Sono dieci anni che il cuore di don Beppe Socci ha cessato di battere, schiantato da un infarto. Ma il ricordo di lui nella città, che si strinse in un abbraccio commosso il giorno del suo funerale al Palazzetto dello Sport, è sempre vivo, nella nostalgia della sua presenza calda e comunicativa di speranze, di sogni e iniziative di coraggiosa solidarietà.
Il suo grande cuore, la accoglienza sincera e partecipata di ogni realtà di vita povera, sofferta, dimenticata fino a farne motto del suo atteggiamento nei confronti degli altri (indifferente MAI), l'amore per il Gesù dei Vangeli, vera e propria stella polare della sua vita, sono stati i fili preziosi di momenti di memoria ravvivati dalla parola di fratel Arturo Paoli e sottolineati da canti, immagini, interventi.
Insieme ai dieci anni dalla morte di don Beppe ricordiamo i venti anni dalla morte di don Sirio. Anniversari che spingono a celebrazioni non del tempo che fu, ma della misteriosa permanenza più forte di ogni morire che attraverso il ricordo propone relazioni nuove che si alimentano nell'unico spirito di vita. No, non si vive di nostalgie ma di intrecci rinnovati, di confronti tuttora aperti. E questo parlare, sia pure nel silenzio, anche quando rinnova ferite credute ormai cicatrizzate, porta con sé lo stupore di essere parte di una avventura ancora attuale e ben lungi dall'essere esaurita: l'avventura umana che si affida e che spera nel sogno di Dio di una umanità giusta.
Ogni volta che ci avviciniamo ad una scadenza del tempo che rinnova il ricordo del fuoco acceso dalla storia di questa chiesetta, ci rendiamo conto di quanto calore ancora sprigiona la vita vissuta in una condizione di condivisione, di amore e di lotta. Suggestioni che parlano al cuore e attendono solo di essere raccolte e narrate con le parole di oggi. Non imitate, ma trapiantate; perché possano portare alla fame e alla sete di oggi il pane fresco e il vino forte di chi non si lascia imprigionare dalle complicazioni e dalle delusioni che sembrano rendere irrimediabilmente inutile ogni generosità.
Dieci anni, vent'anni.. e la consapevolezza che non possiamo troppo a lungo lasciare che il tempo passi invano, senza tentare un ricongiungimento con coloro con i quali abbiamo diviso e sogni e lotte e vita. E il cui ricordo ancora oggi ci intenerisce il cuore.
"Se noi glielo permettessimo" - è Sirio che ci richiama al valore del tempo che passa, in un articolo de La Voce dei Poveri del febbraio 1960, dal titolo: Il tempo ci fa tutti poveri - "il tempo ci trasformerebbe a poco per volta, proprio com'è nella sua natura. Può cambiare i nostri pensieri e rovesciare tante situazioni incresciose. Ammorbidire ed attenuare ogni durezza. Addolcire tanti dolori. Aprire e allargare tanti orizzonti. Piega tutto e prima o poi libera da tante illusioni e falsità e cattivi propositi. A poco a poco alza il velo di mistero e aiuta, senza nemmeno che sembri, a scoprire la verità. Ci spoglia di qualcosa ogni giorno e di qualcosa ogni giorno ci arricchisce. Tende a riportarci all'essenziale scavandocene dentro, come una goccia la pietra, profonde e misteriose esigenze. E conclude in ciascuno valori comuni a tutti: quei valori per cui l'uomo è uomo.
E' tutta colpa delle apparenze ogni differenza o ingiustizia, ma il tempo quando pazientemente le ha tolte tutte ad una ad una, scopre rassomiglianze perfette. Non possiamo rassomigliarci ed essere uguali per quello che abbiamo ma perfetta identità è in quello che tutti sicuramente non abbiamo e di cui tutti andiamo in cerca con ansia terribile: l'assoluto, l'immutabile, l'eterno".
* * *
Nel tardo pomeriggio di venerdì 18 gennaio scorso, tanti amici hanno riempito il teatro Jenco nella Darsena, rispondendo all'invito della Chiesetta: "Ricordando don Beppe, incontriamoci per il 10° anniversario della sua morte".
Ho così introdotto l'incontro:
Maria Grazia ed io vi diamo il benvenuto, qui, insieme, nel nome di Beppe.
Dieci anni sono passati dall'intensa, indicibile emozione del suo funerale, per le vie della Darsena fino al Palazzetto dello Sport affollato come non mai.
E poi le fiaccolate, dalla Chiesetta a S. Andrea, passando davanti al Palazzo Comunale come simbolo dell'intera città. Percorsi sempre molto partecipati, intensi, vivissimi.
E poi? Silenzio?
Nooo.
Una per tutti, l'intitolazione - due (tre?) anni fa - della materna e della scuola elementare di Bicchio sulla vecchia Aurelia, la scuola don Beppe Socci. Abbiamo ascoltato la canzone scritta dagli alunni sulla musica di una famosa canzone di Lucio Dalla ed è solo un segno del lavoro bello e ricco di intreccio con la memoria di don Beppe, realizzato dai bambini e dalle bambine della scuola con il loro corpo insegnante. Perché la memoria si mantiene viva se viene offerta alle nuove generazioni perché la possano raccontare con le loro parole e i linguaggi sempre nuovi. Qualcosa di simile toccheremo con mano stasera andando da qui alla Chiesetta del Porto per vedere come dei giovani studenti delle scuole d'arte, cui abbiamo raccontato le storie di Sirio e di Beppe, hanno tradotto in disegni e colori la loro memoria.
Ma intanto abbiamo bisogno noi, tutti noi, di rinnovare la memoria di Beppe, ascoltando le sue parole, le sue espressioni che ci invitano a chiudere gli occhi e a rivederlo così come l'abbiamo conosciuto e amato. Non ci pare debolezza sentimentale se, per un momento, ci lasciamo andare e ci avvolgiamo nel ricordo di lui come in una calda coperta che ci preserva dai venti freddi della fatica di esistere.
Leggo un suo intervento sulla rivista dei Pretioperai della fine del 1995, intitolato proprio
Un'esistenza che resiste.
"Il mio intervento sarà molto semplice: prima di tutto vorrei esprimere una sensazione di profonda "meraviglia" per aver "resistito" fino ad oggi in un cammino che, nonostante tutte le difficoltà, non si è mai interrotto.
Certamente, la comunione profonda con gli amici con cui mi è stato dato di condividere la strada (Sirio prima di tutto) è stata l'elemento di forza della mia possibilità di resistenza, insieme all'amicizia ed alla "vicinanza" dei miei compagni di lavoro, delle persone semplici, dei poveri, di tanta gente con la quale mi è stato concesso di vivere e di incontrarmi. Soprattutto credo mi abbia aiutato a resistere in una scelta di vita sacerdotale, molto poco raccolta dalla Chiesa nel suo insieme, il sentimento di grande "accoglienza" che ho trovato nella realtà del lavoro, tra i contadini, i pescatori, gli operai, la "gente semplice": sentirmi accolto da loro è stata per me una energia grandissima.
L'altra cosa che vorrei dire è "un'immagine": proviamo ad immaginare un albero che rappresenta l'Esistenza. Se alla parola Esistenza aggiungiamo una "R" ecco che abbiamo la parola Resistenza!
Praticamente la Resistenza è l'Esistenza con l'aggiunta di una "R" (prendetela come una specie di "gioco" linguistico!). Basta aggiungere una "R" e l'albero dell'Esistenza acquista tante dimensioni, valori, significati, prospettive che formano l'insieme delle forze che possono aiutarci a far sì che l'Esistenza diventi una Resistenza. Sono davvero tante le realtà che si legano nel complesso cammino della vita: l'albero diventa allora il simbolo più espressivo di questa dimensione del cammino di chi cerca di "resistere": l'Esistenza con la "R" può consentire allora di non perdere mai le proprie radici, di non demordere dalla ricerca, dal rinnovamento, dalla passione per una continua rivoluzione, per rinascere, rifiorire, risorgere. Ed anche, quando giunge il momento stabilito, per una resa onorevole!
L'ultima cosa, la vorrei esprimere con la parola di una poesia che mi sembra particolarmente adatta al nostro tema e può indicare con forza dove riposa l'energia necessaria per "resistere".
don Beppe
Ci siamo ri-scaldati?
Possiamo allora toglierci di dosso la coperta dei ricordi e trasformarla in piccolo magico tappeto volante sul quale sentirci portare al cuore dell'avventura umana nelle parole forti di un uomo, giovane da più di 95 anni, fratello Arturo Paoli, amico da sempre di Sirio e che ha avuto agio di incontrare anche Beppe durante i suoi viaggi in Italia dall'America Latina, sua terra di lotta e testimonianza.
Luigi
Luigi
LA NOSTRA DOMANDA A FRATEL ARTURO PAOLI
Pacifista convinto, dopo la morte di don Sirio è Beppe a tenere viva a Viareggio la tematica della pace contribuendo a creare una "Scuola per la pace" e animando, in numerose occasioni, gruppi e comitati.
Ha anche partecipato al teatro popolare messo insieme da don Sirio. E nell'84 ne dà notizia su «Lotta come Amore»:
«È trascorso ormai un anno da quando abbiamo cominciato a "predicare la pace" con lo spettacolo teatrale "Le ombre di Hiroshima" che don Sirio ha scritto. Un annuncio, il nostro, che non vuol far leva sulla paura, sempre e comunque una cattiva madre, ma che vorrebbe scavare dentro le coscienze, parlando al cuore: dove ogni uomo e ogni donna potrebbero ritrovare il senso della vita.
Mi è sembrato, andando in giro nei teatri, nelle chiese, in qualche piazza, di compiere un'opera che assomiglia tanto alla visione di S. Agostino: un bambino che con una conchiglia cercava di svuotare il mare!
Forse anche noi, con le nostre attrezzature da saltimbanchi, assomigliamo a quel bambino della visione. Vorremmo tentare di svuotare il gran mare della violenza organizzata, l'oceano degli arsenali militari, degli eserciti sempre pronti alla lotta, delle centrali del potere politico ed economico, della sottile e ben attrezzata cultura della guerra, con l'assurda speranza che si realizzi il grande avvenimento sognato da Isaia: "Forgeranno le loro spade in falci, le loro lance in aratri e nessuno imparerà più il mestiere della guerra.»
Vuoi dirci Arturo qualche cosa sulla necessità di volere la pace per i credenti e i non credenti?
LA RISPOSTA DI FRATEL ARTURO PAOLI
A me pare che leggendo il vangelo sia evidentissimo che la pace sia al centro del messaggio di Gesù e non solo perché la pace viene cantata sulla sua culla nel momento in cui nasce, ma perché nel suo ministero diretto la pace ha certamente un valore essenziale. Vorrei dire che è stato il solo argomento che ha dovuto con l'esempio predicare all'umanità. Intanto nella sua stessa vita ha dimostrato di uscire dal tempio, non per dimostrare che il tempio non abbia per lui valore come ebreo e come figlio di Dio, ma soltanto per dimostrare che il culto a Dio è perfettamente inutile se gli uomini non si amano, sono in guerra, non vivono pacificamente. E quindi per questa ragione il suo ministero non si è svolto come quello di un sacerdote nel tempio, ma si è svolto sulla strada, nella vita comune, avvicinando le persone di qualunque categoria e di qualunque tipo. E quando è riuscito ad avere una certa udienza, ha mandato 72 laici, non praticamente sacerdoti, a predicare, annunziare, preparare le strade e dicevano come si devono presentare attraverso l'assoluta povertà, bussare alle porte e chiedere ospitalità e finalmente dopo aver indicato loro lo stile che lui vuole che abbiano coloro che sono mandati da lui gli domandano: va bene, saremo accolti nelle case, che cosa allora diremo? E lui risponde con una parola sola: pace! Quando sta per lasciare gli apostoli e andare sulla croce che cosa dice? Cosa vi lascio? La mia pace. E' indiscutibile che Gesù non è venuto direttamente a insegnarci una religione, ma piuttosto una relazione con il Padre. Il Padre non è contento di voi se voi non siete pacifici, se voi non vi volete bene. Che cosa direbbe oggi di questo mondo dove non siamo stati ancora capaci di terminare con le guerre, con i conflitti, dove non sembra che noi cristiani siamo veramente un esempio di gente pacifica che sa convivere. E quindi, dico la verità, a me non impressiona tanto il messaggio che oggi si sente rilanciare, il messaggio che Dio è morto. Dio è morto se non ci vogliamo bene e può risuscitare se noi ci amiamo. C'è una relazione diretta tra Dio e l'uomo, tra il Padre e il Figlio. Il Padre perde di senso nella vita se noi non ci vogliamo bene. E se ci vogliamo bene - ma volersi bene non vuol dire solo un'espressione affettiva, sentimentale. Vuol dire se noi ci impegniamo seriamente ad una convivenza pacifica a cominciare dalla coppia, dalla famiglia, dalle amicizie professionali e di lavoro e finalmente per estendersi alla guerra. Ma ci pensate: questo mondo cristiano non può andare avanti se non affama tutti i giorni milioni di persone. Ma questa è una vergogna che non possiamo continuare a portare sopra di noi. Eppure, lo sappiamo perfettamente che esistono i supermercati perché la gente possa sciupare, perché possa soddisfare tutte le voglie che vengono accresciute ogni giorno. La condizione assoluta, reale, è che noi affamiamo milioni di bambini. Quindi questa nostra indifferenza ci prende le mani e quando andiamo al supermercato per prendere quello che è necessario e quello che non lo è, lo facciamo pagare agli altri. Credo che siamo vicini, molto più vicini - molto più vicini di quello che possiamo pensare - alla resa dei conti. E invece bisogna essere molto seri e pensare che un cristiano quando si sveglia la mattina dovrebbe pensare: o sono utile o sono dannoso, o la mia esistenza è positiva o è negativa, o sto bene al mondo o sarebbe meglio che sparissi subito. E la risposta a questa domanda è una sola: collaboro alla pace del mondo, sono un portatore di pace o sono una persona che mette zizzania attraverso conflitti che non sono riuscito a risolvere, attraverso le mie esigenze che non sono riuscito a calmare? Questa dovrebbe essere la domanda. E penso che non possiamo commemorare i nostri morti, quelli che sono vissuti con l'ideale della pace, se noi per primi non ci interroghiamo che cosa noi possiamo fare perché cresca la pace nel mondo, perché ci sia la pace tra noi.
* * *
Non ho potuto conoscere approfonditamente Beppe perché io sono stato molto - come sapete - fuori d'Italia. Ho conosciuto molto intimamente e sono stato in grande comunione di pensieri, di ideali, di sogni con don Sirio. Non sono mai tornato in Italia senza passare del tempo con lui e senza condividere le sue difficoltà spirituali nel vedere che il mondo, la società, non si attrezzava a migliorare nelle posizioni della pace. E devo dire che ho sentito sempre una grande comunione con loro, questi preti che non si contentavano del culto, ma avevano capito che il culto diventa vuoto, diventa falso se noi non collaboriamo alla pace e all'amore tra gli uomini. Perché l'ideale che Gesù ha portato al mondo non è stato il culto ma il grande messaggio che Dio si glorifica, Dio si esalta, Dio si ama non attraverso i templi, non attraverso i pellegrinaggi, neanche attraverso le preghiere, ma soprattutto collaborando a essere fratelli. Gesù ha un grande progetto che è proprio quello di creare la famiglia del Padre con noi e per noi. E la famiglia del Padre è una famiglia pacifica, una famiglia che si ama. Ma io penso che non è possibile collaborare alla pace nel mondo se la pace non è nel nostro cuore, non è dentro di noi. Viviamo un tempo apparentemente negativo, ma io vedo in questo tempo dei bagliori di luce. Ce ne sono tanti. E il primo è questo che finalmente i pensatori generalmente, quelli che oggi lavorano col pensiero, con la testa, hanno capito che ora basta inseguire le idee per aria come se fossero degli uccelli, degli aironi, che volano in alto. Bisogna avvicinarsi all'esistenza umana, all'esistenza concreta perché l'uomo diventi, lui, pacifico. Perché fino a che l'uomo non è pacificato, fino a che non ha sciolto i nodi che porta dentro, finché non è una persona che vive senza risentimenti, che vive chiusa nel proprio egoismo e non si dà agli altri, è inutile che faccia cortei per la pace, è inutile che vada a scuola di pace, che parli di pace, che scriva di pace, se non ha dentro di sé - fortemente - questa volontà di essere pacifico. E se vuole essere pacifico deve risolvere i suoi problemi e specialmente liberarsi da quello che è il grande tiranno che noi portiamo dentro, che è il nostro io egoista, violento, cattivo. E che bisogna superare. Una cosa che oggi potrebbe sorprendere molto è che diversi pensatori, al contrario di quello che avrebbero fatto un centinaio d'anni fa, oggi hanno cominciato a parlare dell'anima. Che l'uomo ha un'anima e che solo attraverso questa parte del nostro essere - che si chiama anima - si possono mettere in contatto con i grandi valori e cercare di portarli nella propria vita. Bisogna che ogni persona, anche se di condizione umile e semplice, pensi di essere un collaboratore di Dio nel formare la Sua famiglia. Come sempre, anche nelle nostre famiglie umane c'è sempre il ragazzo, il figlio che è più vicino ai genitori e sa che i genitori vogliono che tra fratelli ci si voglia bene. E io penso che il cristiano deve essere una persona che se diviene re chiama il Padre, ama il Padre, gli deve promettere di collaborare perché i fratelli si vogliano bene tra loro. E non solo promettere, ma anche cercare concretamente di realizzare sempre più amore, sempre più amicizia tra gli uomini. Devo dire davanti a tutti che sono contento di essere ritornato a Lucca perché c'è un gruppo di giovani che cresce sempre di più e che veramente cominciano ad essere cristiani. Io non domando prima di tutto se seguono il culto. Qualcuno lo segue, altri no. La cosa importante è che si impegnino seriamente a costruire la pace, prima di tutto nelle loro relazioni personali, nelle relazioni di coppia, nelle relazioni di famiglia, nelle relazioni di lavoro. Questo deve diventare il nostro ideale. E già ne parlavamo in tempi lontani con Sirio e ricordo di avere passato tante volte con lui delle ore parlando di questi comuni ideali di pace. Domandiamoci: l'abbiamo realizzati? No. Ma questo non mi scoraggia. Non sono assolutamente scoraggiato. Non sono assolutamente deluso della mia vita, lo devo dire sinceramente. Non dico che non abbia fatto degli errori e che tutto sia stato liscio e bello, ma vi debbo dire che sono felice, felice di vivere! E sarei altrettanto felice di morire e devo dire che questa felicità deriva dal fatto che ci è stato trasmesso dallo Spirito questo grande ideale della concordia tra gli uomini, della pace tra gli uomini, dell'amarsi tra noi. Questo è quello che ci deve accompagnare per tutta la vita fino alla morte.
fratel Arturo
I PANNELLI A MEMORIA FUTURA DI DON SIRIO E DI DON BEPPE
Nella seconda parte della serata abbiamo ripercorso la storia di una bella iniziativa lanciata nel 2006, insieme al Comune di Viareggio: un concorso per le tre scuole d'arte della provincia di Lucca dal titolo «La Chiesetta racconta: episodi di vita di Don Sirio Politi e Don Beppe Socci».
L'idea era nata dal desiderio di decorare una parete della Chiesetta, quella lato mare, con un'opera d'arte in pannelli di ceramica che fosse un segno, a futura memoria, delle due persone speciali che vi hanno abitato. Per l'ideazione e la realizzazione dell'opera scartammo l'ipotesi iniziale di coinvolgere uno degli artisti di cui è ricca la Versilia, scegliendo di coinvolgere nell'iniziativa le scuole d'arte della zona. Cogliemmo così l'occasione di rivolgerci ai giovani e ci sembrò, già questo, un bel modo di fare memoria.
Proposto il progetto al Comune, fu individuato il «Centro Studi Cultura Eclettica, Liberty e Déco» di Viareggio come il nostro partner ideale, per la sua lunga, duplice esperienza: con le scuole e con i lavori in ceramica.
Così ho raccontato, quel pomeriggio, lo svolgersi degli eventi:
«Nel giugno del 2006, insieme alla dott.ssa Belluomini, responsabile del centro Liberty, abbiamo iniziato il cammino che concluderemo stasera con l'inaugurazione dei pannelli, montati la scorsa settimana sulla parete della Chiesetta. Al concorso hanno partecipato diverse classi dell'istituto d'arte Stagio Stagi di Pietrasanta, del liceo artistico e dell'istituto d'arte di Lucca, ai cui studenti Luigi e io abbiamo raccontato la vita di Sirio e di Beppe e fornito materiale scritto.
Il bozzetto vincitore, fra i numerosissimi pervenuti, è stato quello di Martina Da San Biagio del Liceo artistico di Lucca: per la cui realizzazione è stata preziosa la presenza, accanto ai ragazzi guidati dal prof. Caldognetto, delle ceramista del Centro Liberty che li hanno iniziati all'arte della ceramica. Tanto si sono appassionati alla ceramica e hanno creduto alla validità del progetto che, finiti gli esami del quinto anno, sono tornati a scuola durante l'estate per potere completare i pannelli. E questa sera sono qui con noi, insieme ai loro insegnanti e al preside della scuola, il professor Walter Rinaldi che prenderà la parola quando ci recheremo alla Chiesetta per inaugurare i pannelli.
Mi fa piacere dirvi che le varie fasi della lavorazione sono state documentate da una serie di fotografie che compongono una mostra dal titolo «La Chiesetta racconta», esposta a Palazzo Paolina, qui a Viareggio.
Cedo la parola all'assessora alla Cultura Cristina Boncompagni e all'architetto Glauco Borella, direttore del centro Liberty, che illustreranno il loro ruolo nella iniziativa».
Terminati gli interventi, abbiamo formato una fiaccolata che, preceduta da una banda che suonava l'adagio di Albinoni ci siamo incamminati verso la Chiesetta, dove ci attendevano lo scoprimento dei bei pannelli: due opere che ben rappresentano i due protagonisti a noi tanto cari. Quello dedicato a Don Beppe ha i colori caldi dell'amore (sfumature di rossi e di arancioni ), con un girotondo di bimbi che ha al centro un cuore e sullo sfondo un volo di colombe. Per don Sirio i colori sono quelli stemperati degli ideali: verde e azzurro con colombe che volano reggendo nel becco ramoscelli di olivo, mentre il simbolo della nonviolenza naviga felicemente sulle onde del mare.
Hanno chiuso la serata le parole del preside Rinaldi, quelle del Presidente della provincia di Lucca e, infine, un brindisi con vino rosso e l'assaggio di ottimi pesci marinati offerti dalla Cooperativa Mare Nostrum, sempre generosamente presente quando si ricordano don Sirio o don Beppe.
M.Grazia Galimberti
Ricordo la sua gioia quando, dopo circa 10 anni di lontananza, tornò a vivere alla Chiesetta del Porto. Era l'87, i quattro figli che aveva avuto in affidamento erano tornati dai propri genitori e per lui si ripeteva un ciclo della vita.
Tornava all'origine, in una casa dove aveva iniziato la sua grande avventura viareggina, là dove il richiamo di don Sirio lo aveva attirato, spingendo anche lui a vivere mescolato alla gente, mantenendosi con il lavoro delle proprie mani: una vita semplice ed evangelica, a servizio di molti.
In Chiesetta, in quegli anni, c'erano don Sirio, già malato, e don Luigi. E così Beppe tornò a riprendere il suo posto: lui uomo ormai fatto e padre di famiglia abitò nuovamente la sua piccola camera che si affacciava a guardare lo specchio d'acqua della darsena Toscana. Erano tanti gli oggetti e i libri che aveva accumulato, la cameretta ne traboccava e, nonostante la sua capacità di ordine, stava un po' stretto, ma non si lamentava. Anzi, da quando era lì, la casa risuonava nuovamente del suo buon umore, la sua abilità nel cucinare il pesce veniva apprezzata e il suo carattere affettuoso rasserenò gli animi nei tempi difficili della malattia di don Sirio.
Maria Grazia
Sento molto la sua mancanza. Non soltanto sul piano mio personale, quanto nei confronti di tutta la situazione che stiamo vivendo, nel quartiere, nella città, nel mondo. La mancanza di uno spirito dolce, disponibile, accomodante e, nello stesso tempo tenace dentro fino all'incredibile. Perché Beppe quando si metteva in testa qualcosa non stava a considerare le difficoltà più ovvie, e anche se ascoltava tutti, continuava con pazienza a portare avanti le sue considerazioni, le sue richieste fino ad ottenere non quello che era l'ideale, ma quello che concretamente era possibile.
E Beppe ci ha "intrecciati" tutti, ottenendo da ciascuno di noi qualcosa di concreto. Non per se stesso, che lui è stato davvero un povero. Ma per "i suoi ragazzi". Che non erano solo i portatori di handicap con i quali divideva il lavoro di impagliatura delle sedie. Ma anche gli zingari accampati dietro la piscina comunale, piuttosto che i primi "extracomunitari" che cominciavano ad abbaraccarsi sul nostro territorio. Le persone anziane sole, i giovani sbandati senza lavoro, i bambini senza una vera famiglia, gli uomini e le donne privati di ogni considerazione e stima, alle prese con difficoltà ricorrenti per la casa e il lavoro.
Il dono che Beppe ci ha fatto - la sua eredità -, è questo suo invito a spostare la nostra attenzione rispetto ai criteri della cosiddetta pretesa normalità di chi sta sul suo, ad una visione di condivisione di bisogni e di risorse nella comune condizione umana. Al di là di ogni differenza che spesso ci mette gli uni contro gli altri.
Luigi
Mi piacerebbe partire dal piccolo angolo della darsena dove e' ancorata la casa che mi protegge e mi accoglie, per mettermi in cammino, a piedi, lungo le strade. Vorrei tanto camminare fra la gente, salutare, stringere qualche mano, scambiare qualche parola e soprattutto dire: pace!. Vivete in pace, cercate la pace, non vi stancate di impastare ogni giorno il pane della pace: in tutto, con tutti, a costo di tutto, sempre. Accogliete dentro l'anima il mistero umano nella sua radice, l'attesa inespressa di ogni essere, il gemito della creazione, la voglia d'infinito che a volte muore entro le strette misure del quotidiano, la necessità di una vita fraterna che si realizzi nell'incontro con ogni persona, di ogni colore, di qualsiasi tendenza, di qualunque credo politico o religioso. E allargate il cuore e l'anima alla ricerca del volto di Dio. Raccogliete il mistero della sua Presenza nei colori dell'alba e del tramonto, nella pioggia, nel vento, nella luce del sole, nella fatica della gente, nella solitudine e nella speranza. Il Vangelo e' nato nella lunga gestazione di Nazareth, ma poi è fiorito e maturato in pienezza nel vento e nel sole ardente delle strade di Palestina.
Mi piacerebbe farmi pellegrino per tentare di scoprire più radicalmente il mio rapporto di amore e di comunione con la creazione, con le creature, con il Creatore. Fare della strada lo spazio vitale di una scuola di umanità più profonda, di accoglienza più vera, di confronto, di scambio, di una possibilità di dare e di ricevere le infinite provocazioni che il cammino racchiude dentro
Ora che ho scritto sul foglio di carta queste vecchie utopie che dormivano chissà dove dentro di me, mi viene quasi il timore di essermi lasciato andare ad assurde e vuote immaginazioni, come uno scolaro sbadato che va fuori tema. La realtà concreta delle cose, lo spessore della vita quotidiana, le vicende sociali, politiche, economiche sembrano prevalere su qualsiasi tentativo di illuminare la scena sulla quale si svolge la grande rappresentazione umana con la luce dell'utopia, del sogno, della logica dell'impossibile. Eppure mi sembra, a volte, che l'unica possibilità di salvezza dalla folle e assurda logica del pensiero dominante, stia proprio nella capacità di lasciarsi prendere sulle ali del vento e farsi condurre verso nuovi orizzonti, in nuovi spazi dove il mistero di Dio e il mistero umano possano tessere rapporti nuovi di libertà, di amore e di più profonda comunione.
don Beppe
Nel ricordare don Beppe avremmo voluto intrecciare il suo modo di essere con le elaborazioni di intellettuali come la filosofa spagnola Maria Zambiano. L'accostamento, non facile da accettare per una diffusa diffidenza nei confronti di linguaggi altri rispetto alla presunta facilità di lettura dei gesti concreti della vita, nasceva dal cercare di individuare il "segreto" della vitalità di Beppe, del suo instancabile movimento di "impasto" di persone per affrontare la realtà, a prima vista insormontabìle, del disagio profondo. Ci è sembrato di dover attendere un altro momento di fronte al desiderio vivo di tante persone di ricordare Beppe così come l'abbiamo conosciuto in un incontro che parlasse ancora di lui, attraverso segni, immagini e quel breve tratto di strada percorso con le fiaccole in mano quasi sperando di incontrarlo di nuovo.
Ma la ricerca continua e, in questi giorni, mi sono imbattuto in uno scritto di Beppe che potrebbe rivelare una traccia. Si tratta di un articolo scritto per Lotta come Amore nell'ormai lontano 1978, dal titolo "Il Dio della solitudine".
Il giornale, segno e specchio della vita di don Sirio e della sua piccola comunità, abbandonò un anno prima il formato consueto de "La Voce dei Poveri" (quasi un tabloid) per rivestire panni assai più modesti, simili a quelli di oggi. Ne dà ragione lo stesso Sirio nella premessa scritta ad una lettera "ai fratelli e alle sorelle che vivono in solitudine": "Una delle difficoltà che hanno impedito il mettere insieme queste paginette sulla linea del nuovo corso dato a Lotta come Amore fin dall'aprile del 77 (solo questo numero è uscito nell'anno passato) una delle difficoltà è venuta fuori dall 'esiguo numero dal quale la nostra comunità è attualmente formata e dal suo significato sempre più andato riducendosi.
Pochissimi e nemmeno in condizioni di rappresentare localmente un qualche significato concreto o comunque di ricerca. Siamo realmente niente perché dire poveri è troppo poco, cari amici. Eppure conserviamo la presunzione di avere tantissimo: fin quasi da poter offrire qualcosa. Che cosa non sappiamo bene. Ma, per esempio, che la luce non si è andata spengendo e non siamo disposti a tenerla sotto il moggio. Che intendiamo a costo di tutto, continuare a sostenere, con serenità e forza, la fatica della Fede in Dio, in Gesù Cristo e quindi nell'umanità. Ancora più profondamente per non dire più violentemente, la preghiera ci scuote e ci agita, come vento impetuoso fin dalle radici e impedisce un ripiegamento, almeno per ora, eremitico e tanto meno disincarnato.
E la scelta di Dio ancora percuote nel vivo la carne e l'anima costringendo a camminare, a gridare, se non altro a cercare, come quando si cammina a tentoni, non molto di più che al lume delle stelle".
Beppe accoglie l'invito di Sirio. Sente che là dove l'aratro delle storie umane ha rivoltato il terreno è perché possa rinascere la vita: "E' veramente tanto tempo che non sono riuscito a scrivere qualcosa sul nostro giornale che ora ha, molto più degli anni passati, il sapore fraterno di una lunga lettera fra amici".
La sua condizione di vita è tutta presa dai ragazzi che ha preso con sé: "Sono ormai quasi due anni che non scrivo più e questo tempo è letteralmente
volato via nella macina della vita quotidiana, preso nella rete di vicende molto particolari come sono quelle della vita dei bambini, della loro storia semplice e drammatica, di problemi che non sono niente e sono tutto: è stato come entrare in un fiume in piena e rimanervi travolto, portato via da una corrente tenace e instancabile che non concede respiro né permette riposo. Così ho camminato senza avere il tempo e spesso neppure la forza interiore sufficiente a fare una sosta, a pensare al senso di ciò che si fa, unicamente preoccupato di rispondere con amore e con verità alle richieste della vita che chiama ed esige risposte precise". Prima di essere colui che intreccia persone come i figli di paglia di una seggiola, Beppe si è lasciato intrecciare dalla vita, e, avendo scoperto non la morte di sé, ma la continuità di vita, offre questa scoperta a tutti quelli che incontra e la propone soprattutto ai suoi amici. "In questo cammino c'è continuità, non frattura né contrasto di valori: come nella vita operaia, così ora in questo vivere una realtà domestica e quasi monastica si è approfondita la contemplazione di ciò che sempre più mi appare come il segno del mistero di Dio nella storia, il termine di giudizio, di contrasto e di provocazione di tutto il messaggio cristiano: l'essere cioè Dio il Dio della solitudine delle creature, Dio dei poveri, degli umiliati, dei perduti, dei sopraffatti dalla sapienza e dalla violenza del mondo. Dio della croce e non della spada, del perdono e non della vendetta, della povertà e non della ricchezza, di tutto ciò che è piccolo (come un seme, un po' di lievito, un bambino) e non di ciò, che è grande e considerato importante ...
... Mi sembra che lo Spirito del Signore spinga la mia vita su questo sentiero dove si incrociano le solitudini delle creature e dove non si può non essere segnati in profondità da tutto questo, sentirsi come bollati a fuoco da un marchio che non si potrà cancellare. La mia solidarietà umana e cristiana, va sempre più nella direzione in cui mi sembra si muovono con estrema chiarezza i passi sconvolgenti del Dio vivente. Un cammino che senza dubbio conduce alla solitudine più radicale, a non credere al consenso della maggioranza, alla forza del numero, a ciò che "tutti dicono", alle mode del momento, all'opinione pubblica e così via. Una solitudine sostenuta dal continuo confronto fra la Parola di Dio e le nostre parole, i suoi criteri di giudizio e i nostri, la sua Legge e le nostre leggi, il suo ordine e il nostro: una solitudine in cui cresca una capacità di lotta che si traduca nella capacità di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini perché sulla tavola della storia non venga mai a mancare il pane della vita".
Don Beppe
<Sperare significa essere pronti in ogni momento a ciò che ancora non è nato e anche a non disperarsi se nulla nasce nella nostra vita. Non vi è senso alcuno nello sperare ciò che già esiste o in ciò che non può svilupparsi. Coloro che hanno poca speranza scelgono gli agi o la violenza; coloro che sperano ardentemente vedono e amano ogni segno di una nuova vita e sono pronti in ogni momento ad aiutare la nascita di ciò che è pronto a venire al mondo.>
E. Fromm
Questo articolo di don Beppe è stato scritto e pubblicato nel numero del dicembre 1982 di Lotta come Amore. Da quasi un anno, ci "prendiamo cura" della parrocchia di Casoli, ad una mezz'ora di macchina da Viareggio. Beppe ha da poco riconsegnato i "suoi" figli ai genitori. E' tornato a vivere alla Chiesetta del Porto, nella sua cameretta. Sta imparando ad impagliare le sedie per iniziare quel lavoro nel capannone di via Virgilio dove già stanno convivendo lavori artigiani diversi. E il tema della lotta per la pace, attraverso la denuncia chiara e la spinta alla conversione delle strutture di morte urge forte in lui.
Sono tante le azioni che Beppe mette in atto in quegli anni per una coscienza cristiana liberata dalla violenza e tra quelle la promozione nella città di una Scuola della Pace che riuscì a raccogliere adesioni e presenze significative. Riproponiamo la lettura delle sue parole semplici e chiare e vorremmo tanto continuare oggi a sognare questa stessa utopia.
Da qualche mese, la sera del sabato salgo ad un piccolo paese aggrappato alle pendici di una delle colline che scendono dalle Apuane verso il mare. Circa cinquecento abitanti, una storia simile a quella di tanti paesini della nostra terra: lavoro duro nei tempi passati, in prevalenza in miniera, nelle cave di marmo, anche all'estero. Oppure la coltivazione della poca terra, l'oliveto, la selva di castagni, le patate e il grano.
Poi, dopo gli anni '50, un po' di benessere frutto del lavoro operaio nelle fabbriche e nei cantieri della zona. Un paese tranquillo, con molti anziani ma anche con un bel gruppo di giovani e di ragazzi. Una parrocchia rimasta senza parroco negli ultimi anni e allora è successo che qualcuno dal paese è venuto a cercare i preti operai della Darsena di Viareggio e ci ha chiesto se eravamo disposti a prenderei cura della parrocchia.
Con il consenso del vescovo abbiamo preso l'impegno di una modesta presenza per celebrare la messa domenicale e una semplice disponibilità sacerdotale. Con l'unica dichiarata intenzione di essere fratelli in mezzo ai fratelli, servi tori della parola di Dio, piccolo ma chiaro segno di un Amore che non si stanca di accendere la speranza nel cuore degli uomini.
Così mi sono ritrovato a vivere il mio sacerdozio nel modo più tradizionale della storia della Chiesa, in una realtà popolare molto semplice ma anche segnata da tutto quello stile religioso che appartiene a una lunga storia di secoli in cui la fede camminava quasi separata dalla vita: per cui si pregava, si facevano feste solenni e processioni, si cantavano devotamente i vespri in latino, si celebravano messe cantate a suono squillante d'organo e poi tranquillamente si affrontava la vita concreta (il lavoro, i rapporti sociali, i problemi politici) sulla base di criteri e di concezioni morali che poco o niente avevano a che fare con il messaggio evangelico. Così con la stessa logica, si obbediva serenamente alla consuetudine religiosa di ricevere il Battesimo, la Cresima, la prima Comunione, il Matrimonio e alla pratica sociale di una divisione tra ricchi e poveri, tra
sfruttati e sfruttatori, tra dominatori e sudditi.
Così, con la benedizione del parroco, si partiva obbedienti per servire la patria col servizio di leva e quando la storia lo richiedeva per difendere gli interessi della patria anche con la guerra. Qui in paese c'è ancora qualche arzillo vecchietto che è andato all'assalto alla baionetta sul fronte del '15-'18; molti sono gli uomini, bravi minatori e ottimi contadini che hanno vissuto l'inferno della seconda guerra mondiale, prima come soldati d'Italia poi come partigiani.
Così è nato un monumento che ho visto subito appena sono arrivato al paese, perché si trova proprio alla sua imboccatura, nell'unico slargo che forma una specie di piazza di fronte alla fontana e ad un grosso sperone di roccia che pare voglia venir giù da un momento all'altro. E' un monumento molto tradizionale, come ce ne sono tanti, ma mi ha colpito di trovame uno simile in questo piccolo paesino pacifico e tranquillo. E' un bronzo che raffigura un soldato in pieno assetto di guerra, fermato proprio nell'attimo in cui con una mano sta per lanciare una bomba mentre nell'altra impugna un fucile pronto per l'uso.
Un modo strano per far pensare ai caduti di tutte le guerre a cui appunto è dedicato. Più che un invito a ripensare la guerra come tragedia del popolo, come olocausto folle e insensato, quel soldato di bronzo è quasi una esaltazione dell'uomo in battaglia, un'immagine della guerra come valore, dei morti in guerra come degli eroi.
Non so se questa è stata l'intenzione di coloro che hanno voluto il monumento, ma tale è l'impressione immediata che mi è nata nell'anima.
E mi ha fatto molto pensare alla profonda frattura che divide nel cuore della gente la fede in Dio e l'esperienza della storia, il Vangelo di Gesù Cristo e la concreta testimonianza della vita, i valori proposti dalla parola di Dio e quelli per i quali gli uomini, in tutti i tempi, sono stati spinti a vivere e a morire. Questo monumento è una bestemmia contro la pace, una offesa lacerante per tutto il sangue fatto spargere dagli industriali della guerra, dai politici del terrore, dai maestri dell'amor di patria. E' una provocazione per la coscienza cristiana. Ma nessuno se n'è accorto, anzi tutti sono orgogliosi di avere un così bel monumento!
A me, invece - forse in un momento di poesia -, mi è venuto spontaneo pensare al giorno in cui la coscienza cristiana della gente del paese si svegliasse e si accorgesse dell'inganno. E salisse dal cuore del popolo il desiderio di avere un monumento diverso che esprimesse davvero la scoperta della verità sulla guerra e sull'amore della patria. Allora, tutti insieme, sarebbe bello vedere la gente radunarsi nella piccola piazza, togliere via la bomba dalla mano del soldato e sostituirla con un ramo di uno degli splendidi olivi che riempiono la collina e tagliare con la fiamma ossidrica il mitra e spezzarlo perché non spari più.
Penso che allora anche la faccia dura del soldato di bronzo riacquisterebbe i lineamenti di un'umanità che ha finalmente imboccato il cammino della propria liberazione.
don Beppe
Presentazione del libro di Sirio Politi «Una zolla di terra»
Sabato 24 maggio 2008, ore 17 Presso il Museo della Marineria, Viareggio
Presenta Stefano Pasquinucci
1. «La situazione sociale italiana negli anni '50», relatore Prof. Paolo Pezzino
2. «Il mio amico don Sirio»,
relatore Arturo Paoli
3. «Il valore di un libro, perché ripubblicarlo», relatore Mons. Marcello Brunini
4. «La zolla di terra: storia di una recherche»,
relatore Maria Grazia Galimberti
Gli interventi saranno intervallati dalla lettura di alcuni brani tratti dal libro.
Concluderà l'incontro la premiazione della giovane vincitrice del concorso per la realizzazione di pannelli in ceramica dal titolo «La Chiesetta racconta: episodi della vita di don Sirio e don Beppe», riservato agli studenti delle scuole d'Arte della provincia di Lucca.
Luigi Sonnenfeld
e-mail
tel: 058446455