Siamo al primo numero. E ci trepida il cuore timoroso e gioioso come ad ogni novità.
E' il primo passo su una strada di cui non conosciamo bene il tracciato e lo snodarsi. E non sappiamo nemmeno se sarà lunga o breve, pianeggiante o ad arrampicate, diritta o tortuosa. Ed è an-che impossibile conoscere dove porterà.
Sappiamo soltanto che si tratta di mettersi a camminare. E senza prendere né oro, né argento, né rame nelle cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né calzari, né bastone... pronti a scuotere perfino la polvere dai calzari... e a fuggire di città in città... (Mt. 10).
Non abbiamo nemmeno cose particolari da dire, da raccontare: forse appena qualche ideale ci sbalugina e qualche sogno ci rapisce a sognare forse l'impossibile. '
Siamo piccola cosa, come persone e come comunità, così piccola e povera cosa che può sem-brare e forse anche essere, semplicemente, presunzione metterci in vista con un periodico, tirar fuori carta stampata, venire a scocciare gli amici, quasi pretendendo attenzione e considerazione.
Alle montagne di libri, di periodici, di giornali, aggiungercene un altro, sia pure di minime proporzioni e di possibilità quasi insignificanti, può sembrare letteralmente un'assurdità.
Una fatica buttata via., Tempo sprecato. Sbriciolatura d'impegni unitari. Manie irrepresse. Sognare a vuoto., e via dicendo.
Sappiamo bene tutte queste cose. Possiamo anche giudicarci assurdi e strani. Eppure non possiamo non insistere.
Siamo fermamente convinti, a voler lottare in questa guerra di scontro che travaglia il mondo e coinvolge inevitabilmente chi non vuole raggomitolarsi nel suo buco e bendarsi gli occhi per non vedere e turarsi gli orecchi per non turbarsi i sonni, che non è possibile scendere in campo aperto con schieramenti di forze massicce e ben attrezzate. Tanto più che queste forze di massa, almeno da una parte, nemmeno esistono. Ed è cosa penosa che la Chiesa, per esempio, s'illuda ancora di possederle queste forze combattenti, fatte di anime vive e non soltanto di energie morte, come il potere politico, economico, capitalistico, gerarchico, giuridico, ecc.
Lo spirito religioso, la testimonianza cristiana sempre più è affidata e consegnata là dove lo Spirito soffia liberamente a suscitare Fede e ricerca di autenticità cristiana.
Vorremmo semplicemente essere e aiutare questi spazi, piccoli forse come una zolla di terra, ma disponibili ad una apertura totale al Mistero di Dio e di Cristo e ad allargarsi dilatarsi fino alle misure di tutta la terra.. ..
E' questa responsabilizzazione sia pure in misure frammentarie, sbriciolate, ma intensamente coinvolte ed efficaci, che ha bisogno di essere costruita, sostenuta e incoraggiata da una lotta ad ogni angolo di strada, nello slargo di una piazza, nel chiuso di una stanza, a tu per tu, a cuore a cuore e nel frattempo in una universalizzazione perché all'aperto e allo scoperto, perché è bisbiglio sussurrato all'orecchio e gridato poi sui tetti.
Così vuole essere questo piccolo foglio: obbedisce e crede semplicemente ad una stretta di mano, ad un cenno del capo, ad un sorriso, ad una parola portata via dal vento: ad un piccolo foglio che si posa su un tavolo.
Può scuotere il mondo se inquieta un'anima e allarga senza misure un cuore. E vincere una grossa battaglia contro questo mondo pacchiano e banale che interessa soltanto al rumore dei quattrini e si impressiona unicamente alle grosse propagande pubblicitarie. '
Sentiamo poi e fin nel più profondo dell'anima, di cercare di essere vivi e impegnati nei problemi che travagliano la Chiesa. .
E' un momento quello che la Chiesa sta vivendo di un movimento, intenso e, violento, che il pugno di lievito sta agitando nella massa appastata e polentona della Chiesa.
Essere qualcosa di questo movimento è semplicemente doveroso e urgente. Ed è indispensabile cercare, sempre sulla linea della lievitazione, di rimescolare con forza più che sia possibile.
Starsene in pace e lasciare in pace, ora, è tirarsi fuori da una pesante responsabilità che volere o no grava sulla coscienza di tutti i cristiani.
Ciascuno a cui stiano a cuore i problemi del Regno di Dio nel mondo non può non rimanere coinvolto in una responsabilità di Chiesa.
Noi amiamo profondamente, appassionatamente la Chiesa, questa continuità e presenza di Cristo fatta di persone e di popolo, nella storia dell'umanità.
In questo momento che è il nostro momento ci sentiamo responsabilmente questa Chiesa. E non una pagina del registro dei battezzati.
E nemmeno una pagina del registro degli ordinati sacerdoti.
Abbiamo coscienza di portare nel destino della nostra vita questa consacrazione cristiana e sacerdotale che inequivocabilmente ci qualifica e ci costituisce Chiesa.
Noi siamo Cristianesimo e non come qualcosa di aggiunto, di sovrapposto che qualifica per quello che apparisce, è realtà connaturata nella nostra vita, è costruzione d'esistenza.
Ci vergogniamo fino all'incredibile di essere quel tradimento che siamo di questo Cristianesimo, di questa realtà di Chiesa che d'altra parte riconosciamo che è l'unica nostra possibilità di essere persone vere, giustificate a stare a questo mondo, ma nonostante questo terribile rammarico di non essere quello che si dovrebbe, non possiamo non cercare, non lottare per questa nostra sincerità.
L'autenticità cristiana non è mai però raggiungibile (e nemmeno immaginabile) in una ricerca personale: il mistero cristiano è realtà di comunione. La salvezza o è la ricerca di salvezza per tutti o' è perdizione: chi salva la sua anima la perderà, è chi , la perde per il Regno di Dio, confondendola con il destino di tutti fino all'impossibilità di non ritrovarsi, che la salverà.
Vorremmo gettare là, nell'immensa problematica della Chiesa, la nostra vita dimenticandoci di ogni motivazione personale, al di là di ogni polemica senza assolutamente riprometterci nulla, spinti e costretti unicamente dall'Amore alla Chiesa ad esserne realtà viva, spirito acceso, ricerca di fedeltà appassionata.
Tanto più che per noi (ma crediamo bene per tutti) non è la Chiesa per se stessa che conta e che amiamo; è Gesù Cristo che per noi unicamente decide fino ad essere Lui il nostro Amore, ed è a Lui la nostra fedeltà più assoluta.
Amiamo la Chiesa per il rapporto con Gesù Cristo, per il suo esserne parola viva, continuità storica, realtà sacramentale, Regno della Sua Resurrezione ...
E' da questo Amore a Cristo e quindi alla Chiesa che per noi (ma è per ogni cristiano) scatu-risce il dovere di una lotta che in fondo è semplicemente una identità più fedele che sia possibile fra Cristo e la Chiesa.
E' l'unica lotta che nella Chiesa deve essere combattuta e senza riguardi, né false e assurde carità e pigre, passive, irresponsabilità.
Si può rischiare di essere eccessivi in questa lotta, Dio voglia perché eccessivo è l'Amore.
Al di là di ogni misura, fino ad essere senza misura.
Ci sentiamo quindi profondamente fedeli alla Chiesa in tutto e per tutto.
E' perfettamente e sicuramente inutile mettere in dubbio questa nostra fedeltà alla Chiesa, anche gerarchicamente intesa.
Anche se intendiamo con profonda Fede cristiana e coscienza di Amore vero a Cristo e alla Chiesa, testimoniare quanto sia possibile e doveroso vivere fedeltà e libertà, comunione e ricerca personale, autorità e servizio, obbedienza e responsabilizzazione... E' amore che inevitabilmente deve essere lotta e lotta capace di lottare fino alle misure estreme totalmente giustificate dall'amore.
Pensiamo che non sia possibile (può darsi che sia anche, tutta presunzione, ma confidiamo che sia semplice e chiara coscienza) che succeda che possiamo essere piano piano spinti ai margini della Chiesa, nelle penombre dove non è più volutamente possibile distinguere se si è dentro ancora o se si è già fuori, nelle condizioni nelle quali furbescamente si scuote il capo e con paterno e fra-terno dolore si manifestano angosciose perplessità ...
Confidando nella grazia di Dio prima di tutto e in una serenità e chiarezza di coscienza, ci sembra che questo vecchio trucco per noi non avrà nessuna possibilità di successo.
Noi siamo e rimaniamo sicuramente all'interno, nel cuore della Chiesa, con una fedeltà che sarà testimoniata e rafforzata dai rischi, dalle responsabilità, dal pagare di persona e serenamente, con tutta pace, pur continuando logicamente ad obbedire a questo nostro Amore a Cristo e alla Chiesa.
Perché è là, nel cuore di Gesù Cristo, forse ancor prima della Pentecoste, che noi scopriamo quella Chiesa che amiamo così perdutamente. Questa è per noi la vera Chiesa "primitiva" da cercare di rendere viva nel nostro tempo. Con tutto il rispetto, l'amore, la venerazione della Chiesa che i cristiani hanno cercato di rendere viva nel loro tempo.
Concludiamo questa specie di introduzione al nostro periodico, rivolgendoci a tutti i nostri amici, pregandoli di molte cose, ma specialmente di non aspettarsi chissà cosa da noi. Siamo come tutti a guadagnarci il pezzo di pane quotidiano della Fede cristiana. Ma è con fatica, come per tutti i poveri a tirare avanti la propria giornata.
Forse non abbiamo altro da offrire che questa fatica: siamo contenti se qualcuno la mette insieme alla propria e non ne risente una fatica maggiore, ma una consolazione, un incoraggiamento, una speranza perché insieme cresce la fiducia di farcela.
Usiamo per alcuni numeri, ancora un paio forse, della vecchia testata de "La voce dei Poveri" che come abbiamo scritto sull'ultimo numero di ottobre ci è stata richiesta dai legittimi proprietari, con su stampigliato il nuovo titolo del periodico, essendo rimasta una giacenza di carta già stampata. Appena esaurita, abbiamo già pronto il cliché per la nuova testata.
LA REDAZIONE
E' forse una delle affermazioni di Gesù (è il suo comandamento) più sconcertante di tutto il Vangelo. A pensarci bene fa paura dover accogliere Gesù nella vita non soltanto come esortazione o anche come comandamento di Amore ma come metodo, come misura di Amore.
Non lascia possibilità di scelta a questo valore così fondamentale della vita, così essenziale realtà di vita fino ad essere l'identità più profonda e più costruente del proprio io, come è l'Amore.
Vi è una differenza abissale fra il dire: amatevi e il dire: amatevi come vi ho amato io.
Quel "come", avverbio comparativo così breve, ma così violentemente determinante, strappa via ogni facoltà di iniziativa, ogni libertà di scelta, perfino ogni possibilità di quella bellissima fatica di essere tu a costruirti l'Amore. Di mettere su pezzo a pezzo la tua vita, di ammirarne la costruzione e di abitarvi godendone la gioia anche se a rischio di potenti lacerazioni e disperazioni.
E' Gesù che si sostituisce a tutto chiedendo di essere Lui l'Amore.
Ogni e qualsiasi motivazione che mi fa palpitare il cuore, tutto il mio andare verso l'altro, il modo di vivere l'altro, la tenerezza, la passione, il logorarsi di desiderio, il donarsi senza misura, la sopportazione senza fine, il contrastare violentemente, il lottare fino a rimetterci la vita, il sognare senza stanchezze, lo sperare sempre di più, l'aspettare con pazienza inesauribile, il piangere disperato, la gioia prorompente, la felicità che trabocca e una Fede spaventosa che abbracci tutto Dio e creda perdutamente in tutta la umanità ... insomma l'Amore, bisogna impararlo da lui.
Bisogna che questo Amore che investe e travolge la vita (se è vita responsabilmente di uomo e di donna) sia il suo Amore. L'Amore con il quale Lui ha amato.
E dice che Lui ha così veramente amato da chiedere di non amare con qualsiasi altro Amore ma con il suo Amore.
Dice. è chiaro, che non può esistere altro amore, che qualsiasi altro modo di amare non può essere Amore.
E' evidente che non rimane altra alternativa se io non voglio sbagliarmi nell'amore, nel sognare l'Amore, nel cercare di viverlo, nel tentativo di essere in qualche modo un po' di Amore.
E' la scelta più pesante che il Cristianesimo pone ad ogni uomo, all'umanità tutta. E' la proposta più assurda che l'impegno cristiano comporta e non può non lasciare perplessi, sgomenti. A meno che non si annacqui il comandamento di Cristo con amorazzi più o meno occasionali fatti di qualche sospiro, di qualche opera buona, di associazioni assistenziali, di un vogliamoci bene, di benedizioni a grandi segni di croce, di preghiere, di "ascoltaci Signore" alla preghiera dei fedeli. ..
Sarebbe tanto più giusto allora lasciare da parte Gesù Cristo e cercare l'Amore dove è così facile, semplice, istintivo e quindi immediato il trovarlo. cioè in se stessi, diventando il "se stesso" motivo, metodo e finalità di questo Amore, operando quel piccolo e spaventoso imbroglio che rende così schifoso questo mondo: Amore mascheratura di egoismo.
A gradualità più o meno intense, ma l'Amore che non cerca di essere come il Suo è condannato a essere egoismo, sia pure sfumato di penombre e di buio fino alle tenebre della malvagità.
Oppure cercare di amare in modo diverso da quello di Cristo. Amore ma non come il suo, copiato da lui, imparato da lui. Amore venuto su come fuoco che brucia, dalla constatazione della sofferenza, della ingiustizia, della schiavitù che grida a reclamare libertà, diritto alla vita. Amore violento, placabile soltanto distruggendo, uccidendo. Amore che si scontra con l'egoismo in un duello fatto ugualmente di odio. E il mondo è un eterno e orribile campo di battaglia, sempre affogato di sangue e di lacrime, di macerie e di desolazioni.
Amatevi come io vi ho amato.
Vorremmo tanto impegnarci a riscoprire il significato e tutto ciò che comporta quel piccolo avverbio «come». Meriterebbe spendere tutta una vita, e tutta la storia (almeno quella della Chiesa) a cercare di tradurre in esistenza quel piccolo avverbio. Perché è questo «come» che decide perfino della visibilità della Resurrezione di Cristo, e della possibilità che possa essere testimoniata.
Si tratta di un'immensa, adorabile scoperta del vivere «umano» di Dio, del come Dio che è Amore, questo Amore ha vissuto e continua a viverlo, in un pezzo di terra, in un momento di storia, con una, dieci, cento persone, con le folle in un popolo, nei confronti di tutta una realtà umana che in fondo ha tutto quello che l'esistere umano significa e comporta.
Si tratta di intuire e può comportare indifferenza o infinito amore, di scoprire come è costruito quell'uomo che è Cristo, da quell'Amore. Se e quanto lo realizza, comporta valori di pienezza, di autenticità, umana, se quell'Amore ha fatto veramente l'Uomo. Quell'Uomo che legittimamente è possibile, doveroso, e meraviglioso adorare come Dio.
E' constatare in sé stessi, negli altri, in una realtà comunitaria come è o dovrebbe essere la Chiesa: se, nell'esistenza, nella storia, quell'Amore (certo, esattamente, fedelmente quell'Amore) può costruire una vita fino alla pienezza, dieci, cento, innumerevoli esistenze, una realtà di esistenze, una comunità umana, forse anche la storia.
Se non altro se può essere veramente una luce accesa l'Amore come quell'Amore, un pugno di lievito un fuoco ad incendiare un'inquietudine sconvolgente una nostalgia inguaribile.
Un valore per cui si può vivere.
Un motivo capace di portare anche a morire, una speranza che doni anche di potere sorridere, una certezza che l'Amore significa veramente qualcosa, nella vita, forse molto, anzi che può decidere di tutto.
Come di Dio e come dell'uomo, come di Dio e dell'uomo, come dell'uomo e di Do. E così ugualmente come da uomo a uomo.
* * *
Ho letto sui giornali i nomi degli operai morti sul lavoro. Una catena sempre più lunga a segnare di sangue la schiavitù della classe operaia.
Una lista veramente spaventosa, amara come la disperazione e l'angoscia di chi è rimasto a piangere chi non c'è più. «Quattro lavoratori sono morti ieri in diverse città italiane ... in questo inizio dell'anno 25 operai e contadini hanno perduto la vita». «Ancora morti nell'area industriale di Taranto: due operai sono rimasti uccisi per intossicazione da esalazioni di gas». «Tra il 1961 e il 1971 risulterebbe che all'ltalsider di Taranto ci sono stati 230 omicidi bianchi». «Ieri hanno perduto la vita tre edili». «MUORE ARSO VIVO DAL GAS IN FIAMME»: è un perito chimico di 26 anni, di una ditta di Porto Marghera.
A cercarli tutti, a riunirli insieme, a contarli c'è da restare sgomenti: è un popolo di morti, ammazzati da una violenza nascosta nel tessuto di una civiltà egoista, che considera più importanti le sue macchine, la sua tecnica, il suo capitale che gli uomini. L'uomo è come una formica nel grande labirinto industriale, e quello che conta è che serva ad accumulare milioni nelle tasche dei più furbi: se in tutto questo via vai incessante una formica si perde, schiacciata in qualche angolo del formicaio, che importa? E' chiaro, ci sono le "disgrazie": il lavoro comporta di suo dei rischi, dei pericoli che non si possono del tutto eliminare. Ci sono senza dubbio operai morti per disgrazia, per tragica fatalità. Ma i più sono morti assassinati da tutto un sistema (e sono uomini con nome e cognome) che adora la più terribile divinità e serve il più tremendo dei padroni: il denaro. Che importa allora se in un cunicolo buio di una miniera, in una fogna di un altoforno, nel traliccio di una gru, sotto una montagna di ghiaccio, dentro una gettata di cemento o una colata d'acciaio degli uomini perdono la vita: ci sono i registri dell'istituto di statistica, la pensione alla vedova, il tele-gramma del presidente della repubblica, la. corona di fiori dell'azienda al funerale e un giorno, in qualche piazza, un monumento al «caduti del lavoro». Intanto un uomo è morto: il libro è finito, si chiude e non ci si pensa più.
Ci sono le proteste operaie, gli scioperi di solidarietà, la presa di coscienza del movimento sindacale: è una cosa importante, molto seria, ma può forse metterci il cuore in pace? Sarebbe grave lasciarci consolare da queste cose e smettere di gridare, di lottare perché il nemico sia colpito alla ra-dice.
In una grossa azienda metallurgica della nostra città un operaio è rimasto con la milza spappolata perché una catena in trazione si è rotta e lo ha sbattuto violentemente per terra. E' stato operato all'ospedale cittadino e dopo pochi giorni è morto. I suoi compagni di lavoro hanno fatto un giorno di sciopero, hanno dato una giornata di lavoro per la famiglia, lo hanno accompagnato al cimitero. Anche noi eravamo con loro. Abbiamo pensato che bisognava fare qualcosa di più, cercare di colpire i responsabili di questo omicidio travestito da disgrazia. Ci siamo detti: andiamo al cancello dell'Azienda e scriviamo su un cartello «Accusiamo di assassinio la Società FERVET». Poi ci siamo messi a ripensare a tutta la situazione, ai possibili ricatti, al rischio che l'azienda venisse chiusa e abbiamo rinunciato. Speriamo che questo non ci venga imputato come un grave peccato di omissione, che è come dire di vigliaccheria.
C'è un dovere cristiano che non possiamo dimenticare, al quale non dobbiamo rinunciare: quello di gridare in faccia ai padroni del potere di qualunque tipo la Verità. Giovanni Battista diceva pubblicamente al padrone di Gerusalemme, Erode: «Non ti è lecito tenere per te la moglie di tuo fratello».
Di fronte agli omicidi bianchi che macchiano di sangue la vita della classe operaia ci dev'essere questo grido forte dei cristiani: «Non ti è lecito ammazzare nessuno dei miei fratelli». Bisogna che cresca in noi la coscienza che ogni volta che viene colpito uno dei più piccoli fra gli uomini, è la nostra stessa carne che viene strappata. E bisogna annunciare la Redenzione dentro questo mondo di lupi, con la lotta. Una lotta che ha le sue radici nella violenza dell'Amore di Dio e che quindi deve farsi sempre più assoluta, quanto più è disarmata e senza potere. Come la lotta di una madre che, a mani vuote, cerca di strappare dalle zanne di una tigre il suo bambino.
E' per questo che in questa lista di morti ammazzati dall'egoismo fatto potere, vorrei ricordare i paracadutisti finiti in fondo al mare con l'aereo inglese che qualche mese fa si è schiantato davanti a Livorno. Mi pare che fossero 46 o qualcuno di più. Ma insieme con loro c'è una lunga fila di morti «per disgrazia» durante il servizio militare: fulminati dalla tensione elettrica, schiacciati da un autocarro, sepolti dalla valanghe durante le marce. Per i morti di Livorno non ho visto su nessun giornale il titolo di «omicidi bianchi». Non ci sono state proteste di nessun gruppo di militari; nemmeno i loro compagni - almeno per quanto è trepelato all'esterno - hanno gridato. Nemmeno la chiesa di Livorno, ha urlato sulla pubblica piazza: «Non ti è lecito ammazzare i miei figli». Gli hanno fatto i funerali tre o quattro volte, anche il presidente appena eletto vi ha partecipato, e in chiesa c'erano tutti i rappresentanti di quel mondo che li aveva assassinati.
Erano partiti per partecipare ad una «manovra»: povere vite vendute per pochi soldi all'assurdo, un tesoro grandissimo gettato al vento, sperperato e ridotto a brandelli. Esistenze bruciate in un attimo, mentre compivano «il loro dovere»: un gioco crudele, una corsa che aveva l'appuntamento con la morte. Se ci chiediamo per chi sono morti, la risposta che sale prepotente dal cuore è «per niente».
Perché è giusto rischiare la vita a vent'anni per salvare una famiglia sepolta sotto le macerie della casa crollata, dei bambini in una scuola in fiamme, un uomo che affoga, o mentre si semina un campo o si costruisce un tetto per chi non ce l'ha; ma è assurdo morire per tenere in piedi un sistema di guerra; per far durare un gioco d'azzardo fatto apposta per mantenere in piedi i privilegi di pochi.
E' pazzesco bruciare la vita per quella «patria» costruita su misura da interesse di chi regola tutto col metro dei propri vantaggi e del proprio potere.
Certamente quei nostri fratelli paracadutisti sono stati inghiottiti al mare perché l'aereo si è inceppato o il pilota ha sbagliato una manovra, ma la Verità, quella più profonda del mare che li ha risucchiati, è che essi sono stati assassinati da tutti quelli che tengono in piedi l'assurdo apparato militare.
I loro genitori, le mogli. le fidanzate queste cose le avrebbero dovute sapere, avrebbero avuto il diritto di sentirle dire da chi la Verità, quella che nasce nel Cuore di Dio, dovrebbe annunciarla chiara e limpida, dura e tagliente più di una spada. Per gridarla anche loro, mescolata alla loro angoscia e al loro pianto, sulla faccia di tutti.
Così sono stati uccisi due volte, con la complicità di una Chiesa che non accende la fiamma della Resurrezione nelle tenebre della storia e non può quindi essere riconosciuta come madre finché non grida forte e non accetta consolazioni perché i suoi figli non ci sono più.
Don Beppe
1 - La folla
Mi è parso sempre indicativo per una presenza della folla nel Vangelo, il fatto che Gesù si perda in mezzo ad essa per trent'anni vivendo nascosto nel seno dell'umanità, presenza invisibile eppure tanto precisata fin dall'inizio.
E' cosi decisa la sua risposta a Maria e Giuseppe che lo cercavano fin nel tempio in mezzo ai saggi d'Israele, da illuminare il momento dn cui si stacca da questo anonimato per alzare la sua voce in mezzo alle moltitudini. «Non sapete che devo curare le cose del Padre mio?» questa attenzione, non di un momento, ma già di una vita tanto da giustificare l'esclamazione del Padre: «Ecco il mio figlio diletto, in lui mi sono compiaciuto».
Questa vita immersa nell'umanità, eppure mai soffocata o schiacciata nel suo motivo fondamentale.
Indicazione di un 'luogo' - l'umanità - e di un modo - l'attenzione al Padre-, così tanto decisivi nella nostra vita fino ad essere le due linee in cui si precisa un impegno e si indirizza un'intera esistenza.
Pure viene il momento in cui quest'umanità diventa folla, acquista dimensione concreta e preme assetata di speranza, di fiducia, di consolazione. E' il momento in cui il tempo viene letteralmente mangiato e l'attenzione al Padre espressa in preghiera, nella notte inoltrata, in un ritaglio faticosamente salvato agli altri.
So di dovermi abbandonare ancora tanto a quest'incontro con la folla senza difendermene e lo chiedo sempre per me e per la Chiesa tutta, per questa umanità che porta con sé tanto dolore, per folle sbandate e senza pastore. Mi rendo conto che è prova di fede che la vita porta con sé un rapporto che si sbriciola, mai fino al punto di esser vissuto unicamente come rapporto personale, sempre presenza nell'umanità.
Viene sempre il momento in cui la fiducia si sente tradita e la consolazione si muta in delusione rabbiosa. Il momento in cui il seme rompe la crosta del terreno, una realtà nuova si affaccia all'orizzonte e la folla, come la persona, non è più capace di contenere nel suo cuore la luce senza dover compiere la fatica di una scelta.
Questa legge di crescita che impedisce la definizione conclusiva di ogni rapporto, che ci pone sempre in cammino, sempre più immersi nella vita, in mezzo alla gente, sempre più a misura d'umanità.
Dovrebbe essere tanto la vita di ogni cristiano e della Chiesa tutta questo essere nella vita come lievito mai stanco di fermentare, sale che non perde il suo sapore. Possibilità di essere per folle stanche e distratte da tante illusioni, la speranza vera che non delude.
Questa folla nel Vangelo che è sempre sullo sfondo, eppure tanto protagonista di una vita, ed è quella di Gesù, vissuta nella prospettiva di un incontro con tutti gli uomini.
Purtroppo spesso ci tiriamo indietro dal confronto con questa realtà, quasi timorosi di uscire allo scoperto, senza essere più difesi dalle quattro mura che ci sono familiari.
C'è ancora tutto un linguaggio da scoprire, e le parole non son certo la cosa più importante, perché questo incontro si realizzi in amore fecondo di speranza e di fiducia rinnovata. Speriamo di poterlo raccontare, tra poco, anche se è tanto balbettare povere cose di una vita che vuole perdersi. La folla degli operai che la sera salgono ai piccoli paesi intorno, i pescatori arrivati ora dalla Sicilia per il pesce azzurro, gli studenti che ciondolano a mezzogiorno verso casa. E poi quelli che sperano nella primavera per un po' di fortuna dopo aver scampato in qualche modo la stagione morta, la povera gente abituata alle briciole.
I malati, la gente impedita, una folla senza volto, dispersa e nascosta, nelle mani di qualche persona buona.
Dare un'anima a questa folla, gregge stanco, svuotato di dentro fino a sentire pudore nel nutrire speranze. Raggiungerla quest'anima sepolta dalla fatica e dal disprezzo, vivendo dentro questa folla con l'unica prospettiva di portarla alla luce e di metterla bene in alto. Accoglierla, quest'anima, in coloro che la portano nel cuore a illuminare la loro vita, la casa, le loro semplici cose.
Perché abbia un senso la fatica e la morte di uomini e donne e ogni gesto che consuma la vita sia un momento di lotta per un mondo diverso, per una speranza che può battere solo nel cuore di povera gente.
Un lavoro immenso, paziente, e c'è già chi lo tira avanti da un anno, da due, raccogliendo in comunione la vita sbriciolata di tanti.
Un lavoro che comincia sempre di nuovo e sempre è troppo poco per avere un peso, per poter contare, apparire, infiammare.
E' proposta tirata avanti ogni giorno per crescere almeno in fedeltà. E' cammino di uomini soli a soffrire le ansie di tanti, è meraviglia continua per la vita nascosta da Dio nelle pieghe dell'umanità,. è amore per questa folla e sono tutti gli uomini.
Luigi
Il problema più grosso (perché sta alla radice, è nascosto nel midollo) del cristiano cosciente del significato della propria scelta cristiana e consapevole di questa responsabilità così pesante davanti a Dio e davanti agli uomini, è ritrovare le possibilità di una presenza viva e vitale nel proprio tempo.
E' veramente conclusa tutta una religiosità individualistica che nasceva da un battesimo che significava l'entrare a pieno diritto e con esclusività da autentico privilegio. nella salvezza e si concludeva sul letto della propria agonia con il sacerdote accanto a moltiplicare le assoluzioni e le benedizioni, compresa quella papale, dopo una vita di sacramentalizzazione per purificazioni e santificazioni a garanzia di salvezza eterna.
E si è iniziato il tempo in cui l'essere cristiano vuol dire il caricarsi di una responsabilità universale da precisarsi e croncretizzarsi in una realtà di servizio che coinvolge letteralmente se stessi fino al niente riservabile, nei confronti di tutta la vita, di tutta l'esistenza.
Non esiste persona o popolo, non vi può essere valore o avvenimento, realtà presente o futura che non coinvolga la responsabilità e il dovere d'interessamento del cristiano fino ad un coinvolgimento di tutto se stesso.
E il rapporto di servizio e cioè di dedizione, di incarnazione, non si ferma a qualcosa dell'uomo e dell'umanità: ai suoi problemi economici per esempio, associativi, politici, storici, temporalistici che possono anche essere giudicati contingenti, epidermici - e sono già problemi di entità gravissima capacissimi di togliere il cristiano dal suo buco di salvezza personale con programmazioni più o meno sfacciatamente borghesi, di quietismo a sufficienza religiosa personale o tutt'al più familiare. Il rapporto di servizio del cristiano è a tutto l'uomo e quindi comprende - con precisazioni e intensità senza fine - tutti i valori interiori, profondi, quelli che coincidono con i motivi dell'esistenza, del mistero della vita e del complesso dei suoi problemi e arrivano fino alla soglia della morte.
Il cristiano è l'uomo che si propone agli altri, all'altro uomo e all'umanità, con l'enorme tremendo infinito problema di Dio per far luce e tentare di risolvere il groviglio spaventoso del problema umano e della sua storia, personale e universale.
L'atteggiamento, la realtà di servizio che proviene dall'enormità di questa proposta non può non precisare il rischio a cui inevitabilmente si espone il cristiano: il rischio di essere letteralmente mangiato (sopraffatto e travolto) dalle misure estreme - necessariamente - di questo servizio e il rischio di risultare inadeguato, vigliacco, traditore e quindi delusione e quindi vomitato da tutti, da Dio e dagli uomini, nel rifiuto dell'inutile, del non serve a nulla. O peggio ancora nei valori del soprammobile.
E' il grave problema di cui la conservazione testarda e a occhi bendati della Chiesa ancora non si decide ad accorgersi e continua a far spingere ai margini della vita, dell'esistenza, della storia, il Cristianesimo, contentandosi di farsi notare e di affacciarsi alla ribalta, con apparizioni più o meno a fuochi d'artificio che sono già spenti appena hanno abbarbagliato gli occhi.
E' il terribile, angosciosissimo problema, capace di sconvolgere fin nel più profondo dell'anima, rischiando perfino crisi praticamente inguaribili, di chi - e il numero cresce sempre di più - la propria scelta cristiana gli significa una rottura con se stesso e con tutto un mondo che è tutt'uno con il se stesso, e un gettarsi là a capofitto a compromettersi e a perdersi in una ricerca di presenza viva ed attiva nella totalità del problema umano che nasce dalle misure e profondità di Dio, e si allarga alle realtà universali dell'umanità intera per arrivare fino alla sbriciolatura quotidiana delle persone che vivono accanto, degli ambienti nei quali siamo immersi.
E qui il sapere cosa voglia dire, cosa comporti, a cosa costringa l'essere cristiano, è davvero drammatico.
E così tanto, che spesso, specialmente nei giovani, l'unica soluzione onesta e responsabile che si impone è il chiudere la propria scelta cristiana, l'abbandonare perfino la speranza di qualche possibilità di affrontare la vita con la fiducia di qualche incidenza, di un qualche, sia pur minimo, apporto per la soluzione delle problematiche della vita, attraverso un impegno cristiano.
Tanto più che nel nostro tempo la specificazione unicamente personale è qualificata come incapace di significare qualcosa in un mondo ormai organizzato, dove la forza d'incidenza è considerabile a base numerica, di gruppi, di organizzazioni, di masse.
E a guardarsi intorno con un cuore che cerca e un ideale che urge dentro, è quasi impossibile incontrare anche una semplice comunità del «due o più» che, secondo il Vangelo, garantisca la presenza di Gesù Cristo e dove sia possibile trovare le condizioni indispensabili per la comunione di ricerche personali di essenzialità e autenticità cristiana.
E dove questa comunità o gruppo che sia è dato incontrare, non passa molto tempo, appena che l'incontro si è logorato nella lettura del/a Parola di Dio e nella interpretazione più o meno intellettualizzata, raffinatissima quanto si vuole e apertissima a tutte le problematiche dell'oggi, che l'inaridimento e la stanchezza si tramutano facilmente in delusione amara e in uno svuotamento di fiducia nelle possibilità esistenziali di una Fede cristiana.
Il vuoto che travaglia e paralizza e svuota la ricerca cristiana del nostro tempo - che pure in se stessa è incomparabilmente ricerca più vera e più responsabilizzata di quella dei tempi passati - è il vuoto di proposte.
Il Cristianesimo, il mistero di Cristo - parola e storia della vita di Gesù - è una meravigliosa, infinita proposta. Terribile e sconvolgente proposta quanto si vuole, di rotture rivoluzionarie impressionanti e di costruzioni esistenziali appassionanti, quasi da far paura da quanto sono radicali, assolutistiche, estreme, ma sempre una proposta ripresentabile ad ogni tempo e all'umanità.
Da far pensare e credere ad una alternativa sempre possibile, offerta ad ogni angolo di strada, ad ogni bivio della storia.
E' su questa proposta che la nostra Fede cristiana deve convergere la propria ricerca. Ogni cristiano. Le comunità, i gruppi cristiani. Le Chiese locali. La Chiesa universale.
E a costo di pagare prezzi altissimi di smontaggio e di abbandono di attrezzature semplicemente ingombranti e alienanti e a costo di affrontare misure di rischio per scontri inevitabili, rotture coraggiose e tentativi sostenibili forse soltanto a forza di speranza, è necessario e urgente che la proposta cristiana, ancora viva e fresca nel Vangelo e presente e incalzante per il vivere di Cristo risorto e palpitante di fuoco e di luce per la Pentecoste di ogni giorno, si precisi, si attualizzi, si concreti, con chiarezza e violenza, in proposte di lotta, in strategie di guerriglia (perché lottare bisogna per una liberazione) e in proposte di costruzione appassionata di valori cristiani, di iniziative responsabilmente espressive di autenticità cristiana. Perché costruire è la continuità e la pienezza della liberazione.
Non abbiamo proposte se non ideali, ma proprio per questo non seriamente proponibili, da offrire a noi stessi e ai nostri amici e al nostro tempo.
Avvertiamo dolorosamente queste «miseria», (che non è affatto consolabile giudicandola povertà) e ne sentiamo la terribile responsabilità.
Per il momento ci rende onesti, appena appena, il soffrirne e il vergognarcene come di vuoti e di infedeltà imperdonabili e il desiderio, la volontà, la violenza di cercare. Di cercare cosa vuol dire e come è possibile rendere carne e sangue e se non altro Croce, la formidabile proposta cristiana: la proposta di Dio agli uomini attraverso Gesù di Nazaret e di Cristo risorto e vivente in tutta la realtà del mistero umano.
A questa fatica vorremmo piegarci. A questo rischio vorremmo esporci. Con questa Fede vorremmo credere. Con questo Amore vorremmo lottare. Ed essere vivi in questo tempo della Chiesa e della storia del mondo.
Non importa sembrare e forse anche essere ridicoli per la sproporzione immisurabile della propria nullità nei confronti dell'enormità del problema. Anche il ridicolo può avere la sua serietà se riuscissimo ad 'avere Fede quanto un granello di senapa da poter dire alla montagna: levati di lì e gettati in mare. Anche se è soltanto per lasciare libero uno spazio dove dei bambini possano giocare tranquilli.
Don Sirio
«Riaffermiamo energicamente che a differenza dei nostri accusatori non siamo né dinamitardi, né rapinatori, né cospiratori». Con questa dichiarazione Padre Philip Berrigan e gli altri imputati si sono dichiarati innocenti nel corso della prima udienza del processo di Harrisburg, ini-ziato lunedì 24 gennaio 1972. Sono stati tutti accusati, senza prove, dalla FBI di complotto per rapire Kissinger e per fare saltare in aria alcuni impianti governativi a Washington. Pubblichiamo alcuni stralci dal suo diario dal carcere per raccogliere i motivi della sua lotta e della sua testimonianza che già da tanto tempo lui come altri stanno portando avanti in America.
(da «Diario dal carcere» di Philip Berrigan, Palazzi Editore)
26 Luglio.
Ho letto con infinita riconoscenza, «Vino e Pane» di Silone. Lo scrittore italiano sviluppa il suo concetto di libertà attraverso il protagonista del romanzo, Pietro Spina, un rivoluzionario del suo paese.
Dice Spina: «La libertà non è una cosa che si possa ricevere in regalo. Si può vivere anche in un paese di dittatura ed essere libero, a una semplice condizione, basta lottare contro la dittatura. L'uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto, è libero. L'uomo che lotta per ciò che egli ritiene giusto, è libero. Per contro, si può vivere nel paese più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, serviti, non si è liberi; malgrado l'assenza di ogni coercizione violenta, si è schiavi. Questo è il male, non bisogna implorare la propria libertà dagli altri. La libertà bisogna prendersela, ognuno la porzione che può».
Per qualcuno può essere sorprendente che io dica che la mia libertà, qui, è più completa e soddisfacente di tutte quelle da me sperimentate in precedenza. (Per inciso: la gente continua a nutrire un vivo interesse per me: in cambio insiste per essere ascoltata, rammentandomi che ascoltare è di solito più importante che parlare; rammentandomi, anche, che sono un prete). Ma la libertà dipende, mi pare, dal grado in cui si è posseduti dalla verità. Di fronte alla verità ci si sente come assediati: è bene sottomettersi alla sua conquista con la migliore disposizione possibile. E' questo il prezzo della libertà: «la verità vi renderà liberi». Cristo rese chiara e sviluppò questa proposizione nella quieta atmosfera dell'Ultima Cena - i discepoli avrebbero ricevuto la Verità accettando Lui, non solo in quanto immagine del Padre, ma anche in quanto immagine dell'uomo. Quando si sia accettato Cristo umilmente e senza riserve ci si deve ergere contro la menzogna individuale e quella sociale - la «verità mondana» - sia nel proprio intimo sia all'interno della società...
6 Agosto
Oggi è la festa della Trasfigurazione di Cristo; è anche il 23.o anniversario dell'attacco atomico a Hiroshima compiuto dalla nostra nazione. I due eventi, separati da oltre 1900 anni hanno ciascuno per proprio conto un terribile significato.
Alla presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni, il Padre confermò che Cristo era il suo Figlio diletto, e comandò di ascoltarlo. Ecco: Hiroshima testimonia quanto noi abbiamo trascurato o rifiutato di ascoltare Cristo. La reazione del paese alla bomba di Hiroshima e all'onda d'urto di Nagasaki, tre giorni dopo, fu un generale sospiro di sollievo, basato sulla generale convinzione che così qualche vita e un po' di sangue americani fossero stati risparmiati..
Il 6 agosto 1945 io ero al sicuro in America: da poco ero rientrato dalla guerra in Europa e la mia Divisione non aveva ricevuto l'ordine di partecipare all'invasione del Giappone. Le esplosioni atomiche non mi turbarono, né mi fecero inorridire; solo un vago disappunto qualche giorno più tardi quando venne firmato l'armistizio. Come i miei compatrioti, ero convinto della bontà della causa americana, ero convinto di non aver sbagliato a voler partecipare alla lotta. La mia adolescenza criminale, in altre parole, coincideva esattamente con quella del mio Paese ...
Adesso sono un po' più maturo - nessun merito da parte mia, molto da parte di persone infinitamente migliori di me - maturo al punto che posso dire «no» a Hiroshima e a molta della politica americana, sia interna sia esterna, e vivere con e per il mio rifiuto in prigione e fuori ...
Una meditazione per contrasto: la trasfigurazione della divina Misericordia sul Monte e la trasfigurazione dell'umana arroganza e dell'umana crudeltà a Hiroshima. Dio pose la sua dimora nella carne umana di Cristo, il cui volto pertanto risplendeva, tanto a lungo quanto poté, della forza e della pietà divine. Mentre la sfera di fuoco di Hiroshima distrusse ogni cosa che aveva potuto rag-giungere e accecò la gente per molte miglia intorno. Accuratamente, essa venne timbrata «made in USA», una ben curiosa risposta di questo popolo presunto cristiano all'imperativo del Padre: «Ascoltate il mio figlio diletto».
9 Agosto
«Rivoluzione» è oggi la parola più temuta, ripugna al nostro vocabolario, perché per la massima parte di noi essa definisce, a primo aspetto, ogni sorta di oscuri e infidi assalti al privilegio e al potere. Anche i cristiani fanno di questo concetto, che pure dovrebbe essere loro comprensibile per effetto della loro consacrazione allo spirito del Vangelo, un motivo di ansietà e perplessità. In effetti, « rivoluzione» è un vocabolo eminentemente cristiano, che dovrebbe indirizzare ogni azione cristiana nell'ambito e per la vittoria del progresso umano. Talvolta la rivoluzione può essere non cristiana, ma un uomo non è mai un cristiano se non è anche un rivoluzionario.
Rivoluzione cristiana vuol dire devozione al Signore crocefisso e risorto, la testimonianza di questa devozione. Nel mondo, il cristiano ha da affrontare in sé le medesime forze che fanno del potere istituzionalizzato l'amico di pochi e il nemico di molti. Il «mondo», così come lo vede il Vangelo, è una forza maligna, sia individualmente, sia socialmente, è una psicosi alienante, un invito a sfruttare il fratello. Secondo questo punto di vista, la guerra, il razzismo e la miseria possono non ripugnarci per via del nostro desiderio di evitare la croce, che pure è, inevitabilmente, una parte importante della vita di ciascuno; ma in questo modo «si protegge la propria anima perdendola».
L'«uomo nuovo» che emerge lentamente dalla conversione al Cristo del Calvario combatte la propria alienazione opponendosi alle ingiustizie della alienazione organizzata, cioè in pratica il potere costituito. Per la sua lotta, egli è debitamente odiato: «il mondo vi odierà, perché non riconoscerà né :il Padre né me», e i suoi giorni si fanno cupi come quelli delle vittime che ha deciso di difendere, e magari anche di più.
E' a questo punto, quando un uomo sperimenta il proprio personale Calvario, ossia l'ostracismo, le delazioni, il carcere o una pallottola, che egli dà la sua anima perché la sua anima possa rinascere E' a questo punto che la morte e la Resurrezione di Cristo diventano una esperienza di fede viva e vitale. A questo punto, per quanto senza accorgersene, la società produce una nuova vita sul serio umana.
Rinascere. comunque, espone a un conflitto, morale da una parte, pratico dall'altra. Uno affronta questo conflitto ripromettendosi di essere un vincitore di diverso tipo, dopo essere stato una vittima di diverso tipo.
Per la prima volta, una dichiarazione di resistenza alla leva militare obbligatoria è stata fatta pubblicamente da quattro giovani ebrei israeliani, dei quali uno obietta per ragioni di coscienza e gli altri tre per motivi politici. Nella lettera collettiva scritta al ministro della Difesa, Moshè Dayan, essi dichiarano: «Noi non vogliamo far parte delle forze armate, perché dei giovani vi muoiono al servizio della politica internazionale, e non di valori più alti. Non siamo nati liberi per diventare degli oppressori, e l'oppressione non è causa per cui meriti morire. Noi ci rifiutiamo di collaborare all'oppressione di un popolo e non vogliamo infliggere ad altri le stesse sofferenze che hanno subito i nostri padri».
(dal n. 11 dei « Cachiers de la Réconciliation»)
COLLABORARE CON LA MORTE?
«Bisognerà sempre più considerare tutti i militari di carriera, gli scienziati e tutti gli altri responsabili che lavorano per la fabbricazione delle armi come delinquenti di diritto comune».
Questa fortissima dichiarazione del pastore Cruse ci fa sognare: se gli ingegneri, gli scienzia-ti, gli operai, addirittura i militari, rifiutassero di lavorare per la guerra ... In realtà, ce ne sono. Le loro testirnonianze meritano di essere raccolte.
Cominciamo con un ingegnere.
X . .. faceva un lavoro appassionante come ingegnere elettronico in una grande azienda.
«Noi costruivamo dei radar, ma per scopi civili, oppure per la difesa dalle incursioni aeree. Presto, tuttavia, siamo arrivati a produrre sistemi di guida per i razzi, per i Mirages che devono trasportare la bomba atomica. Mi scopro così responsabile in parte delle distruzioni in massa che potrebbero causare questi ordigni... Riflettendo, solo o con alcuni amici del movimento ingegneri cattolici, l'idea di collaborare al funzionamento di armi mostruose mi diventa intollerabile. Essa mi impedisce di dormire, letteralmente. Al limite, rischio di impazzire. D'accordo con mia moglie, decido di cambiare lavoro. Il mio impresario, che capisce i miei problemi, mi chiede di avere pazienza per un po'. Poi, nella stessa società, mi affida l'organizzazione di una nuova produzione. Questo settore di automazione per l'industria mi appare lontanissimo dalla bomba. Sono felice d'aver lasciato il settore militare.
Soltanto dopo 18 mesi ho capito tutta la complessità del sistema economico, in cui le diverse
attività industriali sono collegate, intrecciate le une alle altre. La metallurgia civile fornisce l'acciaio per l'artiglieria; l'Energia Elettrica Nazionale fa girare le fabbriche di armi; le raffinerie rifor-niscono di energia i Mirages - questi Mirages per i quali un centinaio di industrie hanno contribuito a costruire i vari pezzi. Fino ad arrivare al fornaio e al contadino che danno da mangiare ai militari... Tutti, più o meno, siamo compromessi nella preparazione della guerra..» .
(dal cap. 9 del libro di Jean Toulat «Les grévistes de la guerre»)
Ringraziamo gli amici che ci hanno incoraggiato a ricominciare con fiducia questa nostra fatica.
Offriamo queste pagine a chi vuole unire alle nostre le proprie esperienze e ricerche a comunione fraterna d'impegno cristiano.
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Direttore Responsabile: Don Sirio Politi
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Luigi Sonnenfeld
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