Lettere agli industriali

Non so - è molto difficile essere presi in considerazione quando ci si occupa di problemi dei quali si vorrebbe che nessuno se ne occupasse - non so quanti di voi, imprenditori e direttori d'azienda, avete voglia di trovare i cinque minuti necessari per dare un'occhiata a questo giornale e quindi non mi aspetto di poter conoscere nemmeno cosa pensate di queste lettere aperte che ho cominciato a indirizzarvi su questo foglio mensile che, anche se è stampato per gli operai, entra nelle vostre aziende e quindi penso che, in un modo o in un altro, arrivi fino sul tavolo del vostro ufficio.
Sarebbe proprio spiacevole che, nonostante che siate mangiati dai gravi problemi aziendali, economici, non degnaste nemmeno di uno sguardo un giornale che tratta problemi che riguardano i vostri dipendenti, la vostra azienda e quindi voi stessi, in qualche modo.
Sarebbe spiacevole non soltanto per una mancanza di attenzione e quindi di riguardo verso il sacerdote che è il responsabile di questo giornale, ma perché vorrebbe dire che allora, nonostante tante vostre proteste e dichiarazioni di considerazione e di attenzione e di rispetto verso i vostri operai, dimostrereste che non vi interessano per niente i loro problemi, le loro idee, i loro discorsi, quello insomma che vorrebbero che il loro padrone sapesse e che vi dicono con questo giornale, dato che a voce e con le loro parole non riuscirebbero a dirvi, fra le pareti del vostro ufficio troppo tirato a lucido, con tutti quei padri e poltrone, ecc., come se fosse fatto apposta per intimorire la povera gente, o quando passate fra i reparti, spesso, un po' troppo, come un generale che passa e guarda e osserva la truppa preoccupato soltanto di scoprire se, per caso, vi sia un soldato a cui manchi un bottone alla giubba.
Conoscendo da vicino molti imprenditori e direttori d'azienda, mi sono accorto che nella quasi totalità, tenete molto - e non soltanto, credo, quando vi capita di parlare a un sacerdote - a essere considerati come «buoni» padri di famiglia. Ho sentito dirmi tante volte che, in fondo, che cosa volete se non il bene dei vostri operai? Per cosa vi sacrificate e vi tormentate notte e giorno, se non perché non venga a mancare il lavoro, se non perché vi dispiace che le famiglie vadano a finire sul lastrico? Vi sentite dei benefattori, gente che non fa che del bene agli altri, che ormai ha la passione della propria azienda perché la sente come la propria famiglia, ecc.
E può darsi (tanto questa mentalità paternalistica è radicata negli ambienti imprenditoriali che, visti dalla parte del padrone, non si distinguerebbero molto dai sistemi feudali) può darsi che ne siate così tanto convinti che ciò che state facendo è il massimo che un padrone può fare per i suoi dipendenti, fino a rimanere dolorosamente sorpresi quando vi arrivano scontentezze, risentimenti o, peggio ancora, dovete occuparvi di richieste, di miglioramenti ecc. e allora non potete non provare un disappunto, come dire: ma insomma, cosa vogliono questi straccioni, dal momento che sono io a dar loro di non morire di fame?
Vorrei dirvi che questa è mentalità ingiusta e bastano idee come queste perchè non siate più come dei buoni padri di famiglia, nella vostra azienda, ma gente che prospera e fa i suoi interessi sfruttando situazioni pietose di bisogno, condizioni disumane che costringono al lavoro come se fosse forzato.
Buoni padri della famiglia aziendale, ma spesso questo titolo è puramente onorifico e serve soltanto a solleticare assai l'orgoglio e l'amor proprio, forse di più del titolo di cavaliere o di commendatore.
Forse non occorre che spieghi che non sono d'accordo con il sistema paternalistico per molte ragioni, ma specialmente per l'impedire che fa che i dipendenti abbiano la loro personalità e il rispet-to dovuto non perché il padrone è buono, ma perché anche i sottoposti sono esseri umani con pieno diritto al riconoscimento della loro dignità e personalità umana. Nella vita sociale (il paragonarla alla vita familiare è assurdo e ridicolo) non può che prestarsi all'ingiustizia e quindi all'autoritarismo in. controllato fino al dispotismo, distinguere la classe dei «padri» e quella dei «figli», eternamente minorenni, giudicati incapaci di responsabilità e quindi di diritti, destinati come sono soltanto ad obbedire.
Il Cristianesimo è di per se stesso contro ogni forma o sistema paternalistico. L'insegnamento che siamo tutti fratelli, figli tutti ugualmente dello stesso Padre comune che Gesù ci ha insegnato a pregare chiamandoLo: Padre nostro che sei nei Cieli, è insegnamento fondamentale che arriva fino al Comandamento di amare gli altri come amiamo noi stessi e al precetto cristiano dell'Amore fraterno, vicendevole rapporto di Amore fra noi, secondo l'esempio di Gesù Cristo.
Il paternalismo quindi non è bontà, non è spirito di generosità, non è cercare il vero bene del prossimo, non è essere padri della famiglia aziendale e tanto meno è modo giusto di stabilire e condurre rapporti «cristiani» con i propri dipendenti, e tanto meno ancora è affratellamento vero e vissuto fra i dipendenti stessi.
Volete che la vostra azienda sia una famiglia e amate sentirvene i buoni padri, ma nel frattempo il clima che si respira al di dentro del cancello è quello della paura. Paura che deriva dal fatto che nella vostra azienda manca molto il rispetto della libertà. Gli operai in molte aziende non sono liberi di pensare come a loro piace. Sanno bene che vi sono gli informatori segreti, i «venduti» al padrone. Per avanzare di qualifica, ottenere certi riconoscimenti è risaputo che bisogna essere «così e
così», altrimenti non vi è niente da fare. Se non si vuole essere buttati fuori alla prima occasione
favorevole, è necessario tacere, fingere, adattarsi, piegare la schiena. In alcune aziende anche soltanto a parlare di Commissione Interna, c'è da rischiare il cancello. Ho saputo che perfino a farsi vedere a parlare con me, c'è da essere segnati sul libro nero e di occuparsi di questo giornale spesso mi è capitato di trovare operai che lo farebbero volentieri, ma non ne hanno il coraggio
Una volta un imprenditore mi diceva che era rimasto molto offeso perché avevo detto che entrare dal cancello della fabbrica spesso gli operai lo sentivano come varcare la soglia di una caserma: la sua azienda, mi diceva, molto risentito, era come una famiglia. Io invece gli sostenevo che pensava così soltanto perché aveva una mentalità paternalistica. «Mi dia il permesso di entrare liberamente nello stabilimento: a me, è certo, che gli operai diranno cosa pensano di questa famiglia, di lei, dei metodi, dei sistemi ecc. e io poi le farò vedere i risultati»... Ma l'offerta non è stata mai accolta. «Mi chiami, un giorno, nel suo ufficio, dicevo ad un direttore, e io le dirò con franchezza ciò che sta guastando, fino a renderli così assurdi, i rapporti fra lei e i suoi operai». Ma l'invito non è mai venuto.
Vogliate perdonarmi lo scrivere in lettera aperta, e lo stamparla sul giornale degli operai, di questi problemi. Non pensate che questo sia come un rinfocolare spirito di scontento e di disistima fra i vostri dipendenti: di queste cose gli operai ne sanno molto di più di quello che io posso avere scritto e specialmente ne soffrono spesso terribilmente. Non dubitate che non sto gettando fiammiferi accesi nel pagliaio, semmai posso portare acqua al mare.
È, crediate, unicamente, per la speranza che leggiate queste cose che forse voi non conoscete o che non volete conoscere, perchè vi aiutino ad assolvere le vostre grandi responsabilità, davanti a Dio e davanti agli uomini, come imprenditori e come direttori d'azienda.




d.S.


in Il Nostro Lavoro: Il NL - Anno 2 - N. 7 Viareggio - Luglio 1964, Luglio 1964

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