LOTTA COME AMORE: LcA settembre 1972

La lotta e la pace

Non è una condizione di pace quella della vita. La constatazione di tutta una realtà di lotta è così evidente che è perfino assurdo cercarne una dimostrazione. Basta aprire un giornale, e a spiragli più o meno diversamente angolati, secondo quale giornale si ha tra le mani, si apre la spaventosa visuale dell'immenso, tremendo, spietato campo di battaglia che è il mondo. Dalla guerra guerra, quella che straripa di sangue tanta terra ( e è ormai quasi abitudine, e cioè indifferenza, per esempio, che un immenso popolo come quello degli Stati Uniti affoghi nel sangue un povero, disgraziatissimo popolo come quello del Vietnam), alla violenza di sopraffazione dei regimi totalitaristi e militari e alla ribellione della guerriglia, allo scontro fra oppressione e liberazione, sfruttamento e rivendicazione... fino allo sbriciolarsi del banditismo dalla pistola facile e dello spiritaccio ven-dicativo che arriva con spaventosa disinvoltura all'omicidio... tutto questo mondo e questa povera umanità è come terra solcata a rigagnoli e a fiumi di sangue. Un immenso campo di battaglia dove lo scontro si risolve in un orrendo rigurgito di sangue.
Orrore che perdura implacabile da quando è cominciata la cosiddetta storia dell'umanità, e cioè il racconto delle guerre, delle rivoluzioni, delle rivolte, delle violenze, cioè della civiltà che, in definitiva, vuoi dire il modo più colto, raffinato, civile, di sgozzare i fratelli e di succhiare il sangue, dichiarando dignitosamente quest'opera «civile» come ricerca di ordine, impegno di giustizia, difesa della libertà ecc. (e la letteratura di copertura della bestialità più sanguinaria dell'uomo, ognuno sa quanto sia strabocchevole, fino alle misure della più schifosa spudoratezza).
Pensiamo che quando diciamo pace, quando noi cristiani ci dichiariamo per quelli della pace, quando la Chiesa si riempie la bocca di pace e pace, pensiamo che sia un modo di evasione, di alienazione da quelle che sono le realtà, le concretezze della vita, dell'esistenza, della storia. Anche perché parliamo di una vera e propria utopia. E sognatori bisogna essere, ma più che sia possibile ad occhi aperti, specialmente quando si rischia di estraniarsi, di disincarnarsi dalla realtà delle cose (e queste di cui si sta discorrendo sono le più spaventose per la loro assurdità e il loro orrore) e rifugiarsi nascondendosi nell'ovattamento di una sospirosa speranza che almeno a noi non succeda quel qualcosa di orribile che è la guerra e possibilmente ci sia evitata anche la gocciolina di sangue per la puntura di un'iniezione.
C'è un pacifismo che non è affatto una ricerca di pace, un desiderio, una volontà di pace, ma è un attendismo pacifista, una passività che aspetta e guarda a naso in su che si levi la ventata buona a spazzare il cielo del nuvolone nero, carico di tempesta.
La pace è valore di conquista, è risultanza d'impegno, è fruttificazione di una seminagione a larghe mani, anche sulla strada, anche fra i sassi, fra ai rovi e sulla terra buona, se capita di trovarla.
La pace nel mondo nasce dal cuore di ogni uomo e di ogni donna.
Prima di tutto diventando ed essendo realmente uomo o donna di pace col pagare quotidiano questa pace, sacrificando la propria per una ricerca oggettiva, concreta di pace. E' il grave e durissimo discorso del porgere la guancia destra a chi ti percuote la sinistra, di lasciare i pantaloni anche a chi ti porta via la giacca.
Per la pace la prima lotta da fare è contro noi stessi. Per sradicare l'istintività del possesso, del diritto, dell'egoismo, abbarbicato fin nel midollo delle ossa e sempre pronto - è il serpente del primo giorno dell'umanità - a tirar fuori le proprie ragioni capaci di giustificare il mangiare quelle degli altri, comprese quelle di Dio.
Chi cerca la pace, e intende come pace la propria pace, fa la guerra più spietata e crudele: intorno a sé come individuo, come famiglia, come classe, come popolo, come razza, come civiltà.... è campo di battaglia e vi corre inevitabilmente il sangue.
Le esemplificazioni non occorrono. Sono nel cuore di ognuno e nella storia quotidiana di tutti: in casa, lì fuori, in città, nella nostra terra, fra la nostra gente, in ogni angolo del mondo, dove è ogni uomo deciso a cercare la propria pace (che poi in parole più chiare vuoi dire il proprio benessere e cioè il proprio vantaggio, il privilegio e cioè la ricchezza, il potere, ogni diritto, e a costo di tutto).
Una visione seria e responsabile della pace secondo il Vangelo, vuoi dire lottare e lottare a fondo contro questa pace.
Contro l'inganno e il sacrilegio di questa pace che nasce dall'egoismo e lo prospera coltivandolo a forza di benedizioni, di sacramentalizzazioni, di liturgie.
Il cristiano che va in chiesa a cercare questa pace così unicamente a ritorno personale e se ne esce fuori "più in pace", se ne va certamente con un peccato di più.
E anche (e è qui il punto dove vorremmo convergere una particolare attenzione) con una disincarnazione maggiore che può arrivare fino alla insensibilità, all'indifferenza e cioè non soltanto alla negazione dell'Amore ma alle vere e proprie condizioni di impossibilità dell'Amore.
Non può non fare impressione la disincarnazione spaventosa di una cristianità che nella propria fede e nella pratica rituale, devozionale di questa fede, trova, perché in definitiva non ricerca altro, la propria pace, il mettersi in pace, il chiudersi nella pace.
Estraniandosi così da una realtà di vita, d'esistenza, di storte traboccata da travagli spaventosi di guerre, di rivoluzioni, di sconvolgimenti, di problemati che immense che, nascendo dal cuore di ogni uomo (fratello), imperversano e sconvolgono e macerano a bagno di sangue questa povera umanità (la famiglia di figli di cui Dio è Padre).
Questa povera umanità nella cui tragedia di perdizione il Figlio di Dio, Gesù Cristo, si è immerso, vi si è lasciato travolgere, fino a riversarvi tutto il suo sangue per portarvi dentro la salvezza, e cioè "la sua Pace".
Dobbiamo ancora tutti cominciare forse a imparare la lotta d'Amore di Cristo e di Dio per la pace nel mondo. Imparare cioè come la Chiesa, la cristianità, il popolo di Dio può essere autentica ed efficace continuità del Mistero di Cristo nel mondo. Continuità che non può non esigere un compro-mettersi nella guerra, nella lotta, che travaglia e insanguina a marea che sempre più cresce, fino ad affogarla, questa povera umanità.
Abbiamo serio e fondatissimo timore che il pacifismo di cui la Chiesa nella sua pastorale - e cioè nel suo tradursi storico, concreto nella vita, nell'esistenza degli uomini - è segno, ricerca e promessa sia in non linearità coll'annuncio evangelico e con la sua missione di visibilità del Mistero di Cristo.
Si rischia disinvoltamente anche di estraniarsi - e ci riferiamo naturalmente in particolare alla chiesa italiana e all'atteggiamento e comportamento della curia romana nei confronti della Chiesa nel mondo - di estraniarsi e di disincarnarsi dalla realtà più ovvia, e più dolorosamente evidente, che imperversa nel mondo e che è quella di vivere in un immenso e spietato campo di battaglia.
Giudichiamo che la lotta è più chiara e onesta partecipazione alla vita, assai più che vivere in pace appollaiati su nuvolette veleggianti nell'azzurro.
Crediamo che impegnarsi nella lotta a seguito della parola di Gesù Cristo e perché crediamo perdutamente nel suo modo di amare l'umanità lottandovi dentro, fino a morirne "e a morirne di morte di croce", per immergervi e allargarvi la «sua pace e non quella del mondo» e che nasce "dal fuoco che è venuto ad accendere" e "dalla spada che è venuto a portare", crediamo che impegnarsi in questa lotta, può essere onestà umana di partecipazione fraterna alla vita e fedeltà cristiana fino alle possibilità di giustificazione ad essere cristiani (e Chiesa e cristianità e popolo di Dio) in questo mondo.
Sogniamo una «pastorale» che studi, si prepari e affronti queste grandissime responsabilità di lotta da assolversi nella concretezza di scelte molto chiare e nette, da combattersi in una realtà di autentica lotta cristiana, cioè imparata direttamente da Gesù Cristo, in una disponibilità serena e aperta per tutto quello che lottare comporta: e cioè ferite, fame e sete, respinte, sconfitte, prigionia e lasciarci la pelle. Dimenticando ovviamente le onorificenze, le medaglie, i successi, i trionfalismi e cioè «la pace». Personale, di parrocchia, di diocesi, di ordini religiosi, di chiesa ecc.
Siamo molto lontani da questa possibilità di pastorale, lo sappiamo bene, (anche per esperienza personale): sappiamo benissimo che è ingenuità più o meno infantile la nostra, specialmente se confrontata con la grande saggezza e prudenza che governa - e sembra così gloriosamente - la Chiesa: ci rendiamo ben conto, fino a non pretenderlo nemmeno minimamente, che la Gerarchia non può responsabilizzarsi ad un avvio di lotta della sua pastorale, così come noi, povera gente, andiamo sognando.
Eppure la nostra possibilità di Fede - e per grazia di Dio è enorme - nasce tutta ormai da questa visione di Dio, di Cristo e di Chiesa: da questo mistero d'Amore di cui la bontà di Dio ci ha dato di colmarci il cuore e che si traduce, si concretizza, e cioè diventa vero (si fa carne e sangue e abita fra gli uomini), in questo impegno di lotta. E cioè da questo non potere e non volere starsene in pace, lasciarci meno che sia possibile gli altri e cercare, cercare, cercare, in questo Amore di Dio, a Cristo, alla Chiesa, all'umanità, possibilità e concretezze di lotta, scelte chiare, proposte precise, buttarcisi dentro, correre ogni rischio ... e «andare felici, esultanti di essere stati fatti degni di beffe e contumelie e persecuzioni per il nome di Gesù».
Cristianesimo infantile, cioè di quando è nato e che ha ancora il sapore e la freschezza degli innamorati di Cristo (dopo duemila anni e con tutto quello che c'è stato dentro in questi anni, non è poco miracolo).
Cristianesimo infantile, sprovveduto, esaltante, utopistico, ecc. ecc.
Lo preferiamo a quello «pastorizzato», scientifico, cultualizzato, diplomatico, ecc. ecc.
Questa scelta e preferenza, oltre a darci di credervi con profonda passione, ci dà anche di poterlo proporre e offrire, come uscito ora ora dal Pensiero di Dio e sgorgato dal cuore di Cristo.
Qualcosa per la quale è giusto «vendere tutto quello che si ha» e «perdere la propria vita».
Qualcosa che seriamente può portare nel mondo la speranza di una storia diversa e è già costruzione concreta di uomini e donne «nuovi».


P.S. - Argomentiamo le nostre tesi, ragionando secondo il nostro pensare, che può essere sba-gliato come a chi legge torna meglio giudicare. Cerchiamo di argomentare meno che sia possibile con citazioni della S. Scrittura, dal momento che ci è stato detto che noi interpretiamo il Vangelo in modo parziale. Non possiamo però evitare, ovviamente, che parlando o scrivendo, affiori un po' di Parola di Dio, dato che l'abbiamo letta e continuiamo a leggerla con profonda Fede, e non può quindi non essere anima della nostra anima, sangue del nostro sangue. Come, del resto, deve avvenire di ogni cristiano, e specialmente di ogni sacerdote.



La Redazione

Gente del Vangelo

5 - Gli abitanti di Nazareth

Il rapporto di Gesù con gli abitanti del paese in cui è praticamente vissuto fino ai trent'anni, riflette ed in un certo modo sintetizza il rapporto di Gesù con le folle della Palestina. E' Luca a proporre per primo questo rapporto in un momento in cui la fama di Gesù si diffondeva in tutto il paese d'intorno.
C'è tutto l'orgoglio di un piccolo paese per l'importanza che gli viene dalla crescente celebrità di uno dei suoi figli, la sensazione di un fatto straordinario che il caso ha voluto donare, quasi un privilegio, a gente dimenticata da tutti. Le solenni parole di Isaia, cariche di speranza, risuonano nella sinagoga di Nazareth insieme all'affermazione di Gesù: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete udita poco fa coi vostri orecchi». E si attende allora che il miracolo di Dio scenda a colmare il privilegio di coloro che sono riuniti in quel tempio.
La stessa situazione di chiusura, l'identica sensibilità capace solo di avvertire ciò che può essere un vantaggio immediato, lo stesso atteggiamento di sempre che costringe il messaggio religioso a piegarsi, a beneficio della mia o tua salvezza individuale, della mia o della tua volontà. C'è tutto un popolo cri stiano che si impegna con Dio unicamente nei termini di diritti e di doveri ben precisati, assicurato così da una gerarchia oltremodo sollecita nell'aiutarlo a maturare quella gran pensione che è il paradiso.
Il miracolo non avviene: viene invece, puntualmente, lo scandalo. Il racconto di Marco e Matteo è già preceduto dai primi conflitti di Gesù con i Farisei specie per la questione dei miracoli operati di sabato. L'atmosfera si è scaldata e la gente comincia a farsi una giustificazione della propria incredulità e della propria chiusure di cuore: è uno di noi, nato e cresciuto in mezzo a noi, ma da dove gli vengono queste capacità? La normalità di un'esistenza già fonte di compiacimento, diviene ostacolo da aggirare in qualche modo: «Da dove gli viene questa sapienza e questi miracoli? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre non si chiama Maria? Ed i suoi fratelli Giacomo e Giuseppe, Simone e Giuda? E le sorelle non sono tutte qui tra noi?» (Marco)
Si comincia a pensar male di lui. Neppure per un attimo sembra sfiorare la testa di quella gente il pensiero che vi sia qualcosa da accogliere, una ricerca da iniziare, un'indicazione da seguire. Solo il dispetto per aver creduto di aver coltivato una rosa e l'amara sorpresa di ritrovarsi in mano pochi fili di paglia: «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Luca)
Gesù intuisce che, dietro questi interrogativi, si nasconde l'avidità, la curosità, l'interesse per un qualche vantaggio: «Sicuramente voi mi direte: ... Tutto quello che si va dicendo esser avvenuto a Cafarnao, fallo pure qui nella tua patria» (Luca). Se non altro un forte spirito campanilistico, una fredda ironia che nasconde il disappunto per la preferenza data ad altri.
La sua risposta non poteva essere più provocatoria. Evidentemente Gesù, il pastore buono, non ha la mentalità paternalistica del buon parroco né problemi di delicati equilibri propri dei vescovi. Che non siano storielle lo dimostra il fatto che «all'udire tali parole, tutti nella sinagoga furono ripieni di collera, e levatisi lo spinsero fuori della città e lo condussero fino alla cima della collina, sopra la quale era edificata la loro città, per precipitarlo» (Luca). E se questo è il rischio che ha corso Gesù non è difficile credere che lo abbia fatto in quanto gli interessava molto precisare il pensiero di Dio al riguardo.
«Ma in verità vi dico: molte erano le vedove d'Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi, quando vi fu una grande carestia in tutto il paese; eppure Elia non fu mandato ad alcuna di esse; ma piuttosto a Sarepta, nella regione di Sidone, ad una povera vedova. E molti lebbrosi c'erano in Israele al tempo del profeta Eliseo: ma nessuno di essi fu guarito, ma lo fu piuttosto il siro Naaman» (Luca).
Un deciso no alla mentalità legata al privilegio. Essa va distrutta perché possa crescere un autentico rapporto con il Dio della grazia e della sovrabbondanza, con Colui che non ha nel cuore preferenze personali e coloro che sceglie li chiama non per dar loro la soddisfazione di essere dei preferiti, ma perché siano al servizio degli altri nell'accoglienza della Sua Parola. Un Dio che non è imprigionato alle proprie scelte da nessun interesse, fino a poter liberamente dare, a chiunque, senza un ordine ed una logica precisa secondo il nostro criterio. Seminatore dal braccio levato e dalla mano aperta che sparge il suo seme anche sulla strada, tra i rovi, in mezzo ai sassi.
Ne viene tutta un'esigenza di convertirsi dalla mentalità e dall'atteggiamento del 'figlio maggiore' (parabola del figliol prodigo) chiuso nelle sue pretese anche se giustificate da una vita giusta, per accogliere la vera 'giustizia', quella che ci viene donata in sovrabbondanza da Dio, che impedisce il richiamarsi a dei diritti nei confronti degli altri proprio perché l'unico diritto ammesso è di amare senza misura. A somiglianza di Dio, secondo il suo pensiero.
Uno stile di vita da verificare nel rapporto con gli altri, nella vita familiare, nella vita della Chiesa, Questo accampare diritti di sudditanza e di servizio, di comprensione e di affetto, di ubbidienza e di riconoscenza nel cieco atteggiamento dell'egoista che misura al millimetro i propri sforzi. Questo avere una chiesa propria dove gli 'altri' non possono entrare, avere un'ora di scuola propria, rappresentanti propri nell'esercito, accanto alle autorità civili nelle cerimonie ufficiali, un partito per noi, i 'nostri'...
E per il cristiano che esce soddisfatto dalla chiesa, assolto l'obbligo del precetto domenicale, la tranquillizzante fiducia di morire un giorno assistito da un prete tutto per lui, che la pensa come lui.
«Ma in verità vi dico: molti erano i cristiani nel mondo, eppure ... »

don Luigi

Obiezione di coscienza, segno dei tempi

Abbiamo ricevuto dalla famiglia di un obiettore di coscienza, detenuto in un carcere militare italiano, il testo di una lettera anonima passata tranquillamente tra le maglie della censura: segno del clima repressivo contro chi compie certe scelte.
"Quello che la gente non sa è quello che avviene entro le carceri militari. Per gli obiettori hanno instaurato un regime di oppressione e di vessazione ossessiva da non credere. Non ultima l'introduzione di lettere anonime (di cui allego copia) quando molte lettere più attese per gli obiettori non vengono consegnate".
Questo il testo anonimo:
"X, ti sta bene! Pensi di esserti comportato da "eroe" mentre sei soltanto un mezzo uomo, un mentecatto che si mette contro corrente per sentirsi importante; ed ora paghi giustamente le tue colpe.
Aspettiamo con ansia che tu esca dal carcere per darti la "parte" di nostra competenza che ti meriti e possiamo assicurarti che non saremo affatto teneri.
Ti faremo rimpiangere la permanenza in galera e così ti passerà la voglia di agire da vigliacco.
Un gruppo di giovani che ti disprezza

Questa lettera e la situazione che essa esprime, ci offre l'occasione - anche se molto amara - di riflettere su questo problema che a noi sembra non solo degno del massimo rispetto, ma soprattutto di essere approfondito e offerto alla ricerca di tutti i cristiani, specialmente dei giovani.
E' chiaro che tutta la lotta al militarismo e allo spirito di guerra non può esaurirsi e limitarsi al puro fatto di dire di NO alla leva militare: la lotta perché sia autentica - bisogna che abbracci tutti gli aspetti della struttura sociale e politica e impegni molto profondamente la propria vita fino a caratterizzarla in tutte le scelte.
Certamente il rifiuto di coscienza di "servire la patria in armi" da parte dei giovani obiettori è una fase molto seria di questa lotta: vorrei cercare di cogliere il significato essenzialmente evangelico, cristiano, della testimonianza di tutti quelli che hanno fatto una simile scelta a seguito delle loro convinzioni religiose.
Mi pare, anzitutto, che essi ci ricordano che credere in Dio, accogliere Cristo nella propria vita non vuoi dire alienarsi dalla realtà, fuggire dallo scontro col mondo così come secoli di storia lo hanno modellato, appartarsi in una beata tranquillità dello spirito. La Fede in Dio ha lo spessore della vita, deve fare i conti con le leggi degli uomini, discuterle, metterle in crisi e quando è necessario ri-fiutarle.
Con questo, l'atto di Fede in Dio Padre di tutti, in Cristo fratello per tutti, diventa un atto che qualifica la propria esistenza, uscendo dal segreto del proprio cuore e venendo apertamente alla luce. Anche se ad uno sguardo superficiale può sembrare il contrario, il merito dei giovani obiettori mi sembra proprio quelle di offrire l'immagine di un cristianesimo impastato nel tessuto storico dell'esistenza, di una vita giocata e impegnata nei valori del Regno di Dio al "di dentro" del corso delle vicende umane. Il loro NO non ha il sapore di una fuga, di una ritirata: significa l'accettazione cosciente dell'ambiguità della realtà, della necessità dello scontro, della libertà, dei liberi figli di Dio che non si piegano davanti alle discutibili tradizioni umane.
Questa opposizione radicale alla legge con cui gli uomini del potere costituito hanno sempre cercato di contrabbandare la difesa della pace, diventa perciò il segno di una Fede nella potenza dello Spirito di Dio, di una fiducia in un uomo diverso. In una umanità non più reciprocamente omicida. Essi rendono più credibile il sogno di Dio: «Venite, saliamo al monte del Signore .... Egli giudicherà le nazioni e a popoli numerosi detterà le sue leggi; così che trasformeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci. Un popolo non alzerà più la spada contro un altro, e non impareranno più l'arte della guerra». (Isaia 2, 3-5)
Questa scelta acquista così le caratteristiche di una luce - anche se appena appena percettibile - che diffonde sulla casa della famiglia umana, affogata ancora così tanto dal sangue fraterno, la Speranza di una creazione nuova. Creazione rifatta a misura dell'immagine dell'uomo che Dio ci ha rivelato in Gesù Cristo: uomo vero, pienezza di umanità, segno chiarissimo di che cosa Dio abbia inteso quando disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza". (Gen. 1, 26)
Il loro gesto, che spesso finisce nella solitudine e nell'isolamento di una prigione militare e nell'indifferenza della maggior parte dei cristiani, ricorda il gesto del seminatore che spande il suo seme senza guardare troppo dove va a cadere. Saranno pietre o spine a soffocarlo e a farlo morire; ma sarà anche terra buona dove maturerà il frutto della Pace. Di fronte all'impazzimento di tutti quelli che sotto segni diversi dominano le nazioni e asserviscono il popolo agli interessi del loro potere, il NO di questo piccolissimo gruppo di giovani che dichiarano di credere nella Pace allarga il cuore. Una Pace che deve poter nascere dalla fraternità, dall'amicizia, dalla collaborazione e soprattutto dalla Giustizia - e non dai cannoni, dalle bombe e dai cimiteri di guerra: ciò rende più credibile la Parola di Cristo e fa affiorare sulla terra bruciata dalle divisioni la sorgente d'acqua che ha il sapore del Regno di Dio. La scelta degli obiettori è anche un atto d'accusa per tutti i compromessi di cui è piena fino ai nostri giorni la storia della comunità cristiana. Essi sono nella Chiesa stessa "segno di contraddizione". rivelando le infedeltà di un sacerdozio compromesso col potere militare fino ad essere da quello mantenuto e protetto; di un popolo cristiano che non si ribella alla legge della guerra, che non reagisce di fronte alla produzione delle armi, che non lotta contro lo spirito militaresco di tante manifestazioni. I giovani obiettori sono senza dubbio, da diversi anni, un appello concreto a tutta la Chiesa: ci invitano a una conversione del cuore, a lasciarsi invadere dal sogno di Dio, a credere all'impossibile. A credere che se le nostre mani sono incapaci di costruire la Pace, Dio è capace di crearla se gli offriamo le nostre mani. * * * Raccogliere l'obiezione di coscienza come "segno dei tempi", quindi come frutto della continuazione creatrice dello Spirito che plasma e dà forma alla storia, comporta senza dubbio renderci conto come per il cristiano il fronte dell'obiezione che nasce dalla coscienza alimentata dalla sorgente evangelica sia vasto e profondo. Le obiezioni di coscienza sono davvero molteplici: c'è tutta una realtà d'esistenza, un modo di pensare e di vivere contro cui ci è chiesto di essere in continuo, tenace stato di obiezione. Il cap. V di Matteo ne è un'indicazione chiara e precisa, come del resto tutta la vita di Gesù. L'immagine del credente che viene su dal confronto serio e scoperto con la Parola di Dio non è davvero quella di un uomo pronto all'accordo con tutti, ad accettare e a condividere ad occhi chiusi le idee, le leggi, le sistemazioni dell'esperienza umana: è un uomo che non può esser disposto a servire a due padroni. Non è neppure in pace con se stesso: egli sa che alla radice del proprio essere gli è richiesto di formulare la prima obiezione di coscienza: «Se uno vuoi venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi la perderà per me, la ritroverà». Obiezione radicale al possesso del «se stessi»: offerta totale all'Amore da cui ognuno è nato e per cui è essenzialmente ordinato. Necessità di vivere in completa apertura agli altri, là dove è continuamente viva la Presenza di Dio: nel fiume della vita, nel procedere degli avvenimenti, nelle ferite e nella solitudine dell'umanità che ci cammina al fianco. Dentro tutto questo ribollire della storia, spesso portata avanti in modi così distorti e tanto lontani dalla Verità, dalla Giustizia, dall'Amore, il cristiano sa che spesso l'unico modo che gli resta per continuare l'opera di salvezza è quello di obiettare, di pronunciare di fronte ai propri fratelli il NO che nasce dal cuore di Dio. Tutto questo gli può procurare persecuzioni, odio, incomprensioni, scomuniche; gli può comportare la croce e costare anche la vita: «Vi condurranno davanti ai tribunali, sarete flagellati nelle sinagoghe e comparirete davanti ai governatori e ai re per causa mia, a rendere testimonianza davanti a loro» (Mc. 13, 9). Ma se l'obiezione nasce dall'Amore per i propri fratelli e dalla tenace volontà di rendere testimonianza al Signore della storia, questo dolore sarà come le doglie della madre che dà alla luce il figlio. Sarà un dolore attraverso il quale Dio continua a generare la nuova umanità, a preparare «nuovi cieli e nuove terre».

don Beppe

Pastorale operaia

Situazione

La Chiesa ha bisogno che i suoi apostoli riscoprano con le loro mani e con il loro sudore, l'uomo e Dio, altrimenti preti e operai continueranno a vivere su pianeti diversi: Gesù Cristo non si è imposto egli stesso questo lungo apprendistato umano?
Situazione
Ecco come avvengono le cose. Le raccontiamo così, alla buona, "senza documentazione" perché il documento più vero e probativo, è la propria angoscia che sale su a stringere dolorosamente il cuore, ogni volta e è ogni giorno, che viene da constatare lo scavarsi sempre più profondo del fossato che separa e divide la Chiesa dalla classe operaia o, per parlare più correttamente e cioè annebbiando le idee fino allo sbiadirsi del problema, dal mondo del lavoro. E ormai il disancoraggio della gente che lavora da una visione cristiana della vita è progressivo a misure che vanno da un impegno radicalizzato a estrema sinistra che taglia netto perfino col riformismo comunista e respinge decisamente ogni dialogo "religioso" ed all'opposto da uno scivolare, a concretezze impressionanti, verso un imborghesimento della classe operaia che ovviamente anche se può comportare un rammollimento della vecchia ruggine anticlericale non comporta (ed anzi fruttifica il contrario) un crescere di fede e di autenticità di Popolo di Dio.
L'imborghesimento non sarà mai la via al Cristianesimo: alle scelte e alla ricerca, alla possibilità della visione cristiana della vita e della sua concretizzazione individuale e comunitaria.
Dalla famosa data, così scioccamente perché gloriosamente strombazzata, della Rerum Novarum, via via lungo i decenni e gli anniversari puntualmente aggiornata dai diversi papi fino a Papa Giovanni, con tutti gli studi annessi e connessi, a biblioteche intere e le ricerche, la sofferenza, la pratica, il travaglio individuale, di gruppi, di organizzazioni, fino alle più recenti dell'Onarrno e simili, agonizzanti negli uffici assistenziali e devozionali delle fabbriche fino alle Acli, ecclesiasticamente annientate sul campo di battaglia e alla lotta, da guastatori e genieri coraggiosi a tentare di costruire ponti di fortuna fra le due sponde, spericolati sull'acque minacciose della fiumana in piena, come sono stati e sono i preti operai. .. è tutta uno storia triste e penosa per tentare di incarnare la Chiesa (la Fede è un'altra cosa) là dove la chiesa non vuole essere incarnata, là dove la Chiesa non vuole "farsi uomo" e non vuole "mettere la sua tenda, abitarvi". E nessuno può fare per un altro quello che l'interessato non vuole assolutamente fare.
Quando poi succede, come nell'enorme problema dei rapporti fra Chiesa e classe operaia, che uno non vuol fare ma vorrebbe dimostrare che fa, allora si rischia l'imbroglio, che in un modo od in un altro, o prima o poi, viene smascherato e da parte di chi inganna e da parte, tanto più, di chi è ingannato.
Siamo al tempo di questa smascheratura.
Ormai alla base della Chiesa, cristiani e preti, non si accetta più, quasi alla totalità, una pastorale a programmazione preordinata nel mondo del lavoro. E cioè si respinge "la pastorale". Semplicemente perché "pastorale" vuoi dire attrezzaggio furbesco. ricerca di modalità più adatte, complesso di iniziative, strategie intenzionalizzate, messa in moto di ingranaggi e l'avanzare in terre di conquista....
Rigirata come si vuole, presentata e ripulita e rispolverata, tirata a nuovo, la pastorale nel mondo del lavoro, vuol dire che tutto rimane (e in quel «tutto». vi è tutta la Chiesa) esattamente come sempre anche se sono nuovi (o almeno così vorrebbero presentarsi) i modi, le iniziative, i sistemi pastorali ecc.
Ormai nella classe operaia sempre più è manifesta la Chiesa come una realtà temporalistica, adattabile su misura ma specialmente propensa ai rapporti di potere, ai valori economici, alle esigenze e agli opportunismi politici. La piccola Chiesa delle parrocchie, quella più grande delle diocesi e delle Conferenze Episcopali e la gran Chiesa cattolica. Il giudizio attuale della classe operaia è ancora più pesante nei confronti della Chiesa perché il rapporto che è venuto maturandosi, non è più nemmeno un rapporto di diffidenza o di sfiducia, è di noncuranza: la Chiesa è qualcosa messo da parte, è un problema quasi senza senso.
Ne legge qualcosa sui giornali, parificandone a livelli di cronachetta tipo curiosità, gli avvenimenti le cose che succedono in Vaticano e le storielle delle celebrazioni religiose, sbadiglia a quello che di Chiesa e cioè di ecclesiastico vede nella televisione e accende una candela per devozione o, così perché glielo hanno insegnato i suoi vecchi, va alla Messa la domenica o guarda passare una processione.
Esagerazione? Può darsi, ma per sincerarsene. se uno ne ha voglia e i Vescovi e i preti questa voglia la dovrebbero avere, basta chiacchierare con la gioventù dai diciotto anni in poi e viene subito fuori la situazione di rapporto che c'è in questo nostro tempo, tra il mondo in cui viviamo e la Chiesa.
* * *
La pastorale del mondo del lavoro, d'altra parte, bisogna farla. E appena assestata la zampata del leone sulle ACLI (questo ponticello gettato là da una sponda all'altra a pencolare sull'abisso) a parte i tentativi col MOCLI e la Federacli, i nuovi incaricati della C.E.1. per «studiare» la nuova pastorale, dal maggio dell'anno scorso dopo un documento ufficiale dell'episcopato, approntano le nuove tematiche pastorali e scoprono offrendo il tutto come novità assoluta, che le caratteristiche della nuova pastorale del lavoro che deve impegnare i gruppi sacerdotali da costituirsi in ogni diocesi, sono:
- Questa pastorale "è opera di tutta la Chiesa", deve essere «organica», deve essere "completa", deve essere "incarnata" e cioè questa pastorale perché sia incarnata «deve capire i segni dei tempi ed adeguarsi alla mentalità, alla cultura, alle condizioni di vita del mondo operaio e per questo deve essere aperta alla creatività e alla sperimentazione continua in un mondo che rapidamente cambia». Vien da pensare che dopo tanti secoli «cristiani», c'è ancora da capire e precisare nel linguaggio del magistero, della teologia e della ricerca di vita cristiana, cosa vuoi dire «incarnazione». E parrebbe che da dopo Gesù Cristo dovrebbe essere la verità cristiana più semplice e comprensibile, dal momento che è così decisiva nella Fede in Gesù Cristo e così chiara, allo scoperto com'è, nella sua vita e nella sua Parola.
Ma equivocare e cioè studiarvi sopra all'infinito è un modo disinvolto e intelligente per non capire due e due quattro. Cercare di fare le pastorali è una maniera elegante per girare intorno agli ostacoli e svolazzare sopra le cose sfarfallandovi interessamenti o risultanze, in definitiva, programmate e intenzionalizzate.

Non per nulla nell'ultima riunione episcopale italiana, dal documento emesso dalla C.E.I. il 20 giugno, per la pastorale del mondo del lavoro, non è sembrato opportuno proporre altro «per favorire in tutta la comunità ecclesiale un impegno di educazione ai valori sociali del cristianesimo, che venga preparato un catechismo sociale e un direttorio di pastorale sociale».
Saranno nominate certamente commissioni di studio (fatte anche da operai?), verrà fuori questo catechismo per la classe operaia e quel cosiddetto direttorio sul quale binario correrà la pastorale operaia.
La Chiesa avrà il suo bravo catechismo rafforzato dal direttorio. Una pastorale a base di studi, di riunioni, di iniziative, di attività ecc.
E il mondo del lavoro, la classe operaia, andrà avanti per la sua strada, come se nemmeno la Chiesa esistesse e tanto più senza neppure sentirsi sfiorato da tutta quella pastorale, fatta dalla Chiesa, a compiacenze unicamente ecclesiastiche.
E' chiaro che non siamo d'accordo con questi «Uffici pastorali per il mondo del lavoro» in via d'istituzione nelle diocesi e non ci sentiamo disponibili per questa pastorale del mondo del lavoro.
Intendiamo però vivere rivolti più che sia possibile alle problematiche cristiane della realtà del popolo di Dio che lavora manualmente e in particolare della classe operaia e disponibili e impegnati all'evangelizzazione in mezzo ai nostri fratelli operai, condividendone più che ci è possibile, la vita e tutto quello che l'esistenza operaia comporta, nella convinzione che pur trattandosi di «vocazione personale sia tutto per la realizzazione di un progetto ecclesiale collettivo». (doc. preti operai francesi)
Nella nostra nullità personale e di gruppo vorremmo tanto offrire qualcosa: nonostante che il nostro qualcosa sia quasi sistematicamente respinto.

La comunità del porto

Pastorale operaia

Una proposta respinta

Pubblichiamo un progetto, appena indicativo di possibilità d'impiego di gruppi, o individualmente, di preti operai, o, come qualcuno con particolare profondità teologica vuol dire, operai preti o come la raffinatezza ecclesiastica che ha paura di inquinarsi la bocca pronunciando la parola "operai" accanto a quella "preti", preferisce chiamarli, preti al lavoro.
(Digressione: nessuno però sbatte gli occhi e inorridisce, come sarebbe giusto e doveroso fino allo scandalo, quello che brucia l'anima, se un prete viene chiamato tenente, capitano, maggiore e un Vescovo viene classificato "castrense" e è un generale dell'esercito. Sarebbero problemi di pastorale operaia a pensarci bene anche questi, come tanti e tanti altri).
In una riunione di preti operai (di preti cioè che si guadagnano il pane col lavoro manuale e non col ministero sacerdotale) questo progetto è stato respinto perché, fra i tanti motivi, troppo qualificante nelle scelte e troppo coinvolgente con la Chiesa, irrimediabilmente compromessa nelle realtà all'opposto di quella dei poveri, degli operai ecc.
Siamo certi che non vi è Vescovo in Italia così sensibile ai problemi operai in rapporto alla Chiesa, da essere disponibile a rischiare nella propria diocesi una presenza di preti nella classe operaia, impegnati scopertamente sul tipo di pastorale così come viene indicata da questo progetto. Siamo certi che se un gruppo di preti operai dichiarasse pubblicamente questa base ideale e d'impegno e si collocasse con questa "pastorale" nella nuova pastorale che la gerarchia e gli specialisti stanno architettando, non potrebbe non venire pesantemente respinto dalle "forze dell' ordine".
E' una semplice constatazione del come stanno le cose: per l'amor di Dio, nemmeno per sogno il voler insistere a favore del nostro progetto sul gruppo o sui singoli fratelli preti operai e tanto meno per tentare di sgomentare la grossa fatica di chi è stato incaricato di costituire nelle diocesi la nuova pastorale nel mondo del lavoro ecc. o di creare preoccupazioni nella gerarchia ecc.
Onestamente e francamente per aiutare e aiutarci a vedere come stanno le cose e quanto la frattura e la lontananza del vero mondo operaio sia impressionante nei confronti della Chiesa, dal momento che preti operai (che pure e per ovvie ragioni, senza offesa di nessuno, sono gli unici a poter capire qualcosa del lavoro e dell' enorme problema umano e religioso che travolge l'umanità che vi si logora dentro) dal momento che preti operai si sentono in coscienza in così gravi e pesanti difficoltà. Se queste cose succedono al legno verde, cosa sarà di quello secco?

PROGETTO DI QUALIFICAZIONE
DI UN GRUPPO DI PRETI AL LAVORO

1 - affermiamo con chiarezza la nostra Fede cristiana.
2 - ci sentiamo profondamente consapevoli del significare e della portata di una scelta cristiana di vita.
3 - ci rendiamo conto con piena responsabilità della misura totale di impegno cristiano che la scelta di una vita sacerdotale comporta.
4 - ci dichiariamo uniti alla Chiesa, popolo di Dio e quindi uniti ai Vescovi che ne fanno parte con il loro carisma particolare.
5 - la nostra scelta - a seguito di una responsabilizzazione personale - è di un servizio in dono totale di se stessi e impegno al di là di ogni misura anche della ragion d'essere della propria vita, nella realtà storica dei poveri e quindi attualmente della classe operaia.
6 - intendiamo portare e vivere questa nostra scelta anche nella realtà della Chiesa istituzionalizzata: costatando nella Chiesa una notevole identificazione con la civiltà capitalistica chiaramente non cristiana e non cristianizzabile.
7 - ci distinguiamo da tutto quello che nella Chiesa è potere economico, politico, amministrativo, realtà storica di dominio, di privilegio, di autoritarismo.
8 - dichiariamo che la scelta della vita operaia come realtà e impegno e dedizione e servizio di vita sacerdotale ci crea delle gravi perplessità ad accettare una missione pastorale normalmente intesa, anche semplicemente attraverso un invio personale da parte del Vescovo, riconoscendo una impossibilità di azione pastorale legittima da parte della Chiesa nella classe operaia, perdurando le compromissioni della Chiesa stessa con il potere economico e politico del capitalismo.
9 - rifiutiamo quindi di essere considerati facenti parte del «Gruppo dei sacerdoti per la pastorale nel mondo del lavoro» come dal documento progetto della C.E.I dell'8 maggio 1971.

10 - diffidiamo quei Vescovi che intendono strumentalizzare la nostra fatica nella classe operaia considerandola e indicandola come pastorale della Chiesa nel mondo del lavoro, volendo noi respingere qualsiasi tentativo di copertura della Chiesa istituzionalizzata, che comporterebbe un solidificare della Chiesa ciò che deve essere demolito e significherebbe tradimento nei confronti della lotta di liberazione della classe operaia per un favorire una realtà storica d'oppressione e di sfruttamento come è considerata la Chiesa dal monda dei poveri e degli oppressi.
11 - qualifichiamo il nostro gruppo come un movimento di spinta e di pressione a tutti i livelli senza esclusione di metodi, pur nel rispetto totale della libertà di tutti, all'interno della Chiesa intesa come popolo di Dio, in tutto quello che la Chiesa deve significare per il mandato di Cristo e come continuità della Sua presenza fra gli uomini, circa la giustizia, la libertà, l'uguaglianza, la pace...
12 - dichiariamo una disponibilità totale per un coinvolgimento completo e cioè fino alle misure della Fede cristiana e di una scelta sacerdotale di vita cristiana nel mondo, nella classe operaia, da realizzarsi in piena libertà e in risposta unicamente alla propria coscienza, circa i problemi operai, sindacali, politici, ecc .....
13 - siamo certi con piena sicurezza umana, cristiana e sacerdotale: 1°- di una assoluta possibilità di fedeltà totale alla Chiesa, così come Gesù Cristo l'ha pensata e voluta e come storicamente deve cercare di attualizzarsi in una conversione incessante e 2°- di una possibilità di una fedeltà totale alla realtà storica dell'umanità nella sua lotta instancabile di liberazione e di redenzione, fino alle misure di sincerità di una Chiesa che sia realtà di Dio vero e di umanità vera.
14 - il piano operativo concreto di impegno e di attività rimane programmabile dalle riunioni di gruppo a livello nazionale, regionale e dietro indicazioni locali e personali attraverso le quali tutto il gruppo può essere sensibilizzato fino a partecipazioni unitarie.
15 - questa proposta rimane aperta a tutti i rimaneggiamenti necessari perché possa essere nelle condizioni indispensabili per ricevere consensi e adesioni ad un gruppo qualificato di preti al lavoro nella condizione operaia, artigianale, agricola in Italia.

5 - La proposta cristiana

Chiesa, casa del popolo di Dio

Questa volta è possibile parlare di chiesa senza il pericolo della solita equivocazione e confusione di idee di quando si parla di Chiesa, papa, vescovi, preti. cristiani militanti, praticanti, battezzati ecc.
Pensiamo alla chiesa: duomo, cattedrali, basiliche, parrocchiali, oratori, cappelle... tanto per distinguere i muri più o meno qualificanti di particolare presenza e importanza del fatto religioso, con la solita ridicolaggine del privilegio onorificante gli uomini e disonorante Dio, sempre in ricerca, come ci avverte Gesù, di adoratori non su questo o su quest'altro monte, ma in spirito e verità. Queste chiese, comunque si vogliano chiamare, eccole lì, ce ne sono in abbondanza, nonostante il problema di costruirne di nuove che angustia le curie delle grosse città e l'ansia costruttiva sempre zelante di tanto clero.
In questi ultimi tempi, sempre su! filo del nostro riflettore sulla problematica religiosa e cristiana, così come ci salta agli occhi nell'esperienza quotidiana e a seguito dell'impossibilità di diventare indifferenti nei confronti dei problemi della Chiesa del nostro tempo, ci è capitato di fare alcune constatazioni.
La chiesa è una casa, la casa d Dio, si dice comunemente. E va bene, anche se è vero che se Dio ha una casa l'ha nel cuore di ogni uomo e di ogni donna e le quattro mura e un tetto dove abitare vorrebbe tanto che fosse la casa dove abita una famiglia. O dove due o più sono riuniti nel suo nome. O dove è possibile riconoscere la realtà delle sue «Beatitudini», dove è legge unica l'Amore ecc.
In ogni modo è pacifico che la chiesa è la casa di Dio per tutte le ragioni che è inutile elencare. E difatti le chiese hanno un tipo architettonico particolare, inconfondibile e, più che sia possibile, una sontuosità e fastosità artistica o di ricchezza, che le rende, quelle pietre, come si dice, degne di Dio.
Ci viene da pensare però che se le chiese sono la casa di Dio dovrebbero essere anche la casa del popolo di Dio. Evidentemente perché sono la casa di Dio e del suo popolo, non dovrebbero essere proprietà dell'autorità ecclesiastica fino alle misure dispotiche consuete. Non è giusto che il clero se ne faccia possesso in esclusiva. E' assurdo che rimangano riservate unicamente al culto liturgico e devozionale e quindi luogo che in definitiva rimane accessibile e possibile per i cosiddetti praticanti e gli altri ne rimangono inevitabilmente esclusi.
La chiesa è luogo ormai qualificato, caratterizzato, nettamente definito come luogo di culto, con tutto quello che questa sistemazione di cose comporta, di gravissima responsabilità per il fatto che ne consegue l'esclusione dalle chiese delle masse popolari, sempre più delle masse giovanili, e delle crescenti situazioni di difficoltà alla Fede, diffuse ormai a ventaglio nella nostra società. E rimangono sempre più fuori della porta, o buttati fuori immediatamente come cani randagi, i problemi, anche i più brucianti della vita, dell'esistenza umana nella loro concretezza più cruda come i problemi del lavoro, della guerra, degli scontri sociali, della disumanità nel mondo, dell'ingiustizia, della sopraffazione del potere, della schiavitù dei popoli, della violenza dei potenti, ecc...
E se qualcosa entra è attentamente purificata, devozionalizzata a sospiro, a preghiera, a sentimentalizzazione spiritualizzata. Vi è però da sempre e vi rimane a possedimento unico, disponendone a criteri assoluti, l'autorità ecclesiastica: apre e chiude quando e come vuole: vi entra o lascia fuori chi vuole.
Domina nelle chiese una predicazione stabilita e controllata. Celebrazioni liturgiche rigorosamente precisate. Sistemazioni devozionali a incremento sentimentalistico, a totale detrimento della serietà e austerità di un luogo che dovrebbe richiamare l'idea di Dio e aiutare un incontro e un'esperienza di Lui, alla luce della sua Parola, fatta carne e vivente tra noi in Gesù Cristo.
Logicamente rimane padrone della chiesa il gruppo di praticanti e delle praticanti. Gruppo, attualmente, con evidente progresso e liberalizzazione, chiamato comunità parrocchiale. E' questa comunità che dispone unicamente ed esclusivamente della chiesa e di tutto quello che è il servizio effettuato nella chiesa, tant'è vero che nella disposizione e nella realizzazione di questo servizio, si tiene conto in maniera e misure condizionanti, delle esigenze, delle richieste, delle pretese di questa comunità.
E così tanto che ciò che questa comunità non gradisce viene attentamente escluso e ciò che è di gradimento, in un modo o in un altro, passando sopra a criteri pastorali di serietà e responsabilità gravissimi, viene fedelmente realizzato.
Succede che le chiese effettivamente sono proprietà di pochi, a volte di pochissimi e non sono né possono essere o diventare casa del popolo di Dio.
E' molto triste, pesantemente penoso, che le comunità parrocchiali somiglino in maniera e misure impressionanti al fratello maggiore della parabola del figliol prodigo e rischiano di essere gli scribi che né entrano, né lasciano entrare nel Regno dei cieli.
I tempi che stiamo vivendo comportano ricerche pastorali e impegni concreti che devono iniziarsi «dalla casa di Dio» (il profeta alludeva al tempio e a tutto ciò che nel tempio avveniva). Le riforme rituali e liturgiche non sono sufficienti e nemmeno indicate per iniziare un fatto fondamentale nella vita cristiana delle comunità parrocchiali e della cristianità in genere: quello della conversione che significa, prima di ogni altra cosa, spezzare ciò che chiude e rinchiude, e aprirsi ed aprire. Il cuore prima di tutto, e poi tutto un tipo di Fede, di comportamento religioso, di realtà di rapporti e tante altre cose, comprese, come segno concreto e reale, anche le chiese.
Può darsi che siano venuti i tempi di impegnare tutta la pastorale tesa all'uso delle chiese in modo che siano veramente casa di Dio e del suo popolo. Luogo d'incontro di assemblee di popolo a trattare i problemi che bruciano i nostri tempi, alla luce di Dio.
Assemblee dove la parola di Dio non è legata, istituzionalizzata ed ecclesiasticizzata. Dove Gesù Cristo è possibile sentirselo accanto, nel fuoco acceso della sua Parola, nel suo mescolarsi imprudente e chiarissimo di vero Dio e vero Uomo, alle vicende della storia di ognuno e dell'umanità intera.
E' possibile questa pastorale, è doveroso in coscienza viverla, tentarla, se non altro, rischiarla anche se di rischio si vuole parlare.
Alla sera, quando appena le penombre della notte calano, le chiese puntualmente si chiudono, a meno che non ci siano Messe o processioni fatte sul tardi per la comodità della gente praticante.
Potrebbero essere riaperte per assemblee di popolo, per riunioni di gruppi, per dibattiti popolari, per ricerche di coscientizzazione cristiana sui problemi della vita...
Basterebbe che non si avesse paura che abbia a spegnersi la fiammellina all'altare del Santissimo Sacramento.
Credere che Gesù presente nel tabernacolo sarebbe felice di accogliere nelle sua casa gente che parla, discute, si incontra e magari anche si scontra liberamente, come se fosse a casa sua e anzi molto di più, come è giusto che succeda ne1la casa di Dio, che evidentemente non è quella lustrata a specchio della solita famiglia cristiano-borghese.
Ed essere convinti che fumare una sigaretta in chiesa non è molto di più sconveniente che accendere candele, con quel loro odore tipico e respingente che impregna la casa di Dio fino alla nausea.
Bisognerebbe seriamente riflettere che la chiesa è la casa di Dio perché possa essere la casa di tutti, Almeno quelle case di Dio dove non vi sono quadri e ricchezze da rubare. Abbiamo tentato questa «pastorale», ma è stata risolutamente e autorevolmente respinta, repressa. Ne riparleremo un'altra volta, di tutto il problema.

don Sirio

La criminalità degli scoienziati

Riportiamo la notizia apparsa su «Il Giorno» del 10.9.72:
«Adesso c'è anche il "fischio che uccide". L'hanno messo a punto i francesi, distrugge un uomo nel raggio di 8 chilometri e potrà diventare un'arma più insidiosa di quella batteriologica.
La Francia preferiva tenere segreta la temibile scoperta, per ragioni di interesse militare. Ma la notizia ha fatto capolino in un austero congresso di scienziati, quello promosso a Leicester dall'Associazione britannica per IL PROGRESSO DELLA SCIENZA ... Invitate a confermare o smentire, le fonti autorizzate francesi hanno confermato.
Il prototipo della macchina che produce il «fischio che uccide» si trova a Marsiglia, nei laboratori del CNRS, che ha finanziato i lavori d'intesa con il ministero della Difesa. Si tratta, in termini tecnici, di un generatore di infrasuoni, cioè di un apparecchio capace di produrre onde della stessa natura di quelle sonore, ma di frequenza inferiore e perciò non udibili dall'orecchio umano...
Durante gli esperimenti, nonostante le precauzioni prese, i tecnici del CNRS che si trovavano nel raggio d'azione dell'apparecchio sono stati colpiti da gravi malesseri durati per ore.
«I vari organi erano come impazziti - ha detto il prof. Connel -. Cuore, diaframma, polmoni vibravano per effetto delle onde emesse dal generatore. I medici hanno diagnosticato disturbi cardiovascolari, crisi di ipertensione, casi di angina pectoris, vertigini e nausee. Senza precauzioni protettive, portato al massimo del suo rendimento, il generatore di Marsiglia provoca l'infarto del miocardio o la rottura delle piccole arterie del cervello con esito mortale».
Di fronte a simili fatti, sono tante le cose che vorremmo dire; ma la prima considerazione che ci vien su dall'anima è di chiederci quando il grado di CIVILTA' sarà così alto ed autentico da considerare CRIMINALI CONTRO IL GENERE UMANO tutti questi uomini che ora protetti dal loro candido camice di ricercatori e scienziati (e sicuramente pagati saporitamente) - appaiono come i fautori e gli artefici della scienza moderna. Mentre non sono altro che i SERVI DELLA MORTE E DELL'OMICIDIO, forse senza rendersene neppure conto. Oppure in piena e lucida - e spietata - consapevolezza?

L'avvenire dei figli

Quando ero piccolo, il mio papà
Mi prendeva sulle ginocchia
Mi cantava alcune canzoni
Erano le canzoni dei suoi diciotto anni
Canti della grande guerra
Poi smetteva di cantare e raccontava
Quelle parole le ricordo tutte, una per una
Quelle storie fatte di avanzate e ritirate
Di fiumi attraversati, di lunghe attese nelle trincee
Di ragazzi che morivano al fianco, davanti, dietro
Di ragazzi che non sapevano e che un giorno
Si erano trovati in mano un fucile
"Tu devi sparare" avevano detto
Avevano sparato "ma perché" avevano chiesto
«Per l'avvenire dei tuoi figli»
Quelle canzoni, quelle parole, mi hanno insegnato che
l'avvenire dei figli
Non sta nelle canne dei cannoni e dei fucili
Ma nel non farli sparare
Perché quando sparano anche se vai avanti, vai sempre indietro.

Giorgio Calanchi

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