I lettori di quella «zona apuana», e in particolare quelli del carrarese in cui la figura di Alberto Meschi ebbe la massima affettuosa e riverente popolarità, non trovino motivo di incoerenza del giornale se «Il Nostro Lavoro» dedica queste modeste righe per ricordare a quanti lo ap-prezzarono, la viva umanità di Alberto Meschi.
Sul piano umano, gli ideali di Alberto Meschi convergono intimamente con i nostri: è perciò che lo ricordiamo volentieri così come è rimasto nella nostra memoria e nel nostro cuore.
Fisicamente insignificante, esile, dal viso fresco, rosato, come di un fanciullo, due occhi azzurri incastonati sotto le sopracciglia grigie e una criniera bianca, ordinata, nascosta dignitosamente da un cappello da cavatore.
Impastato di forte personalità, di ideali umanitari, di schietto amore del prossimo, onesto e leale, non poteva rimanere insensibile alle miserie e alle sofferenze dei lavoratori del marmo.
Generoso e solerte organizzatore, ai primi anni del secolo fondò «Il Cavatore», Vi agitò i problemi del marmo affinché i Cavatori ne prendessero coscienza e in breve la sua diffusione da Carrara raggiunse Massa, Vinca, Gramolazzo e Vagli. In ogni paese, al monte o al piano, sorsero le Leghe che ebbero un impulso organizzativo mai conseguito fino allora.
Non bastava scrivere, bisognava parlare ai cavatori in un colloquio cordiale, più adatto per intendersi e per intendere i lavoratori. E Meschi, instancabile, raggiungeva le cave più lontane, a piedi, si univa agli operai, li informava e si informava.
La situazione era veramente insormontabile: chilometri di strada irta e tortuosa che dai paesi si snodava lungo i costoni del monte, dovevano essere percorsi dai cavatori a piedi e prima del levar del sole, per raggiungere la cava. Erano tratti fino a due ore di cammino per raggiungere posti di lavoro situati anche a mille metri di altezza. E il lavoro che li attendeva era massacrante, fatto di martellate al masso per riquadrarlo, sotto il sole cocente; lavoro duro, disumano, e, spesso, reclamava le sue vittime.
Attraverso le «vie di lizza», vero miracolo di perizia umana, i lizzatori scendevano, a valle i «carichi» di blocchi di marmo che raggiungevano anche le 40 e le 50 tonnellate, percorrendo strade naturali o scavate nel monte con pendenze vertiginose. In quella tremenda fatica, bastava una fune spezzata, un «piro» saltato nel quale avrebbe dovuto fare presa la fune, per verificarsi il disastro.
Anche in cava i sinistri erano assai frequenti: gli infortunati dovevano essere trasportati in barella dai compagni di lavoro attraverso viottoli o ravaneti fino al paese più vicino, perchè in cava nessun pronto soccorso poteva essere praticato sulle carni martoriate del povero lavoratore, mentre il suono del corno, rimbalzando di cava in cava e fra le gole del monte, diffondeva ovunque la triste notizia.
Allora, raccolti i loro arnesi da lavoro, la borsa del pane a tracolla, la giacca sulle spalle, la fronte madida di sudore sotto il cappello scolorito, cotti dal sole e rotti dalla fatica, scendono a valle sparpagliati per ogni dove della montagna in una mesta teoria di sofferenza.
Educato alla tradizione anarchica - non importa se del «Germinal» o del «Pietro Gori» - improntò la sua azione di raro calore umano per conquistare ai Cavatori più dignitose e più umane condizioni di vita e di lavoro.
Quelle ore di faticosa salita per raggiunge il «posto di lavoro» vennero retribuite: infatti fu convenuto che l'orario di lavoro avesse inizio dal «Poggio» e quindi, quel tratto di strada che separa il poggio dalla cava fu pagato. Al piano le segherie ebbero i turni di lavoro, l'assistenza di «pronto soccorso» cominciò a diffondersi.
Ma la più concreta conquista che i cavatori di Meschi realizzarono sulla scia dei martiri di CHICAGO, fu la riduzione dell'orario di lavoro: ore 6,45 con partenza dal poggio pari alla retribuzione di otto ore.
Nell'arco di tempo racchiuso tra le due guerre mondiali, Alberto Meschi infuse ai lavoratori il senso della dignità umana, della solidarietà di classe, della fratellanza. La sua azione continua, costante, si riversò ovunque vi fossero relitti umani da riportare alla coscienza della loro dignità.
E il proletariato apuano andò via via assumendo una fisionomia propria, un valore combattivo particolare che gli guadagnò veramente le mete che «Il Cavatore» di Meschi aveva indicate.
Poi l'avvento del Fascismo, la caccia agli anarchici, e Meschi dovette riparare in Francia.
Dopo la liberazione, rientrò in patria. I Cavatori lo accolsero festosamente e lo posero ancora alla guida della loro organizzazione. Ma la situazione politica italiana stava assumendo un volto nuovo: i partiti indirizzavano la loro influenza sui sindacati e nel congresso del 1946, con raggiri elettorali che la coscienza di Meschi non poteva sopportare, gli fu inferto l'unico vero dolore della sua vita.
«Avevano gonfiato di voti le deleghe delle leghe dei contadini», mi spiegò raccontandomi quel che avvenne quel giorno.
Quindi ci incamminammo verso il Caffè Carrarese dove, ogni sera, consumava la sua modesta cena fatta di caffé e latte.
Ormai vecchio, per campare, amministrò un forno gestito da una cooperativa anarchica che gli offriva i modesti mezzi per la sua semplice e povera esistenza.
Una volta però che capitò di comunicargli che i cavatori di Vinca avevano vinto la vertenza del «Poggio» lo sguardo stanco del vecchio anarchico tornò a risplendere come ai tempi delle sue battaglie.
A. B.
in Il Nostro Lavoro: Il NL - Anno 2 - N. 7 Viareggio - Luglio 1964, Luglio 1964
Luigi Sonnenfeld
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