Ci ritroviamo ai giorni di Pasqua e quindi davanti al Mistero che ha investito l'umanità con una morte e una resurrezione - quella di Gesù Cristo -, non certamente risolvibile e spiegabile in un facile atto di Fede, in azioni liturgiche, in celebrazioni puramente memoriali, ecc.
Sono due fatti che sicuramente vogliono incidere nella storia e in tutta la realtà della vita - dall'individuo, chiunque sia, all'umanità intera - una presenza violentemente. attiva, producente, misurabile sulle misure di valore di chi questi fatti compie, Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo.
Perché questa è la Fede cristiana - e c'è da aver paura ad affrontare le affermazioni, paura della enormità del suo significato e paura per il dover constatare che forse nemmeno un'ombra ne abbiamo, di questa Fede - questa è la Fede cristiana,che Dio nella sua realtà di Uomo è morto sopra una croce e che questo morto - Dio e Uomo - è risuscitato e vive.
Con tutto il rispetto dei dogmi, affermazioni di uomini, sia pure guidati dallo Spirito di Dio, per precisare e chiudere in formulazioni di parole il rapporto di Amore che unisce essenzialmente, e cioè anche nella vicenda umana, Dio all'umanità e l'umanità a Dio, non possiamo non lasciarci andare a considerazioni che ci nascono su dall'accoglienza di quelle sistemazioni dogmatiche, che però non possono rimanere lì in un formulario arido e imparaticcio,ma bisogna che risuonino a rispondenze armoniose, risplendano a illuminazioni di piena luce, nella realtà spesso tanto rabbuiata e stanca del cuore e nella concretezza così amara e tanto deludente, fino alla sfiducia, della storia degli uomini, dell'umanità.
Non è voler essere dei teologi, non è per sostituirsi al Magistero, tanto meno voglia di cercare evangelizzazioni nuove... è semplicemente tentare di conservare l'anima aperta, il cuore fiducioso e riaccendere la Speranza alla luce della Fede per rianimare e confortare il coraggio dell'Amore.
E tutto questo per sé e per gli altri, come accendere una luce, offrire un bicchiere d'acqua, una stretta di mano.
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Ci viene da riflettere, in questi giorni, forse a seguito di un filo di discorso interiore ed espresso anche all'esterno in tutti i modi e le occasioni che ci sono capitate, ormai da molto tempo - ci viene da riflettere con particolare chiarezza, almeno interiormente, che la morte e l'a resurrezione di Cristo sono una tremenda, impressionante, sconvolgente realtà di lotta.
Una lotta - e che la sua motivazione e intenzionalità siano unicamente e infinitamente Amore, come la sua realizzazione, è verità come verità è che Dio è Amore - una lotta che Dio nel suo farsi Uomo è venuto a combattere fra gli uomini dal suo nascere, lungo tutto il suo vivere, e quindi, e tanto più, con il suo morire e la sua resurrezione.
Si è preso su di sé il peccato, e cioè tutta la realtà dell'uomo diversificatasi dal Pensiero e dalla Volontà di Dio, si è fatto questo peccato e la morte di Cristo in croce vuole essere e è la morte del peccato; la conclusione, la fine, la consumazione finale di tutta una storia, la storia della disumanità, dell'uomo contro l'uomo, dell'umanità contro Dio.
La resurrezione è l'inizio di un'esistenza nuova, una realtà completamente diversa, una umanità al principio di una storia, l'uomo posto in condizione di partenza, rivolto al divenire, con prospettive e possibilità assolutamente nuove.
Gesù è questa lotta adorabile contro una umanità che deve morire e realmente muore con la sua morte.
Gesù è questa lotta adorabile per una nuova realtà, che realmente inizia la sua storia con la sua resurrezione.
Viene sempre in mente, e mai è pienamente chiarito e risolto, il perché della morte di Cristo. Perché Dio fatto Uomo, Gesù Cristo, fu il compimento della Volontà del Padre - Padre di Lui e Padre di tutti - e quindi a motivo di un Amore che per il suo essere Amore di Dio obbedisce alla necessità della non misura, perché sia dovuto morire e morire di morte violenta e di sopraffazione assoluta come la morte di croce.
Le motivazioni sono tante, quelle ricercate dal'la indagine teologica, esegetica, dalle intuizioni della Fede, dalla visione mistica, lungo la storia di Fede e di Amore a Cristo e al suo Mistero.
Questa riflessione sulla morte di croce di Gesù Cristo come un fatto di lotta contro tutta una realtà umana. che in fondo non è che realtà disumana, ci impressiona profondamente.
Sta di fatto che il. farsi uomo di Dio comporta il suo entrare nella realtà, nella concretezza della vita così come l'esistenza umana è, dalla sua origine fino all'aggravarsi di disumanità, progressivamente al passare del tempo, al crescere dei secoli.
Come una fiumana che cresce e sempre più diventa inarrestabile, una marea che sale spietatamente e sta tutto traboccando.
E' strano come a leggere la storia non si abbia neppur minimamente il senso dell'orrore, qualcosa come di sgomento, di una fatalità assurda di male, assolutamente irrimediabile.
L'abbiamo studiata, la storia, e la leggiamo (quella che i libri ci ammanniscono) come il racconto di una normalità, come di un qualcosa che non può che essere che così. E difatti siamo molto più disposti a subirla, la storia, che a combatterla, ad acconsentirvi che a trascurarla.
Dio vi è entrato, nella nostra storia, non per lasciarsene portare rimanendovi passivo, non per subirla come una inevitabilità, non per consentirvi quasi allineandovisi.
. La pazienza è una virtù che Dio fatto Uomo non conosce. La misericordia e l'Amore sì, ma la pazienza, la rassegnazione, l'adattarsi, l'a passività, l'accettazione, no.
Dio è venuto fra gli uomini per lottare e lottare contro tutti nella ricerca, nel tentativo appassionato di forzare l'esistenza a fermare, a concludere un cammino, una strada e cominciarne un'altra, iniziare un nuovo destino.
Gesù Cristo sulla croce vuoi essere il chiudere una storia umana che è storia di disumanità. Dio muore su una croce per segnare i! limite estremo e quindi concludere una realtà d'esistenza che è tutta un orrore, grondante lacrime e sangue, fino all'ultima goccia.
In Lui, Dio venuto a vivere, a fare sua la realtà dell'uomo, l'ingiustizia è totale, la sopraffazione assoluta, la legalità un'assurdità, il tradimento, la solitudine, l'abbandono una logica, la cospirazione, l'unificarsi del nemico, l'odio implacabile, l'assassinio come unica soluzione: "compie veramente in Cristo, la spirale di disumanità che è la normalità della storia".
E viene in mente che tutta questa misura estrema di disumanità, questo riversarsi sopra di lui la sintesi della umanità non più umanità, Cristo l'abbia accettata con spirito e motivazione e violenza di lotta come per tentativo di concluderla, di esaurirla, di consumarla tutta e quindi di vincerla con la forza stessa di Dio, con le misure e le capacità infinite del suo Amore.
E' di qui la realtà di redenzione, di riscatto e cioè di liberazione: togliere via, assumendosela tutta, la disumanità della storia perché l'umanità si trovi liberata, umanità vera, fraternità, Amore, libertà...
La morte è sempre compimento, realizzazione suprema, conclusione, qualcosa che finisce.
In Cristo sulla croce non è la sua morte, la morte, ma la morte di tutta la disumanità, di tutta la vita che non è vita, dell'uomo che non è più l'uomo. E' la morte (così vorrebbe essere secondo il cuore di Dio) è la fine di una storia, la conclusione di una vicenda orrenda che ha reso la terra, terra di maledetti, l'esistenza una dannazione, vera realtà d'inferno.
.. «schiodò Gesù dal1a croce, l'avvolse in un lenzuolo e lo depose in un sepolcro scavato nella roccia, poi rotolò una pietra dinanzi all'entrata del sepolcro» (Mc. 15,46).
La disumanità è seppellita, come un corpo morto, come una storia conclusa.
Ogni orrore, ogni ingiustizia, tutta la violenza, la sopraffazione, l'odio omicida, la politica sporca e sfruttatrice, la religione oppressiva, la prepotenza militare, il potere della ricchezza, la legge del più forte, il sangue dalle vene spaccate, la morte-assassinio... e cioè il peccato: questa parola che dovrebbe sgomentare come il suo sinonimo: disumanità.
Da dopo quel seppellimento, quella pietra rotolatavi sopra è stata e è continuamente tolta: e è per una resurrezione, una vita nuova e una storia diversa o è per disseppellire ancora un cadavere e ricontinuare la morte di sempre.
Ogni uomo, ma specialmente ogni cristiano, e più ancora la Chiesa e tutta la storia, è giudicata dal rimuoversi di quella pietra: la constatazione amara e drammatica di ogni giorno, anche dei nostri giorni, fa pensare ad un disseppellimento di cadavere: e dovrebbe essere - anche perché è stato veramente e così dev'essere ogni giorno, per la resurrezione, cioè per esistenza nuova cornei! vivere nuovo di Cristo.
Portiamo come suprema responsabilità l'avere dato alla morte di Cristo di concludere una storia di morte e alla sua resurrezione l'iniziare una storia di vita. AI'la sua morte di segnare la fine della disumanità, alla sua resurrezione l'inizio e la realizzazione dell'umanità.
* * *
Pesano, come rimprovero bruciante, su tutti noi credenti nella resurrezione di Gesù, le parole dell'angelo alle donne andate al sepolcro la mattina di pasqua per imbalsamare il cadavere di Gesù:
«Perché cercate fra i morti colui che è vivo?».
«Non è qui, è risorto!» (Lc. 24, 5).
Con tutta la Fede di Chiesa di Cristo, di gente battezzata e credente e praticante, bisogna riconoscere che non crediamo nella Resurrezione. Nemmeno abbiamo accettato la morte-liberazione-redenzione di Cristo, se non soltanto nell'affidarci alla Croce. e agli infiniti meriti del Crocifisso, per scampare dall'inferno e meritarci il paradiso.
Ma nella morte di Cristo come liberazione dalla disumanità, nella croce come conclusione e consumazione di tutto l'egoismo, la sopraffazione, lo sfruttamento, la violenza, non ci crediamo.
E tanto meno crediamo nella Resurrezione come realtà di lotta che Cristo ha iniziato e di cui lui è la indicazione e la garanzia, per una umanità nuova e diversa, per, un mondo nuovo iniziato nella sua Resurrezione.
La Fede nella Resurrezione, chiara e limpida, vuoi dire non cercare Cristo fra i morti, dentro tutto quello che è morte perché disumanità, ricchezza, potere, sopraffazione e sfruttamento dell'uomo sull'uomo: "colui che è vivo" non è più possibile trovarlo fra i morti, dentro un sepolcro, è assurdo andarvelo a cercare "non è più qui!".
La Pasqua è indicazione esatta e sicurezza assoluta di dove Cristo assolutamente non è più: e ogni cristiano e la Chiesa deve sapere dove Cristo assolutamente non può essere.
La Pasqua è Fede chiara e allo scoperto, coraggiosa e forte, capace d'impegno esistenziale e storico, che Cristo è fra i vivi, è "colui che è vivo". E ogni cristiano e la Chiesa deve sapere che Cristo è nella vita, è nell'essere vivi, è nell'uomo che è vivo, è nella umanità vivente. E fino al punto da essere forza creativa di vita, realtà vitale e quindi energia liberante e costruente dell'uomo nuovo, dell'umanità diversa.
Sta il fatto che la morte di Cristo, figlio di Dio, intesa come conclusione di tutta la disumanità della umanità e la sua resurrezione accolta come instaurazione di una vita nuova, inizio di storia di umanità diversa, è il "progetto" di Dio sul quale continuamente dovrebbe verificarsi la Chiesa e ogni cristiano, perché è questo "progetto", pensiamo e crediamo, che è stato consegnato e affidato alla Chiesa e al Popolo di Dio per una attualizzazione storica, concreta, esistenziale, da poter rassomigliare sempre più al Regno dei Cieli sulla terra.
La Redazione
10 - "I custodi del sabato..."
«Perché fate ciò che non è permesso in giorno di sabato?». Così un gruppo di persone tra cui dei Farisei, si rivolge a Gesù e ai suoi discepoli che stanno cogliendo spighe in un campo di grano e le sfregano nelle mani. per smangiucchiare qualche chicco.
L'esempio non poteva essere più lampante ad indicate una situazione divenuta assurda, un imprigionamento in regole sempre più asfissianti là dove ormai era chiaro il capovolgimento dei valori più elementari. Gesù risponde riproponendo una casistica ineccepibile su David ed un esempio legato al Tempio stesso: «Or, non avete mai letto nella Legge, che in giorno di sabato i sacerdoti che sono al Tempio, violano il sabato senza essere colpevoli? Or, io vi dico che vi è qui qualcosa più grande del Tempio. Che se voi aveste compreso ciò che significa: lo voglio la misericordia e non il sacrificio, non avreste condannato coloro che non sono colpevoli». E diceva loro: «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato, perché il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato».
Ripropone quindi, Gesù, non soltanto una lettura nuova della Legge, e neppur solo un ripristino del valore fondamentale della persona al di sopra di tutto - e sarebbe già stata materia di duro contrasto-, ma anche e soprattutto il riferimento alla propria persona come l'inviato del Padre capace di dire una parola definitiva sulla realtà della vita.
Per questo coloro che si reputano i custodi della Legge, che pongono il principio d'autorità al di sopra e non al servizio dell'uomo, che non hanno da accogliere nulla più perché si son fatto un Dio a loro misura, per questo colgono sulle labbra di Gesù una sfida che non ammette limiti. Custodi intransigenti del sabato, a difesa di una tradizione strumentalizzata per interessi egoistici sia materiali che morali e spirituali, "gli scribi e i Farisei stavano osservando Gesù per vedere se guarirebbe di sabato per trovare di che accusarlo". Allorché Gesù, dopo averli inchiodati al silenzio ("E' permesso il sabato, far del bene o far del male? Salvare una vita od ucciderla?"), guarisce l'uomo dalla mano rattrappita, essi «furono ripieni di furore, e discorrevano fra loro di quel che potrebbero fare a Gesù. I Farisei, usciti, tennero consiglio con gli Erodiani contro di lui allo scopo di farlo morire».
Il sabato distrugge l'uomo, la Legge immobilizza ogni energia vivificatrice, il mondo delle tenebre copre con una coltre di silenzio Colui che era venuto a portare la luce.
La croce, segno di un mondo morto nella sua speranza, è albero reso fecondo dalla potenza di Dio. Il sepolcro è scosso fin nelle fondamenta dal vento dello Spirito di vita che caccia le tenebre e rianima i cuori affranti. Al sabato succede la domenica, festa della luce e della vita, a segnare di resurrezione il cammino dell'umanità nella Pasqua resa evento quotidiano.
Questa nostra povera domenica cristiana sommersa ormai da avvenimenti così diversi, dove ormai poco significa il frettoloso disbrigo del precetto tanto da rendere insignificante ogni polemica antilegalistica che vi si possa impostare sopra. Giorno di gioia e di luce che, in realtà, trascorre in modo così opaco e triste nel trascinarsi da un posto all'altro, senza un attimo di respiro, guidati come pecore alle mete prefissate dal quotidiano bombardamento pubblicitario. Giorno di spostamenti dalla chiara parvenza animalesca dove poco d'umano c'è anche nella famiglia che passeggia al sole, lui con la radiolina all'orecchio, lei silenziosa al fianco, i piccoli a ruzzolare vicino: un monumento di incomunicabilità.
I custodi del sabato sono divenuti custodi della domenica quasi senza batter ciglio. Lo stesso dominio che affoga sul nascere ogni. possibilità di liberazione coll'impedire che si possa immaginare o peggio ancora riflettere ad un modo nuovo di rapporto fra gli uomini e con il mondo. Lo stesso potere contro cui Cristo si è scontrato per la salvezza dell'uomo,
Gesù ci chiama ad essere suoi eredi nella stessa lotta, vive in noi nell'identica ansia di liberazione. Ci indica oasi di silenzio interiore da guadagnare con sudore nel tessuto della nostra esistenza quotidiana, invoca e spinge ad una presa di coscienza personale sui problemi che ci attanagliano, costruisce fratelli capaci di dire una parola autentica tale da riscattare l'umanità dall'asservimento e dall'alienazione del potere, dell'interesse, del successo, del denaro. Una domenica cristiana, tempo strappato ai pesanti obblighi del lavoro, della famiglia, del servizio agli altri, per essere momento di riflessione, di chiarificazione, di ristoro e di incoraggiamento alla lotta in un rapporto personale con il «Signore del sabato» in una scambio fraterno della fede che tutti sorregge, in una rinnovata presa di coscienza della propria chiamata e della meta verso cui il nostro cammino tende.
Chi se la sente di compiere questa fatica per se stesso, per la propria famiglia, per i propri amici per la comunità parrocchiale? E' impegno pasquale riproposto ai credenti per lievitare il mondo a Regno di Dio.
don Luigi
Porto questa certezza
scritta in ogni pensiero,
e lo spirito esulta e ama.
Sento questa certezza
cantarmi nel cuore,
spandendo le sue note all'infinito.
Come è dolce questo mistero
di gioia e di dolore,
d'amore. .
E' il sole che brilla negli occhi,
nell' anima, dove tutto riposa,
dove ascolti parole profonde
e tocchi con le mani il cielo.
Luigi Grotti
Il "caso" di P. Diez-Alegria
L'intera vicenda di Padre J. M. Diez-Alegria, gesuita allontanato dall'insegnamento e dal proprio ordine religioso in seguito alla pubblicazione del suo volume - atto di fede"Credo nella speranza", ci ha fatto riflettere sul senso della nostra presenza nella Chiesa, certamente più umile e modesta del noto professore dell'università Gregoriana. .
Non abbiamo letto il libro e quindi non intendiamo entrare in merito a giudizi sul contenuto. Intendiamo solo proporre alcune riflessioni stimolate da un brano di Padre Diez-Alegria, riportato dalla rivista IDOC, sul senso e il valore della sua appartenenza alla Chiesa.
Sono considerazioni che condividiamo nella loro serietà e che sostanzialmente sono presenti nel nostro quotidiano cammino nella fede. All'interno della comunità, di questa Chiesa storica, non possiamo anche noi non confessare la nostra fede in Gesù Cristo. E' offerta che ci nasce dal cuore e la sentiamo umile dovere come credenti e come comunità sacerdotale. Vorremmo che fosse così per tutti i cristiani, per una vita di fede molto più cosciente e responsabile, per un annuncio molto più impegnativo e coraggioso, per una Chiesa da prendere più sul serio come lievito di speranza nell'umanità.
da «Credo nella speranza» di J. M. DìezAIegria trad. di IDOC n. 5.1973
La mia situazione attuale nel seno della comunità cristiana è paradossale. La mia fede in Cristo Gesù mi mantiene in questa comunità. Ma la mia comprensione della fede in Gesù Cristo mi fa sentire estraneo in questa comunità che nel suo insieme e nella linea rappresentata dallo «establishment» ecclesiastico, mantiene un atteggiamento religioso prevalentemente (se non esclusivamente) cattolico-culturalista (che cerca cioè una salvezza individuale, da realizzarsi fuori. dalla storia e che si esprime soprattutto nel culto, n.d.r.).
La soluzione di questo conflitto non è, per me, ridurre la comunità cristiana al piccolo gruppo di quelli che incontro e che la pensano come me, e cercare di costituire con loro una nuova «Chiesa». Questo fu, più o meno, l'orientamento dei riformatori del XVI secolo.
I grandi riformatori contavano su molto di più che un piccolo gruppo. In ogni modo, né l'esperienza storica e psicologica dei movimenti riformatori, né la mia propria riflessione sulla fede, né l'impulso dello Spirito (che spero non mi manchi del tutto) mi spingono a rompere con la comunità dei credenti. Perché, dal principio alla fine, la fede degli uni e degli altri (più o meno imperfetta, più o meno imbastardita) nella misura in cui tuttavia è «fede» non ha il suo termine nella nostra dottrina e nel nostro intendimento della fede, ma in Gesù Cristo morto e risorto, che sta al disopra di tutti e di tutti i nostri "intendimenti".
Non trovo la soluzione neppure nel rinnegare la comunità storica dei cristiani per rifugiarmi in una specie di idea platonica di Chiesa. L'atteggiamento religioso etico-profetico, messianico ed escatologico, che è quello della Bibbia, non ci permette di uscire in questo modo dalla realtà storica.
Io sono cristiano perché credo in Gesù Cristo. Sono storicamente dentro la comunità dei credenti (reale, storica) e in concreto nella Chiesa cattolica.
All'interno di questa comunità non posso non confessare la mia fede. Una fede, che si sente in conflitto col modo in cui la maggioranza dei miei fratelli di fede vedono e vivono il loro cristianesimo,
Una fede che aspira, nei limiti della mia piccolezza reale e da me sentita, ad aiutare altri a vivere la fede e a trovare la vena etico-profetica del vero cristianesimo.
Non posso fare altra cosa.
Vivo così umilmente l'esperienza di San Paolo, che continuava la sua corsa per vedere se riusciva ad afferrare Cristo Gesù, a causa di un fatto fondamentale: che Cristo lo aveva "afferrato" a sé.
Abbiamo più volte espresso in queste pagine tutto il disagio, l'angoscia, eppure tutto l'amore che anima nell'impegno di lotta all'interno della Chiesa. Perché in essa si realizzi una misura sempre maggiore di autenticità nell'esser lievito e luce sulla strada dell'umanità. Ci spinge a questo una fede chiara in Gesù Cristo che ci sostiene nell'umile ricerca di una risposta sempre più piena alla Sua chiamata in forza della quale - lo crediamo profondamente - si fonda e si rinnova questa nostra esistenza quotidiana.
E' fatto fondamentale, la vocazione cristiana, c provoca l'uscire allo scoperto nella realtà umana mescolandovisi senza difesa per una condivisione dettata unicamente dalla fede nel mistero dell'incarnazione. Accoglienza senza riserve di quella stessa Parola che ha scelto come sua abitazione il cuore dell'uomo.
Per questo l'esistenza cristiana è strada che fa incerta e disagevole, da percorrere spesso in solitudine, non certo priva di pericoli, di agguati, di soprusi. E' assolutamente normale che sia l'esistenza chiamata ad un esodo incessante, animata e vivificata in forza dello Spirito per una fatica affidata unicamente al dono della fede e alla sua forza inesauribile. Su questa strada di fede i credenti possono incontrarsi e crescere in comunione vicendevole per una continua reciproca provocazione in ordine alla ricerca e all'attesa del realizzarsi delle promesse.
Il nuovo popolo di Dio, come l'antico, si forma lentamente e faticosamente in cammino di libertà prendendo coscienza, sotto la guida della mano di Dio ed a Lui solo affidato, dalla propria vocazione e missione in seno all'umanità per il Regno. Come pretendere in queste condizioni un andamento rettilineo a sistemazione impeccabile? Non è popolo che si possa guidare intruppato a gregge compatto con la mediazione di leggi e sentenze che si ammantino della cristallina limpidezza della Verità perché Veri si fa, quella di Cristo, in quanto vita e strada nella fede. Non può essere vera questa Verità se non affonda le sue radici nell'esistenza storica concreta, se non apre strade alla speranza degli uomini, se non scaturisce dal cuore di uomini visibilmente impegnati nella stessa avventura.
La Chiesa non può perdere, quindi, del tutto i segni che la caratterizzano come un popolo nel suo esodo, senza la missione a lei affidata. Un popolo che non si perde nei meandri della legge e del diritto, ma ama il confronto a viso aperto, sulla strada dove tutti si fatica e non nel chiuso dei tribunali dove il giudice sovrasta, le transenne separano, la polvere dei codici rende l'aria irrespirabile fino a soffocare.
Un popolo dalla coscienza allargata e resa valore personale per cui !'iniziativa può e deve partire da chiunque ed in qualsiasi momento, sia nel proporre che nel raccogliere proposte da confrontare, nella loro autenticità, unicamente di fronte a Cristo, in comunione con Lui. Un popolo che non sopporta quindi strutture che lo allontanino da questa possibilità di confronto nella comunione dei segni della vita, per un'irrequietezza naturale che viene dal sentirsi a suo agio solamente sulla strada, in cammino di fede.
Umanità animata dallo Spirito che soffia dove e quando vuole. Discendenza, d'Abramo nello stesso cammino di fede. Popolo che si affida alla promessa di Dio in Gesù Cristo e attende l'eredità del Regno.
La Gerarchia, il Magistero, non hanno senso se non in questa visione di fede e di cammino nella fede. A questa visione devono adeguarsi il più possibile per non essere di ostacolo alla fede, per non confondere un cammino già difficile, per non essere giudicati mercenari cui il gregge si affida. Non se ne contesta l'esistenza e il servizio, ma anche il Magistero gerarchico è sottoposto alla stessa legge di conversione che deve animare il popolo cristiano nel riflettere i1 valore assoluto di Dio e del nostro esistere in Lui.
E' terribile, d'altra parte, constatare quanto sia difficile cogliere sul volto storico della Chiesa i segni di questo camminare nella fede e sarebbe quindi assurdo credere in Gesù Cristo senza sognare una realtà diversa per il suo Corpo, un volto più fresco per la sua Sposa.
Non è possibile, per esempio, affrontare il cammino della fede e, nello stesso tempo, accettare di essere inquadrati in un sistema di catechesi o pastorale che tutto considera fuorché il dovere di animare e responsabilizzare la coscienza personale in ordine alla costruzione della propria vita di fede. Non è possibile credere fermamente nell'Eucarestia e, nello stesso tempo, accettare supinamente che i confronti tra credenti avvengano a colpi di tesi teologiche e siano risolti a base di articoli di codice sia pure canonico. Non è possibile sentirsi Chiesa e, nello stesso tempo, non sentire l'invito a perdere la propria vita in offerta incessante non solo delle proprie cose, del proprio tempo, delle proprie energie, ma anche e soprattutto della propria fede così come Dio la suggerisce e la dona in luminosità di Spirito per Cristo Gesù.
Non è possibile quindi essere afferrati da Cristo senza comprendere a fondo la radicalità ed insieme la responsabilità in ordine alla comunione dei credenti e all'umanità intera, per un'esistenza in cammino verso cieli nuovi e terre nuove.
Se questo fosse vero, nella Chiesa, oggi, molte cose dovrebbero cambiare. A cominciare dal semplice essere due o più riuniti nel nome di Gesù, sù sù alle parrocchie, alle diocesi, al Papa. Molte cose, dovrebbero cambiare in una Chiesa che custodisce la fede come verità da cogliere sui libri, sia pure venerabile, difesa da uno sbarramento di teologi e di canonisti, sia pure di provata prudenza. Una verità rigorosamente fissata ch si traduce in domande, sempre quelle da leggersi su un libro, a provocare sempre identiche risposte, lette anche quelle sullo stesso libro.
«Che cosa chiedi?», «il battesimo»; così, fin dal primo istante della nostra vita di fede abbiamo imparato a rispondere quello che altri hanno dettato per noi, senza più uscire da questa sudditanza nel catechismo dei bambini, nell'insegnamento della religione da adolescenti, nella catechesi matrimoniale dei fidanzati, nella predica domenicale del parroco, nell'ammonìzìone del confessionale, nelle lettere pastorali del vescovo, nelle encicliche papali. Tutto un insegnamento da subire perché tutt'al più si concede di rispondere con un "amen" che nella tradizione popolare ha il significato di un'entità del tutto trascurabile e di una rassegnazione senza speranza.
Una verità morta, dunque, per un popolo addormentato e avvinto da catene di morte. Crediamo invece in una verità viva e vivente che ciascuno raccoglie nel cuore e mostra con intatto stupore al vicino, al prossimo nell'amore che non conosce distanze o barriere. Una verità da adorare immersa nella realtà di questo mondo a fondare una speranza nata e cresciuta su una possibilità di vita che vince la morte e si rinnova in perenne creazione.
Per questo a colui che si fa battezzare non può essere consegnato semplicemente un cero ed una veste bianca ripetendo più o meno meccanicamente le parole di sempre. Lo stesso gesto da secoli si fa diverso in quanto ogni volta il battezzato è lui ad essere affidato all'esistenza nella fede dei suoi genitori o dei suoi compagni, all'indicazione di fede che promana dall'esistenza concreta del sacerdote nella sua autentica responsabilità pastorale. Perché nasca in lui la fede e si sviluppi a rinnovare il miracolo di questo Corpo che crea le proprie membra e le cresce a dimensione di servizio totalmente e pienamente responsabile. Crescita amata e desiderata, indicata e provocata affinché la vita si esprima in pienezza e dischiuda sempre più la luce di verità.
Per questo chi compie un cammino nella fede non può essere considerato come un soggetto passivo da, guidare, sia pure sapientemente. Anzi, la sollecitudine e l'impegno di comunione dovranno percorrere tutt'altra strada, cercando semplicemente e apertamente una coscientizzazione crescente del suo essere battezzato, provocando senza pavide prudenze il confronto tra quella coscienza illuminata dalla fede ed i più aperti e scottanti problemi dell'umanità per una visione della vita nello Spirito di Dio. I gruppi cristiani, le chiese, le parrocchie, le diocesi, dovrebbero essere luoghi dove si favorisce al massimo questa presa di coscienza e questo rapporto a confronto diretto con l'esistenza e la storia umana. Anche se invece di un gregge docile, da guidare pater-nalisticamente, si avvertirebbe immediatamente la esistenza di una Chiesa in continuo ribollire di sti-moli vitali per iniziative, proposte, sensibilizzazioni e valori emergenti dall'apporto di ciascuno.
Allora forse la Gerarchia sarebbe stimolata a compiere quel servizio di comunione e di guida cui si proclama destinata e che invece sembra inevitabilmente proporsi come rinnovata fonte di potere. Allora le parrocchie e le diocesi, i gruppi cristiani, non sarebbero più centri di pastorale e di attivismo spirituale, ma "luoghi" di comunione nel segno eucaristico e a render questo sempre più limpido nella sua autenticità, in un confronto quotidiano con gli uomini che diviene accoglienza senza pregiudizi di qualsiasi realtà che illumini il cammino della fede. Allora la Chiesa sarebbe con più verità questa pellegrina sulla terra a lievitare nel mondo la realtà di una nuova creazione.
Per ora dubitiamo molto che questa possibilità possa verificarsi in una Chiesa che si esprime nei segni della scomunica, dell'esclaustrazione, del rifiuto gestito in modo autoritario, del giudizio sulla fede delle persone emesso a mo' di sentenza. Dubitiamo altresì per la stessa Chiesa che a questi segni prepara con un insegnamento che non prende in considerazione, nella pratica e palesemente trascura nella pastorale ordinaria e nella vita concreta delle parrocchie e delle diocesi, la coscienza e la responsabilità personale in ordine alla fede con tutta la forza di partecipazione che questo di fatto comporterebbe nella vita della Chiesa. .
Il proporre - com'è stato fatto -, a Padre Diez Alegria, di affidare il manoscritto del suo libro ad un amico fidato che lo pubblicasse tra vent'anni dopo la sua morte per godere, defunto, del titolo di profeta, è tipico dello stile, della mentalità cui si affida questa Chiesa. Un mondo di morti che, come sta avvenendo per esempio per don Milani, sfrutta disinvoltamente in modo sacrilego, la morte stessa per appoggiare e confrontare la propria verità. Perché i morti non parlano e il silenzio è d'oro come i quattrini e chi se ne appropria lo può ben far fruttare per i propri interessi
Tocca a noi esser vivi sul serio per un'esistenza autenticamente vivente. Tocca a noi prender coscienza, alzare la voce, lottare in questa Chiesa perché in essa si levi vera speranza di vita per gli uomini. Tocca a ciascuno di noi che crede in Cristo proclamare non. il Dio dei morti, ma il Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, di personalità dalla vita non sempre lineare, ma forti nella fede, il Dio dei viventi nel suo Spirito.
A chi crede in Gesù Cristo è affidato questo impegno battesimale, questo impegno pasquale.
La Comunità del Porto
Vorrei cercare di esprimere quello che è maturato in modo sempre più preciso nell'esperienza della mia vita cristiana e sacerdotale, nello scorrere quotidiano di un'esistenza molto legata in questi ultimi anni alla vita dei poveri e degli umili. La mia Fede in Cristo ne ha ricevuto un'impronta particolare, l'impegno e la missione sacerdotale si è spogliata di tante apparenze superflue, fino a radicarsi in alcune scelte essenziali., .
Mi sembra di aver compreso meglio, nella preghiera e nella vita, nell'ascolto della Parola di Dio e della parola dei miei fratelli, del loro vivere e del loro soffrire, il senso del Cristianesimo. Che cosa voglia dire veramente essere cristiano, discepolo di Cristo, incamminato sulla sua strada dietro ai suoi passi.
. Dico questo molto umilmente, sapendo bene che una conoscenza più chiara dela verità della propria vita non è altro che un carico maggiore di responsabilità.
C'è un cristianesimo che non riesco ad accettate (come del resto non lo accettano da tanto tempo i fratelli con cui è mescolata la mia vita) perché esso mi si è rivelato come una deformazione del messaggio evangelico, del lievito di Liberazione e di Amore che il Figlio di Dio è venuto a na-scondere nella pasta umana.
Deformazione che è come una paralisi che lentamente, attraverso i processi intricati della storia, ha finito per bloccare il corpo della Chiesa in molte sue parti, facendolo diventare un apparato complicato, dove i piccoli e i poveri non riescono più a scorgere il Volto del Padre. Un ingranaggio così carico .di esteriorità, di tradizioni, di saggezze e furbizie puramente umane, che ha finito per imprigionare il Cristo Signore fino a relegarlo su di un piedistallo davanti al quale i fedeli accendono le loro candele.
Questo cristianesimo-religione, complesso di riti, di cerimonie, di codici, di regole, di diritto canonico. di sacre burocrazie, mi si è rivelato sempre più estraneo al dono di Libertà. di Vita, di Resurrezione di cui Gesù Cristo ha ricamato la storia umana col suo nascere e il suo vivere nel mondo. .
Sono sicuro che Dio donandoci il suo Figlio ci ha realmente posti nella dimensione della Salvezza, perché in Lui ogni creatura trova la pienezza del proprio essere, la sua vera e perfetta identità, scopre che ha un Padre nei cieli, dei fratelli sulla terra, un passato e un futuro, un mondo di Giustizia e di Fraternità da far nascere. dal proprio cuore rinnovato, reso vivo di Vita Eterna da un Amore che non conosce ombra di egoismi.
La Fede nel Dio di Gesù Cristo, nel Dio vivente, diventa allora spinta fondamentale per una esistenza interamente vissuta nel servizio agli altri, nella lotta contro il potere delle tenebre, nella fedeltà a ciò che ognuno è chiamato ad essere fin dalla radice della propria persona, e cioè sale e luce per questo mondo.
Nell'annuncio del regno di Dio che viene a riempire la terra di una, creazione nuova.
A spezzare ogni catena di oppressione, ogni chiusura del cuore, ogni muro di divisione, di classe, di razza, di orgoglio, di casta per creare un popolo solo di fratelli perché figli di Dio.
Nella luce di questa Fede che è dono di Vita nuova, scelta di un'esistenza diversa perché nata dall'alto, dalla potenza dello Spirito, la realtà sacramentale del Battesimo, dell'Eucarestia, di tutti i segni della Grazia, diventa un atto di questa vita, un momento creatore di questa nuova crea-zione che Dio chiama all'esistenza da ogni punto della terra. Non è atto esteriore, cerimonia liturgica, apparenza di un culto trionfalistico e decoratore, ma momento semplice e puro della comunione meravigliosa con la Morte e la Resurrezione di Cristo, perché si compia incessantemente la Pasqua in ciascuno di noi, il passaggio dall'uomo vecchio allo uomo nuovo rivestito di Giustizia e di Verità.
L'essere cristiano, allora, non può significare appartenenza ad una «confessione religiosa» - I'unica vera fra le tante - ma una scelta di vivere sulla strada percorsa da Gesù Cristo, in obbedienza al suo invito liberatore: «venite con me ... io sono 1a via».
Così l'essere prete di questo Nuovo Patto di Amore fra Dio e l'Umanità non può significare diventare il custode del tempio, l'uomo della liturgia, il buon impiegato del regno di Dio: sarà senz'altro lo spalancare .il cuore e l'anima, la carne e il sangue, il proprio destino a tutto il Mistero di Dio per viverlo in comunione di Amore, di Liberazione, di Croce e di Resurrezione con gli uomini per i quali si è stati consacrati.
Cristianesimo quindi come scelta cosciente e profonda di un'esistenza nuova, costruita sulla roccia viva della Parola di Dio che è Cristo Gesù.
Un andare dietro a Lui, un cercarlo continuamente e appassionatamente su tutte le strade. un donarlo ai fratelli attraverso il grande sacramento della comunione, del prendere su di sé i pesi degli altri.
Cristianesimo come Amore pieno e totale, come terra nuova che emerge dal caos di una storia dominata così tanto dalla sopraffazione del denaro e della potenza, dell'egoismo ' e della divisione.
Cristianesimo come «essere di Cristo», vivere di Lui e in forza di questa appartenenza scoperta e chiara sentirsi donati a tutti, all'umanità povera, assetata e affamata di Libertà, di Giustizia, di Amicizia. Donati e perduti in questo mare della vita e della storia per testimoniare che Dio ha tanto amato il mondo fino a dare i suoi figli per la sua incessante marcia verso la Salvezza. .
E tutto questo viverlo e testimoniarlo completamente immersi nella fatica di ogni passo, senza paura di incamminarsi attraverso il deserto, per un esodo senza riposo, per un andare avanti senza difese e sicurezze, ma conservando nel cuore il sogno di una promessa che sarà sicuramente mantenuta. Una scelta di Fede non appoggiata a nessun privilegio particolare, sorretta dalla certezza che il Cristo Signore, nella concretezza storica della sua carne, ha vinto il regno della morte ed ha acceso il fuoco inestinguibile della sua Resurrezione.
Un'esistenza quindi veramente abbandonata al fluire del tempo in assoluta povertà, senza costruirsi ripari dalle tempeste e dalle paure, dalle solitudini e dalle amarezze ma sicura dell'Amore del Padre per ciascuno dei suoi figli. Amore che rimane garanzia di speranza e di forza nel lungo viaggio ne1 deserto dove bisogna avere il coraggio di restare e di vivere in chiara fedeltà a Colui che vi ci ha condotti.
don Beppe
l'evangelizzazione dell'esercito
Già da tempo uno degli impegni che ci siamo assunti, come comunità cristiana e sacerdotale, è quello di lottare contro l'ordinariato militare, l'istituto cappellani militari, la collusione che ne risulta fra Chiesa ed esercito, potere ecclesiastico e potere militare, ecc.
Tutto questo è perché giudichiamo l'esercito e tutto l'apparato militare come un centro di potere, come un'organizzazione di forza e di mezzi ordinata alla guerra e quindi una realtà di fatto assolutamente inconciliabile col Cristianesimo.
Ci angoscia quindi, per un Amore veramente profondo e una fedeltà totale alla Chiesa, il constatare una presenza e una partecipazione della Chiesa nei quadri stessi dell'esercito fino ad essere con un vescovo e un buon numero di sacerdoti coinvolti nell'apparato militare, cominciando dalle dipendenze economiche fino all'inquadramento disciplinare proprio dell'esercito e all'opera formativa inevitabilmente militaresca e quindi non nella possibilità di una evangelizzazione autenticamente e liberamente cristiana.
Lasciamo da parte alcune considerazioni, e non perché non siano importanti e non ci turbino profondamente, come il problema di alleanze e concordanze della Chiesa (e qui intendiamo quella gerarchica) con il potere e in particolare con il potere militare, del resto mai in difficoltà e in contrasto, come se nel mondo militare tutto andasse in maniera così perfette da non suscitare mai scontentezze o giudizi discordanti o criteri di giudizio diversi, così da costringere a prese di posizione chiare e coerenti da parte della Chiesa che ovviamente anche dentro il mondo militare deve "obbedire a Dio più che agli uomini" e conservare "la parola non legata" perché "prigioniera unicamente di Cristo".
Qui il discorso sarebbe molto serio e impegnerebbe fortemente sul piano storico e con possibilità di sorprese non certo simpatiche nei confronti della Chiesa, sempre troppo disponibile all'esercito e agli eserciti, fino a misure di partecipazione alla vita militare, sempre con compiacente servilismo.
Sul piano dell'evangelizzazione il problema diventa ancor più drammatico perché è assolutamente impensabile .una vera e propria evangelizzazione là dove, per esempio, l'uomo vale in proporzione alle sue capacità di morte (per sé e per gli altri). e dove il discorso e l'addestramento e quindi la creazione della mentalità e più propriamente quella dell'istintività, è nella capacità di dividere gli uomini, con una distinzione fatta a fil di spada, fra alleati e nemici: con la persuasione che la vittoria, e quindi la gloria, la carriera, le medaglie ecc. è dipendente dalle possibilità di sterminio del nemico.
Ma lasciamo andare, anche perché di questi problemi ne stiamo parlando, ne scriviamo e ne affrontiamo la complessità anche con quel nostro lavoro di teatro popolare "Una Fede che lotta".
C'è una difficoltà che ci viene mossa continuamente e che è nel cuore sicuramente di ogni cappellano militare e nel loro vescovo, a giustificazione della loro presenza nell'esercito e delle stelle che portano. I soldati sono anime anche loro, hanno i loro problemi spirituali e morali, le loro difficoltà pratiche, hanno cioè bisogno di un sacerdozio che li conforti, dia loro i sacramenti, celebri per loro la S. Messa, li richiami continuamente al bene, sviandoli da cattive compagnie, ecc. La caserma è luogo tale e con problematiche specialmente morali così intense che non può non richiedere la presenza del sacerdote e del suo ministero.
Tutta una serie di motivazioni a giustificazione di un ministero sacerdotale nelle caserme e quindi nell'apparato militare, dipendenti dal fatto che anche i soldati, e quindi anche gli ufficiali e i generali, hanno un'anima e un'anima da salvare.
D'accordo, prendiamo per buone tutte queste motivazioni e specialmente cerchiamo con buona volontà di partecipare a quest'ansia così assillante della Chiesa di salvare l'anima dei militari, fino a consentire che a dei suoi preti siano messe le stellette e debbano inquadrarsi nell'esercito (cercando di ,inghiottire l'amarezza :per tutta un'ansia totalmente all'opposto che la Chiesa continua ad avere verso la classe operaia non consentendo a dei suoi preti di mettersi la tuta e condividere la vita operaia).
Facciamo conto che anche a noi prema molto salvare l'anima dei militari, degli ufficiali, ecc, (sia chiaro però che non siamo assolutamente d'accordo a cercar di salvare "l'anima" dell'esercito e cioè la sua giustificazione, le sue motivazioni - anche se questa respinta dell'esercito è discorso di stolti secondo l'opinione comune specialmente di chi si sente protetto e ben al sicuro dall'esercito in armi, a difesa contro "il nemico").
E' giusto e doveroso aver cura dei soldati e cioè delle loro anime.
Allora la proposta che facciamo è molto semplice: è un fatto di pastorale, del resto comunissima nella Chiesa, e molto ben suffragata da dissertazioni senza fine, attuata in tutte le condizioni della vita, ad eccezione, guarda caso, soltanto dei soldati.
Si dice che la pastorale non deve guardare per l'evangelizzazione e la sacramentalizzazione alle particolari condizioni di vita, non deve creare delle distinzioni, deve respingere ogni sistemazione classista puntando unicamente al bene delle anime, perché sono i valori spirituali che devono impegnare un lavoro pastorale.
Si dice che la pastorale nella sua esplicitazione di annuncio della parola, della celebrazione eucaristica, della sacramentalizzazione, ha il suo luogo nella Chiesa particolare (leggi parrocchia, diocesi) e la sua sorgente ecclesiale nel Vescovo, ordinario della diocesi.
Secondo questi principi la soluzione dello spinosissimo problema (da un punto di vista cristiano ed evidentemente non da quello del Concordato) della Chiesa intruppata nell'esercito è subito e facilmente risolto, senza che ne venga a soffrire l'anima dei soldati.
Ogni caserma è in una parrocchia: chi deve provvedere alla pastorale dei militari di quella caserma è la sua parrocchia: si tratterà tutt'al più, se il bene delle anime dei militari rivela urgenti bisogni ,di accrescere il numero della comunità sacerdotale di quella parrocchia. Ma evidentemente non sarà una pastorale con le stellette e quindi in una condizione innegabile di una più autentica. evangelizzazione, logicamente secondo le preparazioni e le sensibilità del parroco e dei suoi sacerdoti e di tutta la comunità parrocchiale.
Ogni caserma è in una parrocchia e ogni parrocchia è in una diocesi dove è il Vescovo della Chiesa locale, quindi ogni caserma ha il Vescovo (un vescovo vero pastoralmente parlando), i1 quale Vescovo, padre e pastore di tutto il suo gregge, avrà cura anche dei suoi figli che "una legge di patria ha fatto soldati" e affronterà, secondo il suo zelo e come gli detterà la sua paternità, i problemi pastorali dei soldati, provvedendo con purezza e libertà al bene delle loro anime perché sarà un vescovo senza stellette, non un vescovo dell'esercito. ma del popolo di Dio.
. Tutto questo vuol essere semplicemente un progetto pastorale (ne abbiamo già offerti tanti di progetti pastorali, logicamente mai raccolti. e intanto continuano a dirci che siamo soltanto negativi, contro tutti e contro tutto, polemici e via dicendo...) per assicurare il bene spirituale dei militari.
Un progetto per lasciare l'esercito senza sacerdozio e senza episcopato perché l'esercito in quanto esercito, dev'essere abbandonato alle sue finalizzazioni che non potranno mai rientrare nei valori cristiani.
Perché la Chiesa acquisti questa verginità che insieme ad altre la rendano sempre più vera Sposa di Cristo e Madre di tutti i popoli: qualcosa del Cuore di Dio che è Padre di tutti gli uomini, immagine e continuità storica di Gesù Cristo, primo fra tutti i fratelli, segno e realtà dello Spirito che è Amore diffuso in ogni cuore.
Tutto questo nostro progetto, è chiaro, non vuole mancare di rispetto ai sacerdoti cappellani militari che sicuramente con zelo attendono e si impegnano in una pastorale sicuramente spesso tanto difficile e complessa, e tanto meno intendiamo mancare di riverenza al vescovo castrense, anche se ci rimane piuttosto difficile capire il suo episcopato, dato che del vescovo abbiamo una considerazione di Fede per la sua continuità apostolica.
Se ci permettiamo lottare non è contro le persone, è contro il sistema di presenza sacerdotale nell'esercito.
E' per Amore della Chiesa nella quale intendiamo impegnare la nostra fedeltà come gente che nella Chiesa e per la Chiesa ha giocato e gioca tutta la vita: è per quest'Amore che non possiamo non lottare nella Chiesa per una sua liberazione. In vista di una identità sempre più totale con Gesù Cristo, di cui la Chiesa è continuità e presenza storica nel mondo.
don Sirio
Da più parti è stata chiesta la condanna a morte per i guerriglieri palestinesi che hanno ucciso i diplomatici americani e belga nell'ambasciata saudita di Kartum.
Il segretario di stato degli USA, Rogers, ha dichiarato"formalmente: «Penso che la pena di morte sia del tutto appropriata».
E' chiaro che l'atto compiuto dai guerriglieri di «settembre nero» è un crimine tremendo, un'azione assurda che riempie il cuore d'una immensa amarezza per la spirale di violenza di cui fa parte.
Ma altrettanto terribile e criminosa è stata - appena pochi giorni prima - la decisione del comando militare israeliano di abbattere l'aereo civile libico che aveva perduto la rotta nella zona proibita del Sinai. Più di cento persone sono state uccise in pochissimi attimi e sono bruciate fra le sabbie del deserto.
. E a contarli tutti, questi morti innocenti degli ultimi anni, su tutte le frontiere del mondo, vittime di un sanguinario gioco di violenza, di disperazione, di volontà di dominio, di sete impazzita di liberazione e di giustizia (perché c'è il terrorismo dei poveri e quello dei potenti), quanti ne dovremmo contare?
Sarebbe troppo facile giudicare «terroristi» soltanto coloro che uccidono senza indossare divise o essere inquadrati in precisi corpi militari; come se si potesse dare la patente di legalità ad azioni che portano allo stesso traguardo di morte. .
Di fronte a questo intreccio di rappresaglie crudeli, ciò che sgomenta di più è l'ipocrisia dei moderni farisei che dopo essersi macchiati le mani dello stesso sangue innocente, vorrebbero condannare chi è stato sorpreso «in flagrante adulterio».
E' di pochi giorni la notizia che il presidente americano Nixon ha preparato una. proposta per il Congresso tesa a ristabilire la pena di morte per alcuni crimini, esprimendosi così: "La pena di morte può essere un deterrente efficace contro specifici reati. Non è una deterrente fin quando vi sia il dubbio se possa o no essere applicata. La legge che propongo eliminerà questo dubbio: il criminale in potenza saprà che, se le sue vittime moriranno, potrà morire anche lui. Il dirottatore, il rapitore, l'uomo che lancia una bomba incendiaria, il detenuto che attacca un secondino, la persona che aggredisce un agente di polizia, sapranno tutti che potrebbero pagare con la propria vita le vite che tolgono".
A leggere queste parole, nella loro fredda lucidità, viene spontaneo chiedersi con quale coraggio le ha potute pronunciare un uomo che è il diretto e primo responsabile della morte di migliaia di creature umane - migliaia di innocenti - spente nei modi più barbari, studiati e calcolati a freddo con precisione scientifica. .
Forse questo non è, terrorismo, crimine, assassinio?
Non importa se non ci sono codici che sanzionano la condanna di chi tenta di nascondere i propri delitti coprendoli di, fedeltà alla patria, di difesa della civiltà, di onore per la giustizia, di protezione dell'ordine; non importa se non c'è tribunale capace di giudicare gli atti criminali delle "guide cieche" dei popoli. Ciò che conta sempre più è conservare il cuore lucido per comprendere di essere chiamati a vivere nella comunione con Colui che vuole «misericordia e non sacrificio» e a lottare contro tutte le ipocrisie di coloro che vorrebbero scaricare sulle spalle degli altri - magari a colpi di pietra - il carico di delitti di cui sono responsabili.
La Comunità del Porto
Accogliamo con Fede e gioia il nuovo Vescovo Giuliano Agresti.
Perché questa Fede e questa gioia sia piena e totale, ci permettiamo chiedergli di non prestare giuramento al Presidente della Repubblica, perché rimanga limpido e puro il suo essere inviato fra noi, popolo di Dio, unicamente nel nome di Dio e secondo il mistero di Cristo, liberamente Apostolo del Vangelo.
Nella testata "la sciabica" di Inaco Biancalana
Direttore Responsabile: Don Sirio Politi
Redazione: Lungo Canale Est. 37
55049 - Viareggio Tel. 46.455
Spedizione abb. postale gruppo III/70
Autorizz. Tribunale di Lucca
Decreto N. 228 del 1.3.1972
Tip. Marchi c. 3.300. Aprile 1973
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455