarestia, se non esprime con tutta la sua vita la scelta indivisibile di Cristo e dei poveri.
La fiducia è combattiva. Essa deve lottare contro le apparenze, contro le evidenze, contro le ideologie, contro la saggezza, contro lo scetticismo, contro la rassegnazione, contro il realismo di coloro che vogliono ridurre le possibilità del futuro alle dimensioni del passato. La fiducia deve lottare contro coloro stessi ai quali essa si rivolge, che, schiacciati dall'oppressione e dalla sofferenza. tendono a rassegnarsi. La fiducia deve lottare contro la disperazione che minaccia tutti quelli che guardano, con lucidità, l'immensità del compito che è la costruzione di un mondo.
La fiducia è rivelatrice. Permette di scoprire negli uomini e in Dio ricchezze segrete che senza di essa non sarebbero mai conosciute. Permette di scoprire nel passato e nel presente le possibilità nascoste del futuro.
Giulio Girardi
(da Rocca n. 14 - 1973)
Luigi Sonnenfeld
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