LOTTA COME AMORE: LcA gennaio 1973

Lotta per il Vangelo

A Natale, si sa, vengono sù tante riflessioni. Oltre a quelle terribilmente malinconiche per via di un natale festaiolo, commercializzato, fino alle banalità più stomachevoli e oltre a quelle, oltremodo sentimentali delle liturgie a effetto, dalle cappelle delle suore fino alla liturgia della grotta di S. Oreste, vi sono anche delle riflessioni e più ancora delle constatazioni che lasciano lì, senza fiato, a rimuginare verità formidabili, di quelle che ci vuol un bel coraggio ad accettarle e realtà di fatto, così impressionanti che richiedono misure di Fede senza limiti per non lasciarci disorientare.
E' un fatto, per chi ha fede cristiana, che Dio si è fatto uomo. E' nato, è vissuto, è morto nella storia dell'umanità. E' risorto per la continuità di comunione fra l'umanità e Dio perché Gesù Cristo è eternamente l'uomo in Dio e Dio nell'uomo, in una concretezza di unità come è quella. realizzata nella Persona di Cristo.
Salta agli occhi immediatamente che il motivo, per dir così, fra i tanti che Dio soltanto può conoscere, che ha spinto a questa nascita di Dio. al suo venire ad abitare fra noi, è il desiderio - infinito Amore - di mettere insieme il suo essere con il nostro, il suo vivere con il' nostro vivere, in un sogno adorabile di unità e cioè di Amore.
Ma le cose sono andate diversamente. I Vangeli sono il racconto di un sogno meraviglioso, quello di Dio e di un risveglio drammatico, quello di Dio venuto ad abitare fra gli uomini.
Luca, nell'imminenza della nascita, dice che per Lui non c'era posto, nemmeno in un albergo. Giovanni, precisa con cruda chiarezza fin dalla sua prima pagina che è venuto fra i suoi ma i suoi non l'hanno voluto accogliere, non ne hanno voluto sapere.
E tutta la storia di Gesù, a parte pochissime persone vinte da un Amore personale per Lui, è storia di respinte, di rifiuti, di emarginazioni da parte dell'autorità politica, militare, religiosa, da parte della cultura, dei suoi discepoli, delle masse popolari. di tutto un popolo, fino alle misure estreme della crocifissione, gettato a morire come un cane, fuori della «città».
Questa è la storia di Dio fra gli uomini. Almeno così come noi cristiani crediamo che sia, facendo Fede sulla Scrittura e sulla Tradizione. E cioè liberata e ritornata alla lettera della verità, genuina e schietta, come deve essere un racconto storico, composto di fatti, di avvenimenti, di realtà di cose.
Dopo, questa nascita di Dio fra gli uomini, è diventata il Natale. E c'è posto nel cuore di tutti e nelle case e nelle città per il Natale, non altrettanto per la nascita di Cristo fra gli uomini. E la dissociazione fra natale e nascita di Cristo è un fatto spaventoso.
Il mondo è diventato «cristiano». Ma fra il cristianesimo del Vangelo e il cristianesimo dei cristiani e della Chiesa (il cristianesimo nelle chiese) la diversificazione sgomenta fino all'inconciliabilità.
Ne consegue un fatto curiosissimo (e impressionante a ben pensarsi) che soltanto a farne esperienza è possibile valutarne tutta l'enormità.
E cioè che a cercare di riprendere dei motivi fondamentali del Vangelo (è molto semplice farne una elencazione di questi motivi) si rischia immediatamente di essere respinti da tutti.
Si rischia di essere così tanto respinti da tutti che praticamente questo annuncio chiaro e tondo del Vangelo è impossibile, perché assolutamente controproducente.

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Immediatamente si perde, se l'evangelizzazione si presenta e argomenta direttamente dal pensiero di Cristo e dalla. sua parola, nuda e cruda, come è possibile leggerla sulle pagine del Vangelo, si perde la comprensione e l'approvazione della Chiesa. Perché l'esclusione di tutta la teologia (e cioè dei teologi), della patristica (e cioè di come hanno visto e vissuto il Vangelo i cristiani di secoli e secoli fa) dell'esegetica (gli studiosi e cioè gli anatomici della Parola, anche di quella che si è fatta carne e è venuta ad abitare fra gli uomini) della pastorale (cioè della pastorizzazione del Vangelo secondo i dosaggi ben calcolati degli specializzati e secondo le esigenze e le possibilità digerenti del popolo cristiano), l'esclusione cioè di tutta quella farragine di cose che gli uomini di chiesa hanno incrostato sul Vangelo fino a riscoprirne la pagina vergine e a proporla, più intatta che sia possibile alla realtà dell'esistenza, comporta una evangelizzazione liberata, che insospettisce immediatamente la Gerarchia.
Continuando in questa evangelizzazione cercando anche realizzazioni concrete, forme esistenziali, scelte ben delineate e seriamente qualificanti, il sospetto cresce e piano piano e a volte anche di colpo e pubblicamente, si tramuta in una vera e propria respinta.
E nasce nell'intimo della coscienza, fino a volte a possibilità d'incrinature della saldezza della Fede, la discriminazione fra Chiesa e Vangelo, Gerarchia e Parola di Cristo, apparato ecclesiastico ed esistenza cristiana. Con la conseguenza di una necessità di scelta e quindi di una inevitabilità di contrasto e di lotta.

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Nella ricerca di una fedeltà a Gesù Cristo, di un consenso totale a Lui fino a farne, di Cristo, la scelta e la determinazione della propria vita e giocare su Lui i modi e le misure del proprio rapporto con l'esistenza e la storia, si rischia di essere respinti da tutti.
Respinti anche, e tanto più, da uomini e gruppi, organizzazioni ecc. che il messaggio di Cristo raccolgono (anche perché al fondo di questo messaggio vi è sicuramente l'antica ispirazione cristiana) nei suoi valori umani, nelle sue chiarezze rivoluzionarie, nei suoi formidabili annunci e impegni al rinnovamento della vita e della storia, ma ne respingono la metodologia di urto e d'incidenza fatta di valori religiosi, motivata dall'Amore verso tutti dalla volontà di salvezza, assolutamente non di tutto, ma senza dubbio di tutti.
E la non violenza è discorso che comporta respinte pesanti. No ad ogni militarismo, condanna di ogni e qualsiasi guerra, comporta dissensi inevitabili. La rivoluzione armata, la giusta vittoria della classe del proletariato unicamente attraverso il rovesciamento violento dell'oppressione, la volontà a tutti i costi della liberazione dell'uomo compresa la violenza sull'uomo, non può che provocare rifiuti dolorosi e irrimediabili.
Perché anche qui non è possibile e tanto meno giustificato forzare spiegazioni esegetiche sulla parola di Cristo o visioni di Lui, diversificate dalla percezione semplice e schietta del Vangelo, nella faticosa e artificiosa ricerca di possibilità di accostamenti e di comunicabilità impossibili.
Rimane semplicemente il constatare vie diverse sulle quali coraggiosamente camminare e lungo le quali inevitabilmente scontrarsi: e nello stesso tempo cordialmente camminare affiancati, rivolti alla stessa meta, perché questa è indiscutibilmente la stessa, quella dell'uomo che sia uomo e dell'umanità che possa essere umanità (e è qui che si stabilisce la possibilità d'incontro anche col Pensiero di Dio e con tutta la realtà di Cristo).
Ma questo scontro-incontro è molto difficile e spesso la mano è tesa ma l'altra stringe convulsamente soltanto un fucile.
E la mano che stringe una croce e l'altra che stringe un fucile rendono impossibile una stretta di cordialità e di collaborazione. A meno che (e Dio ci liberi!), come dolorosamente successe nel terzo secolo e tragicamente continuò lungo i secoli e ancora continua, la croce non venga issata sui labari che conducono gli eserciti alla guerra o la benedizione consacri le armi e vescovi e preti cerchino di alleare Dio e Cristo alle forze armate.

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E una evangelizzazione chiara, coraggiosa, di rottura e di tentativo di costruzione dell'uomo diverso e nuovo, ottiene soltanto isolamento e respinte anche da parte del popolo. Di questo popolo, venuto fuori dalla scuola micidiale della vecchia aristocrazia che ha insegnato soltanto il classismo più deteriore e il diritto al privilegio.
Questo popolo allevato, piano piano alla mentalità borghese capace di appassionarsi soltanto al proprio benessere, pronta a farlo pagare a qualunque prezzo, dal colonialismo allo sfruttamento industriale. Questo popolo catechizzato con un insegnamento cristiano totalmente a ritorno personale, con cristi, madonne e santi e chiese e preti e sacramenti, tutti impegnati per un pacifismo pacioccone e rassegnato in questa vita e la pace eterna nell'altra.
Questo popolo, passivo e irresponsabile, accarezzato da liturgie sentimentalizzate ed evanescenti. Rinchiuso nelle case riscaldate, incollato alla televisione o istupidito nelle sale fumose dei cinema e dei bar o impacchettato nelle automobili a cercare una liberazione o a respirare entusiasmi e rabbia più che aria buona sulle gradinate degli stadi...
Questo popolo che crede soltanto nei quattrini che ha o in quelli che spera in facili guadagni e si-cure sistemazioni o al limite in quelli che sogna ad ogni giorno del Signore recitando la preghiera dell'il-lusione con la schedina del totocalcio...
Questo popolo a parlargli di Cristianesimo di Cristo e di Vangelo e di lotta per la libertà a forza di Amore, di valori molto più importanti dei quattrini, di solidarietà umana, di ribellione al sistema, di Dio, padre di tutti. di uomini uguali e fratelli, ecc., e chiedergli di rischiare un capello, di dare un minuto di tempo, di fare un passo in avanti, c'è da sentirsi compatiti, commiserati, guardati come gente pericolosa, rivoluzionaria, rompiscatole e immediatamente si è respinti. Gettati fuori a morire dissanguati sulla croce della solitudine.

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Per chi lo desidera, è possibile fare questa esperienza di come è facile e semplice perdere la stima della Chiesa ed essere tenuti ai margini(quando va bene e si è capaci di un minimo di strategia). Come e quanto è inevitabile l'impossibilità di legare con persone e gruppi e movimenti con i quali poter lottare per i valori fondamentali capaci di costruire una umanità diversa. Specialmente quando questi gruppi e movimenti e partiti sono dommatizzati e gerarchicizzati a S. Uffizio di venerata memoria. E come può succedere di perdere amici, simpatie, colleganze, comunità, rapporti e intese, soltanto a tirar fuori discorsi a base di Vangelo, e rifarsi a Gesù Cristo pienamente e totalmente, mettendosi a lottare contro questa nostra civiltà assurda, contro tutto il sistema che la domina e la governa, contro l'assolutismo della ragione economica, contro l'oppressione del benessere, lo sfruttamento dominante e a parlare di povertà, di lotta per la fraternità, di liberazione dell'uomo, della guerra del Vietnam, dell'America latina, del Terzo Mondo, dei diritti dell'operaio, dell'assurdità dell'esercito, della violenza poliziesca, ecc., ecc.
Allora si capisce come e quanto Gesù Cristo realmente divida, separi e allontani in una solitudine senza speranze, dove è possibile sopravvivere soltanto finché regge e sostiene la Fede: quella Fede che dà di credere in Gesù Cristo come abbracciati (e sarebbe più giusto, inchiodati) ad una croce rizzata in un deserto.
Dio si è fatto uomo ed è venuto a portare questa solitudine sulla terra, abitabile soltanto da gente fatta per essere perdutamente e unicamente Amore.

La Redazione

Gente del Vangelo

8 - Il paralitico di Cafarnao

La folla preme intorno a Gesù, fa ressa perché intorno alla sua persona si è accesa una luce di speranza. E' povero popolo sbandato, condotto da cattivi pastori, è l'umanità sparsa su tutta la terra, assetata di giustizia, sopraffatta dalle tensioni provocate da chi ha interesse perché una massa di povera gente rimanga ad essere serbatoio inesauribile di sacrificio e di sofferenza per garantire il godimento di pochi.
Un paralitico viene portato davanti a Gesù scoperchiando il tetto della casa e calandolo dinanzi a Lui. Il problema si fa immediato, concreto. La folla si concentra tutta in un volto scavato dalla soffe-renza, in un corpo incapace di sollevarsi. La condizione umana si precisa ed interroga il Cristo, inter-pellando così la Chiesa ed ogni cristiano.
"Ti sono rimessi i tuoi peccati", è la sorprendente risposta di Gesù che scontenta ed irrita coloro che sono raccolti intorno. Da una parte quelli che attendono il miracolo come vantaggio immediato, in-capaci, per un'ignoranza cara a chi detiene il potere, di comprendere un gesto di ben più globale liberazione. Dall'altra coloro che comprendono anche troppo bene le parole di Gesù e lo accusano di be-stemmiare, di arrogarsi dei poteri che possono veramente capovolgere tutta una situazione, di indicare valori che possono mutare il corso delle cose e che quindi vanno adorati e non praticati a copertura degli interessi di chi vive all'ombra di questa adorazione.
«Che ragionate nei vostri cuori? Che cosa è più facile dire: 'I tuoi peccati ti sono rimessi', oppure dire: 'Levati e cammina'?», Gesù dona la guarigione al malato per incoraggiare a credere alle sue parole, ma la folla si ritrae animata da sentimenti contrastanti di sbigottimento e di ammirazione. Perché se il malato è veramente guarito, allora è possibile che i peccati siano veramente rimessi, che tutta una situazione di impotenza e di fatalità sia incrinata e sbriciolata a segnare l'inizio di una nuova storia. E' possibile un rapporto nuovo tra gli uomini. E' possibile risolvere le tensioni in comunione vera. E' possibile l'amore, come unica legge con cui confrontarsi.
E' possibilità troppo viva, che ferisce i nostri occhi come una luce sfolgorante, forse. Sta di fatto che questa possibilità continua ad essere respinta da ogni parte a segnare un cammino di croce. Sta di fatto che affinché l'annunzio continui, il cristiano e la Chiesa devono imboccare questa strada in solitudine, in pellegrinaggio.
Da una parte e dall'altra non può esservi che resistenza e opposizione. Perché si è troppo abituati ormai a vivere in stato di schiavitù, oppure a goderne i vantaggi. Entrare nella vita, con la stessa semplicità con cui Gesù entrava nelle case dei palestinesi, senza creare ghetti dove si parli un unico linguaggio e senza concordati o simili equivoci patteggiamenti, diviene così strada normale del cristiano e della Chiesa. Si tratta unicamente di essere luce accesa in questo nostro mondo portando le nostre responsabilità negli avvenimenti della storia, consapevoli - per un'autenticità di conversione - di essere in quanto cristiani direttamente coinvolti in ogni problema di dolore, di ingiustizia, di sopraffazione, per dare il nostro contributo e rendere manifesto agli uomini che questo mondo è stato redento e che in questa fiducia i peccati possono essere veramente rimessi nel segno di questa croce.

don Luigi

Vietnam e la pastorale

Hanno fatto un deserto e lo chiamano "Pace"

Forse, fra poco, i lupi concederanno la Pace. Pace che si stenderà come un immenso velo nero a ricoprire .il sangue di migliaia di uomini che nel Vietnam l'hanno sparso, irrigando quella terra di sofferenze indicibili, di lutti, di stragi assurde.
I lupi, ormai stanchi per la troppa durata di questo pasto feroce - ma pur sempre conveniente - forse decideranno che il cimitero vietnamita possa riposare. Piano piano il riso tornerà a fiorire nella terra lacerata dalle bombe a biglia, dal napalm, dall'urlo delle vittime innocenti; e nelle foreste nude per i defolianti chimici un giorno la primavera riuscirà a vincere la morte che ora vi regna. Ma i morti non vedranno quella primavera e resteranno chiusi nel loro inverno, con la bocca gelata dal freddo della morte e dell'ingiustizia da cui sono stati lacerati.
Per questo è necessario non dimenticare, non andare avanti facendo finta che niente sia successo, ricoprendo tutto il delitto col velo di un'ingiusta pietà. La vera pietà per coloro che dalla fine della seconda guerra mondiale non hanno ancora conosciuto la Pace consiste nella volontà di non di-menticare il crimine di cui essi sono stati le vittime e combatterlo con tutta la forza della propria ribellione.
Può darsi che la storia fatta dai potenti di questo mondo - storia ipocrita, falsa, manipolata dall'interesse del più forte - dia ragione all'affermazione di un loro degno rappresentante: «Fra qualche anno la parola Vietnam sarà soltanto nell'ultima pagina di qualche libro di storia». Può darsi che così avvenga; ma c'è una Storia diversa, costruita e tessuta dalle mani pazienti di Chi dalla massa informe della argilla umana cerca con infinito Amore di plasmare la nuova creazione. In quella Storia che è sacra - perché segnata dal soffio dello Spirito di Dio - il Vietnam resterà senza dubbio segnato a caratteri di fuoco. E su quelle pagine, non scritte da mano d'uomo, il giudizio resterà chiaro e preciso, tagliente come il filo di una spada.
La pace che i lupi potranno concedere forse verrà; ma il sangue sparso, le lacrime, le ferite, le distruzioni, la carne lacerata, la solitudine scavata nel cuore di migliaia di creature rimane lì, tutta intera, come un macigno tremendo a pesare sulla coscienza di chi ipocritamente può pensare di cancellare con una firma d'inchiostro tutto il fiume di morte uscito dalle sue mani.
I lupi concederanno forse la Pace: i presidenti, i generali, gli industriali, i tecnici, i piloti, i soldati, tutti quelli che in qualche modo hanno partecipato a questa mostruosa costruzione della morte (compresi i cappellani militari, ultimi attori di questa tragedia da loro «benedetta») se ne andranno anche loro «in pace», ai loro nuovi affari. Un lavoro è finito, si lavorerà a prepararne un altro.
Può darsi che vada così, ma il cancro rimane e la piaga aperta appesterà questa nostra civiltà senz'anima, incapace d'impedire un massacro assurdo, pazzo, criminale come quello vietnamita.
Tutti quelli che dalla lontana America, dall'America democratica, super-sviluppata, garante della libertà, hanno preparato e alimentato gli strumenti della strage, hanno incoraggiato i loro figli o i loro mariti a compiere «il loro dovere», hanno fatto miliardi col sangue dei poveri, hanno giocato le carte della carriera politica sullo schiacciamento dei deboli, tireranno un sospiro di sollievo e si sentiranno soddisfatti per la Pace che viene. E anche tutti i benpensanti - e sono tanti anche fra i cristiani - saranno pronti a riconoscere la magnanimità degli uomini politici che avranno voluto concedere riposo a un intero popolo dissanguato.
E forse non si daranno il minimo pensiero per non aver mosso nemmeno un dito perché quel povero popolo fosse lasciato libero nel suo cammino, perché la rabbia e la sete di potere di un branco di lupi rapaci non si rovesciasse sopra di lui.
Questa Pace fa paura, perché come la guerra di cui è figlia, porta il segno del più spaventoso egoismo. Non è la Pace di cuori rinnovati, di un uomo vecchio che rinasce, di lievito buono che emerge dalla distruzione del vecchio fermento. Non ha il sapore di una fraternità ritrovata: è una Pace vestita di sangue, coperta di lutti e di stragi.
Pace di lupi che ora indossano vesti d'agnelli e tentano di lavarsi le mani di tutto un tremendo problema, senza cambiare il cuore.
Che fare, allora? Mi sembra che sia giusto lasciarci invadere l'anima, fino a traboccarla d'angoscia, dalle migliaia e migliaia di volti piagati dei martiri vietnamiti, vittime di una atroce persecuzione, traditi dalla quasi totalità di noi cristiani che in tutti questi lunghi anni di tragedia non abbiamo saputo fare per loro niente di più che ricordarli forse in qualche distratta preghiera dei fedeli. I volti miti, pacifici, afflitti, dei santi innocenti del Vietnam, fascio di tralci buoni bruciati nel rogo della pazzia criminale dei potenti. E attingere da questi occhi spenti da una pioggia di fuoco, da queste mani lacerate dai chiodi dell'ingiustizia e della sopraffazione, il coraggio e il dovere per una lotta senza quartiere contro le radici della follia. E prendere coscienza che se accettiamo questo mondo «così com'è», se non usciamo dalle nostre tane per gridare e fare la Verità in piena luce, se non lottiamo allo scoperto perché i cannoni e i bombardieri siano trasformati in trattori, in aratri, in scuole, anche noi siamo assassini. E non ci sarà nessuna buona fede a salvarci: perché non basta dire «Signore, Signore» per entrare nel regno dei cieli.

don Beppe

Esperienza di popolo cristiano per il Vietnam

Appello ai Vescovi

Nel mondo ecclesiastico si pensa e si dice con troppa facilità e disinvoltura che certa evangelizzazione non è gradita e quindi indisponente nei confronti del popolo cristiano, cioè del popolo che frequenta la chiesa, che è fedele alla messa domenicale.
Certi temi è bene non toccarli - si dice comunemente nei salotti della prudenza ecclesiastica, nelle aule dei consigli presbiterali e pastorali -, certe problematiche esistenziali, brucianti nel momento storico che stiamo vivendo, è sconveniente viverle nella liturgia, trattarle nelle omelie, proporle all'attenzione della coscienza cristiana.
Si rischia di essere tacciati di fare politica, di vedere unilateralmente le cose, di disorientare e dividere 1'«unità» del popolo cristiano e quindi di fare veri e propri attentati alla carità... Il discorso è molto grosso, e lasciamolo lì, perché se si andasse ai vecchi tempi, anche soltanto a breve memoria d'uomo, si rimarrebbe stupiti come per altre problematiche, a quei tempi, terribilmente interessate, non si avevano certe delicatezze di coscienza nei confronti della politica (e quella era chiaramente intenzionalizzata, e tatticamente ben architettata, strumentalizzando sacrilegamente il sacro).
Il problema della pace, e quindi della respinta della guerra, di qualsiasi guerra, è problema di coscienza cristiana, fondamentale ed essenziale.
E che il problema della pace può essere, a seguito dell'Amore cristiano e della fraternità umana, affrontato lottando, con un impegno totale di Fede, contro la guerra che attualmente insanguina il mondo fino al rischio di distruggere un popolo, come la guerra che gli americani combattono nel Vietnam, è un fatto che soltanto la disumanità interessata del mondo ecclesiastico può giudicare inopportuno e lavarsene le mani, o girarci alla larga, scusandosi con la storiella che in chiesa non si deve fare politica.
Domenica scorsa 14 gennaio, nel centro della città, intorno alle quattro grosse parrocchie, con amplificatori piazzati su quattro macchine dalle 9 alle 12, abbiamo parlato della guerra del Vietnam, chiedendo unicamente in nome di Dio e di Cristo, dell'Amore cristiano e della fraternità umana, che ogni cristiano e tutto il popolo cristiano insorgesse contro la guerra che gli americani combattono nel Vietnam, contro la politica imperialista di Nixon avviata allo sterminio di un popolo, colpevole di cercare la propria unità, indipendenza, libertà.
Abbiamo invitato a porre una firma sotto una petizione da inviare a tutti i Vescovi italiani, a indicazione della volontà di pace del popolo cristiano.
Ecco il testo della petizione:

UNA FIRMA PER LA PACE NEL VIETNAM

NEL NOME DI GESU' CRISTO e come fratello di un popolo minacciato di sterminio, ti chiediamo UNA FIRMA di solidarietà, come segno di Amore cristiano per i fratelli nel Vietnam martoriati da una guerra spaventosa che dura ormai da 30 anni fino alle misure di un orrore inimmaginabile.
Questa firma vuoi dire che tu, a seguito di una conversione personale per un impegno cri-stiano di pace che deve essere prima di tutto lotta contro la guerra, chiedi, insieme al popolo cristiano e a tutti i popoli di buona volontà:
1 - La CESSAZIONE dei criminali bombardamenti americani su tutto il Vietnam.
2 - Il RISPETTO deIl'INDIPENDENZA di ogni popolo dall'oppressione di un popolo straniero.
3 - L'UNITA' DI TUTTO Il VIETNAM come popolo unico, sovrano e libero.
4 - L'IMMEDIATA FIRMA da parte dell'America del trattato d'ottobre e quindi la FINE DELLA GUERRA.
5 - L'ABBANDONO DA PARTE DELLA CHIESA di qualsiasi partecipazione agli eserciti e alle guerre col ritiro dei cappellani militari.
Questo è il significato della tua firma che sarà inviata a tutti i Vescovi d'Italia, a manifesta-zione della volontà del popolo cristiano e come segno della sua responsabilità e del suo impegno concreto.

Davanti alle quattro chiese erano gruppi di cristiani a ricevere le firme. Nelle sole Messe dalle 9 alle 12 le firme raccolte sono state 2100.
2100 persone, 2100 cristiani, evidentemente disponibili ad una evangelizzazione concreta, attuale, coinvolgente anche a livelli personali e dl popolo cristiano, con i terribili problemi che travagliano l'umanità.
Le firme con un atto di fede, sono state inviate alla segreteria della C.E.I., e a tutti i Vescovi italiani rivolgiamo questa volontà di no alla guerra del Vietnam, insieme a tutta la problematica di una evangelizzazione che sia veramente la Parola di Dio che si fa carne per abitare in tutta la vita degli uomini.

La Comunità del Porto

Lettera alla segreteria della C.E.I.

Abbiamo ricevuto con preghiera di pubblicazione questa lettera da gruppi di amici di Empoli. E' del novembre scorso, ma la sua attualità, in questi nostri giorni, è ancora più drammatica e urgente.
A S. E. Enrico Bartoletti,
Segretario della C.E.I. e, per suo mezzo a tutti i vescovi italiani.
Caro fratello,
si fa sempre più chiara in noi la convinzione che quel ferito sulla strada di Gerico, che solo il buon samaritano si fermò a curare, sia stato motivo di Giudizio su tutti gli altri che prima erano passati oltre senza fermarsi. Siamo convinti di ciò, perché crediamo che quello, come ogni povero, ogni sofferente, ogni oppresso, sia figura del Cristo. Gesù stesso, facendosi povero e morendo sulla Croce, ci ha detto che d'ora innanzi, prima della sua ultima venuta, ci sarebbe apparso non in vesti splendide, ma nell'affamato, nell'assetato, nel forestiero, nell'ignudo, nell'infermo; e solo se lo avessimo saputo riconoscere in quella anonima veste sarebbe stato per noi fonte di vita, motivo di salvezza.
Gli ultimi decenni ci hanno sicuramente insegnato che vedere il povero, l'oppresso solo all'angolo di una strada o alla porta di una chiesa è comodo, fin troppo comodo. Questi anni ci hanno insegnato a vederlo, più realisticamente, in intere classi sfruttate, in interi popoli privati dei loro diritti, minacciati dalla guerra, oppressi da nazioni potenti. Così che il nostro amore per il prossimo non può prescindere da queste realtà: una Carità che non è anche politica non è vera carità.
Senz'altro ci sono tante realtà, situazioni che richiedono una nostra attiva presa di coscienza e di posizione; ma in particolare una supera le altre in quanto a gravità. Questa è la realtà vietnamita, che preme sulle nostre coscienze vietandoci di essere tranquilli ed è come un colpo di scure sugli intricati nodi delle nostre distinzioni, dei nostri « ma ».., « però »..., costringendoci ad una precisa scelta.
Il nostro atteggiamento non può essere un generico NO alla guerra. La nostra richiesta di pace deve essere accompagnata da un'analisi reale della situazione, per cui dobbiamo, senza dubbio, riconoscere la violazione degli accordi di Ginevra da parte del Governo degli Stati Uniti (come attestano, tra l'altro i "Documenti del Pentagono"); denunciare i tremendi metodi di sterminio da esso cinicamente impiegati e il recente rifiuto di firmare immediatamente il trattato di pace; appoggiare quindi la giusta lotta del popolo vietnamita per l'indipendenza e la libertà della propria Nazione; riconoscere infine anche le complicità di noi cristiani, a partire dall'ossessiva propaganda anti-comunista, al tempo della divisione dei due Viet-Nam, fino alla dittatura oppressiva del cattolico Van Tieu.
Non son mancate, certo, iniziative di singoli gruppi di cattolici italiani, di Comunità di base, di organizzazioni come le ACLI; ma ancora è mancata una azione massima dilla popolazione cattolica, un pronunciamento deciso della Conferenza che unisce i Pastori della Chiesa Cattolica Italiana. Invitiamo Lei e, attraverso di Lei, tutti i Vescovi italiani a farsi promotori di tutto ciò.
E' l'ora che i cattolici cessino di far parte di quella cosiddetta "maggioranza silenziosa", in cui, nascondendosi dietro l'ormai comodo scudo dell' anti-comunismo, soffocano la Parola dell'Evangelo, rifiutandosi per un tale pregiudizio (quello dell' anticomunismo) di levare la propria voce contro la strage di un popolo.
E' perciò ormai necessario che tutta la Conferenza Episcopale ed ogni singolo vescovo nella propria diocesi si preoccupino di promuovere una reale informazione sulle vicende della guerra e si facciano, tra tutti i credenti, animatori di iniziative concrete per la pace; che inoltre esortino tutti i fratelli cattolici degli Stati Uniti a partecipare ai movimenti per la pace che in quel Paese si stanno così fortemente sviluppando; ed inviino, infine, una lettera al presidente R. Nixon perché tolga ogni indugio a firmare il trattato di pace.
Fraternamente La salutiamo.

Comunità di Empoli (insieme ad altre comunità e gruppi sacerdotali)


Il problema dell'obiezione di coscienza

Obiezione di coscienza e il Clero

Se ne ragionava l'altro giorno fra noi, e come spesso succede, parlando e discutendo le idee si svolgono come un filo da matassa aggrovigliata.
Si diceva che nei confronti di proposte cristiane, sempre più richieste dall'esigenza di chiarezza in una evangelizzazione realizzata nel nostro tempo, noi, uomini di Chiesa, noi clero, non siamo nelle condizioni adatte per poterle offrire.
Nemmeno siamo autorizzati e giustificati a parlare di certi problemi che pure travagliano il nostro tempo.
Di libertà dal potere civile, per esempio, quando i Vescovi devono giurare fedeltà allo stato, prima di andare a fare i pastori fra le pecore della propria diocesi, nelle mani del Presidente della Repubblica.
Di libertà dal potere militare e poliziesco, data l'esistenza di un Vescovo che fa il pastore nel gregge di pecore irreggimentate nell'esercito e nei vari corpi di polizia.
Di libertà nell'insegnamento religioso, regolato e stipendiato nelle scuole, e anche nelle parrocchie, ecc.
Di libertà nell'opinione politica e di rapporto sociale con la vita, per il fatto che s'impongono necessità inderogabili di particolari appoggi e sostegni da parte delle Chiesa.
E tantissimi altri problemi che in definitiva portano già chiara, stabilita e assolutamente inevitabile la modalità dell'annuncio evangelico, i limiti e le vie obbligate dentro le quali deve correre, e non può essere diversamente, l'evangelizzazione.
E ci siamo fermati ad approfondire con serietà e, pensiamo, con responsabilità, il problema, così bruciante, ai nostri giorni, dell'obiezione di coscienza.
Perché è un fatto che in una seria evangelizzazione sull'Amore fraterno, sull'essere tutti figli di Dio, sull'annuncio adorabile di Dio che è Padre (è la rivelazione più nuova e luminosa, fino a illuminare di luce nuova la terra e l'umanità, che il Figlio di Dio ha svelato ai figli degli uomini) per questa evangelizzazione non si può che essere antimilitaristi, assolutamente contro l'esercito, contro la guerra, contro le armi, contro tutta, insomma, quell'organizzazione fatta per uccidere che è il militarismo.
Ci troviamo subito, come Chiesa, andicappati, in un grosso imbroglio, nella evidente e amarissima condizione di una vera e propria impossibilità nei confronti dell'evangelizzazione all'Amore fraterno, chiaro, aperto, universale, per la compromissione - letteralmente ufficiale - della Chiesa con tutto il mondo militare e poliziesco.
Le distinzioni sono unicamente sotterfugi penosi, le giustificazioni sono tentativi di una copertura fatta di stracci, insufficienti a coprire le vergogne.
Un Vescovo è sempre un Vescovo; successore degli Apostoli ecc., e l'aggettivo specificante la sua missione di «castrense» è' assolutamente incompatibile. Basta metterei a tradurre questa parola «castrense» per capire l'incompatibilità. E' questione di sfogliare un vocabolario.
Che sacerdoti su quella «sacra talare» (sono rimasti quasi gli unici a portarle, chissà perché, forse per un segno di fedeltà alla Chiesa e all'esercito) portino i gradi di tenente, di capitano, di maggiore, ecc., lascia molto perplessi, specialmente se viene da pensare che da quella "sacra talare" ne venga una sacralizzazione per l'esercito e che da quei galloni ne possa venire un prestigio, un motivo di particolare stima (o di timore) per la "sacra talare" e per il sacerdozio.
Ma il discorso andava avanti, svolgendosi in riflessioni improvvise e laceranti.
Noi preti ci troviamo nella condizione di non poter trattare dell'obiezione di coscienza e quindi di non potersi schierare accanto a quei giovani che affrontano il carcere - e nella quasi totalità a seguito di motivazioni religiose - pur di non rivestire una divisa militare, imbracciare un fucile, entrare nell'ingranaggio dei cingoli di quel carro armato che è la vita militare, che è l'esercito.
E' un popolo (sparuto quanto si vuole ma in crescita, tant'è vero che sta premendo perfino in Par-lamento questo problema) è un popolo questo degli obiettori di coscienza, senza sacerdoti fra loro, senza un'ombra di solidarietà da parte della Chiesa, senza una evangelizzazione chiara e precisa.
Il motivo è semplice: noi preti siamo nella più assoluta impossibilità di poter essere obiettori di coscienza.
A seguito del Concordato con l'ordinazione «in sacris» si ha l'esenzione dal militare. E' un privilegio, non è un segno antimilitarista della Chiesa.
A seguito del Concordato, da sacerdoti e uno da vescovo, può diventare militare e nientemeno che ufficiale o nel caso del Vescovo, generale (o qualcosa del genere). E' al solito un privilegio e un segno e realtà di collisione fra Chiesa ed esercito.
Questo benedetto Concordato che ha ridato Dio all'Italia e l'Italia a Dio!
Cosicché se a qualche sacerdote (naturalmente ancora nei limiti di età e particolarmente chiamato a questa testimonianza) venisse l'idea di fare l'obiettore di coscienza, bisognerebbe che chiedesse la riduzione allo stato laicale e potrebbe darsi che gli arrivasse la cartolina di chiamata sotto le armi. Bruciata la cartolina, arrivano i carabinieri, cinque minuti di tribunale militare e il carcere apre i cancelli e li richiude per parecchio tempo.
Per una evangelizzazione seria, responsabile e pagata, contro la guerra, per poter gridare, a bocca pulita, la parola pace e diventare credibile che la Chiesa è contro la guerra e vuole seriamente la pace, quella cantata dagli Angeli sulla grotta di Betlem e quella che unicamente può dare Cristo e non il mondo, alla umanità, ecco, come preti, che cosa bisognerebbe arrivare a fare.

don Sirio

Problemi militari

militari civili difesa leva
ESERCITO 49.500 40.000 200.000
MARINA 18.600 29.000 15.000
AERONAU. 41.600 10.500 25.000
CARABIN. 78.500 270 2.000
TOTALE 188.200 79.770 242.000

Dalla tabella risulta che i militari e i civili della Difesa superano la forza di leva. Su 100 soldati di leva vi sono 110 tra civili e militari in servizio continuativo; i soli militari di carriera sono più di 75 ogni 100 soldati di leva. Inoltre vi sono 44 carabinieri ogni 100 militari in servizio continuativo; nel servizio di leva si contano 31 carabinieri ogni 100 giovani di leva.

Obiezione di coscienza:posizione piccolo-borghese?

E' questa l'accusa che viene lanciata da sinistra a chi propone l'obiezione di coscienza come forma di lotta. Oggi, essendo d'attualità in Italia l'ipotesi di un esercito di volontari (facilmente manovrabile da chi ha il potere), l'obiezione di coscienza è sotto accusa quale alibi fornito ai politici inte-ressati per proporre l'abolizione della leva obbligatoria. L'obiezione sarebbe quindi un pericoloso errore sul piano politico, un 'bel gesto' di chi vive nel mondo senza prospettive precise, immerso nei problemi della propria coscienza.
Tutto questo risente di una conoscenza dei contenuti di lotta degli obiettori, a dir poco superficiale, Non è. quello dell'esercito di volontari, problema da prendere sottogamba, ma la lotta contro l'esercito portata avanti dagli obiettori non si esaurisce nel rifiuto di vestire una divisa, ma cerca di colpire al cuore l'istituzione prima nelle carceri militari e poi nella vita civile. E' lotta ad oltranza, senza riposo e senza limitazione di obiettivi. Per sradicare dal cuore del popolo l'istinto della guerra. Contro ogni esercito, a maggior ragione contro un esercito di volontari che finiscono per essere mercenari pagati per uccidere, ma anche contro ogni esercito 'popolare' a dividere il popolo tra chi ha il fucile nelle mani e chi da questo fucile può essere ucciso. La legge votata dal parlamento recentemente, in questo senso è una vera e propria presa di giro per la lotta condotta dagli obiettori in vista di una legge che dimostrasse una volontà politica per una pace che fosse finalmente un chiaro no alla guerra.
E' del resto la legge, espressione del punto di vista della destra nei confronti dell'obiezione. Un punto di vista di una tale meschineria che solo il forte gioco della strumentalizzazione e degli interessi, salva dall'essere di un'idiozia unica. Ne esce fuori una figura di obiettore dal fiorellino in bocca e dallo sguardo melenso, una specie di prete mancato (tanto per citare chi l'obiezione la fa secondo la legge).
Un sognatore da sinistra, un sognatore da destra: eppure son giovani che pagano duramente ogni giorno della loro esistenza dentro e fuori dal carcere militare, e molto spesso in nome di Cristo. Un Cristo strappato ai Vangeli perché certo la Chiesa non lo offre, ma lo impiastra di pastorale fino a sfigurarne il volto, fino a renderlo irriconoscibile, travestito da protettore di armate, da generale che chiama a raccolta i suoi figli migliori sul campo di battaglia. Sono fratelli di fede che hanno il diritto alla nostra solidarietà e al nostro contributo di lotta.

don Luigi

La grotta di S. Oreste

La visita del papa agli operai della galleria di S. Oreste nella notte di Natale, la messa da lui ce-lebrata fra i segni della fatica del lavoro, hanno suscitato in me alcune riflessioni che vorrei cercare di esprimere molto semplicemente. Non so quello che abbiano provato gli operai presenti sul posto di lavoro, ciò che sia arrivato al loro cuore, al cuore di tutti gli operai che hanno saputo di questo fatto. Per parte mia, ho cercato di riflettere su questo avvenimento senza polemica, senza preconcetti, guardandolo con occhi semplici per coglierne il significato sul piano della Fede. Per vedervi qualcosa dell'immenso e affascinante mistero dell'Incarnazione del Figlio di Dio.
Mi è stato spontaneo riandare alla stalla di Betlem, alla nudità della mangiatoia, alla povertà di Gesù nella sua nascita e nella sua immersione nel fiume della vita. «Nel cuore della montagna, in fondo alla galleria di S. Oreste che tanto ricordava la stalla di Betlemme, Paolo VI ha ripetuto l'annunzio che l'angelo aveva fatto ai pastori. Agli operai della miniera, che rappresentavano quanti nel mondo hanno fame e sete di giustizia, ha ripetuto che ad essi, anzitutto, si rivolge il messaggio di salvezza e di spe-ranza del Messia». (Avvenire, 27-12-72).
Il discorso del papa è stato tutta una ricerca di far comprendere il perché della sua scelta, da parte di chi egli era andato e per quale scopo: «Perché sono venuto? Vedete: io sono un messaggero, sono un apostolo ... inviato apposta per comunicarvi una buona notizia, un vangelo ...».
Questo fatto rimane dunque un segno da interpretare, un gesto da comprendere. Per me, esso è qualcosa che rivela in modo indiscutibile le contraddizioni dell'intera comunità della Chiesa. Un segno che al di là delle intenzioni personali di chi lo ha compiuto interpella la Chiesa intera e non dovrebbe es-sere lasciato cadere nel vuoto. Un passo che potrebbe essere il primo su una strada di liberazione.
Eppure può darsi che esso rimanga un gesto chiuso nel breve arco di una notte, nelle emozioni di un attimo, nell'illusione di un abisso colmato e di un'amicizia ritrovata. Di un Natale veramente fedele al Natale del Povero, del Cristo che non aveva neppure una pietra dove posare il capo né una tana dove rifugiarsi.
Nella grotta di S. Oreste, a ricercare le tracce di Cristo, è arrivata - con il papa - una Chiesa dolorosamente lontana dalla strada del Vangelo, compromessa da tutti gli innumerevoli interessi che la legano ancora così tanto al carro dei potenti e dei padroni del mondo. Una Chiesa amica dei falsi idoli, asservita ancora al potere del denaro, dei giochi politici e diplomatici, seduta ancora troppo spesso al tavolo dei ricchi, paurosa dell'unica forza della Croce. Una Chiesa, nel suo insieme, dal Vaticano, alle nunziature, alle curie, alle parrocchie - strutturata sui modelli della saggezza umana, sulle furbizie e sulle burocrazie, sulla borghese sicurezza della nostra civiltà egoistica: lontana così tanto dalla chiara povertà di quel Gesù di Betlemme e di Nazareth di cui la Chiesa dovrebbe essere la fedele continuazione storica, il prolungamento vivente della sua Incarnazione.
Devo dire schiettamente che il papa mi è sembrato più vicino ai magi del Vangelo che agli apostoli inviati dal Figlio di Dio sulle strade del mondo a gridare il sogno di Dio. La Chiesa di cui egli è segno di unità e di autorità è troppo lontana ancora nel suo insieme da quel gruppetto di uomini mandati senza borsa, senza due tuniche, senza denaro nelle cinture, abbandonati totalmente alla provvidenza quotidiana del Padre, unicamente preoccupati del Regno di Dio.
La grotta di S. Oreste ha manifestato con chiarezza - grazie alla dura realtà del mondo operaio - quanto lunga sia la strada da percorrere perché possiamo sentirei degni di chiamarci apostoli, discepoli, amici del Figlio di Dio venuto ad abitare fra noi. Essa rivela come l'annuncio del Vangelo ai poveri, agli oppressi, a chi porta in sé le ferite dello sfruttamento e dell'ingiustizia, non possa essere autentico se non viene da chi vive le stesse lotte, la stessa croce. Senza comunione di vita, senza incarnazione nella pasta dell'esistenza concreta di coloro a cui rivolta l'evangelizzazione, qualunque tentativo di incontro rischia di rimanere un gesto sterile e equivoco.
Per me, ciò che é avvenuto la notte di Natale nel galleria di S. Oreste rimane un appello e un'accusa che lo Spirito di Dio - cuore della Chiesa - rivolge a tutti noi.
Non si può rallegrarci di questo «lieto avvenimento» senza renderei conto di ciò che occorra realmente fare per essere sulla strada segnata dai passi del Cristo; senza prendere coscienza di quello che Dio chiede insistentemente alla sua Chiesa. La Parola che non si fa carne non è Parola di Dio, non è Parola cristiana. Andare dai poveri senza esserlo, non è annuncio evangelico né rivelazione dell'Amore del Padre: può diventare addirittura una pietra d'inciampo in più sul cammino dell'incontro col Dio vivente.
Bisognerebbe avere occhi e cuore così tanto capaci di Fede da poter scorgere in certi gesti l'energia di conversione che vi è nascosta e che cosa essi realmente richiederebbero: una scelta chiara di rinuncia ad ogni falso potere, ad ogni autorità che non sia servizio; la rottura di ogni compromesso economico e politico, l'abbandono di ogni segno di privilegio, l'entrare a far parte del popolo dei poveri, di quelli che non contano.
La Chiesa che con Paolo VI è entrata nel grotta di S. Oreste, nella fatica della classe operaia, nel terreno di scontro fra il potere del denaro e della ragione economica e l'incessante sforzo di liberazione e di fraternità, per portarvi l'annunci del Cristo Salvatore, può darsi che abbia compiuto un gesto che si rivelerà come un seme vuoto se non comporterà - come sarebbe giusto sperare - una scelta precisa di conversione.
Ma la prima istintiva impressione è che tutto resterà perduto (come è successo infinite altre volte) fra le pietre di quella galleria; per cui cresce il senso di una profonda vergogna per un gesto d'amore che ha tutto il sapore del tradimento.

don Beppe

citazione

Cominciò tutto a Betlemme. Fu allora che sulla superficie della storia affidata alle cure delle Potenze di questo mondo si produsse una crepa. Le Potenze si sono date da fare, mille e mille volte, per colmarla. Ma essa si riapre sempre. E' da lì che germoglia la possibilità di un mondo diverso da questo. Se ne accorgono solo coloro per i quali un mondo come questo diventa insopportabile, i poveri, i miti, i facitori di pace, gli afflitti, gli assetati di giustizia, quelli insomma, che vivono nella passione per l'impossibile. Naturalmente, essi sono fuori, come lui.

P. Balducci

Brasile: la storia di Geremia

Questa storia è stata raccontata semplicemente da un sacerdote che lavora in Brasile nella stessa regione dove ha vissuto Geremia - è una fra tante storie vere, che il mondo non conosce perché costituiscono il sale della terra e il fermento che fa lievitare la massa.
Brasile 1964.
Geremia era un ragazzo del sud del paese, e che visse poco tempo nel Nord-Est del Brasile, nella zona più difficile e di più siccità; nel Comune di Ferreiros Camutanga Itambé. Era un giovane di 25 anni, quando morì. Egli fu un cristiano senza conoscere, forse, la persona di Gesù Cristo. Il suo nome era Luis, ma gli hanno dato il sopranome di Geremia, il profeta.
Lui è arrivato al nordest nel '61, vive con e come contadino, lavorando la terra. Era di sinistra. E lui, osservando il popolo se n'è accorto che, era un popolo mistico, un popolo religioso .... e così egli lo accompagnava al lavoro, in chiesa.
Egli faceva le manifestazioni con loro. Dopo un po' di tempo, Geremia incominciò a predicare ed egli parlava come un inviato. Però, era uno che rispettava il popolo lasciandolo « fare» nel prendere le decisioni. Con il gruppo, quasi 500 contadini, egli va di paese in paese per «fare la giustizia» che i potenti della terra non volevano fare. E quando Geremia arrivava in un luogo e qualcuno gli diceva: «hanno distrutto la mia piantagione». Egli rispondeva: «che possiamo fare?». E il popolo suggeriva: «andiamo a piantare un'altra volta!».
E l'uomo che aveva perso la sua coltivazione diceva: «ma la mia piantagione già era alta tre palmi», e Geremia: «che possiamo fare?». Qualcuno rispondeva: «forse, ognuno potrebbe portare le piantine alte tre palmi, ciascuno ne porta una o due e noi le piantiamo nuovamente».
E il giorno seguente essi circondavano l'antica terra del povero, strappavano la canna che il ricco aveva piantato e il popolo cantando piantava di nuovo nella terra del povero e ancora una volta costruivano la 'vaca' del povero e i potenti, i ricchi proprietari, i padroni degli «engenhos» restavano pieni di rabbia di Geremia e del popolo e promettevano vendetta. E così questo uomo fece molte azioni. Egli sempre predicava per il popolo e annunziava un giorno differente in cui la giustizia avrebbe potuto regnare in questo mondo. Quasi alla fine della sua vita, all'inizio del '64, egli riceve una lettera di un gruppo di padroni di «engenhos» dicendo che volevano dialogare con lui - riguardo ad uno sciopero che era stato fatto. E il popolo diceva: «non andare, questi uomini sono traditori, sono come giuda». E lui rispondeva: «io vado, perché dobbiamo credere alle parole dell'uomo».
Due giorni prima dell'incontro, Geremia parte per Recife. Va in una gelateria con un amico, il Bira (che mi informò di questo particolare), va al cinema e dice: «oggi, io vedo il mio ultimo film ...». Prende il gelato e dice: «questo è l'ultimo gelato che prendo», Era molto tranquillo, molto sereno e contento. Lui ritorna al campo e nella veglia della sua morte, fa una festa con il popolo. Nell'ora della cena ci era poco alimento. In quel luogo mangiano spesso il «carà», una specie di patata, o radice. C'era poco carà e una grande folla, e lui ha spezzato il carà dando a ciascuno un pezzo, come ha fatto Gesù nell'ultima Cena. E così diceva: arriverà il giorno in cui ci sarà carà per tutti. E così ha salutato i suoi amici e ha fissato l'incontro alle 7 di mattina, del giorno seguente con tutto il groppo per accompagnarlo fino alla fattoria Oriente, la proprietà in cui era stato fissato l'incontro con il padrone. Davanti alla chiesa di Ferreiros lui ha fatto un discorso di arrivederci e ha chiesto a tutti di non entrare nella proprietà privata del padrone ma che guardassero la falsità dei ricchi di questo mondo e come i potenti trattano i poveri.
Davanti al cancello dell'«engenho» lui toglie la camicia bianca, taglia la canna, butta via il coltello (l'unica arma del povero), appende la camicia nella canna e entra dicendo: Pace. Dopo aver camminato 5 metri è stato mitragliato.
Così ammazzato crudelmente, il popolo non sapeva cosa fare. I «capangas» del signore dell'engenho hanno sparato contro il popolo e questo fuggì. Dopo sei anni, di questi fatti, quando si parla con il popolo si può sentire che tutte le parole di questo uomo come anche i suoi gesti sono ancora presenti nella loro vita e che loro conservano la sua foto che passa di mano in mano (di nascosto) perché lui è un uomo vietato al popolo, nessuno può dire il suo nome.
La sua storia è raccontata nei volantini popolari, conosciuta da poche persone.
Quando sono andato a celebrare la messa in questo posto e parlavo di santi, ho domandato se qualcuno voleva nominare un santo così ben voluto come la Vergine o S. Giuseppe. Ed. una persona tra di loro ha detto: San Geremia.

Il Disoccupato

Disoccupato.
Dicono che non hai voglia di lavorare.
Dicono che non hai un mestiere.
Dicono che non dovresti avere moglie e figli.
Dicono che dovresti picchiare di porta in porta.
Ma non ti dicono che sei
la valvola di sicurezza del sistema.
Ma non ti dicono che per mantenere tranquilli
i lavoratori
tu devi restare quello che sei.
Ma non ti dicono che senza di te
chi comanda avrebbe paura.
Tu servi a coloro che comandano.
Tu dovresti conoscere le crisi di coscienza
dei politici quando ti pensano.
Di te stesso hai vergogna.
Mentre dovrebbero essere gli altri
a vergognarsi di te.
Me compreso.

Giorgio Calanchi

citazione

Dio scelse di chiamare suo figlio GESU', egli che, pienamente umano e pienamente libero in Dio, era libero per gli altri. libero di fare di quelli che avessero accettato di seguirlo, persone autentiche come lui. E questo lo dimostrò con le solidarietà verso i poveri, gli oppressi. verso i malati nel corpo e nello spirito, verso chi era rifiutato dalla società. Le forze dell'oppressione religiosa e politica si allearono contro questo uomo libero, questo liberatore e lo misero a morte. Ma Dio lo liberò dal nemico ultimo, che noi tutti temiamo, la morte. E' a questo Gesù, nato, crocifisso e risuscitato che noi crediamo con tutta la nostra Fede.

Philip Potter

piedipagina


Nella testata: "la sciabica" di Inaco Biancalana
Spedizione abb. postale gruppo III/70
Redazione: Lungo Canale Est, 37
Autorizz. Tribunale di Luoca - Decreto N. 228 del 7.3.1972
Direttore Responsabile: Don Siro Politi
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